‘ndrangheta stragista

PROCESSO D’APPELLO 

 


12.9.2022 – ‘Ndrangheta stragista: il Pm annuncia in appello nuovi verbali

Si arricchisce di ulteriori elementi probatori la tesi dell’accusa nel processo denominato “‘Ndrangheta stragista”, dove sono imputati in appello il boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano e il capobastone di Melicucco (Reggio Calabria), Rocco Santo Filippone, condannati in primo grado all’ergastolo per essere stati i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Vincenzo Fava e Antonino Garofalo, assassinati a colpi di fucile mitragliatore il 18 gennaio del 1994 nei pressi dello svincolo autostradale di Scilla, durante un servizio di controllo. Il Procuratore aggiunto della direzione distrettuale di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, ha infatti reso noto oggi in aula dei nuovi atti, tre verbali raccolti dalla Dda di Catanzaro dei collaboratori Gerardo d’Urzo (deceduto), Marcello Fondacaro, di Gioia Tauro, e Girolamo Bruzzese. Nei documenti sarebbero citati uomini politici degli anni ’90 che, secondo la valutazione dell’accusa, “meritano la massima attenzione”. Secondo quanto si e’ appreso, i nuovi elementi di accusa saranno portati al vaglio, il prossimo 15 settembre, del Procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, e saranno oggetto di valutazione nel corso di una specifica riunione alla presenza dei pubblici ministeri dei Tribunali di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo. Il processo ‘Ndrangheta stragista proseguira’ il prossimo 3 ottobre davanti ai giudici di Appello.

Video LETTURA della SENTENZA

PM LOMBARDO: “Sentenza storica” – video   – audio


 

«QUANDO ’NDRANGHETA E COSA NOSTRA DICEVANO: “ABBIAMO IL PAESE NELLE MANI”»

 “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

22.1.2021 

Ndrangheta stragista: sentenza, non esclusi mandanti politici  “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”. È quanto si afferma nelle motivazioni della sentenza del processo”’Ndrangheta stragista” con la quale la Corte d’Assise di Reggio Calabria, su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, sono stati condannati all’ergastolo lo scorso 24 luglio il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato dalla Dda il referente della cosca Piromalli. Graviano e Filippone sono ritenuti i mandanti degli attentati ai carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sulla Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla. “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – è scritto nella sentenza – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame. Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo motivo, “con riferimento alla identificazione di tali soggetti”, la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha trasmesso alcuni atti del processo alla Procura della Repubblica perché continui a indagare. (ANSA 22.1.2021).


i giudici: “Mandanti politici dietro agli attentati. C’era una strategia unitaria per destabilizzare lo Stato”. Trasmessi gli atti in procura: “Ora fare luce sulle accuse di Graviano a Berlusconi”

LE MOTIVAZIONI – Nelle 1078  pagine di sentenza del processo, che si è concluso con l’ergastolo per il boss di Brancaccio e per Filippone, la Corte d’Assise di Reggio Calabria scrive che “l’attentato ai danni dei carabinieri” del dicembre ’93 e il duplice omicidio di Fava e Garofalo si collocano “all’interno di una strategia omogenea e unitaria” portata avanti da una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti)”. I giudici ricostruiscono le dinamiche che hanno portato Cosa nostra ad appoggiare prima la Dc e poi Forza Italia. E chiedono di accertare la natura del “risentimento” di Graviano verso l’ex premier

“L’attentato ai danni dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 1 e 2 dicembre 1993 e il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sono da considerarsi un antecedente necessario del più eclatante attentato (la fallita strage dell’Olimpico, ndr) che si sarebbe dovuto compiere, nelle intenzioni del Graviano, a distanza di pochi giorni, in un crescendo che si colloca all’interno di una strategia omogenea e unitaria”. È quanto scrive la Corte d’Assise di Reggio Calabria nelle motivazioni della sentenza del processo “’Ndrangheta stragista” che a fine luglio si è concluso con la condanna all’ergastolo per il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e per Rocco Santo Filippone, ritenuto dalla Dda espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Per i giudici, però, le “responsabilità degli imputati costituiscono soltanto un primo approdo”: dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘Ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. La presidente Ornella Pastore, il giudice a latere Vincenza Bellini e i giudici popolari hanno sposato in pieno l’impianto accusatorio del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. Quest’ultimo è riuscito, “a distanza di circa venticinque anni dai fatti, a fornire una nuova e diversa lettura delle ragioni” che hanno portato alla morte dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, trucidati sulla Salerno-Reggio Calabria all’altezza dello svincolo di Scilla.

“Cinico piano di controllo del potere politico” – Secondo la Corte d’Assise, Graviano e Filippone sono i mandanti di quell’agguato e degli altri due attentati consumati a Reggio Calabria ai danni dei carabinieri. Stragi che rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” e “hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. “Il culmine di tale attacco allo Stato – si legge nella sentenza di primo grado – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decine e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”. Il tutto si è incastrato “in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria”.

La corte d’Assise: “Ci sono mandanti politici” – Nonostante il procuratore Lombardo, “con un notevole sforzo investigativo, protrattosi anche nel corso dell’istruttoria dibattimentale”, sia riuscito a fare luce su una delle pagine più buie del nostro Paese, ci sono anche altri responsabili di quella strategia stragista: “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – scrive infatti la presidente Pastore – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame”.

E ancora: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

I voti di Cosa nostra: dalla Dc a Forza Italia – Nelle 1078 pagine di sentenza, la Corte d’Assise ricostruisce le dinamiche che hanno portato Cosa Nostra ad appoggiare la Democrazia Cristiana fino a quando erano andate in fumo, nel gennaio 1992, le speranze di ottenere un annullamento della sentenza del maxi processo. Dopo l’omicidio Lima, i voti della mafia siciliana “erano stati dirottati sul ‘Partito Socialista’ e anche sul partito Radicale”. Con la crisi dei partiti tradizionali, però, “Cosa Nostra aveva deciso di uniformarsi a ciò che stava accadendo nel resto del sud Italia creando movimenti autonomisti”. Un progetto questo che, presto, non era apparso più conveniente ed “era stato quindi accantonato in favore dell’appoggio al nascente partito politico Forza Italia”. Un cambio di rotta condiviso con la ‘ndrangheta. Lo dimostra ciò che avvenne il 24 febbraio 1994 quando il boss “Giuseppe Piromalli, durante il processo celebrato a Palmi per l’estorsione per i ripetitori Fininvest, prendeva la parola in aula e dalla cella gridava: “Voteremo Berlusconi, voteremo Berlusconi”.

