VIA D’AMELIO – I “buchi” delle prime indagini

I “buchi” delle prime indagini   […] Se – da un lato – è assolutamente certo, alla luce degli approdi dei precedenti processi (sul punto, confermati dalle risultanze di questo), che la consumazione della strage del 19 luglio 1992 avveniva utilizzando, come autobomba, proprio la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti, è innegabile che vi sono delle oggettive incongruenze nello sviluppo delle primissime indagini per questi fatti e che rimangano diverse zone d’ombra sulla quali non si addiveniva a risposte soddisfacenti, nemmeno con la poderosa istruttoria espletata nel presente procedimento.
Tutt’altro che rassicuranti, ad esempio (come si vedrà, in maniera più approfondita, nella parte dedicata alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), sono le emergenze istruttorie relative alla presenza, in via D’Amelio, nell’immediatezza della strage, di appartenenti ai servizi di sicurezza, intenti a ricercare la borsa del Magistrato.
Infatti, uno dei primissimi poliziotti che arrivava in via D’Amelio, dopo la deflagrazione delle ore 16:58 del 19 luglio 1992, era il Sovrintendente Francesco Paolo Maggi, in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. Il poliziotto arrivava sul posto circa una decina di minuti dopo la deflagrazione, mentre Antonio Vullo, l’unico superstite fra gli appartenenti alla scorta di Paolo Borsellino, in evidente stato di shock emotivo e psicologico, era seduto sul marciapiede, con la testa fra le mani.
Il Sovrintendente Maggi, dunque, confidando di poter trovare qualche altra persona ancora in vita, si faceva strada fra i rottami, entrando nella densa colonna di fumo che avvolgeva i relitti. Purtroppo, era subito evidente che non c’era più nulla da fare, né per il Magistrato, né per gli altri colleghi della scorta, poiché i loro corpi erano tutti carbonizzati ed orrendamente mutilati. In questo contesto, mentre le ambulanze prestavano i soccorsi ai feriti ed i Vigili del Fuoco spegnevano i focolai d’incendio, anche sulla Croma blindata del Magistrato, il poliziotto della Squadra Mobile notava quattro o cinque persone, vestite tutte uguali, in giacca e cravatta, che si aggiravano nello scenario della strage, anche nei pressi della predetta blindata: “uscii da… da ‘sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ‘sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ‘u stesso abito, una cosa meravigliosa”, “proprio senza una goccia di sudore”. Si trattava di “gente di Roma”, appartenente ai Servizi Segreti; infatti, alcuni erano conosciuti di vista (anche se non davano alcuna confidenza) ed, inoltre, venivano notati a Palermo, presso gli uffici del Dirigente della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera, anche in occasione delle indagini sulla strage di Capaci.
La circostanza (mai riferita prima dal teste, nonostante le sue diverse audizioni) veniva confermata da un altro appartenente alla Polizia di Stato, vale a dire il Vice Sovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla Sezione Volanti della Questura di Palermo. Anche quest’ultimo, che arrivava sul posto ad appena cinque minuti dalla deflagrazione, dopo aver constatato che non c’era più nulla da fare per il Magistrato ed i colleghi della Polizia di Stato che gli facevano da scorta, aiutava i residenti nello stabile di via D’Amelio, soccorrendo forse anche la madre del Magistrato. Quando riscendeva in strada, il poliziotto notava, nei pressi della Croma blindata di Paolo Borsellino, un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa. Alla richiesta di chiarimenti sulla sua presenza lì, l’uomo si qualificava come appartenente ai “Servizi”, mostrando anche un tesserino di riconoscimento: sebbene il ricordo del teste, sul punto specifico, non sia affatto nitido, vi era persino un veloce scambio di battute fra i due sulla borsa di Paolo Borsellino. Infatti, l’agente dei Servizi Segreti chiedeva se c’era la borsa del Magistrato dentro l’auto blindata, oppure (addirittura) si giustificava per il fatto che aveva detta borsa in mano:
“Ho un contatto con una persona, ma questo contatto è immediato, velocissimo, dura pochissimo, perché evidentemente (…) il nostro intento era quello di mantenere le persone al di fuori (…) della zona e quindi non fare avvicinare a nessuno (…). E incontro (…) un soggetto, una persona, al quale… ecco, e questo è il momento, non riesco a ricordare se questo soggetto mi chiede (…) della valigia, della borsetta del dottore o se lui era in possesso della valigia. (…) Con questa persona, al quale io chiedo, evidentemente, il motivo perché si trovava su (…) quel luogo. Questo soggetto mi dice di essere… di appartenere ai Servizi”.
