Paolo Borsellino trent’anni dopo, una strage ancora senza verità

 

Nel pomeriggio del 19 luglio del 1992 veniva ucciso in un attentato in via D’Amelio il giudice che lavorava con Falcone. Non erano passati due mesi dalla strage di Capaci. Ci sono ancora misteri sui veri mandanti dell’attentato a partire dall’agenda rossa di Borsellino, mai ritrovata
 

Era una domenica il 19 luglio del 1992, il giorno in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo. Al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta, arrivata con Borsellino in via D’Amelio, a Palermo, dove il giudice era andato a trovare la madre. Erano passati meno di mesi dall’attentato a Giovanni Falcone a Capaci. Paolo Borsellino sapeva di essere l’obiettivo successivo, ancora più chiaramente di quanto sapeva già dagli anni Ottanta di essere nel mirino della mafia.

Se della strage di Capaci si conoscono dinamica e mandanti, su quella di via D’Amelio restano molti misteri dovuti anche a depistaggi,, finiti a processo.

Il giorno della strage

La strage di via D’Amelio è avvenuta domenica 19 luglio del 1992. Chi posizionò il tritolo nell’auto che saltò in aria con un comando a distanza sapeva che la domenica era il giorno in cui il magistrato andava a trovare la madre, che abitava in via Mariano D’Amelio a Palermo, strada considerata pericolosa dalle scorte, ma per cui non era mai arrivata l’autorizzazione al divieto di parcheggio. Di solito nel pomeriggio. E nel pomeriggio ci fu la strage.

L’esplosione

Erano le 16 e 58 quando una Fiat 126 rubata saltò in aria. Conteneva circa 90 chilogrammi di esplosivo del tipo Semtex-H, PETN, tritolo e T4 insieme. Il comando fu azionato a distanza non appena Borsellino e gli agenti della scorta scesero dalle auto.

Così l’ha raccontata l’agente sopravvissuto Antonino Vullo: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…».

Le vittime

Antonino Vullo si risvegliò in ospedale, in condizioni molto gravi, ma vivo. Non così il magistrato e altri cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi che stata la prima donna a far parte di una scorta e la prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio.

La strada

Era una scena di guerra quella che si presentò ai primi soccorritori. C’erano decine di auto distrutte dalle fiamme, gente che urlava e palazzi semidistrutti. Era esplosa una bomba, come in un conflitto. La scena della strage non fu subito protetta e delimitata. Scomparve l’agenda rossa di Paolo Borsellino e ancora è uno dei misteri aperti su una strage ha poche verità.

L’agenda rossa

Dall’agenda rossa Borsellino non si staccava mai, secondo il racconto di amici e parenti, in particolare nelle settimane prima della sua morte. L’agenda non era nella borsa del magistrato sul luogo dell’esplosione, mentre era invece intatta l’altra agenda che usava, e non è stata più trovata. Nella borsa restituita alla famiglia c’era tutto tranne quell’agenda rossa.

Questo ha raccontato la più grande dei figli di Borsellino, Lucia: «Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, l’agenda rossa da cui non si separava mai». Questo ha aggiunto il fratello Manfredi: «Dopo la morte di Giovanni Falcone la usava continuamente. E non per appuntare fatti personali. Era certamente un modo per segnare eventi e cose di lavoro importanti. Se non fosse andata persa, le indagini sulla sua morte avrebbero certamente preso un’altra direzione».

Processi e depistaggi

Paolo Borsellino lo aveva detto prima di morire: «Mi uccideranno, forse saranno mafiosi a farlo materialmente ma altri avranno voluto la mia morte». Sono passati trent’anni e decine di udienze di processi senza arrivare a una verità in quello che è stato definito il più grave depistaggio della storia repubblicana. Ci sono stati il Borsellino uno nel 1994, bis, ter, quater e un giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.

Sono rimasti aperti molti interrogativi, non tanto sul ruolo della mafia nell’esecuzione della strage, ma sulle responsabilità al di fuori di Cosa nostra, sulla sorte dell’agenda rossa, sugli autori del depistaggio delle indagini. Meno di una settimana fa sono state dichiarate prescritte le accuse rivolte a due dei poliziotti, accusati di avere inquinato le indagini sulla strage, e assolto un terzo agente.

Nel primo processo sono stati condannati gli esecutori materiali della strage. Vincenzo Scarantino, contrabbandiere che si era autoaccusato, il boss Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino, proprietario dell’officina in cui venne imbottita di tritolo la 126 usata come autobomba, e Pietro Scotto. Ergastolo per Profeta, 9 anni per Orfino, 18 per Scarantino e assoluzione per Scotto le condanne definitive.

Il processo bis si è concluso il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli per i vertici di Cosa Nostra: Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto, Francesco Tagliavia, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana. Le parole del pentito Gaspare Spatuzza ha portato alla sospensione delle pene per Profeta, Scotto, Vernengo, Gambino, La Mattina, Urso e Murana, ingiustamente accusati. Le loro condanne sono state annullate.

Nel Borsellino ter, del 2006, sono stati condannati a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, i due Salvatore Biondo, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Nitto Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due collaboratori di giustizia Antonino Giuffrè e Stefano Ganci sono stati condannati a 20 e 26 anni di reclusione. Sono stati condannati tre pentiti: Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca e Giovanbattista Ferrante.

Il Borsellino quater, terminato nel 2021, ha visto le condanne all’ergastolo per strage dei due capimafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i tre falsi pentiti Calogero Pulci, 10 anni, Francesco Andriotta, 9 anni e 6 mesi, e Vincenzo Scarantino, accuse in prescrizione.

Nell’ultimo processo, quello sul depistaggio, l’accusa era di calunnia, aggravata dall’aver favorito la mafia. Erano sotto processo gli uomini che indagarono: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Il terzo è stato assolto, è caduta l’aggravante ed è stata prescritta la calunnia per i primi due. I colpevoli, al di là della mafia, non sono mai stati identificati.

Altre storie di Vanity Fair che ti possono interessare:

Stragi di mafia: «Noi condannati a sopravvivere»

L’autista di Falcone: «Io, sopravvissuto ma dimenticato dallo Stato»