Graviano al bar Doney con Dell’Utri – Nelle motivazioni della sentenza, inoltre, ha trovato spazio il famoso incontro tra il boss Giuseppe Graviano e Marcello Dell’Utri avvenuto in via Veneto a Roma nel gennaio 1994 e “finalizzato a discutere del nuovo partito politico che stava per nascere, Forza Italia”. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale è stato sentito il pentito Gaspare Spatuzza a cui il boss di Brancaccio aveva mostrato “la sua felicità per il fatto di essere riuscito ad ottenere ‘tutto quello che cercava’, con ciò facendo riferimento a Berlusconi ‘quello del Canale 5’ e al ‘compaesano’ Dell’Utri”. Al collaboratore di giustizia, infatti, aveva detto di avere “il paese nelle mani” e che bisognava dare il “colpo di grazia” con l’attentato ai carabinieri.

Durante il processo, la Procura ha dimostrato che negli stessi giorni dell’incontro di via Veneto, a poche centinaia di metri all’Hotel Majestic Dell’Utri era impegnato in una serie d’incontri preparatori alla discesa in campo di Berlusconi. Sul punto, la Corte d’Assise non ha dubbi: “Può ragionevolmente ritenersi che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”.

Il boss di Brancaccio rompe il silenzio – A differenza del processo di Firenze quando il boss siciliano si è avvalso della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande su Marcello Dell’Utri, dopo 26 anni in riva allo Stretto Graviano ha rotto il silenzio. Nelle udienze dedicate al suo interrogatorio, ha reso numerose dichiarazioni spontanee e ha risposto pure alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Per i giudici, “ha inteso a suo modo sciogliere tale riserva riferendo diffusamente, in ordine ai suoi rapporti con Silvio Berlusconi, descrivendone le origini, che ha indicato in ragioni di carattere economico. Ha inoltre spiegato le ragioni del risentimento nei confronti dell’esponente politico che è arrivato persino ad indicare come il mandante del suo arresto”.

Sarà la Procura, a cui la Corte d’Assise ha trasmesso le “copiose dichiarazioni rese dal Graviano”, a fare luce sulle accuse mosse dal boss e a verificare se siano calunnie o verità. Tuttavia, per i magistrati, si tratta di “dichiarazioni di estremo rilievo che, unitamente al contenuto delle conversazioni intercettate presso il carcere di Ascoli Piceno intercorse con l’Adinolfi, confermano l’esistenza di aspettative da parte del Graviano nei confronti del nuovo governo, in quanto a seguito dell’avvicendamento politico venutosi a creare, egli sperava che potessero intervenire modifiche legislative riguardanti il regime detentivo ed altro”. Aspettative rimaste tali e questo “ha determinato nel Graviano rabbia e risentimento, essendo egli peraltro persuaso di essere stato tratto in arresto deliberamente per evitare la formalizzazione del suo accordo economico con Berlusconi”.

Il presunto ruolo strategico che il leader di Forza Italia avrebbe avuto nell’arresto di Graviano riguarderebbe, infatti, una serie di investimenti fatti dal nonno del boss a Milano negli anni ’60 e ’70. Il capocosca di Brancaccio riporta la vicenda pure nel memoriale consegnato alla Corte d’Assise pochi giorni prima di essere condannato all’ergastolo: “L’imputato ribadisce che dall’ascolto delle conversazioni è possibile comprendere la vera natura del rapporto che lo lega al predetto (Berlusconi, ndr), il quale, grazie alla manovre messe in atto da ‘qualcuno’ o più di ‘qualcuno’, avrebbe guadagnato ‘alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20% degli investimenti fatti negli anni dallo stesso’”. I “rapporti di natura economica” con Berlusconi, secondo i giudici, “risultano totalmente indimostrati essendo sul punto le dichiarazioni del Graviano prive di qualunque riscontro”.

La strage di Via d’Amelio, l’agenda di Borsellino – Come è stato per le udienze in cui ha reso dichiarazioni, anche con il suo memoriale Giuseppe Graviano ha dimostrato di essere un geloso custode del suo “bagaglio di conoscenze”: dall’omicidio del poliziotto Agostino (in cui “sarebbero coinvolti soggetti che si sono resi responsabili dell’omicidio di suo padre”) alla strage di Via D’Amelio (“è stato imbastito – ha detto – un disegno criminoso per tutelare gli interessi di qualcuno o più di qualcuno”), fino alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino per la quale il boss ha fatto chiaramente intendere di sapere chi l’ha presa dal luogo della strage.

Se non è un invito a collaborare con la giustizia, lo sembra molto quello della Corte d’Assise di Reggio Calabria: “Deve certamente ritenersi – scrive, infatti, la presidente Ornella Pastore – che l’imputato potrebbe fornire un contributo rilevante per fare piena luce, oltre che sui fatti per cui è processo, anche su altri gravi episodi criminosi che hanno insanguinato il nostro Paese all’inizio degli anni ’90, tra cui la strage di via D’Amelio, a meno che, a distanza di quasi 27 anni dal suo arresto, non continui ancora a sperare che possa accadere qualche ‘bella cosa’”. “In ogni caso – si legge sempre nella sentenza – le circostanze riferite dal Graviano meritano certamente di essere valutate ed approfondite nelle sedi competenti nella speranza che possano giovare finalmente a fare completa chiarezza su avvenimenti che hanno segnato e continuano tuttora a segnare la storia dell’Italia”.

Strategia stragista, le indagini della Dda continuano – Quanto emerso dal processo è certamente un tassello importante sui tanti misteri che hanno insanguinato l’Italia nei primi anni novanta con una strategia stragista cercata e voluta da un sistema che il procuratore aggiunto Lombardo ha più volte definito “comitato d’affari che comprende al suo interno ‘Ndrangheta, Mafia siciliana, politica collusa, pezzi di istituzioni e pezzi di servizi segreti”. Da qui le considerazioni della Corte D’Assise che, analizzando quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale, ha concluso: “Ciò che si ricava ancora è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali. Anche con riferimento alla identificazione di tali soggetti, compito certamente non agevole in considerazione altresì del lungo lasso temporale decorso rispetto ai fatti in esame, si impone quindi la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica”. di Lucio Musolino | 22 GENNAIO 2021 FATTO QUOTIDIANO

‘NDRANGHETA STRAGISTA: LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA  “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile, che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali, che erano riuscite con i precedenti referenti politici a godere di benefici e agevolazioni. Si può, quindi, affermare che in tale circostanza si era venuta a creare una sorta di convergenza di interessi tra vari settori che hanno sostenuto ideologicamente la strategia stragista di Cosa Nostra”.