[…] Proseguendo nella breve rassegna di alcune delle anomalie e zone d’ombra emerse attraverso le prove raccolte nel presente processo, si deve anche rilevare la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla Polizia Scientifica di Palermo (“su richiesta della locale Squadra Mobile”), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino alle ore 11 del lunedì 20 luglio 1992 […], perché quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente, all’interno della sua autofficina.
Ebbene, quando la Polizia Scientifica eseguiva detti rilievi nell’officina di via Messina Marine, non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino (la stessa, come detto, veniva ritrovata soltanto il 22 luglio 1992), né il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti (rinvenuto verso le 13.00/13.30 di quel 20 luglio 1992). Inoltre, come già esposto, era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992, a seguito del menzionato intervento del tecnico Fiat di Termini Imerese, che detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della Polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, «una 600, una Panda, una 126».
Detta ipotesi investigativa, rivelatasi fondata e coerente con i successivi rinvenimenti sullo scenario della strage, dei reperti dell’autobomba, non è spiegabile soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla Polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato.
Diversamente, non si spiegherebbe, sul piano logico, il motivo per cui la Squadra Mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera (già collaboratore del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, sin dal 1986), sollecitasse un intervento della Polizia Scientifica, per un immediato sopralluogo nell’officina di un carrozziere qualunque di Palermo, che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di un sua cliente (targhe che, come detto, verranno rinvenute soltanto alcuni giorni dopo, in via D’Amelio), in un momento in cui nemmeno era rinvenuto il blocco motore (poi associato ad una Fiat 126).
L’aspetto appena menzionato si colora di tinte decisamente fosche, alla luce di quanto riferito da Gaspare Spatuzza (in maniera assolutamente attendibile, come si vedrà -diffusamente- nella parte della motivazione a ciò dedicata), sulla presenza di un terzo estraneo a Cosa nostra al momento della consegna della Fiat 126, alla vigilia della strage, nel garage di via Villasevaglios, prima del suo caricamento con l’esplosivo.
Su detta persona, non conosciuta e mai più rivista, che non aveva proferito alcuna parola, durante la breve permanenza del collaboratore nel suddetto garage, sabato 18 luglio 1992, Gaspare Spatuzza si spingeva a qualche considerazione relativa all’estraneità al sodalizio mafioso di Cosa nostra e, persino, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni: “se fosse stata una persona che io conoscevo (…), sicuramente sarebbe rimasta qualche cosa (…) più incisiva; ma siccome c’è un’immagine così sfocata (…). Mi dispiace tantissimo e aggiungo di più, che fin quando non si sarà chiarito questo mistero, che per me è fondamentale, è un problema serio per tutto quello che riguarda la mia sicurezza (…). Io sono convinto che non sia una persona riconducibile a Cosa nostra perché (…) c’è questa anomalia di cui per me è inspiegabile”. “C’è un flash di una sembianza umana. (…) c’è questa immagina sfocata che io purtroppo… (…) c’è questo punto, questo mistero da chiarire”; “ho più ragione io a vedere questo soggetto in carcere, se appartiene alle istituzioni, che vedendolo domani fuori”. Peraltro, quest’ultimo spunto del collaboratore di giustizia, sull’eventuale appartenenza alle istituzioni del terzo estraneo, presente alla consegna della Fiat 126, nel pomeriggio di sabato 18 luglio 1992, prima del caricamento dell’esplosivo, veniva approfondito dalla Procura, nella fase delle indagini preliminari di questo procedimento, sondando ulteriormente Gaspare Spatuzza, e anche sottoponendogli diversi album fotografici, con immagini di vari appartenenti al Sisde, senza approdare a risultati tangibili.
