Rocco Chinnici – un uomo che andava contro corrente. Di Paolo Borsellino

Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo.
Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei “pentiti”.
Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 (è questo l’anno di ben tre dei quattro scritti pubblicati) di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali.
Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza.
Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la “religione del lavoro”.
Egli era divenuto, alla fine degli anni ‘70, dirigente dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. E proprio in quegli anni divampò la così detta “guerra di mafia” e si verificarono, non i primi, ma sicuramente i più clamorosi delitti eccellenti.
A capo della struttura giudiziaria più esposta d’Italia, si prefisse di potenziarla opportunamente e renderla efficace strumento di quelle indagini nei confronti della criminalità organizzata, troppo a lungo trascurate in precedenza.
Uno per uno ci scelse: noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il così detto “pool antimafia”. Ci prospettò lucidamente le difficoltà ed i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: ché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla “palude” al nostro lavoro.
Credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i “suoi” giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di una idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno, pur avendo una personalità completamente diversa dall’altro, ma animato da eguale tensione morale e spirito di sacrificio.
Un sereno spirito di sacrificio animò sempre la vita di Rocco Chinnici, il quale non cessò mai di essere consapevole, molto più di quanto sia ragionevole credere, dell’altissimo rischio personale connesso alla sua attività. Egli “sapeva” che la stessa sua vita era un pericolo per le organizzazioni mafiose ed i loro fiancheggiatori e quindi ben presagiva la sua fine. Sapeva che con la sua uccisione si sarebbe tentato di spazzar via le conoscenze e la sua volontà di riscatto e lucidamente non si stancò mai di trasmettere le une ed infondere l’altra sia ai suoi più stretti collaboratori sia a chiunque con cui potesse venire in contatto. E ciò faceva quasi affannosamente, pressato dall’urgenza dei tempi, poiché sentiva montare attorno a lui la minaccia che già aveva prodotto i suoi tragici effetti con Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, le cui uccisioni lo avevano profondamente addolorato ma non impaurito né demotivato.
Chi gli visse accanto in quell’ultimo tragico anno della sua esistenza sa con quale impegno ed abnegazione, giorno e notte, con orari impossibili, continuò a lavorare nell’istruzione di quel procedimento, allora detto “dei 162”, che costituì l’embrione iniziale del primo maxiprocesso alle cosche mafiose, oggi giunto alla sua seconda verifica dibattimentale.
Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebbene talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare su di essi chiarezza, individuandone le cause e gli autori. Sforzo giudiziario reso necessario dalla inerzia investigativa del precedente decennio, la quale aveva creato un vuoto che lui ed i suoi giudici erano chiamati a colmare.
Questa fu poi la ragione ispiratrice del maxiprocesso: non astratto modello di indagine giudiziaria, non scelta fra diverse metodologie istruttorie, ma via obbligata da perseguire in quel determinato momento storico, nel quale mancava del tutto una risposta giudiziaria che costituisse punto di riferimento certo per le successive attività investigative.
Ma gli erano chiari altresì i limiti invalicabili della risposta giudiziaria alla mafia. Profondamente giudice, ben sapeva che suo compito istituzionale era esclusivamente quello di accertare l’esistenza di reati ed individuarne i colpevoli. Attività non idonea a debellare le radici socio-economiche e culturali della mafia, così profondamente inserita nella realtà del paese da trovare la forza di riprendersi, con accentuata ferocia, dopo ogni “successo” giudiziario nei suoi confronti.
Per questo non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sdradicamento.
Sono questi concetti che oggi sentiamo continuamente ripetere nei convegni e nelle tavole rotonde e leggiamo frequentemente sulle colonne dei giornali. Ma all’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto della esistenza stessa della mafia, spesso definita, ed anche in sede autorevole, “volgare delinquenza” ed è merito di pochi, e di Chinnici in prima linea, l’averne intuito la profonda essenza e pericolosità.
Analogamente dicasi per la diffusione delle droghe e della tossicodipendenza.
Forse in questa legislatura si giungerà finalmente alla modifica delle ormai inadeguate norme della legge del 1975 (aspramente criticata da Chinnici nella conferenza al Rotary Club del 29 luglio 1981), che se non ha favorito ha sicuramente consentito l’espandersi a dismisura del consumo delle sostanze stupefacenti.
Quasi dieci anni fa, in periodo di sostanziale sottovalutazione, se non di indifferenza al fenomeno, Chinnici, ben consapevole di andare contro corrente, intuì la pericolosità di una legge permissiva ed il decisivo valore della prevenzione, assumendosene in prima persona il carico. Innumerevoli furono i suoi interventi in tutte le scuole cittadine, i suoi incontri con professori e studenti, i più esposti alla diffusione del flagello, presiedendo dibattiti, partecipando a tavole rotonde, rispondendo a tutte le domande che gli venivano rivolte, sempre, come sua abitudine, citando dati a casi concreti appresi durante la sua lunghissima esperienza giudiziaria nella materia.
“Dove trova il tempo?” ci domandavamo talvolta i suoi collaboratori, che ben sapevamo come questa attività non scalfiva affatto le sue capacità di smaltire velocemente e proficuamente enormi quantità di lavoro giudiziario.
Lo trovava, lo inventava, con la sua radicata e vorrei dire religiosa convinzione che anche quello era suo indefettibile compito di cittadino; che una lunga e defatigante istruttoria su un omicidio di mafia o su un traffico internazionale di stupefacenti non avrebbe avuto senso compiuto se insieme egli non avesse profuso tra i giovani, che con la sua attività giudiziaria cercava di difendere, anche quei frutti della sua esperienza e della sua cultura che, se ben recepiti, li avrebbero messi in grado di difendersi da se stessi.
E questa lezione ai giovani è quella che ha dato più frutti. Il suo risultato è sicuramente il più stabile punto di non-ritorno dell’azione antimafia di Rocco Chinnici, proseguita poi tra mille difficoltà da Antonino Caponnetto e da molti altri, primo tra tutti Giovanni Falcone, non a caso anche lui vittima designata, e fortunatamente scampata, di analogo attentato.
Al di là dei sempre incerti esiti giudiziari delle grandi inchieste di mafia, la loro stessa celebrazione e la diffusione dei loro principi ispiratori hanno prodotto nei giovani una nuova coscienza, impensabile nelle precedenti generazioni, che rifiuta la mafia e la tentazione di convivere con essa.
Già nel luglio 1983, in una lettera al Presidente della Repubblica, pubblicata nell’appendice di questo libro, giovani studenti palermitani manifestavano fermamente il loro desiderio di liberazione ed invocavano l’intervento globale dello Stato.
Appena due anni dopo altri giovani studenti, tutti studenti palermitani, colpiti nelle loro carni dalla terribile tragedia di via Libertà, della quale chi scrive fu involontario protagonista, dimostravano, e lo dimostrano ancora, il livello della loro profonda e sofferta maturazione, non cedendo a comprensibile rabbiosa reazione ma invocando l’instaurarsi delle condizioni di una vita onesta, ordinata, civile.
Questi giovani sono gli eredi spirituali di Rocco Chinnici, che tanto amò i suoi figli ed i loro coetanei. Sono i possessori di un lascito duraturo. Ad essi si riferisce il cardinale Pappalardo nella sua omelia funebre del 30 luglio 1983: “Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli”.