È quanto si afferma nelle motivazioni della sentenza “‘Ndrangheta stragista” con la quale la Corte d’Assise di Reggio Calabria, su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, sono stati condannati all’ergastolo lo scorso 24 luglio il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, considerato dalla Dda il referente della cosca Piromalli. Graviano e Filippone sono ritenuti i mandanti degli attentati ai carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo uccisi il 18 gennaio 1994 sulla Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Scilla. “Le conclusioni cui è pervenuta questa Corte in ordine alla responsabilità degli imputati – è scritto nella sentenza – costituiscono soltanto un primo approdo, dal momento che la complessa istruttoria dibattimentale, ivi comprese le dichiarazioni di Giuseppe Graviano, lascia intravedere il coinvolgimento di ulteriori soggetti che hanno concorso nella ideazione e deliberazione degli eventi in esame.

Ciò che si ricava è che dietro tutto ciò non vi sono state soltanto le organizzazioni criminali, ma anche tutta una serie di soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato per ottenere anch’essi vantaggi di vario genere, approfittando anche di un momento di crisi dei partiti tradizionali”. Per questo motivo, “con riferimento alla identificazione di tali soggetti”, la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha trasmesso alcuni atti del processo alla Procura della Repubblica perché continui a indagare.

Con attentati a carabinieri strategia eversiva Rientravano in una “comune strategia eversivo-terrorista” gli attentati ai carabinieri, avvenuti tra il 1993 e il 1994 e per i quali sono stati condannati i boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Nelle motivazioni della sentenza, il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria Ornella Pastore scrive che “di tale strategia, i tre attentati ai carabinieri (fortunatamente non tutti andati a buon fine) hanno costituito uno dei momenti più significativi di un cinico piano di controllo del potere politico (fortunatamente fallito) nel quale sono confluite tendenze eversive anche di segno diverso (servizi segreti deviati) per effetto anche della ‘contaminazione’ o ‘evoluzione’ originata dall’inserimento della mafia siciliana e calabrese all’interno della massoneria”. “Il culmine di tale attacco allo Stato – scrive sempre la Corte d’Assise – si sarebbe dovuto raggiungere il 23 gennaio 1994 con l’attentato allo Stadio Olimpico di Roma che, se portato a termine, avrebbe certamente determinato l’uccisione di decide e decine di carabinieri, piegando in maniera definitiva lo Stato, già colpito dalle stragi avvenute negli anni precedenti”.

“Fi referente organizzazioni” L’attentato ai carabinieri in Calabria e la tentata strage dell’Olimpico sarebbero avvenuti ‘in un momento in cui le organizzazioni erano alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi in cui erano confluiti i movimenti separatisti nati in quegli anni come risposta alle spinte autonomistiche in Sicilia e Calabria’”.

È quanto si legge ancora nella sentenza del processo “‘Ndrangheta stragista” in cui sono stati condannati all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone accusati di essere i mandanti del duplice omicidio in cui persero la vita i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, la Corte d’Assise di Reggio Calabria affronta pure il tema dell’incontro che, secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, sarebbe avvenuto nel gennaio 1994 tra Graviano e Marcello Dell’Utri in via Veneto a Roma.

I due avrebbero discusso “del nuovo partito politico che stava per nascere, Forza Italia”. “Può ragionevolmente ritenersi – scrivono i giudici – che il Graviano il 21 gennaio 1994, prima di incontrare lo Spatuzza per discutere degli ultimi dettagli riguardanti l’attentato allo stadio Olimpico, avesse avuto modo di colloquiare con il Dell’Utri che nello stesso giorno si trovava a Roma poco distante dal bar Doney”. TVLEN 21.1.2021


Ergastolo a Graviano e Filippone Condannati quali mandanti attentati a Cc in strategia tensione La Corte d’assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo il boss Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Dopo tre giorni di camera di consiglio, il dispositivo è stato letto dalla presidente della Corte Ornella Pastore che ha accolto le richieste del procuratore Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo. Si è concluso così il processo “‘Ndrangheta stragista”: Graviano e Filippone sono stati condannati per essere stati i mandanti dell’agguato in cui morirono i due carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi nei pressi dello svincolo di Scilla dell’autostrada A3 il 18 gennaio 1994. Difesi dagli avvocati Giuseppe Aloisio, Federico Vianelli, Guido Contestabile e Angelo Sorace, i due imputati sono stati ritenuti colpevoli anche dei due attentati ai danni dei carabinieri avvenuti a Reggio Calabria a cavallo tra il 1993 e il 1994.  Quegli agguati, secondo la Dda, rientravano nella “strategia stragista” attuata da Cosa Nostra e ‘Ndrangheta contro lo Stato. (ANSA).


“‘Ndrangheta stragista”, chiesto l’ergastolo per i boss Graviano e Filippone  E’ giunto alle fasi finali il processo “‘ndrangheta stragista” (iniziato a Reggio Calabria il 30 Ottobre 2017) che vede alla sbarra Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone.  Dalle stragi di Capaci a via D’Amelio, agli attacchi contro i carabinieri in Calabria culminati con il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo ed i tentati omicidi di altri carabinieri, eseguiti da due giovanissimi killer della cosca di ‘ndrangheta dei ‘Lo Giudice’, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani. E’ il quadro ricostruito dalla Dda di Reggio Calabria, che ha portato alla sbarra Giuseppe Graviano, boss del mandamento palermitano di ‘Brancaccio’ e Rocco Filippone, di 77 anni, di Melicucco, indicato dagli inquirenti come colui che, per conto della cosca Piromalli di Gioia Tauro, teneva i rapporti con la destra eversiva e la massoneria occulta. I due sono ritenuti i mandanti degli agguati ai carabinieri in Calabria, da inserire, secondo la Dda reggina, nella strategia stragista messa in atto da Cosa nostra tra il 1993 ed il 1994 con gli attentati a Firenze, Roma e Milano.