Infine, si deve almeno accennare (prima di passare a trattare più diffusamente della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino), ad alcune emergenze che dimostrano il coinvolgimento diretto del Sisde, al di fuori di qualsivoglia logica e regola processuale, nelle prime indagini sulla strage di via D’Amelio, orientate verso la falsa pista di Vincenzo Scarantino. Quest’ultima circostanza, neppure ricordata dal neo-Procuratore Capo di Caltanissetta (dell’epoca), Giovanni Tinebra, veniva invece confermata persino dal dirigente del Sisde, Bruno Contrada, il quale spiegava come detta richiesta della Procura nissena, veniva appunto assecondata, per l’insistenza del Capo Centro di Palermo, Andrea Ruggeri. Peraltro, già nell’ambito del precedente processo c.d. Borsellino bis, veniva accertato che il 10 ottobre 1992, veniva trasmessa alla Squadra Mobile di Caltanissetta, una nota (sul contenuto della quale riferiva il Dirigente della predetta Squadra Mobile, all’epoca delle stragi, dott.Mario Finocchiaro), elaborata proprio dal centro Sisde di Palermo, su specifica richiesta del Procuratore Giovanni Tinebra (sulla cui deposizione, innanzi a questa Corte, non vale più la pena d’indugiare).
Quest’ultimo, dopo aver constatato che le forze di polizia nissene non avevano alcuna specifica conoscenza delle dinamiche interne alle famiglie mafiose palermitane, con un’iniziativa affatto singolare, sollecitava una più stretta collaborazione del Sisde nell’espletamento delle indagini per la strage di Via D’Amelio. I frutti avvelenati di detta improvvida iniziativa non tardavano a maturare, posto che nella predetta nota del 10 ottobre 1992, confezionata dal Sisde proprio nel periodo in cui era in atto il tentativo di far ‘collaborare’ Vincenzo Scarantino, utilizzando Vincenzo Pipino (costretto ad andare in cella con lui, dal dottor Arnaldo La Barbera), vi era una dettagliata radiografia con tutto ciò che, al tempo, risultava alle forze dell’ordine su Vincenzo Scarantino ed i suoi familiari, con i precedenti penali e giudiziari a carico degli stessi, nonché i rapporti di parentela ed affinità con esponenti delle famiglie mafiose palermitane. La tematica della genesi e della gestione della ‘collaborazione’ di Vincenzo Scarantino verrà ampiamente ripresa e trattata nella parte della motivazione dedicata alla sua posizione.  (pagg 782-788; 822-824)

Il magistrato nel mirino dei Madonia L’intento di “Cosa Nostra” di uccidere Paolo Borsellino aveva iniziato a manifestarsi già tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in connessione con le indagini da lui svolte insieme con il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Capitano Emanuele Basile, che avevano consentito, tra l’altro, di pervenire all’arresto di Pino Leggio e di Giacomo Riina nella zona di Bologna, nonché di far luce su alcune delle attività criminali svolte dall’emergente gruppo dei corleonesi. A tale primo movente se ne aggiungeva un secondo, rappresentato dalla circostanza che dopo l’omicidio del Capitano Basile, consumato il 4 maggio 1980, il Dott. Borsellino aveva emesso dei mandati di cattura nei confronti, tra gli altri, di Francesco Madonia, capo del “mandamento” di Resuttana, e del figlio Giuseppe Madonia.
La vicenda si trova puntualmente ricostruita nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”).
In particolare, nelle dichiarazioni rese il 19.6.1998, il collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo ha riferito che Salvatore Riina dopo l’omicidio del Capitano Basile e la conseguente attività di indagine del magistrato aveva commentato che “l’aveva BORSELLINO il capitano BASILE sulla coscienza, perché era stato BORSELLINO a mandare il capitano BASILE a Bologna ad arrestare i suoi”.
Inoltre, il collaborante Gaspare Mutolo, come evidenziato nella suddetta pronuncia, ha riferito che, mentre si trovava detenuto nel corso del 1981 insieme a Francesco e Giuseppe Madonia, Leoluca Bagarella e Greco, aveva avuto occasione di sentire le loro esternazioni in ordine alla necessità di uccidere il Dott. Borsellino.
