Voglia di mafia: quando i clan diventano agenzie di servizi


 

A Palermo, un candidato alle ultime Regionali ha fatto contattare da un intermediario un boss scarcerato, per ottenere un pacchetto di voti. A Napoli, la camorra si occupa della distribuzione degli alloggi popolari. A Milano, i padrini offrono false fatture a imprenditori che vogliono evadere il Fisco. Storie dell’Italia che non disdegna di parlare con le mafie, oggi attente a riconquistare consenso e territori

Si allunga giorno dopo giorno la lista di insospettabili alla ricerca delle mafie, che sembrano ormai diventate un’agenzia di servizi. Per commercianti, imprenditori, professionisti. E anche politici in cerca di voti facili. L’ultimo a farsi avanti in Sicilia è stato Salvatore Ferrigno, candidato in corsa alle Regionali siciliane con i Popolari Autonomisti di Raffaele Lombardo, lista che sosteneva il candidato del centrodestra Renato Schifani. Per prudenza ha mandato avanti una fidata intermediaria per contattare il capomafia di Carini Giuseppe Lo Duca, boss della vecchia guardia tornato in libertà dopo avere scontato il suo debito

con la giustizia. L’ennesima storia che racconta quella drammatica voglia di mafia che sembra impazzare da Sud a Nord, nell’Italia dove le organizzazioni criminali vengono colpite da continui arresti e processi, ma sembra che per un pezzo di società non sia affatto un problema. Tutt’altro.

“Una persona educata”

A Palermo, un commerciante si rivolse ai mafiosi di Brancaccio perché aveva subito delle rapine. Invece di presentarsi alla stazione dei carabinieri o in commissariato preferì cercare gli uomini di Cosa nostra. Che aprirono subito un’indagine e individuarono i responsabili: vennero picchiati a sangue. E la refurtiva restituita. Un altro commerciante palermitano voleva invece recuperare dei crediti, un altro ancora puntava al monopolio della vendita di una marca di jeans nel suo quartiere. A tutto pensa Cosa nostra, solerte agenzia di servizi. E allora il pizzo non è più una tassa imposta, è invece il pagamento di un servizio richiesto. Perfetta rappresentazione di quel paradigma che lo storico Salvatore Lupo ha chiamato “bisogno di mafia”.

Bisogna rileggere le parole di certi commercianti di Palermo per capire davvero. Giuseppe Amato, titolare di un famoso ristorante nel centro storico, si lanciava in grandi lodi per l’amico boss Giuseppe Calvaruso, suo socio occulto: “Tu hai avuto quello che hai avuto. Diciamo che tu sei mancato, le persone come te mancano, Peppe. Le persone perbene come te mancano. Capito?”. Parola accorate dopo la scarcerazione di Calvaruso. Il giovane padrino era compiaciuto per tante lodi: “E lo so”. Amato ribadiva: “Le persone come te mancano. A noi ci sei mancato… Io, mio fratello… siamo sbandati… ora ci sei tu di nuovo… abbiamo bisogno perché sei una persona educata, una persona di fondamentale… di etica, di certi principi… Questo è il discorso. E purtroppo… bisogna sempre andare a migliorare nella vita. E gli amici ci vogliono, Peppe”.

Parole che valgono più di un trattato di sociologia criminale. Il boss Calvaruso, “una persona educata, di certi principi”. Sentite cosa diceva il fratello di Giuseppe Amato, Benedetto, finito pure lui indagato per intestazione fittizia dalla procura di Palermo: “Peppe, quello che vogliamo fare insieme a te casomai è creare veramente un impero. E poi consolidarlo, e campare di rendita”. Diceva ancora Benedetto Amato: “Come si dice… squadra che vince non si cambia. Praticamente noi dovremmo conservare i soldi, di questa miniera che ci ha lasciato mio nonno e praticamente se è il caso costruire altre situazioni… e questo mai abbandonarlo”.
Per la mafia che prova in tutti i modi a riorganizzarsi, le parole di chi la cerca sono un moltiplicatore di crescita, purtroppo.