  AUDIO UDIENZE 


 

“Anche la ‘Ndrangheta ha firmato le stragi di mafia”, la procura chiede l’ergastolo per i boss pm Lombardo chiede l’ergastolo con 3 anni di isolamento diurno più 24 anni per strage per Rocco Santo Filippone; ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Anche la ‘Ndrangheta ha firmato le stragi di mafia. E il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il mammasantissima di Melicucco Rocco Santo Filippone per questo devono essere condannati “non a pene esemplari, ma a pene giuste previste dal codice. Ergastolo con 3 anni di isolamento diurno più 24 anni per strage per Rocco Santo Filippone; ergastolo per il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che ha coordinato l’inchiesta e sostenuto l’accusa a processo, sono loro i mandanti dei tre attentati contro i carabinieri con cui i clan calabresi hanno fornito il loro contributo. E non solo ad una stagione di sangue, ma ad un progetto eversivo portato avanti da un sistema criminale di cui Cosa Nostra e ‘Ndrangheta fanno parte. Le richieste alla Corte d’Assise le avanza il procuratore capo Giovanni Bombardieri, accanto c’è il procuratore capo della Dna Federico Cafiero de Raho, il magistrato di collegamento con la procura nazionale antimafia, Sandro Dolce, il pm Walter Ignazzito, che con Lombardo ha sviluppato parte del dibattimento, i vertici locali delle forze dell’ordine. “Voi siete chiamati a dare giustizia non solo a familiari e amici delle vittime”, dice Bombardieri alla Corte d’assise, “Perché questo è un processo storico e ha ricostruito un quadro probatorio pieno e le responsabilità penali degli attuali imputati”. Ci si è arrivati al termine di un’istruttoria complicata, durata oltre tre anni ma necessaria – ha detto Lombardo nel corso della requisitoria –  per superare “trent’anni di mistificazioni”. Sul ruolo della ‘Ndrangheta nella stagione delle stragi e su come sia riuscita per decenni a nascondersi scaricando l’omicidio dei brigadieri Fava e Garofalo e gli altri due attentati su due picciotti a stento o neanche maggiorenni.  Sul reale significato di quella scia di sangue e sulle ragioni politiche ed economiche che l’hanno ispirata. Su chi davvero l’ha voluta. E non si tratta solo di mafie. “Arrivare a una verità piena è solo una questione di tempo” dice il procuratore aggiunto.“Loro sono là fuori e sanno quello che sta succedendo qui dentro. Che ascoltino quello che stiamo dicendo – ha tuonato in mattinata, con il dito puntato verso i lucernai dell’aula bunker – così sapranno quello che faremo a partire da domani”. Una promessa per alcuni, una minaccia per altri. E una risposta al boss Graviano, che dopo decenni di silenzio ha scelto “’Ndrangheta stragista” per far sentire la propria voce, rispondere alle domande della Corte d’assise e delle parti, mandare messaggi, puntando il dito contro Silvio Berlusconi “che la mia ed altre famiglie siciliane hanno finanziato” e minacciando rivelazioni in seguito mai fatte. E le sue parole sono state prese sul serio, a quelle accuse sono stati cercati (e trovati) riscontri, ma quel fiume in piena di dichiarazioni è servito soprattutto per confermare il quadro estremamente complesso in cui le stragi sono maturate. “Ha ragione Graviano quando dice ‘io pago, ma chi è sopra di me?’– dice Lombardo – E allora ce lo dica lui chi è sopra di lui e poi vediamo se la magistratura non avrà il coraggio di andare fino in fondo”. Di certo, il quadro in cui quelle “menti raffinatissime” si sono mosse è stato ricostruito.  E non si tratta di soggetti esterni, ma di componenti del medesimo sistema criminale di cui ‘Ndrangheta e Cosa Nostra fanno parte. E che come le mafie negli anni Novanta hanno rischiato di perdere tutto alla luce del mutato scenario politico nazionali e delle diverse priorità strategiche internazionali. Il muro di Berlino era caduto, il sistema della democrazia bloccata era stato travolto e con quello i rapporti di forza che all’ombra della cortina di ferro erano maturati. “’Ndrangheta e Cosa Nostra avevano perso i riferimenti politici perché lo scenario politico mutato non consentiva più a quei referenti di fare quello che avevano fatto fino a quel momento. Ecco perché ad esempio Cosa Nostra attende cosa succeda con il maxi per capire come muoversi e alla fine si rende conto che quel processo non si può aggiustare. Capisce – ha ricostruito nel corso della requisitoria il procuratore aggiunto Lombardo –  che non basta rimproverare chi non ha fatto, ma deve preparare il futuro. Coinvolge la ‘Ndrangheta che sapeva perfettamente cosa stesse succedendo, si preparava da tempo e nel momento in cui il suo contributo diventa insostituibile decide di muoversi”. Il punto di non ritorno sono le amministrative del ’93, con la straordinaria affermazione del Pds. E non solo per le mafie sono un campanello d’allarme. “Quelle amministrative hanno dimostrato che il “rischio comunista” non era finito – sottolinea Lombardo – e quando il sistema ha capito che il rischio era alto, tra il novembre e il gennaio di quell’anno la storia politica e partitica si incontra con le esigenze dell’alta mafia, e la storia d’Italia cambia”. Il primo dei tre attentati calabresi avviene poco dopo. Ci sono altri soggetti – pezzi di servizi, ambienti di Gladio, settori della massoneria che a quel progetto sono sempre stati legati – che in quel momento storico rischiano di scoprirsi obsoleti, “se viene giù il blocco sovietico, quegli apparati perdono la loro ragione d’essere e il loro potere acquisito. Strutture che vedevano come protagonista assoluto Gelli. E non a caso sono componenti gelliane che non a caso tutelavano – lo dice la commissione Anselmi – le mafie e le componenti riservate che con quel mondo avevano rapporti”. E che tali componenti abbiano avuto un ruolo lo dicono i collaboratori di giustizia, lo denunciavano decenni fa soggetti come il Gran Maestro del Goi Giuliano Di Bernardo o l’ex ambasciatore e capo del Cesis, Francesco Fulci, il primo a collegare la Settima sezione del Sismi alla Falange Armata che in quegli anni lo minacciava. E lo dice anche la cronologia delle rivendicazioni firmate da quella sigla “che raggiungono il loro picco nel 93-94, scompaiono per 19 anni per ricomparire nel 2013” quando, intercettato in carcere, Riina si fa sfuggire qualche parola di troppo. “Rivendicare ‘Falange armata’ era comunicare con certi ambienti, con cui le mafie si erano già relazionate e che si identificavano con i vertici dello Stato” dice LombardoE anche questo dimostra – sottolinea –  che quella stagione “è riferibile ad un sistema criminale che va oltre le mafie”. E che con quelle stragi forgia l’interlocutore politico che a quella stagione di sangue mette fine. “La finalità della stagione stragista era altamente e squisitamente politica, non intesa in senso ideologico, ma come espressione di una inaccettabile e vomitevole lotta per il potere. Questo è. Non c’è altro perché le mafie sono componenti di questo sistema di potere”. Non l’ho ringraziato formalmente Graviano ufficialmente per quello che ci ha detto nel corso dell’esame? – dice Lombardo – Mi pare di si, perché ci ha spiegato che quel momento storico è un momento in cui la sua storia, la storia di Cosa Nostra, la storia della ‘ndrangheta, procede di pari passo con la storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio del 1994, Forza Italia”. di ALESSIA CANDITO 10 luglio 2020 LA REPUBBLICA