Sempre nella sentenza emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si è sottolineato come il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca abbia dichiarato che l’omicidio del Dott. Borsellino era già stato deliberato da “Cosa Nostra” sin dagli inizi degli anni Ottanta, allorché Salvatore Riina aveva vanamente cercato di farlo contattare per risolvere alcuni problemi giudiziari del cognato Leoluca Bagarella, constatandone in quell’occasione l’incorruttibilità. Da allora il Brusca aveva più volte sentito il Riina ripetere che Borsellino doveva essere eliminato perché “faceva la lotta a Cosa Nostra assieme al dottor Falcone in maniera forte e decisa”.
Tali vicende sono state ricostruite, nel corso del presente procedimento, durante l’incidente probatorio, all’udienza del 6 giugno 2012, dallo stesso Giovanni Brusca, il quale ha fatto risalire l’intenzione di Salvatore Riina di eliminare il Dott. Borsellino al 1979-80, spiegando: «Totò Riina lo voleva uccidere prima quando fu del cognato, poi quando fu del Capitano Basile… ». Sul punto, Giovanni Brusca ha reso le seguenti dichiarazioni:
P.M. DOTT. MARINO – Senta, mentre il Dottor Borsellino?
TESTE BRUSCA – Il Dottor Borsellino invece le esternazioni di Salvatore Riina che
voleva uccidere… in quanto lo voleva uccidere cominciano con la vicenda del cognato Leoluca Bagarella del Capitano Basile.
P.M. DOTT. MARINO – E perché?
TESTE BRUSCA – Perché mi aveva chiesto di poterlo più di una volta avvicinare per ottenere un trattamento di favore, insabbiare in qualche modo le indagini, per poterlo scagionare dall’accusa.
P.M. DOTT. MARINO – Ma ci furono tentativi di contattare il Dottor Borsellino all’epoca?
TESTE BRUSCA – Sì, allora… l’ho detto, allora ci sono stati dei tentativi e ci fu un rifiuto totale.
P.M. DOTT. MARINO – Ma lei ricorda chi e in che maniera si fecero questi tentativi, se l’ha mai saputo?
TESTE BRUSCA – Guardi, ora non mi ricordo chi lui… a chi lui abbia incaricato, però di solito si comincia da dove è nato, le amicizie, le amicizia di scuola… un po’ conoscendo la città di Palermo si cerca di vedere con chi si può avvicinare. Ripeto, io conosco le esternazioni che lui si è rifiutato di fargli questa cortesia, però con che soggetti abbia…
P.M. DOTT. MARINO – E lei da chi lo apprende?
TESTE BRUSCA – Da Riina.
P.M. DOTT. MARINO – Da Riina direttamente?
TESTE BRUSCA – Sì, perché in quel momento io sono una delle persone più vicine con Leoluca Bagarella. Sono vicino a lui, conosco dove abita, ci vado a casa tutti i comuni, quindi sono quasi a disposizioni… no sono, sono a disposizione… tolgo questo quasi, ero a disposizione sua ventiquattro ore su ventiquattro ore. La mia…  allento un pochettino quando vengo tratto in arresto per le dichiarazioni di Buscetta, ma fino a quel momento gli facevo da autista, lo andavo a prendere, lo accompagnavo da Michele Greco quando andava a Mazara, ci dormivo a casa… tutti i giorni. Difficilmente io avevo qualche momento libero».
Il Brusca ha, poi chiarito che, in epoca anteriore al “maxiprocesso”, le ragioni poste alla base della intenzione di eliminare il Dott. Borsellino si ricollegano al suo intransigente rifiuto di ogni condizionamento e alla sua mancanza di ogni “disponibilità” rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti il Bagarella e l’omicidio del Capitano Basile («Il Dottor Borsellino sì, ma nella sua qualità di Giudice… ancora non era successo il maxiprocesso, non era successo… successivamente poi si sono aggiunti gli altri elementi, però fino a quel momento era perché non si era messo a disposizione, credo per il fatto di Bagarella e qualche altro fatto che in questo momento non mi ricordo. (…) Del Capitano Basile… c’era qualche altra cosa che non si era messo a disposizione»).