Ecco come parlava Calvaruso dopo tutte quelle lodi dei suoi amici commercianti: “È venuto adesso il momento di fare tesoro, anche e soprattutto degli errori… e di mettere a frutto i sacrifici… Appena scendo ci facciamo una bella chiacchierata, tra fratelli però”. Era il 2017, Calvaruso era ancora al soggiorno obbligato a Riccione, ma presto sarebbe tornato a Palermo. E puntava a riprendersi un pezzo di Cosa nostra: l’anno successivo, sarebbe diventato il reggente del potente mandamento di Pagliarelli, mentre continuava a fare affari fra il Brasile e la Sicilia. Il prototipo del boss manager sostenuto da un nuovo consenso sociale.

Una casa in prestito

Chiamano i boss anche per una casa, con la camorra funziona così. Nei rioni della periferia di Napoli o in alcuni insediamenti della provincia, gli alloggi popolari sono storicamente gestiti con la violenza dai clan. Per trasformare quegli insediamenti in piazze di spaccio, la criminalità organizzata sceglie persone di assoluta fiducia e sfrutta anche le necessità dei più deboli per garantirsi un tessuto connivente e omertoso.  Spesso sono persone che non hanno legami diretti con le cosche e non sono neppure impegnate nelle attività legate alla droga, ma sfruttano una contiguità solo “ambientale” per procurarsi un luogo dove andare a vivere, come nel caso di giovani coppie che provano a mettere su famiglia. Parlano con il boss, concordano una somma da pagare e ricevono le chiavi.

E pazienza se, per liberare quell’appartamento, è stata usata la violenza nei confronti dei legittimi assegnatari o di chi le occupava precedentemente. La scelta di rivolgersi alla camorra però alla lunga può rivelarsi controproducente. Quando cambiano gli assetti criminali e l’equilibrio del “sistema” si modifica, i nuovi capi si riprendono le case. Cacciano con la forza le famiglie e le assegnano nuovamente. Come accaduto recentemente a Scampia, dove un uomo e la madre, dopo 27 anni interrotti di occupazione abusiva di un alloggio sono stati buttati fuori con la forza per un debito di droga, o forse perché le dinamiche camorristiche del rione erano cambiate.

In questo modo, il controllo del territorio si rafforza e si acquisisce consenso. Anche con la pandemia da Covid-19 i clan sono diventati un punto di riferimento. La fase più acuta della crisi economica, sottolineano gli analisti della Direzione investigativa antimafia, “ha avuto effetti piano sociale ed economico incrementando da un lato la povertà nelle aree più depresse della regione, dall’altro rappresentando un’occasione di affermazione e rinnovato consenso per i clan più potenti”. La distribuzione di generi alimentari nei vicoli e la disponibilità di denaro liquido da prestare a chi era in difficoltà, ha fatto aumentare la “voglia di camorra”. Ma come sempre, anche in questo caso la violenza è in agguato: con una mano le cosche prestano o regalano, nell’altra impugnano la pistola.

Il vip del reality prestanome dei boss

Dietro la voglia di mafia si nascondono i prestanome più fedeli dei padrini. E’ la storia di Franco Terlizzi: dalla discreta notorietà quattro anni fa in tv, come naufrago all’Isola dei famosi, al sodalizio con Davide Flachi, figlio del boss della Comasina Pepè Flachi, morto a inizio anno. Terlizzi finisce nella retata della Guardia di Finanza di Milano e Pavia che, con la Dda di Milano, lo individuano come prestanome del boss, volto pulito dietro cui agisce il boss della ‘ndrangheta milanese. Per il suo ruolo di titolare fittizio di una carrozzeria, utilizzata per le frodi alle assicurazioni, e un negozio di abbigliamento, Terlizzi ha anche un regolare stipendio.