‘NDRANGHETA STRAGISTA, LOMBARDO: ”GRAVIANO E FILIPPONE ‘SOGGETTI DI MEZZO’ DI UN SISTEMA DI MENTI RAFFINATISSIME’Cosa nostra e ‘Ndrangheta sono le componenti mafiose di un sistema piu ampio che in prima persona portava avanti un progetto politico per ripristinare gli equilibri che si erano persi e che in modo rassicurante potesse superare le liste autonomiste che avevano evidenti limiti”. E’ questa l’immagine sempre più evidente che emerge seguendo il terzo giorno della requisitoria del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che vede imputati davanti alla Corte d’AssiseGiuseppe Graviano, boss di Brancaccio e Rocco Santo Filippone, esponente della cosca Piromalli, accusati di essere i mandanti degli attentati ai carabinieri in cui morirono anche i due appuntati Fava e Garofalo.
Di fronte ad uno scenario politico nazionale ed intenrazione in evoluzione, dove il rischio per le due mafie era quello di tornare ad essere delle semplici organizzazioni criminali, entrano in gioco le “menti raffinatissime” che, spiega Lombardo “stavano al di sopra e stanno ancora oggi al di sopra dei gradi apicali di quelle componenti mafiose. Usando il linguaggio che utilizza Carminati in ‘Mafia Capitale’ sono quei soggetti che conoscono solo loro il sopramondo e il sotto mondo; dei soggetti di mezzo”. “L’immagine è quella di una clessidra o di una doppia piramide capovolta – ha aggiunto – I grandi capimafia del livello di Graviano e Filippone sono tra i pochissimi che sanno come sono organizzate le grandi mafie verso il basso, ma sanno anche come è composto il sovramondo, di cui solo loro sono parte integrante e che diventa mafioso proprio per effetto dell’a loro presenza”.
Nella ricostruzione del magistrato è proprio il sovramondo a spingere in un primo momento la visione autonomisa. Poi, per effetto delle amministrative del 1993, lo scenario cambia. Per questo motivo si sposta l’attenzione su “un’attività in corso da tempo, finalizzata ad un movimento politico che possa ricollocarsi in quel centrismo che aveva permesso alla Dc di esssere il baricentro di un sistema”.Quel “cambio di cavallo”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non era frutto di una scoperta improvvisa ma, come ricordato dal pentito Tullio Cannella, era figlio di un “progetto parallelo a quello ricondotto ai livelli medio bassi di Cosa nostra e affidato a lui da Leoluca Bagarella. Un progetto ricondotto a Bernardo Provenzano”. “E’ quella la ‘falsa politica’ che è stata sempre utilizzata per proteggere fino in fondo gli obiettivi reali – ha aggiunto Lombardo – E questo è il discorso che si porta avanti e bisogna far credere a tutti: spingere verso i movimenti autonomisti, le leghe meridionali e Licio Gelli (una dele menti raffinatissime)”. In realtà, però, la direzione presa era quella che avrebbe portato a Forza Italia, un progetto di cui, lo ha detto anche Giuseppe Graviano nel suo “flusso di coscienza”, girava voce ben prima del dicembre 1993.

Dentro Sistemi criminali Rivisitando l’indagine “Sistemi criminali” (chiusa con un’archiviazione, ndr) Lombardo ha evidenziato quegli elementi che facevano emergere l’esistenza di un “piano di ‘eversione dell’ordine costituito’ messo in atto da un’associazione risalente agli anni 1990-1991 nella quale erano confluite diverse entità criminali: Cosa Nostra con lo schieramento corleonese, uomini della massoneria ‘deviata’ e dell’eversione nera a loro volta legati a Cosa Nostra e altre consorterie mafiose come la ‘Ndrangheta, e pezzi delle istituzioni che ruotavano attorno agli apparati di sicurezza”.

Il mondo che cambia Per questo motivo, nel corso della requisitoria, Lombardo ha voluto ricostruire tutte le fasi del progetto separatista, con la nascita delle Leghe che vedeva una massima condivisione tra varie componenti criminali.
Tra i primi a parlare di quel progetto vi era Leonardo Messina, il quale, in un verbale del 4 febbraio 1993, ha raccontato di quanto gli fu riferito da Aldo Miccichè, ovvero “che la Lega Nord, non tanto grazie a Bossi che era un pupo, quanto per Miglio che era il vero ideologo, era in realtà una costola della Dc dietro cui era celato Andreotti e forze imprenditoriali del Nord che erano interessate alla divisione dell’Italia in più Stati”. “Saranno quelle stesse forze imprenditoriali del Nord di cui parla Graviano? – si è chiesto provocatoriamente Lombardo mentre il capomafia prendeva appunti dal carcere di Terni – Certo era che Andreotti non si era dato per perso. Aveva capito che il brand della Dc e dello scudo crociato era bruciato. Con santa pace dei sostegni che a quel movimento politico erano stati garantiti dal Vaticano”. E sarebbe quello il motivo per cui si sarebbe reso disponibile a perlustrare nuovi percorsi, fino a valutare quella divisione in tre macroaree che Miglio portava avanti con convinzione.
“L’ipotesi a Gelli piace, Miglio per Andreotti è un uomo con cui possiamo parlare. Racconterà in un’intervista a Il Giornale di quella discussione di fronte ad un camino spento per capire che ruolo potesse avere la lega Nord”. In quell’intervista, incredibilmente, Miglio arriverà persino ad aprire ad una sorta di costituzionalizzazione del ruolo delle mafie e nello specifico diceva di essere per il “mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta”. “Cosa significa? Si voleva dar loro il controllo del territorio, la gestione degli appalti?” si è chiesto con ironia Lombardo. E poi ancora: “O le elenchi tutte o dici genericamente mafie. Questo significa che i riferimenti erano specifici e non generici”.

