‘Ndrangheta stragista, le motivazioni della sentenza: “Così i clan trovarono i loro referenti in Forza Italia”

LETTURA DELLA SENTENZA

La ‘Ndrangheta ha partecipato da protagonista alla stagione delle stragi continentali degli anni Novanta. E quegli anni di bombe e attentati non sono state semplicemente una violenta ritorsione dei clan siciliani contro arresti e processi di boss, ma un progetto politico-eversivo teso ad identificare “nuovi e più affidabili referenti politici disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi” e che “lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti”. Sono “mandanti politici” specificano i giudici. E adesso devono essere identificati. Con una formale trasmissione di atti alla procura, la caccia a chi fuori dal mondo dei clan ha ordinato le stragi è ufficialmente partita anche a Reggio Calabria. 

Lo ordinano i giudici della Corte d’Assise che nel luglio scorso, su richiesta del procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, hanno condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima di Melicucco, Rocco Santo Filippone. Una pronuncia che è “un primo approdo” specificano, ma già riscrive un capitolo fondamentale della storia d’Italia.  

Sono loro – ha dimostrato l’inchiesta guidata da Lombardo e ha confermato il processo –  i mandanti degli attentati che fra il ’93 e il ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari. Ma quella scia di sangue – è stato accertato – non è stata né un caso, né una disordinata azione, ma il tassello di una “comune strategia eversivo-terrorista” che tiene insieme tutta la stagione delle stragi degli anni Novanta. 

Quei tre attentati scrivono i giudici “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della “contaminazione” o “evoluzione” originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. E tutto è successo in un momento storico molto preciso, quando equilibri apparentemente inalterabili sono improvvisamente venuti meno.  

Era l’alba degli anni Novanta. Mentre in Europa crollava il muro di Berlino, in Italia il sistema della democrazia bloccata si scioglieva insieme ai grandi partiti che lo hanno sostenuto, Dc e Psi. Un terremoto nazionale e internazionale, che ha interessato anche quel blocco di potere occulto fatto di “forze massoniche di ispirazione gelliana e pezzi di apparati di sicurezza della rete di Gladio” che con il crollo del muro avrebbero perso il proprio potere contrattuale di “creditore di ultima istanza” in caso di “avanzata rossa”. A cui non avevano alcuna intenzione di rinunciare.  

“Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”.

Non si tratta di deduzioni. Quella stagione convulsa, ancora non del tutto raccontata è stata ricostruita prima con un’indagine monumentale, poi in aula, testimone dopo testimone. Su richiesta di Lombardo, di fronte ai giudici hanno l’ambasciatore italiano all’Onu Francesco Paolo Fulci, che da segretario del Cesis – l’antenato del Dis, l’organismo di coordinamento dei servizi – fra i primi ha intuito l’esistenza di Gladio, Giuliano Di Bernardo, il Gran Maestro del Goi che per primo ha svelato la colonizzazione mafiosa delle logge, persino l’ex pentito “nero”, Paolo Bellini, oggi imputato come “quinto uomo” della strage di Bologna.  

Un’istruttoria gigantesca. Ma “i fatti, in questo procedimento, sono parte della storia italiana e quindi -ricorda la Corte, citando i colleghi che hanno scritto la sentenza Italicus 2 – è impossibile valutarli correttamente senza tenere conto del contesto in cui si inseriscono”. Poi, quella montagna di carte, faldoni, testimonianze, informative e note investigative chieste alla Mobile e allo Sco anche a processo in corso, sono servite ad inquadrare un’epoca. A ricostruire il percorso che ha portato le mafie e non solo a teorizzare le stragi come necessità e messaggio diretto in primo luogo a chi potesse capirlo. Questo era il significato di “Falange armata”, la sigla che il clan dei Papalia prima e Totò Riina dopo, dice un esercito di pentiti, hanno ricevuto in dote da settori dei servizi segreti per firmare omicidi e stragi. Ed è la stessa che spesso hanno usato gli ambienti vicini a Gladio.   

Ecco perché, sottolineano i giudici, “appare piuttosto assai probabile” che dietro le stragi “vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensionè volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni”. All’inizio degli anni Novanta, dice la Corte, “si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”. Settori su cui la procura di Reggio Calabria adesso ha l’ordine di indagare. A partire da tracce molto concrete, incluse le dichiarazioni in aula di Giuseppe Graviano e la memoria che il boss di Brancaccio ha voluto consegnare ai giudici poco prima che iniziasse la camera di consiglio. 

Trincerato dietro un silenzio pressoché totale durato decenni, Graviano al processo ‘Ndrangheta stragista ha iniziato a parlare. Ha puntato il dito contro Silvio Berlusconi, raccontandolo socio occulto del nonno e di altri “imprenditori siciliani” a cui mai aveva restituito l’investimento o girato i benefici promessi. Ha rivelato di averlo più e più volte incontrato anche da latitante per questioni di affari.  Ha promesso rivelazioni importanti sull’agenda rossa di Paolo Borsellino, sull’omicidio di Nino Agostino e su altri fatti di sangue. Tra dire e non dire, nel corso di quattro udienze fiume, mentre si raccontava vittima di un complotto, ha evocato politici, ministri e grandi imprenditori, ha suggerito piste, ha accennato a scenari. Ha mandato messaggi. Poi si è trincerato nel silenzio. 

Gli avvocati di Berlusconi si sono affrettati a bollare le sue affermazioni come millanterie, ma indagini sviluppate anche mentre il processo andava avanti, le ha dimostrate ancora riscontrabili e riscontrate. E traccia si è trovata anche dei flussi finanziari che dalla Calabria arrivavano all’impero di Berlusconi. Perché tramite il loro imprenditore Angelo Sorrenti, i Piromalli sono entrati nell’affare Fininvest. Perché fin troppi pentiti parlano di quei capitali mafiosi che il clan De Stefano – di diritto uno dei sette del direttorio di clan che governa la ‘Ndrangheta – girava ai Papalia, i boss di Platì trapiantati in Lombardia, perché lo investissero nei cantieri di Milano 2 e 3. Lì dove anche Graviano sostiene di avere investito.  

È una casualità che le stesse grandi famiglie ritornino nella storia di sangue delle stragi che proprio poco prima della nascita di Forza Italia si sono fermate? Per i giudici no.  Anche perché,  si legge in sentenza “può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”. Ma questo – ha ordinato la Corte d’assise – deve essere solo il punto di partenza.  LA REPUBBLICA 22.1.2021