Ex pugile ed ex pr alla discoteca Hollywood di Milano: nella sua palestra sfilano attori e cantanti, soubrette e veline, calciatori e allenatori, tutti immortalati sulle foto di Instagram. Ma la realtà è che Terlizzi è nella completa disponibilità del boss, da cui dipendono i suoi guadagni. “Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire (…) qua se non ci sono io la baracca qua chiude (…) – lo minaccia Flachi, intercettato, esattamente un anno fa -. Ti ho portato due lavori che ti faccio stare in piedi solo con quei due lavori.. Tu non fai un caz.. e prendi il grano… ma ti rendi conto Franco? Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire”. E ancora: “Coi sinistri guadagniamo (…) 70mila euro ce lo siamo portati a casa”, gli risponde l’ex pugile. Dal carcere Terlizzi finisce pochi giorni dopo l’arresto ai domiciliari, perché per il gip non è coinvolto nei fatti più gravi, il traffico di droga e le estorsioni contestate al clan. Ma restano le relazioni pericolose con il boss.

Le cartiere del clan per l’evasione fiscale

Gli imprenditori brianzoli potevano invece contare sulle fatture false dei boss. Al centro ci stava Orlando Demasi, 46 anni, affiliato al “locale” di ‘ndrangheta di Giussano (Monza e Brianza),  proiezione al nord del clan di Guardavalle, provincia di Catanzaro: imponeva tassi usurari fino al 30 per cento al mese, ma offriva anche una montagna di false attestazioni agli imprenditori bisognosi di creare fondi neri da sottrarre al Fisco. Tutto questo grazie a una rete di società cartiere. I due volti della mafia al nord: da una parte, la centrale del terrore per chi non restituiva i prestiti; dall’altra, le contrattazioni per le fatture false. Con conseguente clima omertoso degli imprenditori, come ha denunciato la gip Fiammetta Modica nell’ordinanza di custodia cautelare che ha accolto le richieste del pm della Dda di Milano Francesco De Tommasi: “Appare pacifico – scrive la giudice – come Demasi ponesse a disposizione di una platea di imprenditori le società cartiere e il sistema della false fatturazioni”. Il tratto distintivo “è quindi distante dallo stereotipo della vittima vessata, trattandosi piuttosto di soggetti che coltivano cointeressenze conseguendo a loro volta vantaggi”.

La mafia buona

In Sicilia, è come se la mafia delle stragi fosse stata solo una parentesi. Dopo la stagione della repressione, i boss sono tornati all’essenza di sempre: la mediazione, la sostituzione rispetto al potere statale. In piena pandemia, il giovane capomafia dello Zen Giuseppe Cusimano ha distribuito la spesa alle famiglie meno abbienti, attraverso un’associazione intitolata a Padre Pio. All’epoca, non si sapeva ancora che fosse il padrino più autorevole della zona, aveva però un fratello in carcere per droga e lui stesso incontrava l’autorevole capomafia Calogero Lo Piccolo.

Il giorno che svelammo, sulle pagine di Repubblica Palermo, che stava distribuendo la spesa nella periferia dello Zen durante il lockdown, ci affrontò con un post su Facebook: “Per aiutare e sfamare la gente sono orgoglioso di essere mafioso”. E ancora: “Signori, lo Stato non vuole che facciamo beneficenza perché siamo mafiosi, al posto di ringraziare mi fanno sti articoli”. Eccolo un giovane boss alla ricerca di consenso sociale: voleva ribadire la favoletta della mafia buona, tanto cara ai vecchi padrini. Una breccia, drammatica, riuscì a farla nel popolo dei quartieri: “Siamo tutti mafiosi”, scrisse un giovane per esprimergli solidarietà, quel giorno. “Giornalisti peggio del coronavirus – aggiunse una donna – Peppe continua la tua opera”. E per davvero il giovane boss proseguiva nella sua attività criminale.

Mentre lanciava post appassionati, Cusimano meditava di uccidere quei “quattro fanghi”, così li chiamava, che disturbavano la gente del quartiere. “Senza il casco ci andrei – diceva – minchia l’infarto ci verrebbe”. E ancora: “Questi lo sai che vogliono? che ci arrestano a tutti e prendono campo loro”. “Picciuttazzi” che arrivavano da altri quartieri. Lui, ufficialmente solo un commerciante di bombole, si vantava dei suoi revolver: “Uno ce l’ho alla putia (al negozio – ndr). La 38 ce l’ho a Carini”. E non immaginava che il suo telefonino stesse registrando in diretta ogni parola, grazie al Trojan installato dai carabinieri del nucleo Investigativo. Qualche mese dopo, il 21 gennaio 2021, venne arrestato con l’accusa di essere il nuovo capomafia dello Zen.

Nelle strade e sul web voleva essere il padrino vicino alla gente, prototipo del mafioso che ha abbandonato il clamore della strategia stragista e ora prova a riconquistare i quartieri. Ma non è una mafia nuova. Cusimano reinterpretava tutta la vecchia mitologia criminale in chiave 2.0. Anche quando c’era da entrare in campagna elettorale. La domenica in cui si votava per Camera e Senato, il 4 marzo 2018, mostrò il certificato elettorale su Facebook e scrisse: “Il mio dovere lo fatto forza M5S”. Sgrammaticature a parte, il giovane rampollo di mafia aveva mandato il suo messaggio: anche lui uomo del rinnovamento, attento ai bisogni della gente del quartiere. Magari, non aveva neanche votato per davvero Cinque stelle, il partito che ha fatto della lotta alla mafia uno dei suoi vessilli, ma al boss importava comunque apparire uomo del cambiamento. Per avere sempre un’immagine rispettabile. Ma era sempre un mafioso: “Non temo né morte, né fame, ma di più la gente infame”, scriveva sui social. E, ancora: “Papà, non temere non farò mai il carabiniere”.

Il giovane boss ci teneva all’immagine di persona rispettabile (per il mondo del crimine). Sui social, meditava già nuove iniziative per aiutare la gente dello Zen. Ma, intanto progettava anche nuove imprese criminali, con l’obiettivo di rimpinguare le casse dell’organizzazione. “Appena metti un esplosivo nel mezzo ti faccio vedere se non apre”, sussurrava. Voleva organizzare l’assalto a un portavalori, con “l’esplosivo al plastico”. E continuava a mettere in guardia i ragazzi ribelli dello Zen. A uno disse, in modo chiaro: “Il sole spunta di qua”. Ma, evidentemente, l’interlocutore non voleva fare un passo indietro. “Non ha ancora capito niente”, sentenziò Cusimano. In realtà, la mafia non cambia. E non ha mai abbandonato l’opzione della violenza.

Il prezzo del servizio

“Ferrigno mi piace, perché come politico non è male…- diceva il boss di Carini Lo Duca – ha pure le forze economiche”. Erano soprattutto i soldi a interessare il mafioso di Carini, e lo diceva chiaramente all’intermediaria: “Tu pensi che noialtri che andiamo a fare una campagna elettorale senza guadagnare una lira? Noi dobbiamo guadagnare”. Parole chiarissime espresse da uno dei più autorevoli rappresentanti della mafia-agenzia di servizi. Lo Duca, classe 1972, padrino della nuova generazione, fece anche un prezzo all’intermediaria: “Minimo ci vogliono mille euro a paese”. E poi vendeva il suo prodotto più richiesto, un perfetto controllo del territorio: “Io posso corrispondere al momento di tre al massimo quattro paesi e basta. Sono Carini, Torretta, Cinisi, Terrasini… Da lì non mi sposto più perché non voglio più avanzare”. I soldi necessari per il servizio non erano solo per sé, ma anche per i rappresentanti locali di Cosa nostra. L’agenzia. “In ogni paese io gli devo lasciare la metà”. Come fosse il rappresentante di un’azienda ribadiva ancora la bontà del prodotto: “Non meno di duecento voti a paese”. E garantiva l’esecuzione del servizio, il bene più prezioso che di questi tempi i mafiosi assicurano è la riservatezza. Così, Lo Duca diceva di volere stare a distanza dal candidato: “Io non ci voglio parlare, tu per me sei il filo diretto”.

11 Luglio 2022