Non solo le riunioni di Enna Sempre Messina ha riferito di quanto apprese nell’agosto del ’91, ovvero “che nella provincia di Enna erano riuniti Riina, Madonia, Santapaola e Provenzano. Si trattennero nella zona di Enna non continuativamente fino al febbraio ’92, dopo l’esisto del maxiprocesso. L’obiettivo era la discussione di un progetto politico che puntava alla creazione in Sicilia di uno stato indipendente; il progetto era stato costituito dalla massoneria. Voglio specificare – diceva al tempo il collaboratore di giustizia – che Cosa nostra, ‘Ndrangheta e massoneria facevano parte di un sistema criminale integrato”. E delle riunioni nelle camapgne di Enna ha parlato anche Filippo Malvagna, ex uomo d’onore della famiglia catanese Pulvirenti-Santapaola, che raccontò di quella famosa frase che il Capo dei capi, Totò Riina, dirà: “Bisogna fare la guerra per poi fare la pace”.
Un progetto che dalla ‘Ndrangheta era perfettamente condiviso. A raccontarlo è un altro soggetto sentito nel corso del processo, Pasquale Nucera. Già nei primi anni Novanta ai magistrati aveva raccontato di una riunione avvenuta a Polsi nel settembre 1991 a cui avrebbero partecipato anche il boss Francesco Nirta, Giovanni De Stefano “che era un amico di Milosevic” disse anche che c’erano altre persone, altri politici e che in quell’occasione si parlò di fondare un “Partito degli Uomini” che doveva “sostituire la Dc”.
Che il 1991 sia il momento chiave in cui inquadrare l’intera campagna stragista e politica si evince anche da altri elementi come ad esempio, l’omicidio del giudice Antonio Scopelliti. “Per comprendere il periodo bisogna fare una lettura molto più ampia e articolata – ha proseguito Lombardo – Il dato storico è che nell’ottbre 1991 Cosa nostra sa già che il Maxi processo andrà male. E così sarà il 30 gennaio 1992. La sostituzione della vecchia classe politica non è facile. E’ un momento storico dove si rischia di tornare ad essere una banda criminale che non è più apparato e non è in grado di incidere e condizionare la vita della Nazione. Prima di fare scelte definitive, dunque, bisognava avere fortissime rassicurazioni e certezze che arriveranno alla fine del 1993 fino ad arrivare quelle dichiarazioni di Spatuzza su quel Graviano che ha fretta di consumare il ‘colpo di grazia’”.
La requisitoria del pm Lombardo è proseguita ripercorrendo le dichiarazioni di svariati collaboraotri di giustizia, ccome i pugliesi Salvatore Annacondia, Gianfrnaco Modeo e Marino Pulito che hanno introdotto ulteirori argomenti sul circuito che ruotava attorno a Gelli (sempre lui) ed i soggetti vicini al Venerabile, con tanto di “contatti diretti finalizzati ad aggiustare processi e gestire pacchetti di voti da destinare a quegli schieramenti funzionali, o ritenuti tali, per un più ampio progetto politico”.
Per spiegare come componenti politiche estra parlamentare siano state in qualche maniera “collante, al di fuori del controllo partitico” e di cui “la destra eversiva è stata componente principale” Lombardo ha anche ricordato sentenze passate in giudicato come quelle sulla strage di Bologna richiamando anche quegli elementi che in qualche maniera portano ad un vero e proprio parallelsimo tra il piano stragista-poliutico che avrà luogo tra il 1990 ed il 1994 e quel programma già vissuto in certi ambienti negli anni precedenti. Dall’allargamento dell’ideologia politica verso un interesse più economico alla minaccia della conquista del potere da parte del partico comunista italiano, fino all’attacco nei confronti delle forze dell’ordine e la necessità di coltivare rapporti con lo Stato italiano.
Quel che è certo è che ad un certo punto le stragi passeranno da una fase di accelerazione ad una di “attesa”. Segno che un nuovo equilibrio era stato raggiunto?
Svariati collaboratori di giustizia hanno raccontato quel che avvenne con Cosa nostra e ‘Ndrangheta che porteranno avanti una strategia comune. Un asse che, secondo la ricostruzione dell’accusa, vedrà muoversi in particolar modo i Graviano. E, sul fronte calabrese, quell’ala strettamente vicina alla famiglia dei Molé-Piromalli che, assieme ai De Stefano, aveva vinto la guerra di mafia. Due famiglie centrali per quel direttorio di sette che disse “Sì” alla strategia del terrore e di attacco frontale allo Stato. O, per dirla con le parole di Riina, per “fare la guerra per poi fare la pace”.  antimafia duemila 07 Luglio 2020 di Aaron Pettinari

‘Ndrangheta stragista, nella requisitoria del pm la vera storia della Seconda Repubblica I veri attori che hanno comandato ed eseguito le stragi. La ridefinizione sanguinosa degli equilibri dopo il crollo del muro di Berlino. E ancora: il ruolo di pezzi di servizi, della massoneria e della politica fino a Forza Italia, servita per trovare la quadra. Gli ultimi 30 anni nell’esposizione del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo  di Alessia Candito 30 giugno 2020  «Se oggi io vado sul corso Garibaldi e chiedo ad una qualsiasi persona che sta passeggiando se la ‘ndrangheta abbia partecipato alle stragi, chiunque mi dirà di no. Questo è il terrorismo mafioso, questa è la falsa politica della ‘ndrangheta». Quella che ha permesso ai clan calabresi di scrivere la storia d’Italia da protagonisti, addomesticare il passato e disegnare un futuro che dagli anni Novanta si accartoccia su un «eterno presente» nascondendosi  Le verità con lo sconto sugli attentati calabresi Sono passati quasi trent’anni dagli attentati calabresi contro i carabinieri che fra il dicembre del ’93 e il febbraio ’94 sono costati la vita ai brigadieri Fava e Garofalo e gravi ferite ad altri quattro militari. Gli esecutori materiali, Consolato Villani e Giuseppe Calabrò, figli di ‘ndrangheta uno neanche maggiorenne e l’altro che 18enne lo era a stento, sono stati presi e condannati quasi subito. Raccontati come picciotti, criminali nati, in cerca di armi e di gloria e presto dimenticati. Nel frattempo la ‘Ndrangheta è riuscita a rimanere l’unica delle mafie storiche raccontata con l’iniziale minuscola. Una strategia studiata per mimetizzarsi, sminuirsi, raccontando di sé verità parziali. Al ribasso. Comode. Quelle “visioni” che hanno indotto Graviano a parlare «Trent’anni di mistificazioni» dice il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che oggi ha dato il via alla requisitoria che tira i fili di tre anni e 127 udienze di dibattimento. «Visionario» lo hanno bollato per anni i suoi detrattori. «Cacciatore di fantasmi e di teoremi». Eppure, l’inchiesta che Lombardo ha costruito sui reali mandanti di quelle stragi, il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il mammasantissima calabrese Rocco Santo Filippone, espressione cristallina dello storico casato dei Piromalli, non solo è arrivata indenne al processo, ma in dibattimento ha convinto Graviano a parlare. E – magari inconsapevolmente – a confermare i pilastri di quell’indagine che non solo rende giustizia alle vittime, ma anche alla storia della Repubblica. Le più belle Masserie della Puglia da affittare vicino al mare Le verità mancate che condannano all’eterno presente «Il concetto di tempo – afferma il procuratore – è uno degli interrogativi che l’uomo porta con sé da sempre: la percezione del tempo è soggettiva o oggettiva? E come si misura? L’unità di misura internazionale del tempo è il secondo. Ragionando in secondi, dal primo gennaio del 1994 che è l’ultimo episodio su cui ci troviamo ad occuparci in questa sede, abbiamo aspettando la verità da 819milioni933mila secondi». Il prezzo? Un «eterno presente» in cui un Paese intero è stato costretto a vivere perché «con le stragi per noi il tempo si è fermato e questo eterno presente diventerà altro solo quando tutto quello che va ricostruito, sarà ricostruito fino in fondo» dice Lombardo. La storia calabrese delle stragi di mafia gli attentati calabresi ai carabinieri fanno parte di diritto della storia delle stragi mafiose che hanno mutilato la democrazia e la Repubblica in Italia. Sono state il prezzo della sua evoluzione addomesticata ad un gattopardesco ripetersi di un presente sempre uguale, in cui cambiano i nomi degli attori ma non le regole. Si chiama «falsa politica», si declina nell’arte delle «carrette» e delle «tragedie» e della ‘ndrangheta è sempre stata l’arma più sofisticata.  Usata con perizia all’interno e all’esterno dell’organizzazione, per lasciare a pochi – «il coso di 7» evocato da Filippo Chirico intercettato in Gotha, i 7 del direttorio di cui ha parlato in dibattimento il collaboratore catanese Di Giacomo – le decisioni importanti e le strategie di massima, per anni è stata l’assicurazione sulla vita dell’élite dei clan calabresi. All’esterno raccontati al ribasso, all’interno protetti da una cortina di riservatezza che non ha permesso a truppa, colonnelli e persino generali di sentirsi ingannati o esclusi. Perché di certi affari – per norma e condizioni – non arrivano neanche a sentirne l’odore. E le stragi sono state uno di questi. L’élite che ha votato per bombe, sangue e potere A deciderle – è emerso nel dibattimento – sono stati in pochi. Inclusi alcuni che non sono imputati in questo processo, ma è comunque «tema di prova che deve essere esplorato e portato all’attenzione della Corte» per restituire un quadro completo di quanto successo in quegli anni. Poi si vedrà. Perché anche durante il processo, come dimostrano le innumerevoli integrazioni investigative e qualche accenno che Lombardo si è lasciato scappare, non si sono mai fermate. E di certo c’è, la procura lo sa e ci sta lavorando, che le date dalla stagione stragista vanno aggiornate. L’omicidio Scopelliti e la nuova cronologia delle stragi Quella scia di sangue non inizia con l’omicidio Lima nel marzo ’92, ma nel giugno del ’91. Pochi mesi prima dell’agguato costato la vita al giudice Scopelliti, in quei mesi impegnato nella preparazione dell’accusa per il maxi-processo, arrivato alle porte del giudizio in Cassazione. Un filone su cui da tempo – lo si sa da quando è stato ritrovato il fucile secondo le ipotesi usato per l’agguato e sono stati notificati gli avvisi di garanzia a pezzi da novanta di ‘Ndrangheta e Cosa Nostra – la procura esplora. Ma sono tessere che ancora devono essere inserite nel mosaico. Le grandi famiglie che hanno detto sì Per adesso si sa – perché è emerso in modo chiaro in dibattimento – che a dire “presente” alla proposta di Cosa Nostra di partecipare alle stragi e alle trattative che quel sangue, quelle bombe e quegli omicidi volevano innescare, sono stati i De Stefano. E lo ha spiegato il collaboratore Nino Fiume – sottolinea Lombardo – nel raccontare la reale decisione assunta nella riunione di Nicotera, allargata ai grandi capi della ‘ndrangheta, e a quelle successive durante la quale si è detto “ni” per dire “sì”. E con gli arcoti, c’erano i Piromalli, che sul fronte hanno schierato uno dei loro fedelissimi, Rocco Santo Filippone, internamente riconosciuto – «era lui il responsabile delle copiate dei massimi livelli» dicono i pentiti – ma tenuto al riparo da affari comuni ed eventuali inchieste. Sono stati loro a farsi carico della questione quando i reggini mettevano insieme i cocci della seconda guerra di ‘ndrangheta di intelocutori riconosciuti Due famiglie, che i siciliani – e lo hanno detto tutti i pentiti dell’altro lato dello Stretto sfilati davanti alla Corte – hanno riconosciuto come unici interlocutori. Famiglie che di diritto fanno parte dell’élite dell’organizzazione tutta, forgiata al fuoco della prima guerra che ha seppellito la ‘ndrangheta storica di Mico Tripodo e ‘Ntoni Macrì. Due famiglie che fanno parte di una cerchia ristrettissima, ma che mai – e anche questo è emerso in maniera chiara in tre anni di processo – hanno escluso, né avrebbero avuto agio di farlo le grandi famiglie della Jonica. È il mandamento di Peppe Morabito “Tiradritto” che, dice fra gli altri Di Giacomo, «era anziano quindi veniva tenuto un po’ a lato, ma aveva un’autorità» e che a Milano esprimeva i Papalia, platioti che consideravano «Peppe De Stefano un fratello» dice Nino Fiume, e hanno giocato un ruolo fondamentale tanto nel riciclaggio dei soldi della ‘ndrangheta tutta, tanto nei rapporti con gli apparati di intelligence. E probabilmente non solo quelli italiani. Non a caso – ricorda Lombardo – è il capo assoluto dell’epoca Mico Papalia, oltre allo stretto nucleo familiare, l’unico a cui Nino Gioè chieda scusa per essersi fatto intercettare in via Ughetti, prima di morire, a quanto pare per un suicidio a cui molti stentano a credere. Una gattopardesca storia di soldi e potere  Ed è questo il nodo fondamentale del processo “’Ndrangheta stragista” arrivato oggi alla requisitoria e delle stagione delle stragi del Novanta e delle trattative ad esse connesse. Una storia di potere, soldi, influenza che una serie di “forze”, con cui la ‘ndrangheta per decenni ha interloquito e collaborato da pari, non avevano intenzione di perdere quando il muro di Berlino è crollato, portando con sé anche i rapporti di forza, le strategie, le priorità strategiche e le rendite di posizione che all’ombra della cortina di ferro si sono consolidate. E non solo la ‘ndrangheta, ma le élite di tutte le mafie – che come Leonardo Messina spiega ai loro massimi vertici sono “Cosa Unica” – hanno avuto necessità di ricollocarsi. Di forgiare nuovi interlocutori politici e referenti istituzionali. E con loro tutta una serie di “poteri” occulti solo a chi stava fuori dai grandi giochi. La vera partita degli anni Novanta «Le mafie – spiega Lombardo – avevano capito che, modificandosi lo scenario a livello internazionale, anche per merito di Mani pulite, bisognava muoversi per tempo, individuando nuovi referenti politici». un’opera di ristrutturazione del potere che lo mantenesse identico a se stesso ed era «servente ad una strategia più alta». Di cui facevano parte pezzi dell’intelligence legate a Gladio e alle operazioni Stay Behind, pezzi di massoneria legati alla P2 per anni pasciuti come ultima carta (eversiva) da giocare, pezzi di imprenditoria, di politica e di istituzioni, che nel Paese con il partito comunista più grande dell’Europa occidentale per decenni hanno trovato ragione e ruolo nella lotta all’Unione sovietica. E quando il muro è crollato hanno dovuto trovare un’altra leva di pressione. Tessere del mosaico È questo lo scenario che ricostruisce il processo ‘Ndrangheta stragista, che non a caso nella gigantesca mole di atti che ha figliato conta con documenti su Gladio e l’operazione Stay Behind, con atti sulla P2 e testimonianze «sulla vera lista» che Gelli ha offerto in cambio di un reintegro in quel Goi che il Gran Maestro Di Bernardo ha scoperto contaminato dai clan, in modo preponderante in Sicilia, in maniera irredimibile in Calabria, dove 28 su 32 logge erano in mano alla ‘ndrangheta. Una situazione ben nota anche al capo della massoneria mondiale, il duca di Kent, che – ha raccontato Di Bernardo in aula – «era già stato informato di tutto dall’Mi5», i servizi segreti inglesi. E poi le innumerevoli testimonianze, atti e rivendicazioni sulla Falange Armata, misteriosa sigla con cui attentati, bombe, omicidi – inclusi quelli di mafia – lettere e comunicazioni pseudopolitiche sono state firmate, secondo una strategia di depistaggio – oggi svelano i pentiti suggerita da settori dei servizi lunga anni e 1500 episodi. Una strategia politica, economica, imprenditoriale ma sempre eversiva.  L’ombra dei Piromalli sull’impero di Fininvest non a caso agli atti del processo sono finite anche le risultanze del processo Tirreno, che in tempi non sospetti ha raccontato come Sorrenti, «un imprenditore dei Piromalli e non un imprenditore estorto dai Piromalli» sia stato portato alla corte di Fininvest e coinvolto nel processo di costruzione del per lungo tempo monopolistico polo privato della tv nazionale. Perché è su Forza Italia e sul prodotto politico che da quasi 30 anni ha in Silvio Berlusconi il referente unico, che ha trovato la quadra quella stagione di sangue e trattative, di bombe e abboccamenti, di tentativi, sperimentazioni, di una classe politica spaccata «tra chi cercava contatti con gli amici di Enna» e «chi non voleva fermare le stragi». E questo lo ha confermato Graviano. I messaggi in codice di Madre Natura È da lui – spiega Lombardo – che arrivano innumerevoli conferme dell’impianto dell’inchiesta. Dopo decenni di silenzio, interrotto solo da sporadiche proteste e dichiarazioni, solo a Reggio Calabria ha accettato di sottoporsi all’esame. E per quattro udienze ha detto e non detto, ha lanciato messaggi, ha parlato di Berlusconi come socio infedele che la sua e altre famiglie siciliane hanno finanziato, della sua “discesa in campo” che il boss di Brancaccio conosceva con largo anticipo, di un impero del padre padrone di Forza Italia «e altri imprenditori milanesi» costruito con i soldi delle mafie come potrebbe provare una scrittura privata che i Graviano hanno e cui fa eco «il libretto che potrebbe provocare un terremoto» di cui ha parlato l’autista storico di Leoluca Bagarella, Toni Calvaruso. E le verità minacciate Per quattro udienze, Graviano ha anche accennato ai servizi coinvolti nel protocollo Farfalla che dava loro mano libera nelle carceri – gli stessi di cui parlano i pentiti che hanno avuto a che fare con Mico Papalia – con cui lui afferma di non aver mai avuto contatti ma di cui sa, alle verità mancate e che lui – ha assicurato – potrebbe rivelare sull’agenda rossa sparita di Paolo Borsellino, sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino. Poi – improvvisamente, dopo un lungo tira e molla su sue intercettazioni che diceva impossibili da ascoltare e imprescindibili per poter deporre – ha deciso di tacere. Scacco matto della procura Magari ha pensato di aver recapitato messaggi a sufficienza. Il problema – per lui e forse per altri – è che anche la procura li ha recepiti. E alle sue parole ha cercato e trovato riscontri. Come tabulati, intercettazioni e testimonianze che negli anni delle stragi lo collocano in Sardegna, nei pressi della villa di Berlusconi, o al bar Doney, in via Veneto, dove Spatuzza e Graviano si incontravano per progettare il fallito attentato all’Olimpico, a pochi passi dall’albergo in cui, esattamente negli stessi giorni, Forza Italia ultimava la “discesa in campo” ufficiale di Berlusconi e Marcello Dell’Utri – dicono recentissime testimonianze raccolte – «incontrava calabresi e siciliani interessati al nuovo progetto politico». E forse per questo oggi Graviano sta attento, in aula non perde una parola, a volte si alza nervoso. E prende appunti. Magari per la memoria che ha già preannunciato.  LACNEWS24

 


 a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco