Rassegna Stampa – DEPISTAGGIO VIA D’AMELIO: due prescritti è uno assolto. Ma il depistaggio c’é stato.

 

17 luglio 2022 Noi abbiamo disonorato la divisa? Noi? Ma se anche ci fosse stato, il depistaggio, lo avrebbero lasciato fare a noi, a due pesci piccoli?”.

Così Fabrizio Mattei, 64 anni, e Michele Ribaudo, di 66, due dei tre poliziotti oggi in pensione (il terzo è il funzionario Mario Bò) assolti martedì scorso dall’accusa di calunnia aggravata nel processo sul depistaggio delle indagini relativo all’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino che si è svolto davanti al tribunale di Caltanissetta.
Per Bò e Mattei, caduta l’aggravante di avere favorito la mafia, è scattata la prescrizione; Ribaudo è stato invece assolto nel merito.
In un’intervista al Giornale di Sicilia, rilasciata alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio, i due imputati si difendono dall’accusa di avere ‘pilotato’ il falso pentito Vincenzo Scarantino, che – secondo la Procura – sarebbe stato forzato, istruito, orientato dal gruppo di poliziotti guidato dal questore Arnaldo La Barbera, poi deceduto.
Ma nello stesso tempo sottolineano di avere “il massimo rispetto” per il dolore dei familiari delle vittime.
“I figli del dottor Borsellino – dice Mattei – hanno ragione. Però noi non abbiamo depistato niente”Ribaudo, che è stato pienamente scagionato, spiega: “Secondo i giudici per me il fatto non costituisce reato.
Io ero terminalista, facevo ricerche al computer ma, come il collega, andai là, da Scarantino, nella residenza di San Bartolomeo a Mare.
Abbiamo fatto le stesse cose”. Mattei, per il quale è scattata la prescrizione, osserva: “So bene che mi lascia una macchia, finché non ci sarà l’assoluzione piena. Ma io non ho depistato proprio niente”.
Resta il fatto che quello che è stato definito dai giudici “il più colossale depistaggio nella storia della Repubblica”, è ancora senza responsabili.
“Nelle inchieste – conclude Mattei – si cerca sempre il colpevole, non uno a caso. Io condivido le tesi dei pm del processo Borsellino quater. E cioè che in quegli anni dopo le stragi c’era un clima di piombo, con la pressione mediatica e dell’opinione pubblica che era quella che era.
Le valutazioni potrebbero essere state forzate, ma in tutti gli ambiti: comprese la magistratura requirente e giudicante. Fino alla Cassazione”. ANSA 17 LUGLIO 2022

Strage di via D’Amelio, ex poliziotti assolti: «Siamo pesci piccoli, non abbiamo depistato noi»

«Noi abbiamo disonorato la divisa? Noi? Ma se anche ci fosse stato, il depistaggio, lo avrebbero lasciato fare a noi, a due pesci piccoli?». Così Fabrizio Mattei, 64 anni, e Michele Ribaudo, di 66, due dei tre poliziotti oggi in pensione (il terzo è il funzionario Mario Bo) assolti martedì scorso dall’accusa di calunnia aggravata nel processo sul depistaggio delle indagini relativo all’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino che si è svolto davanti al tribunale di Caltanissetta.

13 luglio 2022 Borsellino: legale figli, ‘paese dedica più spazio a separazione Totti che a depistaggio strage’

ADNKRONOS 13 luglio 2022

“La famiglia Borsellino, Lucia, Manfredi e Fiammetta, a questo punto, ha il sacrosanto diritto di elaborare questo lutto, dopo 30 anni”. A dirlo all’Adnkronos è l’avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia Borsellino nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Trizzino, che è anche il marito di Lucia Borsellino, parla a distanza di 12 ore dalla sentenza di primo grado emessa ieri sera dal Tribunale di Caltanissetta. Reato prescritto per due dei tre imputati poliziotti, Mario Bo e Fabrizio Mattei, e una assoluzione, per Michele Ribaudo. “Questa sentenza interpella, a mio giudizio, la collettività e l’opinone pubblica – dice – io mi rendo conto che questo è un paese anestetizzato che dedica più spazio alla separazione di Totti piuttosto che al depistaggio di via D’Amelio, però la collettività deve essere informata e deve cominciare a pretendere comportanti diversi e soprattutto la verità”. “Che non sarà più processuale – dice -ma la verità storica che non ha più i vincoli e condizionamenti delle regole del processo, che vanno sempre rispettate. La verità storica si pone al di fuori di ogni alto condizionamento”.
“Comunque, noi guarderemo con favore alle altre iniziative di tipo processuale che si vorranno mettere in campo ma dobbiamo essere chiari – spiega ancora l’avvocato Trizzino all’Adnkronos – l’esercizio della potestà punitiva deve avvenire in tempo congruo, ogni altri iniziativa rischia di divenire una occasione per non consentire alla famiglia di elaborare questo lutto. Noi questo diritto lo abbiamo”. “La sentenza di ieri che a caldo ho definito minimalista ha una sua grande importanza – aggiunge poi Trizzino – perché viene riconosciuta la calunnia in quanto commessa da Bo e Mattei, questo è un lato fondamentale. La calunnia, benché prescritta – i processi fatti dopo 28 anni portano a questo – commessa in concorso con Scarantino e Andriotta, consolida lo scenario descritto nella sentenza del processo Borsellino quater. Quindi, il depistaggio c’è stato e semplicemente il ritardo nell’esercizio della giurisdizione che ha determinato le relative conseguenze penali”.


‘Il vero dominus del depistaggio è stato Arnaldo La Barbera’

“Sotto il profilo morale e delle conseguenze risarcitorie e civili lo Stato, se questo verdetto resisterò fino in cassazione, dovrà rendere conto di questo importantissimo sviamento dal percorso di verità processuale che è stato compiuto da uomini dello Stato che hanno abusato della propria funzione e disatteso il giuramento di fedeltà alla Costituzione e che è avvenuto non nell’ambito di un furto di motorino ma di una delle più gravi stragi della storia repubblicana in cui ha perso la vita uno dei più importanti servitori dello Stato con i suoi angeli custodi”, dice ancora l’avvocato Fabio Trizzino.

“Quindi, rifuggiamo da qualunque approccio entusiastico rispetto alla prescrizione, perché il dato che rimane è che la calunnia e il depistaggio è stato compiuto, mi aspetto delle motivazioni e che si sia dato ampio risalto al convitato di pietra del processo Arnaldo La Barbera, dal momento che la responsabilità ascritta a Bo e Mattei si appalesano come esercizio di ordini provenienti da colui che si può considerare il vero dominus del depistaggio, il capo della mobile di allora nonché poi questore di Palermo Arnaldo La Barbera”. (di Elvira Terranova)


 Paolo Borsellino sapeva di dover morire e ci ha dato una lezione che non possiamo dimenticare

di Pietro Pipia FQ

Trent’anni dopo la strage di via D’Amelio la ricerca della verità è ancora in corso tra nuove e false piste.
Secondo i giudici della corte d’Assise di Caltanissetta, quello di via d’Amelio rappresenta il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana.
Paolo Borsellino quel 19 luglio 1992 pranza a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si reca con la sua scorta in via D’Amelio, dove vive la madre e la sorella.
Alle 16:58 una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplode. Non si capisce ancora quanti sono i morti, se ci sono sopravvissuti: in via d’Amelio le fiamme sono ancora alte e i cadaveri delle vittime ancora a terra quando qualcuno si muove tra le lamiere delle auto carbonizzate.
Trent’anni dopo non si conosce ancora l’identità di quegli uomini che si muovevano sul luogo della strage.
Come ignota è rimasta la fine che ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino.
Borsellino, dopo la Strage di Capaci, aveva un solo interesse: scoprire cosa ci fosse dietro la strage di Capaci. Mio fratello – dice Salvatore Borsellino – continuava a dire ossessivamente: “Devo fare in fretta”. Borsellino aveva la certezza di morire. Perché? A distanza di trent’anni ci sono ancora troppi perché senza risposta. Tuttavia non dobbiamo cedere allo sconforto. Paolo Borsellino ci ha dato una lezione che non possiamo dimenticare e alla quale dobbiamo tenere fede: non ha arretrato neanche davanti a quelle entità talmente forti da farlo sentire impotente sentendosi una sorta di vittima sacrificale.