Nella medesima deposizione, Giovanni Brusca ha affermato che l’intenzione di uccidere il Dott. Borsellino aveva radici lontane nel tempo e ad essa erano interessati i Madonia, proprio in relazione all’omicidio del Capitano Basile, per il quale era imputato Giuseppe Madonia, fratello di Salvatore Mario Madonia.


E I KILLER SI RAMMARICANO PER NON AVERLI UCCISI INSIEME   Gli imputati al processo hanno ammesso di sapere che il giudice Falcone era stato a Palermo prima del 23 maggio e che si era trovato in compagnia di Paolo Borsellino. Questo episodio era stato riferito da Salvatore Biondino al commando stragista che aveva perso la possibilità di uccidere, in un sol colpo, i due magistrati più pericolosi per la sopravvivenza di Cosa Nostra Ancora una volta è dato registrare che l’evento, a cui avevano partecipato Raffaele, Domenico, Calogero Ganci, Salvatore Cancemi e Antonino Galliano, è stato descritto per conoscenza diretta da ben tre imputati, per cui, la ricostruzione che ne deriva può definirsi, sotto l’aspetto descrittivo, completa ed esauriente. Nella sostanza, […] si rileva accordo generale sul fatto che erano i tre giovani del gruppo ad occuparsi materialmente del pedinamento della Fiat Croma, e analoga convergenza si riscontra anche sui mezzi usati per lo scopo, cioè il “vespone 150” guidato da Calogero Ganci, il ciclomotore Peugeot in uso a Domenico Ganci e lo Sfera Piaggio guidato da Galliano, a nulla rilevando la discordanza sui colori dei singoli ciclomotori, costituendo questa circostanza di secondo rilievo, in ordine alla quale ben può giustificarsi il ricordo impreciso dei narratori. […] Anche la suddivisione del percorso fra i singoli pedinatori relativamente al tragitto che la Fiat Croma di solito percorreva, costituisce dato su cui si è registrata concordanza fra le dichiarazioni di Ganci e Galliano: […]. E’ altresì condivisa dai due anche la circostanza che le operazioni di pedinamento fossero concentrate nella mattinata, e che nel pomeriggio gli eventuali spostamenti della Croma erano comunque controllati dalla macelleria dei Ganci. Tale ultima affermazione non trova alcuna smentita dal tenore della deposizione del teste Aristide Galliano, che lavorava in quel negozio come inserviente, perché risulta chiaramente sia dall’esame di Ganci che da quello di Galliano, che il controllo dell’autovettura nel pomeriggio era, per così dire, “dinamico”, nel senso che gli operatori non rimanevano fermi alla macelleria, ma usavano spesso recarsi al bar Ciro’s per assicurarsi con maggiore sicurezza di quella che poteva scaturire dalla visione che si aveva dal negozio, che la macchina fosse ferma nel parcheggio. Continuando nella rassegna degli accadimenti sui quali vi è convergenza secondo il racconto degli imputati, va rilevato che essi concordano sul fatto che spesso accadeva che Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi nel corso degli appostamenti mattutini seguissero i pedinamenti in macchina, e che erano soliti raggiungerli sotto i portici che si trovavano di fronte al Palazzo di Giustizia, da dove insieme controllovano la posizione della macchina e i successivi spostamenti. A tal proposito è opportuno segnalare che i predetti si spostavano a bordo della Fiat Uno grigia nella disponibilità di Salvatore Cancemi. […] Sia Ganci che Galliano hanno concordato poi sul fatto che per ognuno di loro il conferimento dell’incarico era avvenuto ad opera di Raffaele Ganci nella macelleria, e che nell’occasione era presente Salvatore Cancemi.


LA FAMIGLIA GANCI A DISPOSIZIONE   Quanto all’inizio delle operazioni di pedinamento, Galliano lo ha collocato verso la metà di aprile, mentre invece Calogero Ganci ha ancorato il suo primo intervento a due o tre giorni prima rispetto alla mancata partenza per Bologna (fissata per il 14 maggio), che è facilmente individuabile grazie al fatto che è presente in atti il biglietto che l’imputato aveva acquistato per l’occasione. […] Quel che importa sottolineare è che sia Ganci che Galliano hanno concordato sul fatto che l’attività svolta da aprile fino a metà maggio circa aveva già consentito al gruppo di conoscere non solo gli orari dei movimenti nel corso della mattinata della Croma, che si muoveva dal parcheggio intorno alle nove per farvi poi ritorno per le 13.30, ma anche un ulteriore informazione, di rilievo eccezionale, costituita dall’accertamento della frequenza dei rientri del giudice in città, che si concentravano nei giorni ricompresi dal venerdì al sabato. L’acquisizione di tale dato avrebbe consentito poi di fissare i termini dell’attività di appostamento del commando esecutivo che, come si sarebbe appreso successivamente, aveva costituito informazione che il gruppo operativo a Capaci aveva ben chiara ormai da tempo, posto che subito dopo il caricamento del condotto si era tecnicamente già in grado di procedere se il dott. Falcone fosse arrivato a Palermo. Se tutto quanto precede costituisce ricostruzione altamente verosimile dei fatti accaduti, deve allora dirsi che la decisione presa da Raffaele Ganci in ordine al coinvolgimento del figlio Calogero nell’attività di pedinamento era stata presa in quel frangente temporale, perché egli aveva realizzato che, una volta effettuato il caricamento del condotto, l’attentato avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi momento, per cui era essenziale non perdere i movimenti della macchina. Si spiega così, il motivo, a cose ormai fatte, dell’intervento di Calogero Ganci, che assume un senso pregnante proprio se posto in questi termini. Ma c’è anche un’altra considerazione che spinge a concludere nel senso appena indicato. Raffaele Ganci, a detta del figlio, gli aveva già comunicato di non passare da quel tratto di autostrada verso i primi di maggio, senza però dare ulteriori spiegazioni del divieto al figlio, che aveva comunque recepito che in quel posto si stava preparando qualcosa di importante, che avrebbe potuto mettere in pericolo la sua incolumità se avesse attraversato la zona. Orbene, se l’esigenza di coinvolgere il figlio fosse stata diversa da quella indicata in precedenza, Raffaele Ganci avrebbe richiesto l’intervento del figlio già in quel frangente, e cioè agli inizi di maggio: poiché così non era stato, deve ritenersi che la richiesta era giunta tardivamente solo perché il Ganci voleva essere sicuro che, una volta che si entrava nella fase in cui poteva realizzarsi l’attentato, venisse completamente azzerato il rischio di perdere le traccie della Croma all’atto in cui si sarebbe diretta verso Punta Raisi a prelevare il giudice. Va altresì sottolineato che Raffaele Ganci avvertì la necessità di coinvolgere anche il figlio Calogero oltre Domenico, anche in virtù del fatto che il nipote Galliano non poteva assicurargli una presenza costante, poiché aveva il problema delle assenze dal lavoro, che se possibili per i fine settimana, dato il tipo di impiego svolto (bancario), non consentivano grossi margini di movimento al di fuori dei permessi o dei recuperi, che loro stessa natura non potevano che essere saltuari.


IL FALSO ALLARME […] Occorre a questo punto soffermarsi sul significato di due episodi, sulla cui esistenza hanno concordato sia Ganci Calogero che Galliano: il primo attiene alla volta in cui i pedinatori avevano perso di vista l’auto, il secondo al giorno in cui invece solo Calogero Ganci era riuscito a starle dietro, fino a seguirla in un capannone sito nei pressi dell’autostrada. Galliano, che è a conoscenza di entrambi gli episodi, ha collocato questo secondo fatto nella settimana precedente la strage, ed il il primo due settimane prima della stessa. Ganci invece non è così preciso e si è limitato solo a porre come intervallo fra i due eventi un paio di giorni circa. E’ possibile, allora, che quando che gli operatori avevano perso di vista la Fiat Croma e che solo Calogero Ganci era riuscito a starle dietro, si fosse verificato quel famoso “falso allarme” di cui hanno riferito poi anche Brusca e La Barbera per averlo appreso da Salvatore Biondino. E’ verosimile cioè che Ganci, unico a non aver perso le traccie della macchina grazie alla maggiore potenza del mezzo di cui disponeva (di cilindrata 150), avendo visto che la macchina andava verso la circonvallazione e poi in direzione dell’autostrada, aveva pensato giustamente che l’auto stesse per recarsi all’aeroporto, e dunque aveva messo in moto il meccanismo che doveva condurre ad allertare gli operatori che stanziavano a Capaci. Deve altresì ipotizzarsi che una volta accortosi che invece la macchina si fermava al capannone industriale, sito in una strada che lambiva a carreggiata dell’autostrada, nei pressi di Villabate, l’imputato avesse fatto in modo di fermare l’ingranaggio. A conforto di tale ricostruzione è emerso dall’esame del traffico cellulare acquisito in atti, che nella giornata del 14 maggio vi erano stati dei contatti telefonici particolari fra il cellulare in uso a Domenico Ganci (quello intestato cioè a Ruisi, lo 0336/890387) che aveva chiamato quello di Ferrante alle 7.32, alle 7.58, alle 9.06 e alle 9.09, e successivamente fra Ferrante e La Barbera alle 9.11. Potrebbe dunque essersi verificato quella mattina che gli operatori avessero visto la Fiat Croma allontanarsi dal parcheggio, l’avessero seguita, poi l’avessero persa di vista ad eccezione di Calogero Ganci, che avendo visto che imboccava la circonvallazione avvertì il fratello, che a sua volta chiamò Ferrante, probabilmente in più riprese, per confermargli che la direzione imboccata era quella giusta. Le successive chiamate, quelle delle 9.06 e delle 9.09, potrebbero essere quelle con cui Domenico Ganci aveva avvisato del falso allarme Ferrante, che a sua volta, aveva chiamato La Barbera per disattivare i preparativi. Altro dato che va segnalato è che sempre nella stessa giornata risulta, da attestazione della Corte d’Appello, che la Fiat Croma era stata sottoposta a lavori di manutenzione presso la ditta “Centrogomme s. n. c.” , per cui è ben possibile che la direzione segnalata da Ganci preludesse all’imbocco della strada che doveva condurre all’officina autorizzata. L’uso di tale espressione è imposto da una dovuta prudenza, frutto della circostanza che Costanza Giuseppe, l’autista della Croma, non ha ricordato di essersi recato nella zona di Villabate con la macchina di servizio nei giorni precedenti l’attentato: vero che emerge dall’attività di riscontro svolta dal personale della Dia che esistono diversi capannoni che costeggiano l’autostrada prima dello svincolo per Villabate, ma nessuno di essi ha a che fare con un officina di riparazione, trattandosi in un caso di un deposito di prodotti chimici, e nell’altro di una fabbrica di ghiaccio. E’ possibile allora che il teste vi si sia recato per motivi personali prima di andare all’officina, e che obiettivamente non sia stato in grado, in dibattimento, di ricordare il motivo della sosta a causa delle amnesie che lo hanno afflitto in esito allo shock derivato dall’attentato. D’altro canto, va anche sottolineato che Ganci Calogero, una volta accertato che la macchina si fermava presso uno dei capannoni, era andato via, per cui è ben possibile che l’autista, dopo tale sosta, si fosse diretto verso l’officina di riparazione. Del resto non è possibile ritenere che il falso allarme di cui hanno parlato concordemente anche Brusca e La Barbera, sia identificabile con l’altro episodio, quello relativo alla perdita delle tracce della macchina da parte di tutti i pedinatori. In tale caso infatti non avrebbe avuto senso, se si era persa la Fiat Croma, allertare il gruppo di Capaci perché a quel punto non c’era più nessuna sicurezza sulla direzione che avrebbe preso la macchina: non era ragionevole cioè che, a fronte della meticolosità, precisione e puntualità con cui era stata elaborata la strategia esecutiva, che un particolare così vitale, quale il lancio del segnale, potesse essere rimesso al mero caso. Se la ricostruzione indicata è verosimile, può farsi allora un ulteriore passo avanti per ricollegare quest’ultimo episodio al rientro in Palermo del dott. Falcone il 18 maggio: come si è già visto in precedenza, in occasione dell’esame delle deposizioni dell’addetta alla segreteria della Direzione Affari Penali del Ministero dell’impiegata dell’agenzia di viaggi di Palermo ove il magistrato era solito servirsi quando si spostava con i voli di linea e dello stesso autista, Costanza Giuseppe, il dott. Falcone era tornato in Sicilia in quella data, che cadeva di lunedì della stessa settimana nella quale è ricompreso il giorno della strage, cioè sabato 23 maggio. Tale ipotesi troverebbe conforto nell’indicazione della consequenzialità temporale che secondo Ganci Calogero lega questo episodio al primo già descritto, essendo i due fatti intervallati secondo i suoi ricordi da un paio di giorni, perché come si è già visto, quest’ultimo risulta fissato per il 14 maggio, che dunque dista quattro giorni dall’altro, ben compatibile quindi con la ricostruzione dell’imputato. Altro dato che coincide è quello relativo al momento in cui la macchina era rientrata al posteggio, che Ganci ha indicato nel pomeriggio, dato che risulta anch’esso compatibile sia con la previsione dell’andata all’aeroporto per consentire al giudice il rientro nella capitale nella stessa giornata, che con le dichiarazioni del Costanza.


UCCIDERE IL GIUDICE UNA SETTIMANA PRIMA […] Gli imputati […] ammettono di essere venuti a conoscenza del fatto che il dott. Falcone era stato a Palermo prima del 23 maggio, e addirittura in compagnia del dott. Borsellino: tale circostanza, riferita concordemente, secondo gli imputati, al gruppo operativo da Salvatore Biondino, aveva costituito fonte di rammarico per gli operatori, perché era andata persa la possibilità di eliminare in un sol colpo due dei magistrati più pericolosi per la sopravvivenza di Cosa Nostra. Se è possibile quindi rilevare dalle dichiarazioni dei collaboratori il disappunto per l’occasione persa, può anche sostenersi che chi aveva riferito loro l’episodio aveva ben contezza del fatto che in quel frangente doveva essere già tutto pronto per far saltare l’autostrada, quindi orientativamente l’accadimento è collocabile dopo l’8 maggio. I dati acquisiti in virtù delle dichiarazioni degli imputati consentono di calibrare meglio la collocazione temporale dell’evento: se infatti l’intervento di Calogero Ganci nel gruppo dei pedinatori è stato fissato in precedenza due o tre giorni prima il 14 maggio, poiché l’imputato ha riferito dell’episodio per averlo vissuto in prima persona, allora è possibile restringere ulteriormente l’arco temporale per affermare che il fatto si realizzato fra il 12 e il 23 maggio. […] Come ben si comprenderà allora, se è dato incontestabile che il 18 maggio il dott. Falcone fosse in Palermo, e se l’episodio del mancato avvistamento della Fiat Croma tende, secondo le dichiarazioni degli imputati, ad avvicinarsi a tale data, la tesi secondo cui il giorno in cui essi avevano perso di vista la Croma era proprio il 18 maggio non appare destituita di fondamento. Vero che Giovanni Brusca ha ricostruito il fatto in modo diverso, sostenendo che l’occasione era andata persa perché trattandosi di un lunedì, e quindi di un giorno al di fuori di quelli ricompresi nel fine settimana, gli operatori non erano pronti nelle loro postazioni, non facendo pertanto alcun collegamento fra l’episodio e il fatto che i pedinatori avevano perso di vista la macchina. Le considerazioni espresse dall’imputato non devono però fuorviare, perché quella riportata è l’opinione di Brusca, cioè di un imputato che ha avuto la responsabilità della direzione delle operazioni per quanto atteneva al settore relativo al gruppo che doveva operare in Capaci e nei pressi dell’aeroporto. […].  A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA