TRATTATIVA STATO-MAFIA – Attilio Bolzoni

 

Su Domani il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblica  ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


 

Le chiacchiere di Massimo Ciancimino, un testimone inattendibile

All’imputato Massimo Cianciminoo veniva contestato il reato di calunnia, per avere, in particolare, nel corso delle sue molteplici dichiarazioni rese alla A.g., accusato il dott. Giovanni De Gennaro, brillante funzionario della Polizia di Stato che, al culmine della sua carriera pubblica, ha ricoperto anche la carica di Capo della medesima Polizia di Stato, di avere intrattenuto, nella sua predetta qualità, “costanti e numerosi rapporti illeciti con esponenti dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” e, quindi, in sostanza ed in concreto, il reato, se non di partecipazione, quanto meno di “concorso esterno” nel delitto di associazione mafiosa.

Si contestava, quindi, ancora più in particolare, al Ciancimino di avere, al fine di supportare la sua accusa, contraffatto un documento manoscritto, consegnato al P.M. il 15 giugno 2010, consistente in un elenco di funzionari dello Stato a vario titolo asseritamente collusi con la mafia nel quale, però, era stato trasposto il nome “De Gennaro” traendolo da un altro documento questa volta manoscritto in originale da Vito Ciancimino.

Il P.M. contestava, altresì, al Ciancimino la circostanza aggravante prevista dall’art. 368 comma 2 c.p. per avere incolpato il De Gennaro di un reato per il quale la legge stabilisce la pena superiore nel massimo a dieci anni, reato non espressamente indicato col suo articolo, ma che dalla descrizione dei fatti si individua agevolmente in quello previsto dall’art. 416 bis c.p.

Dal verbale del 15 giugno 2010 redatto dall’Ufficio della Procura della Repubblica di Palermo (prodotto dalla difesa della parte civile De Gennaro all’udienza del 26 settembre 2013 ed acquisito con ordinanza del 17ottobre 2013) si ricava che in quella occasione Massimo Ciancimino, dopo essere stato avvertito ai sensi dell’art. 64 c.p.p., ebbe, tra l’altro, a consegnare spontaneamente il documento indicato nel capo di imputazione sopra ricordato, dichiarando di averlo “recuperato” a Parigi da un soggetto di cui non rivelava le generalità per non coinvolgerlo, essendo, a suo dire, amico della moglie ed estraneo ai fatti rappresentati nei documenti che aveva custodito per suo conto.

Il Ciancimino, quindi, aggiungeva che il foglietto manoscritto che poi ha dato luogo all’odierna contestazione di reato era “certamente” già contenuto in una busta spedita nel 1990 dal padre da Roma alla sua abitazione di Palermo affinché fosse conservata dalla moglie in attesa di disposizioni.

Dal tenore delle dichiarazioni rese si evince che Massimo Ciancimino ebbe a consegnare il documento in questione con l’inequivoco intento di supportare le assente indicazioni del padre sul c,d. “quarto livello”, comprendente, a suo dire per quanto appreso dal padre, soggetti che, nell’ambito delle Istituzioni, intrattenevano rapporti con la mafia, e, nel contempo, ebbe ad asserire in modo altrettanto inequivoco che il padre, rispondendo ad una sua domanda sulla identità del “signor Franco” cerchiò il nome “F/C GROSS” e tracciò la linea che unisce tale cerchiatura al nome “De Gennaro” contestualmente scritto dal padre medesimo in sua presenza.

Il nome De Gennaro aggiunto poi

Sennonché, è stato accertato dagli esperti della polizia scientifica di Roma che, in realtà, il nome “De Gennaro” è stato trasposto su quel documento mediante fotocopiatura di un altro scritto autografo di Vito Ciancimino.

In sostanza, nel documento classificato “1 PA” (appunto, il documento consegnato da Massimo Ciancimino il 15 giugno 2010 e già acquisito agli atti contenente sul fronte l’elencazione dei nomi E Restivo, A. Riffini. Santovito, Malpica, Gros, Parisi, Sica, De Francesco, Contrada, Narracci, Finocchiaro, Delfino, La Barbera e Finocchi, uno dei quali, Gros, cerchiato ed unito con una freccia al nome De Gennaro e sul retro la scritta “contatti Massimo”), oltre che l’elenco dei nomi ivi manoscritto a stampatello è attribuibile, con grado di probabilità, a Massimo Ciancimino, mentre soltanto la scritta sul retro è attribuibile con certezza a Vito Ciancimino.

Sebbene Massimo Cancimino per anni abbia dominato la scena, proponendosi come depositano di segreti inquietanti e inedite verità sulle collusioni tra esponenti istituzionali e dei Servizi ed esponenti mafiosi, la Corte d’Assise di primo grado, per le ragioni che saranno tra breve succintamente richiamate, è giunta alla conclusione che il suo contributo all’accertamento della verità dei fatti è inutilizzabile perché, come acclarato all’esito di una rigorosa verifica dibattimentale, è risultato inquinato sia dai reiterati mendaci delle sue copiose dichiarazioni, sia dalle manipolazioni e falsificazioni parimenti accertate nella mole di documenti prodotti dallo stesso Massimo, incluso quello che figura nella contestazione del reato di calunnia.

Solo pochi documenti sono risultati genuini. I più o sono dei falsi, o sono frutto della manipolazione di documenti originari effettivamente riconducibili al padre Vito, come accertato attraverso le accurate indagini di polizia scientifica cui sono stati sottoposti e su cui hanno riferito i testi escussi nel giudizio di primo grado (alle udienze del 10 e 11 novembre 2016 sono stati esaminati, congiuntamente, su richiesta e con l’accordo di tutte le parti, i testi Maria Vincenza Caria, Marco Pagano, Sara Falconi e Anna Maria Caputo, tutti appartenenti al Servizio di Polizia Scientifica di Romanelle).

E ciò vale pure per il c.d. “papello”, sebbene non siano emersi elementi certi di manipolazione. Non si può escludere, sulla scorta di altre convergenti risultanze probatorie, che esso sia materialmente esistito, ma è certo che o venne distrutto, prima di poter venire nella disponibilità di Massimo, o comunque questi non vi ebbe mai accesso, non essendovi prova, al di là di rassicurazioni dello stesso Massimo Ciancimino che il documento propinato come il famoso “papello” siano ascrivibile ai vertici mafiosi.

La Corte, nel ribadire di non poter tener conto a fini probatori delle dichiarazioni e delle produzioni documentali di M.C., tuttavia precisa che non ha ritenuto di fame uso né in favore ma neppure contro l’ipotesi accusatoria, per ciò che concerne l’accertamento dei fatti e delle responsabilità per il reato di minaccia a corpo dello Stato; nel senso che nel caso di divergenza o contrasto con altre fonti, le propalazioni di Massimo Ciancimino non possono addursi a prova contraria e non valgono

neppure a insinuare il dubbio sull’attendibilità di altri dichiaranti. Mentre tutte le volte che Massimo Ciancimino ha reso dichiarazioni che concordano con quelle di altre fonti, il suo narrato non vi aggiunge nulla e non può trarsene alcun effetto corroborativo, stante la propensione dello stesso Ciancimino al mendacio e la conseguente cronica impossibilità di discernere nelle sue propalazioni il vero dal falso.