Depistaggio Borsellino, l’agente sopravvissuto alla strage: “Alla fine non paga mai nessuno”

“Sono amareggiato. Da noi accadono gli eventi, ci sono situazioni comprovate, ma poi alla fine non paga mai nessuno“. Parola di Antonio Vullo, l’unico agente sopravvissuto alla strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque colleghi della scorta. Il poliziotto, oggi in pensione, si riferisce alla sentenza emessa martedì dal tribunale di Caltanissetta sul depistaggio delle prime indagini sulla strage Borsellino. Al termine del processo di primo grado, infatti, il Tribunale di Caltanissetta ha fatto cadere l’aggravante mafiosa nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, i tre ex poliziotti del pool stragi comandato dal prefetto Arnaldo da Barbera, imputati di calunnia per aver indotto il falso pentito Vincenzo Scarantino a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. Come risultato, i reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Bocciata, dunque, la tesi della procura di Caltanissetta, che parlava di “un depistaggio gigantesco” e “inaudito” che “ha coperto alleanze mafiose di alto livello” e aveva chiesto condanne a pene altissime. “Ci aspettavamo un simile esito. Nell’aria si intravedeva qualcosa del genere”, commenta oggi Vullo, che i 19 luglio non sarà alla manifestazioni di ricordo della strage, esattamente come hanno annunciato i figli di Paolo Borsellino. “Ho perso un pò di fiducia e non mi ritrovo più in certi ambienti”, dice l’agende sopravvissuto. La testimonianza di Vullo è contenuta in Mattanza, il podcast del Fatto Quotidiano sulle stragi. Il poliziotto era alla guida della prima vettura di staffetta, che precedeva quella in cui viaggiava il magistrato ucciso dal tritolo di Cosa nostra. Vullo si salva dalla strage perché al momento dell’esplosione è all’interno dell’auto e non in strada come Borsellino e i colleghi.

Salvatore Borsellino: “Verità e giustizia lontane” – Oltre al racconto di Vullo, Mattanza ricostruisce anche tutti i passaggi del depistaggio al centro del processo che si è concluso ieri. La cui sentenza ha scatenato diverse polemiche. “Non è la prima volta che in corrispondenza dell’anniversario della strage di via D’Amelio arrivano colpi di questo tipo. Un colpo durissimo per noi che ancora, a 30 anni di distanza dalla strage, cerchiamo verità e giustizia ancora molto lontane. Quando nei processi sono imputati funzionari dello Stato la fine è sempre la stessa: o il fatto non costituisce reato, come è accaduto nel processo d’appello sulla Trattativa, oppure si arriva alla prescrizione. Ma è un esito che in qualche modo mi aspettavo”, dice Salvatore Borsellino. “Dopo 30 anni c’è ben poco da dire. Provo solo sdegno. Tra qualche anno beatificheranno Arnaldo La Barbera…”, commenta invece Luciano Traina, fratello di Claudio, l’agente di scorta morto insieme ai colleghi poliziotti Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. “Lo Stato non c’è – continua Traina -. La trattativa continua, c’è un depistaggio che ci fa molto male, a noi familiari delle vittime, a quelli del dottor Borsellino e penso a tutte le persone oneste. Ho una profonda rabbia. Sono molto molto deluso – prosegue -. Trent’anni buttati. Scarantino? Un ladro di polli lo conoscevamo tutti. Di cosa parliamo?”. “Premesso che tutte le sentenze vanno rispettate e che, soprattutto in casi così complessi, è fondamentale leggere le motivazioni, come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica”, dice Maria Falcone, sorella del giudice ucciso nella strage di a Capaci. “Dal dispositivo che asserisce l’esistenza del depistaggio e la responsabilità di due dei tre imputati, emerge comunque la conferma dell’impianto della Procura di Caltanissetta che, con un lavoro coraggioso e scrupoloso, ha fatto luce su anni di trame e inquinamenti investigativi”, continua Maria Falcone.

Ecco quali sono i punti rimasti oscuri nella strage – Secondo l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale di parte civile della famiglia Borsellino, la “sentenza interpella, a mio giudizio, la collettività e l’opinone pubblica. Io mi rendo conto che questo è un paese anestetizzato che dedica più spazio alla separazione di Totti piuttosto che al depistaggio di via D’Amelio, però la collettività deve essere informata e deve cominciare a pretendere comportanti diversi e soprattutto la verità”. Secondo Trizzino non ci sarà alcuna verità processuale: “Ma una verità storica che non ha più i vincoli e condizionamenti delle regole del processo, che vanno sempre rispettate. La verità storica si pone al di fuori di ogni alto condizionamento”, dice all’Adnkronos. La stessa agenzia intervista anche Antonio Balsamo, l’ex Presidente della Corte d’assise di Caltanissetta che emise la sentenza del processo Borsellino quater, definendo quello di via d’Amelio come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana“. “Con la sentenza quater – dice – abbiamo ritenuto che ci sia stato un depistaggio, uno tra i più gravi della storia giudiziaria italiana. E che richiedeva un approfondimento di indagine per tre aspetti: il primo era quello della copertura di una fonte rimasta occulta da cui derivano quelle parti sicuramente vere che sono comuni alle dichiarazioni di finti collaboratori”. Balsamo ripercorre i punti rimasti oscuri sulla strage: “Ad esempio, che il giudice Borsellino non è stato sentito nel periodo che va dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, neppure dopo che fece quel discorso commovente in biblioteca comunale e disse ‘Io oltre che magistrato sono testimone’. La strage interviene il giorno che precedeva l’inizio della settimana in cui Borsellino doveva essere sentito dalla Procura di Caltanissetta. Il fatto che non sia stata assunta nessuna iniziativa volta a creare una adeguata protezione nei pressi della casa della madre di Borsellino, nonostante questa carenza di una zona rimozione fosse stata più volte segnalata da parte del personale addetto alla tutela di Borsellino. Poi ci sono ulteriori anomalie date dal coinvolgimento nelle indagini sin dall’inizio dei servizi segreti, che il giorno dopo la strage vengono coinvolti in questa attività in modo irrituale. A questo si aggiunge, ad esempio, la presenza di alcune persone che arrivano in giacca e cravatta sul luogo della strage, persone di Roma, appartenenti ai servizi segreti, nella immediatezza della esplosione. Anche questo è un dato emerso per la prima volta nel processo Borsellino Quater


Strage di via D’Amelio – Potrà mai esserci giustizia e verità?

Ieri, dopo quasi dieci ore di camera di consiglio, il Tribunale di Caltanissetta ha pronunciato la sentenza sul depistaggio delle indagini nella strage di Via D’Amelio nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.

Imputati, per calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia, erano i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di aver contribuito nella creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino.

Per la Procura gli imputati avrebbero contribuito a creare i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, portandoli a mentire e ad accusare quali colpevoli della strage persone innocenti  che subirono pesanti condanne – in parte scontate – permettendo ai veri colpevoli di rimanere impuniti per tantissimi anni.

L’aggravante di aver favorito ‘Cosa nostra’ non ha retto al vaglio del tribunale, determinando così la prescrizione dei reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. 

Le sentenze non si discutono, ma è impossibile far finta di nulla dinanzi una sentenza che non esclude i reati commessi nella gestione di Scarantino – tranne che per Michele Ribaudo – e che di conseguenza rappresenta una sconfitta della giustizia e un dolore aggiunto ai familiari delle vittime ed a quanti hanno subito, ingiustamente, anni di carcere duro per le accuse di falsi pentiti.

Come dichiara Giuseppe Ciminnisi (coordinatore nazionale dei familiari di vittime innocenti di mafia, dell’associazione ‘I Cittadini contro le mafie e la corruzione’) in una sua nota, con la quale esprime vicinanza e solidarietà ai familiari delle vittime della strage di via D’Amelio, trascorsi trenta anni dalla strage non rimane che prendere atto di una giustizia che non c’è stata e non potrà mai esserci, e di una verità che emerge in maniera soltanto parziale, che non spiega ancora la genesi delle stragi.

Un pronunciamento, quello di ieri che, seppur probabilmente corretto sotto il profilo giudiziario, è l’emblema di una sconfitta dello Stato.

La strage, decenni di depistaggi, la mancata verità sul rapporto tra Cosa nostra e ambienti esterni, rappresentano la cartina al tornasole di uno Stato prima incapace di tutelare i suoi uomini migliori, e poi  incapace di tutelarne la memoria e rendere loro giustizia.

Borsellino non morì il 19 luglio 1992.

Paolo Borsellino continua a morire giorno dopo giorno tra una commemorazione e l’altra, tra un convegno e una manifestazione alla quale forse prendono parte anche coloro che nulla fecero per impedire la strage, o  quantomeno per scoprire la verità e rendere giustizia a quanti sacrificarono la propria vita per il nostro Paese.

Riecheggiano ancora le parole della moglie del giudice Borsellino, quando dichiarò: “Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ud ucciderlo della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”.

Parole che in maniera vigliacca vediamo quotidianamente trasformate in qualcosa di diverso, dove “i suoi colleghi ed altri” diventano soltanto altri.

Chi erano questi “suoi colleghi” e chi gli “altri”?

Probabilmente non lo sapremo mai.

Val la pena di riportare quanto affermato dal pm Luciani il quale, facendo riferimento alle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, ha ricordato come il pentito Angelo Siino aveva riferito “i commenti di Pino Lipari secondo cui l’arrivo di Borsellino avrebbe certamente creato delle difficoltà a quel santo cristiano di Giammanco e cioè al procuratore della Repubblica con il quale già Giovanni Falcone aveva avuto contrasti e incomprensioni dal punto di vista professionale che l’avevano determinato ad accettare l’incarico propostogli del ministero della giustizia”.

C’era solo “quel santo cristiano” in quella procura, o ce ne erano anche altri?

Una domanda destinata a rimanere senza risposta.

E mentre ancora oggi spuntano nuove piste e nuove incredibili testimonianze in merito alle stragi, molti evitano accuratamente di parlare di quell’indagine mafia-appalti voluta da Giovanni Falcone e che dopo la sua morte venne sollecitata da Paolo Borsellino.

Un dossier che è quantomeno una delle principali concause dell’accelerazione della strage di via D’Amelio.

Non rimane che constatare con amarezza quanto siano veritiere le parole dell’avvocato Fabio Trizzino (difensore dei figli del giudice Borsellino) quando afferma che abbiamo una verità solo parziale sulla strage di via D’Amelio e come e perché ciò sia potuto accadere appartiene alla Verità Storica che tutti noi dobbiamo pretendere e continuare a cercare.

Trizzino in un suo post ha anche ricordato alcuni suoi colleghi, “fra tutti, gli avvocati Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola – illo tempore accusati, assieme all’avv. Paolo Petronio, di manovre oscure a scapito di pseudo collaboratori”.

Già, chi non accetta verità preconfezionate, non può che essere un oscuro manovratore…

Guai a perdere la fiducia nelle regole e nelle Istituzioni – continua l’avvocato difensore dei figli del giudice Borsellino, ricordando anche le innocenti vittime del depistaggio costrette ad una terribile ingiusta detenzione –  Sarebbe il torto più grande alla memoria di Paolo Emanuele Borsellino e di quanti – tantissimi – hanno donato la vita per noi”.

Intanto ieri, ancora una volta, sulla croce sono saliti Paolo Borsellino, la verità e il dolore dei suoi cari.

Non bisogna perdere la fiducia, non bisogna farlo in memoria di quanti hanno donato la vita per i propri valori, però non v’è dubbio che tutto quello che è accaduto nel corso di questi trenta anni non ci facilita nell’assolvere a questo nostro dovere.

Gian J. Morici  LA VALLE DEI TEMPLI


L’appello del giudice Balsamo: “ora da istituzioni ricerca verità”

 

Dice subito che preferisce non commentare la sentenza di ieri del processo sul depistaggio Borsellino “perché non è ancora definitiva”, e, comunque, vuole aspettare di leggere le motivazioni, ma Antonio Balsamo, l’ex Presidente della Corte d’assise di Caltanissetta che emise la sentenza del processo ‘Borsellino quater’ parlando di ” uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” oggi si appella a tutte le istituzioni perché “si faccia un passo avanti nella ricerca della verità”. Antonio Balsamo oggi è il Presidente del Tribunale di Palermo, e prima ancora è stato il consigliere giuridico della Rappresentanza italiana all’Onu di Vienna. “La sensazione è che si è fatto molto per un accertamento completo della verità su questo episodio gravissimo della nostra storia che è la strage di Via D’Amelio, ma resta ancora molto da fare”, dice in una intervista esclusiva all’Adnkronos. “Credo che un modo fortemente significativo di rendere onore alla memoria di questi grandi italiani, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sia di farsi carico di un impegno di ricerca della verità senza compromessi da parte di tutte le istituzioni e dello Stato. E’ un compito che devono adempiere, non solo le istituzioni giudiziarie ma anche tutte le altre istituzioni. Abbiamo esempi importanti in passato, ricordo il lavoro straordinario fatto da Cesare Terranova nell’ambito della Commissione antimafia”. E aggiunge: “Se il diritto alla verità spetta non solo alle vittime e ai loro familiari, ma anche alla collettività, anche l’impegno di realizzare questo diritto deve fare capo a tutte le istituzioni, che oggi possono fare qualcosa di importante. Le indagini svolte, ad esempio, da commissioni parlamentari per loro natura non sono soggette a una serie di limiti che valgono invece per i processi penali. Questa è una prospettiva che si può percorrere con attenzione anche nei prossimi anni”. Poi, parlando della sua sentenza del processo ‘Borsellino quater’, confermata anche in Corte di Cassazione, ha spiegato: “Con la sentenza quater abbiamo ritenuto che ci sia stato un depistaggio, uno tra i più gravi della storia giudiziaria italiana. E che richiedeva un approfondimento di indagine per tre aspetti: il primo era quello della copertura di una fonte rimasta occulta da cui derivano quelle parti sicuramente vere che sono comuni alle dichiarazioni di finti collaboratori”.

‘Collegamento tra il depistaggio e la sparizione dell’agenda rossa’

“Il secondo aspetto è quello del collegamento tra il depistaggio e la sparizione dell’agenda rossa. Una sottrazione che viene fatta mentre ancora in via D’Amelio c’è una vera e propria scena di guerra. Abbiamo ritenuto che l’ipotesi del collegamento vada verificata alla luce della identità di qualcuno dei protagonisti di entrambe le vicende, sulla base del fatto che la Barbera ha avuto un ruolo sia nella creazione di falsi collaboratori, sia nella vicenda relativa all’agenda rossa, come è evidenziato dall’atteggiamento di inaudita aggressività da lui tenuto contro Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. Balsamo si riferisce a quella volta in cui La Barbera, da capo della Squadra mobile, portò la borsa di Paolo Borsellino alla vedova, Agnese Piraino Leto, alla presenza di Lucia Borsellino, la figlia maggiore del giudice. E quando Lucia notò che nella borsa non c’era l’agenda rossa e chiese con forza che fine avesse fatto, La Barbera, per tutta risposta, affermò che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire e arrivò a dire alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica.

“Il terzo aspetto che merita altrettanta attenzione è quello della eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage di via D’Amelio, nel quadro di una convergenza di interessi fra Cosa nostra e altri centri di potere – prosegue il giudice Balsamo – Su questo abbiamo ritenuto che vadano valutate con attenzione due prove che si sono acquisite nel dibattimento: una riguarda i cosiddetti ‘sondaggi’, le ‘tastate di polso’ di Cosa nostra prima di dare il via alla stagione delle stragi. Sondaggi fatti con personaggi importanti appartenenti al mondo economico e politico. Il collaboratore Antonino Giuffrè ha istituito un collegamento tra questa convergenza di interessi e il clima di isolamento in cui vivevano Borsellino e Falcone”.

“Un isolamento che tutti ricordiamo, un attacco concentrico su Giovanni Falcone e un isolamento tangibile nei confronti di Paolo Borsellino”. Per Antonio Balsamo “un altro aspetto che abbiamo ritenuto rilevante e che merita attenta considerazione sono le confidenze fatte da Borsellino alla moglie Agnese il giorno prima di essere ucciso. Le disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma che sarebbero stati i suoi colleghi e altri soggetti a permettere che ciò potesse accadere”. Poi Antonio Balsamo ricorda anche tutte le “anomalie” emerse durante il processo Borsellino ‘quater’.

‘Il giudice non è stato sentito da Caltanissetta nei 57 giorni da Capaci a Via D’Amelio’

“Ad esempio, che il giudice Borsellino non è stato sentito nel periodo che va dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, neppure dopo che fece quel discorso commovente in biblioteca comunale e disse ‘Io oltre che magistrato sono testimone’. La strage interviene il giorno che precedeva l’inizio della settimana in cui Borsellino doveva essere sentito dalla Procura di Caltanissetta. Il fatto che non sia stata assunta nessuna iniziativa volta a creare una adeguata protezione nei pressi della casa della madre di Borsellino, nonostante questa carenza di una zona rimozione fosse stata più volte segnalata da parte del personale addetto alla tutela di Borsellino. Poi ci sono ulteriori anomalie date dal coinvolgimento nelle indagini sin dall’inizio dei servizi segreti, che il giorno dopo la strage vengono coinvolti in questa attività in modo irrituale. A questo si aggiunge, ad esempio, la presenza di alcune persone che arrivano in giacca e cravatta sul luogo della strage, persone di Roma, appartenenti ai servizi segreti, nella immediatezza della esplosione. Anche questo è un dato emerso per la prima volta nel processo Borsellino quater”. Sono trascorsi 30 anni, e ci sono stati 14 processi, ma i misteri su quanto accadde il 19 luglio del 1992 sono ancora tanti. Troppi. (di Elvira Terranova) ADNKRONOS 13.7.2022


Basta con i depistaggi e le ipocrisie, che emerga la verità sulla strage di Via D’Amelio – Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato

 

A pochi giorni dal trentesimo anniversario del tragico attentato nel quale il Giudice Paolo Borsellino fu ucciso insieme alla sua scorta formata da Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, arriva la sentenza che stabilisce la prescrizione per due dei tre poliziotti imputati per aver depistato le indagini sulla strage di Via D’Amelio e l’assoluzione per il terzo. Gli ex agenti erano indagati per concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nell’aver contribuito a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni hanno dato vita a quello che i giudici del processo Borsellino quater hanno definito “il più colossale depistaggio della storia d’Italia”. La prescrizione è stata determinata perché è venuta meno l’aggravante del favoreggiamento mafioso. Questa sentenza si aggiunge alla precedente archiviazione dell’inchiesta aperta nei confronti delle posizioni dei due magistrati facenti parte del pool che coordinò l’indagine sull’attentato di Via D’Amelio.

Si tratta dunque dell’ennesimo depistaggio senza depistatori? Se il depistaggio c’è stato, crediamo sia necessario e doveroso trovare i responsabili.
Sappiamo bene che cosa significhi essere colpiti dalla violenza mafiosa e nello stesso tempo subire un depistaggio da parte di chi cerca di impedire che emerga la verità. Comprendiamo e condividiamo la scelta di Fiammetta Borsellino e dei suoi familiari che da anni si battono per la verità e la giustizia, di non partecipare alla commemorazione istituzionale della strage di via D’Amelio “finché non sarà ristabilita la verità”. Le celebrazioni rischiano di perdere il proprio significato e, come ha affermato la figlia del giudice Borsellino: “uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro”. Basta con le ipocrisie, chiediamo verità e giustizia per chi si è battuto contro il giogo mafioso, lo dobbiamo a loro, ai loro familiari, ma anche a tutti/e noi che vogliamo vivere in una società libera e dignitosa.


12 luglio 2022 

Il depistaggio della strage Borsellino, la prescrizione salva due poliziotti. Un altro è stato assolto

 

Lucia e Manfredi restano immobili mentre il presidente Francesco D’Arrigo legge la sentenza: «Il tribunale dichiara non doversi procedere nei confronti di Mario Bò e Fabrizio Mattei per i reati loro ascritti essendo gli stessi estinti per prescrizione». E, poi, ancora: «Assolve Michele Ribaudo dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato». Lucia e Manfredi, i figli del giudice Paolo Borsellino, ascoltano la sentenza e vanno via subito dal tribunale.
Trent’anni dopo, la prescrizione salva due uomini dello Stato che avrebbero dovuto indagare sui responsabili della strage di via D’Amelio, invece contribuirono a creare il falso pentito Vincenzo Scarantino, che la verità l’ha tenuta lontana per anni, accusando sette innocenti. Bò era a capo del gruppo “Falcone Borsellino”, Mattei era uno dei suoi più stretti collaboratori. Né l’uno, né l’altro sconteranno un solo giorno di carcere per quello che è stato definito il “più colossale depistaggio della storia d’Italia”: perché è caduta l’aggravante di mafia dal reato di calunnia contestato dalla procura e una condanna è ormai impossibile per il troppo tempo trascorso. Una beffa, l’ennesima di questa storia.
«Quanta amarezza», ripete l’avvocato Fabio Trizzino, il marito di Lucia, che in questo processo come parte civile insieme al collega Vincenzo Greco ha rilanciato la richiesta di verità e di giustizia della famiglia. Spiega: «La sentenza dice che il dottor Bò e l’ispettore Mattei hanno comunque commesso il depistaggio. Per noi l’aggravante di mafia c’era. Continueremo a cercarla la verità».
Ora, la sentenza sembra voler dire che i poliziotti non agirono per favorire la mafia, ma solo perché volevano una verità a tutti i costi. È l’altra tesi che da sempre è aleggiata nel processo quando si è parlato dell’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, ritenuto il principale regista dell’operazione Scarantino, è morto nel 2002. «Una tesi troppo riduttiva», rilanciano gli altri avvocati di parte civile, Rosalba Di Gregorio, Pino Scozzola e Beppe Dacquì, che rappresentano gli innocenti accusati da Scarantino.
«Quanta amarezza», continua a ripetere Fabio Trizzino, prima di risalire in auto e ritornare a Palermo. Il tribunale ha anche disposto di trasmettere alla procura le deposizioni di quattro poliziotti, ex colleghi di Bò e Mattei, che non avrebbero detto tutta la verità in aula: sotto accusa ci sono adesso Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi. L’aveva detto il pm Stefano Luciani nella requisitoria: «In questo processo, ci sono stati testimoni convocati dall’accusa che non hanno fatto onore alla divisa che indossano. Si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana». È stato il processo di tanti silenzi, di molte bugie e dei non ricordo. È stato il processo in cui la famiglia Borsellino ha chiesto per l’ennesima volta di sapere la verità. Che resta ancora lontana LA REPUBBLICA 


Processo depistaggio, un’assoluzione e due prescrizioni

 

Tra novanta giorni le motivazioni. La prescrizione salva i poliziotti che hanno commesso calunnia. Anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore

RAI SICILIA

La sentenza, che arriva a una settimana dal 30esimo anniversario, scontenta quasi tutti. Ed è l’ennesima occasione persa nella ricerca della verità sulla strage di Via D’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. Undici ore di camera di consiglio sono servite al tribunale di Caltanissetta per dire che il depistaggio delle indagini sull’attentato ci fu e che a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, oggi imputati. Ma la prescrizione, scattata per il venir meno dell’aggravante di mafia, li salva dalla condanna. Mentre esce assolto  per non aver commesso il fatto Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell’inchiesta sugli attentati del 1992. Secondo la Procura, rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e avrebbe coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo ai tre poliziotti la Procura aveva imputato l’aggravante di aver favorito Cosa nostra, oggi caduta. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha consentito dunque di arrivare a una verità sulla fase esecutiva dell’attentato.  E ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. Il processo di oggi nasce da qui. Un dibattimento durato quattro anni e cento udienze, fatto di decine di deposizioni e faldoni di migliaia di pagine. Un processo che ha riservato continui colpi di scena e ha fatto intravedere una regia e un piano preciso: inquinare le indagini. Un puzzle che è andato componendosi fino alla sentenza di oggi che, però, ancora una volta, non chiude il cerchio e non restituisce tutta la verità ai familiari delle vittime e all’Italia intera. Non commentano i figli del giudice Paolo Borsellino, Manfredi e Lucia, presenti alla lettura del dispositivo. Mentre è duro il loro legale, l’avvocato Fabio Trizzino.  “E’ una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni, ma che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta”, dice. Opposta la valutazione del legale di Mattei, l’avvocato Giuseppe Seminara che, riferendosi all’invio degli atti in Procura per calunnia per Scarantino, deciso dai giudici, sostiene: “Anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore”. 

 


Via D’Amelio, sentenza di primo grado sul depistaggio Assolti e prescritti i poliziotti che gestirono Scarantino 

 

Alla  sbarra Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I tre furono tra i componenti del gruppo guidato da Arnaldo La Barbera e accusati di avere inquinato l’attività investigativa

SIMONE OLIVELLI 12 LUGLIO  

Assolti e prescritti. È questo il verdetto di primo grado nel quinto processo sulla strage di via D’Amelio. La decisione arriva a una settimana esatta prima del trentennale dell’esplosione dell’ordigno che causò la morte di Paolo Borsellino e di Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Tutti componenti della scorta – l’unico sopravvissuto fu Antonino Vullo – che saltarono in aria per tutelare la vita del giudice palermitano, 57 giorni dopo l’altra strage che insanguinò il ’92, quella di Capaci con la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Agenti così come quelli che oggi hanno atteso il pronunciamento dei giudici: alla sbarra, infatti, in questo caso non c’erano mafiosi ma uomini delle istituzioni. Per la procura di Caltanissetta, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei avrebbero avuto un ruolo nel depistaggio delle indagini seguite alla strage. In particolari ai tre – tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra – è contestata l’attività compiuta come membri del gruppo Falcone e Borsellino, che, alla guida di Arnaldo La Barbera (deceduto a inizio anni Duemila), si occupò delle indagini. Dopo diverse ore di camera di consiglio, i giudici hanno pronunciato pochi minuti fa la sentenza: prescrizione per Mario Bo e Fabrizio Mattei, assolto, invece, Michele Ribaudo. Caduta per tutti l’aggravante mafiosa. Ad assistere al pronunciamento c’erano anche Lucia e Manfredi Borsellino, due dei tre figli Borsellino.

Quando si parla di attività investigativa legata a via D’Amelio, il primo nome che viene in mente è quello di Vincenzo Scarantino, il malvivente palermitano della Guadagna che per lungo periodo fu ritenuto l’autore della strage, nonostante il curriculum criminale avrebbe dovuto suggerire tutt’altro. Proprio il rapporto con Scarantino è finito nel mirino della procura: per i magistrati, gli imputati avrebbero indotto l’uomo ad accusare ingiustamente gli innocenti. La collaborazione con la giustizia di Scarantino sarebbe stata costruita ad hoc, al punto che il falso pentito avrebbe ricevuto anche suggerimenti neri su bianco per portare avanti una tesi che, soltanto a metà anni Duemila, sarebbe stata letteralmente smontata dalle parole di Gaspare Spatuzza, l’uomo che ha provato la propria partecipazione alla fase preparatoria della strage, aprendo uno squarcio inquietante anche sulla concreta possibilità che a lavorare per uccidere Borsellino siano state anche figure esterne a Cosa nostra.

Dal canto loro, i tre imputati – questa mattina per le controrepliche della difesa erano presenti soltanto Ribaudo e Mattei – si sono sempre detti estranei a qualsiasi macchinazione e raggiro, ribadendo di avere servito lo Stato. «I processi si fanno con le prove e in questo processo di prove non ce ne sono a carico degli imputati», ha detto stamani in aula il legale di Bo, Giuseppe Panepinto, pochi giorni fa impegnato in un altro processo importante, quello su Antonello Montante. Nei mesi scorsi l’accusa, nel corso della requisitoria, aveva chiesto di condannare Bo a undici anni e dieci mesi e una pena a nove anni e mezzo per Mattei e Ribaudo.


Depistaggio Borsellino, nessun colpevole: cade l’aggravante mafiosa della calunnia, prescritti due ex poliziotti del pool stragi. Assolto il terzo

 

Non c’è nessun colpevole per il depistaggio delle prime indagini sulla strage di via D’Amelio causato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Al termine del processo di primo grado, il Tribunale di Caltanissetta ha fatto cadere l’aggravante mafiosa nei confronti di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, i tre poliziotti accusati di calunnia per aver indotto il falso pentito a mettere a verbale bugie e ad accusare ingiustamente degli innocenti, che poi furono condannati all’ergastolo per la strage. Come risultato, i reati contestati a Bo e Mattei sono stati dichiarati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto. Bocciata, dunque, la tesi della procura di Caltanissetta, che parlava di “un depistaggio gigantesco” e “inaudito” che “ha coperto alleanze mafiose di alto livello” e aveva chiesto condanne a pene altissime.

La sentenza è arrivata dopo quasi dieci ore di camera di consiglio: la corte, presieduta da Francesco D’Arrigo, si era ritirata alle 10:45. Il processo durato è quasi 4 anni: è iniziato, infatti, il 5 novembre del 2018. Presenti due dei tre figli del giudice Borsellino: Manfredi e Lucia. Mentre non ci sarà Fiammetta Borsellino, la figlia minore del magistrato. Il marito di Lucia Borsellino, Fabio Trizzino, è uno dei legali della parte civile e rappresenta proprio la famiglia Borsellino. Tra gli imputati erano presenti solo Ribaudo e Mattei, mentre Bo ha deciso di non presentarsi. Questo è il quinto processo che si celebra su fatti relativi alla strage di via d’Amelio. Nella sesta puntata del podcast Mattanzavengono ricostruite tutte le fasi del depistaggio delle indagini.

Le richieste della procura – Al termine della requisitoria il nuovo capo della procura nissena, Salvatore De Luca, aveva chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Bo, e nove anni e mezzo per Ribaudo e Mattei. Gli imputati erano accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avete favorito la mafia. Secondo l’accusa, hanno costruito a tavolino una falsa verità sull’attentato costata la condanna a otto persone innocenti. I poliziotti, secondo i pm, hanno costretto, anche con la violenza, personaggi come Scarantino, piccolo spacciatore senza legami con la mafia, ad autoaccusarsi della strage e a incolpare persone estranee all’attentato. Per i tre imputati era stata chiesta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. “Hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende, avete ulteriori elementi che provano la sussistenza di questo elemento, la condotta che caratterizza l’illecito. Non è una condotta illecita di passaggio ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera”, ha detto il pm Stefano Luciani – che ha rappresentato la pubblica accusa insieme a Maurizio Bonaccorso – durante la requisitoria. Per l’accusa “è dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bosulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta”. E ancora: “C’era una fiduciarietà del rapporto tra i tre imputati e Arnaldo La Barbera, che rende concreta l’ipotesi che abbiano avuto la reale rappresentazione degli scopi sottesi delle condotte poste in essere”. All’epoca dei fatti La Barbera guidava la Squadra mobile di Palermo, prima di essere promosso al vertice di un gruppo speciale creato per indagare sulle stragi: si chiamava “gruppo Falcone Borsellino”. Secondo l’accusa è stato La Barbera, morto nel 2002 a causa di un tumore, il dominusdel depistaggio: i tre poliziotti imputati erano suoi uomini di fiducia. Per la Procura “ci sono elementi che dimostrano convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni ad essa”, ha aggiunto sempre Luciani nel suo atto d’accusa. Durante la requisitoria il pm ha parlato anche dell’agenda rossa del giudice Borsellino, che non venne più ritrovata dopo la strage: “Se sparizione c’è stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei”.

La difesa dei tre poliziotti – Di tutt’altro avviso la difesa dei tre imputati. Nel corso delle arringhe difensive gli avvocati avevano parlato di un “castello di menzogne” che sarebbe “crollato miseramente”, con “ricostruzioni romanzesche” e “accuse infamanti” e “illazioni” della Procura. Il tutto “senza alcuna prova. Zero”. “Menzogne” che hanno provocato “schizzi di fango” e “una gogna mediatica” per i tre imputati, nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio ma anche “sui magistrati” che indagarono subito dopo la morte di Borsellino. Ha usato queste parole l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del poliziotto Mario Bo, che ha elencato “le illazioni dell’accusa”. Il legale ha sottolineato che sì, che sulla strage di via D’Amelio c’è stato “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana“, come dice anche la Cassazione, “ma non ad opera dei tre poliziotti imputati o di magistrati e uomini dello Stato”, perché gli autori del depistaggio sarebbero stati, secondo la difesa, “tre balordi”, cioè i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Alla fine della sua arringa Panepinto si è appellato alla corte concludendo la sua arringa: “Il Tribunale non si piegherà alle pressioni mediatiche, ai libri, alle trasmissioni televisive e che farà una valutazione serena. Sulla base di quegli elementi, noi chiediamo una sentenza di assoluzione che restituisca agli imputati la dignità che meritano e ora si trovano in questa situazione, senza una valida motivazione”.


Depistaggio Borsellino, due poliziotti prescritti e uno assolto: “Salvati da ritardo dello Stato”

 

Due prescrizioni e un assoluzione. È quanto ha deciso il tribunale di Caltanissetta sulle accuse contestate a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti erano accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale morirono il giudice Paolo Borsellino e alcuni agenti della scorta. L’attentato di Cosa Nostra si inseriva in quella strategia stragista che solo due mesi prima aveva colpito e ammazzato il giudice Giovanni Falcone. La sentenza lascia scontenti quasi tutti e rappresenta l’ennesimo giro a vuoto nella ricerca della verità sull’attentato di trent’anni fa in via D’Amelio. Gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del 1992, erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Secondo l’accusa avevano costruito a tavolino, con la regia del loro capo deceduto Arnaldo La Barbera, una falsa verità sull’attentato costringendo Vincenzo Scarantino e gli altri due pentiti Salvatore Candura e Francesco Andriotta ad autoaccusarsi e ad accusare sette persone innocenti della strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il processo per il depistaggio è iniziato nel novembre 2018. Ha avuto quasi cento udienze. Stando all’accusa quella costruzione di falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. “I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la Procura durante la requisitoria. L’aggravante di aver favorito Cosa Nostra non ha retto al vaglio del tribunale che quindi ha dettato la prescrizione. Al termine della requisitoria il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca e i pubblici ministeri Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Fra le parti civili nel processo la famiglia Borsellino (assistita dall’avvocato Fabio Trizzino), l’avvocato Rosalba Di Gregorio a rappresentare Gaetano Murana, l’ex netturbino in carcere per 17 anni da innocente, l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale di Gaetano Scotto e l’avvocato Roberto Avellone in rappresentanza di alcuni familiari degli agenti di scorta. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato” secondo quanto si legge nel dispositivo di sentenza sul depistaggio. A presiedere il collegio era Francesco D’Arrigo. Il lavoro dei pm nisseni e le parole del pentito Gaspare Spatuzza avevano ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, e ha svelato quel depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. “Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”, le prime parole dell’avvocato Fabio Trizzino che ha rappresentato durante tutto il dibattimento i fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i primi due presenti in aula alla lettura del dispositivo di sentenza. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante, è una sentenza che va rispettata. Il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione che nasce da un ritardo dello Stato li salva perché sono fatti di 30 anni fa, ma l’elemento della calunnia resta. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”. Insoddisfatto dalla sentenza anche l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del funzionario di polizia Mario Bo, “perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati”. Il tribunale di Caltanissetta ha rinviato alla procura gli atti affinché valuti se procedere per il reato di calunnia nei confronti del falso pentito Vincenzo Scarantino. Tramessi anche gli atti in ordine alle dichiarazioni rese dai poliziotti Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi in quanto testimoni sospettati di falsità o reticenza. “Ritenere in questo processo – ha aggiunto l’avvocato Giuseppe Seminara, legale di Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo – che calunnia vi sia stata e nello stesso tempo assolvere Ribaudo significa che anche in questo processo Scarantino è stato ritenuto un calunniatore. Il fatto che sia stata dichiarata la prescrizione non significa affatto che noi siamo in presenza di elementi certamente univoci rispetto alla responsabilità di Bo e di Mattei. Dovremo analizzare le motivazioni della sentenza per comprendere qual è il percorso motivazionale. Certamente è stata esclusa l’aggravante. Quindi sotto questo aspetto per quanto riguarda l’agevolazione all’associazione criminale non c’è alcun dubbio secondo questa ricostruzione che anche i nostri assistiti sul punto devono essere ritenuti estranei. Sul resto aspetteremo la motivazione della sentenza e anche se ci fosse un solo pelo che possa turbare l’onore, il decoro delle loro posizioni professionali in 40 anni di attività, presenteremo appello e vedremo cosa ci sarà da fare“.

Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. Antonio Lamorte IL RIFORMISTA

 


Borsellino e i depistaggi: prescritte le accuse per due imputati, un assolto. I poliziotti erano accusati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia

 

Il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta.

Assolto il terzo imputato, Michele Ribaudo.

Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia. Il venire meno dell’aggravante ha determinato la prescrizione del reato di calunnia. 

Secondo la Procura, gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi del ’92, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, poi deceduto, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire e ad accusare della strage persone poi rivelatesi innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne costruito grazie ai falsi collaboratori di giustizia avrebbe aiutato, per i pm, i veri colpevoli a farla franca e coperto per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano.

E per questo ai tre poliziotti la Procura ha imputato l’aggravante di aver favorito Cosa nostra. Aggravante che, evidentemente non ha retto al vaglio del tribunale e ha determinato la prescrizione del reato contestato a due dei tre imputati. Il terzo è stato, invece, assolto nel merito con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”. Solo il lavoro dei pm nisseni e le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato dei clan rimasti fuori dalle indagini, e che ha scagionato gli imputati accusati ingiustamente, ha svelato un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica. Depistaggio che questa sentenza non esclude. Al dibattimento si sono costituiti parte civile i figli del giudice Borsellino, Fiammetta, Lucia e Manfredi, che da 30 anni chiedono di conoscere la verità sulla morte del padre; il fratello del magistrato, Salvatore Borsellino, i figli della sorella Rita Borsellino, i familiari degli agenti di scorta, oltre ai sette innocenti, scagionati dopo il processo di revisione: Gaetano Scotto, Gaetano Murana, Natale Gambino, Salvatore Profeta ANSA 


Depistaggio Borsellino: accuse prescritte per 2 poliziotti, assolto il terzo

 

ADNKRONOS Cade l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino. Prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei mentre Michele Ribaudo è stato assolto. E’ arrivata dopo quasi dieci ore la sentenza del processo. La prescrizione salva dunque due dei tre poliziotti per i quali l’accusa aveva chiesto pene altissime.

Il poliziotto Michele Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”, si legge nel dispositivo della sentenza.

“Aspetteremo di leggere le motivazioni per capire eventualmente quali sono gli aspetti che potranno costituire motivi d’appello”. Così l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale di parte civile dei fratelli Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. “Il Tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie all’aggravante – ha detto- è una sentenza che va rispettata. Il dato che vorrei evidenziare è che il dottore Bo e l’ispettore Mattei hanno commesso la calunnia. La prescrizione li salva perché i fatti sono risalenti a quasi trent’anni fa, l’elemento della calunnia rimane”. Una sentenza “che non ci soddisfa”, ha concluso.

“Questa è una sentenza che raccordandosi col verdetto del Borsellino quater ci consente di individuare Bo e Mattei come concorrenti nel reato di calunnia. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”, ha affermato ancora Trizzino.

“Evidentemente non c’erano gli elementi per assolverli… Diciamo che dopo 30 anni, nonostante il depistaggio, un altro pezzetto di verità viene fuori. Certo, l’effetto dirompente non ci sarà ma i poliziotti Bo e Mattei non potranno dire che non c’entrano con il reato”, ha affermato all’Adnkronos l’avvocata Rosalba Digregorio, legale di parte civile del processo depistaggio sulla strage di via D’Amelio, dopo la sentenza. Digregorio è la legale di Gaetano Murana che venne condannato ingiustamente all’ergastolo per la strage.

“Prescritto vuol dire che non ci sono elementi sufficienti per dichiarare l’assoluzione ma non vuol dire che ci siano altrettanti elementi di certezza per la colpevolezza, il dato essenziale è che ci sia la prescrizione”. Lo ha detto l’avvocato Giuseppe Panepinto, legale del poliziotto Mario Bo, dopo la sentenza emessa questa sera a Caltanissetta. “E’ una sentenza che non ci soddisfa perché riteniamo che i nostri assistiti sono completamente estranei ai fatti contestati. Leggeremo le motivazioni e capiremo il da farsi”, ha aggiunto Panepinto.


Depistaggio Borsellino, i figli da 30 anni aspettano la verità

 

(dall’inviata Elvira Terranova)- Per anni sono rimasti in silenzio. Hanno preferito stare un passo indietro. Prima Agnese Piraino Leto, la vedova di Paolo Borsellino, poi anche i figli, Lucia, la maggiore, Manfredi e Fiammetta. Cinque anni fa la svolta. Fiammetta diventa una sorta di ‘portavoce’ della famiglia Borsellino. Da quel momento in poi, dal 25esimo anniversario, decidono di fare sentire la propria voce. E da allora Fiammetta Borsellino chiede giustizia. E verità. Lo ha fatto anche pochissimi giorni fa, quando durante la presentazione del libro ‘Per amore della verità’, scritto con Piero Melati, ha usato parole dure. “Ci sono uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio. Oggi questa verità è negata non solo alla mia famiglia ma tutto il popolo italiano, il primo a essere stato offeso”, ha denunciato.

“A casa mia – ha detto – da quando è morto mio padre, è entrato chiunque. Ma se all’inizio questa presenza continua era giustificata come forma di attenzione, alla luce di tradimenti e depistaggi, ci ha fatto capire che c’era una forma di controllo, una necessità di una sorta di stordimento. Davanti a una finta attenzione non c’è stato un giusto percorso di verità per noi l’unico modo di fare memoria era attivare un giusto percorro di verità. Invece abbiamo avuto solo tradimenti verità distorte”. Oggi Fiammetta non ci sarà alla lettura del dispositivo. E’ fuori Palermo. Con la sua famiglia. Ci saranno, invece, Manfredi e Lucia Borsellino.

Nei giorni scorsi, Fiammetta Borsellino, ha ribadito: “Diserteremo tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio. Il fatto che oggi qui non ci sia un solo magistrato o un poliziotto o un referente qualsiasi delle istituzioni è molto significativo. Saranno tutti presenti il 19 luglio e ai concerti al Teatro Massimo…”.

Ha criticato apertamente, per la prima volta, anche l’ex magistrato Ilda Boccassini: “Lei non sapeva dire di no alle pressioni di Arnaldo La Barbera. Poi per mettersi il ferro dietro la porta ha scritto una letterina al Procuratore Tinebra. Io dico che se la Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo. La Boccassini è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino a Pianosa e poi si è saputo che servivano a fare dire il falso a Scarantino con torture e minacce – dice – Ilda Boccassini chiede si colleghi di applicare le norme del Codice perché si rende conto di ciò che fanno, una cosa così grave non la puoi scrivere in una letterina. E darla a un procuratore che poi la mette in un cassetto e la lascia lì. Per me la denuncia è un’altra cosa. La si fa pubblicamente. Come mi ha insegnato mio padre. Io l’ho letto come un mettersi il ferro dietro la porta. Questa non è una denuncia o stoppare un percorso deviato”.

“Abbiamo avuto – ha proseguito ancora Fiammetta Borsellino – magistrati che non hanno fatto le verbalizzazioni dei sopralluoghi nei garage dove Scarantino diceva di avere rubato la macchina. Se fosse stato fatto un verbale ci si sarebbe resi subito conto della inattendibilità di Scarantino che non sapeva neppure come si apriva il garage, se non avessero delegato segmenti di indagine ai servizi segreti, se avessero esercitato quel controllo previsto dalla legge sugli organi investigativi il depistaggio non ci sarebbe stato. Tutto questo non può avvenire sotto gli occhi di chi invece deve controllare e coordinare, cioè i magistrati”, aggiunge. “Se un medico avesse sbagliato una operazione di questo tipo sarebbe stato messo subito alle sbarre, qui invece non si è avviata nessuna indagine, né sul piano disciplinare o penale. E quel poco che si era fatto è stato subito archiviato. C’era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la procura di Palermo ‘Quel nido di vipere'”. Quindi la conclusione: “Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito”.

Nel 2017 anche l’altra figlia, Lucia Borsellino, che oggi vive a Roma, prese la parola. Lo fece davanti al Csm, per chiedere ancora giustizia e verità. “Chiedo in questa solenne occasione che a fronte delle anomalie emerse nel comportamento di uomini delle istituzioni si intraprendano le iniziative per far luce e chiarezza su cosa è accaduto”. Era stato questo l’appello della figlia di Paolo Borsellino, Lucia, rivolto nel corso del plenum del Csm presieduto dal Capo dello Stato. “A 25 anni giustizia non è fatta”, aveva detto tra l’altro. “Mai come adesso è necessario non indulgere nella retorica del ricordo“, disse ancora Lucia Borsellino, visibilmente emozionata. “Il tema della legalità è attuale, ma lo è soprattutto la credibilità delle istituzioni. Gli uomini che le incardinano devono chiedere a se stessi rigore morale” ed è “fondamentale che la responsabilità vada condivisa sempre per evitare l’isolamento e la delega a singole personalità” . “La storia di mia padre è esemplare e noi familiari abbiamo cercato di in questi anni di vivere la dimensione privata del ricordo e del dolore nella convinzione che le istituzioni si impegnassero nella ricerca della verità”. Verità che invece “non è stata trovata e a 25 anni di distanza giustizia non è stata fatta”. In particolare l’esito del Borsellino quater con le anomalie emerse “ci ha profondamente scosso, aggiungendo sofferenza e interrogativi”. Di qui l’appello a che si faccia luce su quello che è avvenuto: “si chieda conto dei comportamenti anomali” ; “prima ancora che con la legge bisogna fare i conti con la propria coscienza”, ha detto ancora la figlia di Borsellino, ribadendo la “fiducia massima” sua e dei suoi familiari nelle istituzioni. Oggi i figli di Paolo Borsellino conosceranno un altro pezzo di verità.


Borsellino:legale figli, sentenza dice che depistaggio ci fu

 

 “E’ una sentenza rispetto alla quale è decisivo leggere le motivazioni per capire quali sono gli aspetti che potranno costituire i motivi di appello. Il tribunale non ha accolto la nostra ricostruzione specie rispetto all’aggravante. E’ una sentenza che va rispettata il dato che evidenzio è che Bo e Mattei hanno commesso la calunnia, quindi la prescrizione li salva perchè sono fatti di 30 anni fa, l’elemento della calunnia resta”. Lo ha detto l’avvocato Fabio Trizzino, dopo la sentenza del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio. Trizzino difendeva i figli del giudice ucciso il 19 luglio del 1992.   “E’ una sentenza che raccordandosi col verdetto del Borsellino quater ci consente di individuare Bo e Mattei come concorrenti nel reato di calunnia. Il fatto che lo Stato ha esercitato in ritardo la potestà punitiva li ha posti al riparo, però è.una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è”.  ANSA


 Depistaggio, quattordici processi in 30 anni ma la verità è lontana

 

(Adnkronos) – (dall’inviata Elvira Terranova) – Cinque processi in trent’anni, che diventano quattordici se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Oltre trenta giudici si sono espressi su quanto accaduto alle 16.58 del 19 luglio del 1992 in via D’Amelio. Sono state emesse condanne, anche all’ergastolo, assoluzioni, e pure une revisione per delle condanne a vita a innocenti che nulla c’entravano con la strage in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Una stori lunga, langhissima. Il primo processo, il cosiddetto ‘Borsellino Uno’, ha preso il via derivato dalle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. A presiedere la Corte d’assise di Caltanissetta era il giudice Renato Di Natale. Il 26 gennaio 1996 fu emessa la sentenza con la condannato all’ergastolo per Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto e a 18 anni di reclusione per il collaboratore Vincenzo Scarantino, come richiesta della Procura.  In secondo grado, la Corte d’appello, presieduta da Giovanni Marletta, aveva confermato l’ergastolo solo per Profeta, invece Orofino venne condannato per favoreggiamento a nove anni e Scotto fuo assolto. Nel frattempo Vincenzo Scarantino, l’ex picciotto della Guadagna, aveva già ritrattato le sue accuse. La corte d’assise presieduta da Pietro Falcone, il 13 febbraio 1999, ha emesso la condanna a sette ergastoli (Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto) e altre dieci condanne per associazione mafiosa.  Passa qualche anno e inizia il processo ‘Borsellino bis’. Il 18 marzo 2002 la corte d’appello, presieduta da Francesco Caruso, ha modificato la sentenza, aumentando gli ergastoli così da portarli a tredici (Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso). Dopo la clamorosa ritrattazione, Scarantino ha deciso di tornare sui propri passi. E in parte venne creduto dai giudici. E’ la sentenza che venne poi travolta dalla revisione. Nel frattempo, la Procura generale aveva portato in tribunale anche un nuovo collaboratore di giustizia, Calogero Pulci. La sentenza del 18 marzo 2002 aveva restituito piena credibilità all’intero racconto del ‘picciotto’ della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni.   Il 9 dicembre 1999 si concluse il processo Borsellino Ter in primo grado. Il collegio presieduto da Carmelo Zuccaro, l’attuale Procuratore capo di Catania, aveva inflitto 17 ergastoli e 175 anni di reclusione, dieci le assoluzioni. Condanne a vita per Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico e Stefano Ganci. Ventisei anni per il pentito Salvatore Cancemi, 23 per Giovanbattista Ferrante, 16 a Giovanni Brusca.  In appello, per Cancemi e Ferrante era arrivato uno sconto di pena: la corte presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo gli aveva riconosciuto l’attenuante prevista per i collaboratori di giustizia. Ma dei 22 ergastoli chiesti dalla procura generale, ne furono decretati solo 1.. Non confermati quelli inflitti in primo grado per Stefano Ganci (condannato a 30 anni), per Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Nino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi, condannati a 20 anni. La sentenza della Suprema Corte, di annullamento con rinvio di alcune posizioni, ha determinato un nuovo processo d’appello, a Catania.  Nel frattempo irrompe sulla scena un nuovo collaboratore di giustizia. Il suo nome è Gaspare Spatuzza. Inizia a raccontare particolari sulla strage di via D’Amelio e a dire, con forza, che Vincenzo Scarantino ha detto solo fandonie. Perché non poteva sapere nulla di quella strage. Inizia dunque una nuova fase di indagini per la Procura nissena. La Procura di Caltanissetta, diretta da Sergio Lari, ha chiesto, dunque, l’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare, riguardanti il capomafia pluriergastolano Salvino Madonia perché accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista, ma anche i boss Vittorio Tutino e Salvatore Vitale. Il primo rubò con Spatuzza la 126 per la strage; il secondo abitava nel palazzo della madre di Borsellino, in via d’Amelio, e avrebbe fatto da talpa. Un quarto provvedimento ha riguardato il pentito Calogero Pulci, l’unico in libertà. Per lui l’accusa era di calunnia aggravata, perché con le sue dichiarazioni avrebbe finito per fare da riscontro al falso pentito Vincenzo Scarantino.  Vengono passate al setaccio le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Che racconta tanti dettagli, tutti veritieri. I magistrati e gli investigatori della Dia di Caltanissetta iniziano a conoscere i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Ma resta un mistero: chi era l’uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo? Spatuzza ha sempre detto di non conoscerlo. Forse appartiene, pensano i magistrati, ai servizi segreti. A confermare le parole di Spatuzza sugli esecutori della strage di via d’Amelio è la confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992.   Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni. A mettere una pietra tombale sui processi sulla strage di via D’Amelio è la Corte di Cassazione, che nel processo Borsellino quater scrive: “La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il ‘maxiprocesso’, potendo le emergenze probatorie relative a quelle ‘zone d’ombra’ – in parte già acquisite in altri processi, in parte disvelate dal presente processo – indurre, al più, a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”.  La Cassazione ha così confermato le condanne all’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannando per calunnia i falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta (per quest’ultimo con un lieve sconto di pena di 4 mesi) confermando la sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel novembre 2019. Per i giudici della quinta sezione penale della Cassazione i “nuovi scenari” che le vicende oggetto del processo “trattativa Stato- mafia” avrebbero disvelato, non incidono in maniera sostanziale sul processo. Gli ermellini infatti hanno sottolineato la “sostanziale neutralità” ai fini dell’accertamento oggetto del presente processo nella ricostruzione della sentenza impugnata (e della conforme sentenza di primo grado). E oggi arriva un altro giudizio, il quattordicesimo. Sul “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. In attesa di capire quanto accadde quel pomeriggio del 19 luglio di 30 anni fa.  


 Dopo trent’anni quattro processi, tre appelli e tre sentenze di Cassazione non è stata restituita completa e convincente verità e giustizia alle vittime e ai loro familiari.  

 

L’ultima sentenza, al contrario, ha clamorosamente certificato che l’inquinamento delle indagini su Via D’Amelio è avvenuto attraverso “Uno dei più grandi depistaggi della storia italiana”. L’udienza preliminare del 5 novembre 2018  relativa al processo depistaggio, rappresentò il primo passo di un ennesimo percorso destinato a durare ancora a lungo. Parallelamente, vennero avviati anche i lavori della Commissione Speciale Antimafia della Regione Sicilia e della Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura. Commissioni che furono entrambe istituite su richiesta di Fiammetta Borsellino nel tentativo di ottenere nuovi e decisivi “pezzi di verità”. 
TRE i POLIZIOTTI. Perchè? Per conto di chi? Chi ne era a conoscenza? Quali le eventuali coperture che hanno consentito un mistero che dura da ben  27 anni? Sono solo alcune delle domande che attendono un credibile risposta da oltre un quarto di secolo.
 Due dei tre poliziotti indagati, che rischiano una condanna dai 15 ai 30 anni,  intervistati dal  quotidiano  La Stampa, dichiararono  l’assenza di verità nascoste. Le conclusioni del processo, c’è da augurarselo, potrà  fornire in proposito risposte convincenti anche se non definitive.


RASSEGNA STAMPA


La famiglia Borsellino: “Diritto alla verità”. Il 12 luglio Camera consiglio

 

(dall’inviata Elvira Terranova) – Non risparmia attacchi ai magistrati Antonino Di Matteo, oggi consigliere al Csm, e ad Annamaria Palma, oggi Avvocato generale di Palermo … SEGUE


28.6.2022 Borsellino, processo depistaggio: il 12 luglio i giudici in camera di consiglio

Il 12 luglio i giudici del processo sul depistaggio sulla strage Borsellino si ritireranno in camera di consiglio per emettere la sentenza. Lo ha annunciato a fine udienza il presidente Francesco D’Arrigo. SEGUE


28.6.2022 (Adnkronos) “BORSELLINO: LEGALE FAMIGLIA, ‘PM DI MATTEO E PALMA HANNO DIFESO PERVICACEMENTE  DEPISTAGGIO’

 

“La corte d’assise del processo Borsellino Ter, quando parla del collaboratore Vincenzo Scarantino è tranciante e dice che “è da prendere e buttare”. Ora io mi chiedo: i pm a cui queste parole vengono rivolte sono i pm Annamaria Palma e Antonino Di Matteo, gli stessi pm del Borsellino bis. SEGUE


9.6.2022 Il legale degli agenti: “Chiedere la condanna è inaccettabile” “Questi imputati hanno un passato, hanno una dignità, sono poliziotti, hanno una loro storia che comprende tantissime azioni svolte per contrastare la criminalità organizzata. Michele Ribaudo era un agente. Noi stiamo parlando di un soggetto che nella scala gerarchica della polizia è l’ultimo gradino assoluto e un altro soggetto che stava un gradino appena sopra, un vicesovrintendente, cioè Fabrizio Mattei. Chiederne la condanna è una cosa inaccettabile”. SEGUE


6.5.2022 Depistaggio Borsellino:   Difesa BO: “Scarantino calunniatore”, a luglio la sentenza  Il falso pentito Vincenzo Scarantino è “un calunniatore” che “non è mai stato indottrinato” né “dai poliziotti né dai magistrati”. E’ ancora l’ex pentito, che aveva   SEGUE


1.6.2022 –  Difesa BO – A depistare furono tre falsi pentiti. Poliziotti innocenti“ PROCESSO DEPISTAGGIO”  – Udienza 1 giugno 2022  Dall’intervento dell’avvocato Giuseppe Panepinto difensore di Mario Bo, imputato insieme a Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo 

  • Sulla strage di via D’Amelio c’è stato “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”, come dice anche la Cassazione, “ma non ad opera dei tre poliziotti imputati o di magistrati e uomini dello Stato”, perché gli autori del depistaggio sarebbero stati, secondo la difesa, “tre balordi”, cioè i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta.
  • Qui tutti i testimoni dell’accusa sono inattendibili e inaffidabili
  • Un “castello di menzogne”, “crollato miseramente”, con “ricostruzioni romanzesche” e “accuse infamanti” e “illazioni” della Procura. Il tutto “senza alcuna prova. Zero”. “Menzogne” che hanno provocato “schizzi di fango” e “una gogna mediatica” per i tre imputati, nel processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio ma anche “sui magistrati” che indagarono subito dopo la morte di Paolo Borsellino.
  • Scarantino è sicuramente un sempliciotto, per essere generosi. Scarantino non fu indottrinato ma fece le sue dichiarazioni sulla base di notizie giornalistiche, informazioni che sentiva negli ambienti carcerari.

30.5.2022 Borsellino, processo per il depistaggio contro tre poliziotti.  Il pm: “Sono passati 30 anni, se c’è stato altro ditelo”  Il processo a coloro che sono ritenuti tra gli autori SEGUE


30.5.2022 – Depistaggio Borsellino, poliziotto imputato: “Sempre fatto il mio dovere”  “Sono assolutamente estraneo ai fatti che mi vengono contestati in questo processo, che già mi ha procurato non pochi danni fisici e morali. La mia unica responsabilità… SEGUE


27.4.2022 – Via D’Amelio, l’accusa dei pm:   “Sulla strage il depistaggio dei poliziotti”.  Fiammetta Borsellino: “Omertà di Stato”  «Vincenzo Scarantino subì un pressing asfissiante — ripete il pubblico ministero Stefano Luciani — venne anche torturato nel carcere di Pianosa. SEGUE


26.4.2022 Depistaggio Borsellino, l’atto d’accusa dei pm:  “Alcuni poliziotti hanno mentito in aula, Scarantino subì torture in carcere”  Nell’aula bunker di Caltanissetta, l’inizio della requisitoria nel processo in cui sono imputati tre poliziotti. “Il più grande depistaggio della storia d’Italia”  “In questo processo, ci sono stati testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossano ... SEGUE