DI GIACOMO GIUSEPPE

 

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“Cinà in carcere mi disse di aver scritto il papello”

Dalle stragi di Falcone e Borsellino alle bombe del 1993. Dall’omicidio del maresciallo Guazzelli, all’attentato nei confronti del commissario Rino Germanà. E poi ancora l’esplosione dell’autobomba davanti alla caserma dei carabinieri di Gravina di Catania, il ritrovamento del proiettile nel giardino di Boboli, a Firenze, il tentativo di attentato nei confronti del carabiniere Luigi Venezia e l’uccisione del commissario Giovanni Lizzio. Tutti questi fatti sarebbero collegati tra loro da una regia unica che inserisce nella campagna stragista che Cosa nostra portò avanti nei primi anni Novanta. A riferirlo in aula al processo trattativaStato-mafia, in corso di fronte alla Corte d’assise di Palermo, è stato il collaboratore di giustizia catanese Giuseppe Di Giacomo. Rispondendo alle domande del pm Vittorio Teresi (in aula assieme ai sostituti Francesco Del Bene e Nino Di Matteo), dopo aver ripercorso la propria carriera criminale all’interno della famiglia dei Laudani, ha spiegato che all’interno di Cosa nostra vi era un gruppo segreto più ristretto, una sorta di “direttorio”. A farne parte sarebbero stati Totò RiinaLeoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro: “Loro rappresentavano questa élite all’interno di Cosa nostra stessa. A loro erano vicini Fragapane per Agrigento, i Capizzi di Ribera e Santo Mazzei per Catania. Nel 1991 vi furono riunioni in cui si decise questo attacco al cuore dello Stato attraverso atti intimidatori, omicidi eclatanti ed eccellenti per creare una tensione, un terrore ed assoggettarte tutte le istituzioni”. Ciò avvenne con forza dopo la delusione determinata dall’esito del maxiprocesso in Cassazione, portando all’avvio della stagione delle stragi. E contro la dura e inattesa reazione dello Stato agli attentati a Falcone e Borsellino, che aveva portato all’introduzione del regime carcerario “41 bis”, Cosa nostra avrebbe risposto con altre bombe.
Ci aspettavamo che lo Stato capitolasse – ha detto – e invece istituzionalizzò il 41 bis e allora cercammo di farli tornare indietro con le bombe del ’93 a Roma, Milano e Firenze, ma anche con una serie di omicidi di rappresentanti dello Stato: carabinieri, guardie penitenziarie e atti intimidatori come il proiettile fatto trovare nel giardino dei Boboli”.

Strategia comune
Il pentito ha anche ricordato che Santo Mazzei non era una figura gradita all’interno di Cosa nostra catanese ma fu di fatto “imposta” la sua affiliazione da Leoluca Bagarella e Riina. “I corleonesi vedevano in lui una figura più sicura rispetto a Santapaola che si era rifiutato di fare alcuni attentati nel territorio catanese. Nello specifico quello nei confornti del Presidente dela Regione Siciliana Rino Nicolosi. Santapaola comunque, per mantenere vivi i rapporti, proposero poi altri omicidi come quello del giornalista Alfano o del commissario Lizzio”.
Tra gli aspetti evidenziati dal collaboratore di giustizia anche la vicinanza di Santo Mazzei con le ideologie politiche dell’estrema destra. “Anche per questo piaceva a Bagarella” ha ricordato, rispondendo alla precisa domanda di Teresi.

La rivendicazione con la sigla della Falange armata
Tornando a parlare del proiettile rinvenuto presso il giardino di Boboli ha aggiunto: “Santo Mazzei mi disse che rientrava in quella strategia. Venne anche fatta una rivendicazione attraverso una sigla che prevedeva una serie di situazioni perché si allentasse la morsa del carcerario dei mafiosi. Il nome della sigla? Lui usò l’espressione di una Falange, come una falange di estremismo del catanese ora perl non ricordo bene il nome (chiaro il riferimento alla Falange armata, ndr). Lui mi disse che non c’erano pregiudizi agli attacchi allo Stato ed alle istituzioni ed anche su vendette trasversali contro collaboratori di giustizia. Questi discorsi, questa cultura dello stragismo e dell’assoggettamento dello Stato volevano anche esportarla alla ‘Ndrangheta ed alla Camorra”.
Tornando al fine di quelle azioni d’attacco alle istituzioni Di Giacomo ha spiegato che l’intento era soprattutto quello di abolire l’ergastolo, visto come priorità ancor più che l’eliminazione del 41 bis.

Da Graviano a Cinà, i colloqui in carcere
Il pentito catanese ha poi riferito di alcuni dialoghi avuti durante il periodo di detenzione vissuto in comune con Filippo Graviano e il medico Antonino Cinà, imputato al processo. “Ricordo che con Graviano affrontammo l’argomento che riguardava la fine dell’esecuzione della strategia stragista – ha ricordato – Cessò con l’arresto dei Graviano perché nonostante Bagarella fosse ancora fuori non accadde più nulla”. Quindi ha anche riferito di uno sfogo del boss di Brancaccio: “Mi diceva che ‘se non hanno contato in questa situazione, sicuramente c’è stata qualche garanzia’. Probabilmente si è arrivati a qualche accordo”.

Quel contatto con Berlusconi e Dell’Utri
Con il mafioso palermitano aveva anche parlato di altre vicende, come gli attentati alla Standa di Catania “per poter arrivare a Berlusconi”. “Questi attentati – ha aggiunto Di Giacomo – erano stati fatti per assoggettare Berlusconi ed indurlo al pagamento di una tangente e poi per realizzare un nuovo progetto politico, per aprire un nuovo filone dopo l’omicidio Lima che era un altro canale per il mondo politico. Si ebbe anche un incontro tra Aldo Ercolano e Dell’Utri. Da chi l’ho saputo? Dallo stesso Ercolano, non entrammo nel dettaglio ma mi disse che la questione era stata definita. Da Graviano invece seppi che loro erano a Milano per poter avere contatti con Marcello Dell’Utri. Ricordo espressamente che parlammo anche di alcune lettere minatorie inoltrati ad alcuni organi mediatici tra cui il Tg5. Erano delle missive minatorie e si elencavano vari punti per far desistere le istituzioni”. Con il boss di Brancaccio, che ricorda entusiasta perché nel trattato di Lisbona si parlava della revisione dell’ergastolo in tutta la Comunità europea, commentò persino il pentimento di Gaspare Spatuzza. “Ciò avvenne quando ci siamo rivisti a Parma – ha ricordato – C’era stato un inasprimento del 41 bis quando il ministro era Alfano. Questo discorso me lo fa a Tolmezzo e poi lo riprnedemmo nel 2009 e mi disse: ‘Deve stare attento il presidente Berlusconi. Perché se dovesse collaborare un soggetto dallo spessore criminale diverso dallo Spatuzza deve stare molto attento”. Il riferimento riporta immediatamente le lancette della memoria proprio al dicembre 2009, quando sia Filippo che Giuseppe Graviano deposero al processo contro l’ex senatore Marcello Dell’Utri in uno storico confornto proprio con Spatuzza.
Ed in quel giorno, in aula non volarono né ingiurie né minacce con Filippo Graviano che augurava “all’amico e fratello” Gaspare “tutto il bene del mondo”. Fu poi la volta di Giuseppe Graviano che si avvalse della facoltà di non rispondere senza rinunciare a mandare un messaggio criptico: “Per il momento – disse, sempre in videoconferenza – non sono in grado di essere sottoposto a interrogatorio”. Vedremo “quando il mio stato di salute me lo permetterà”. Una settimana, neanche a farlo apposta, gli venne revocato l’isolamento diurno di cui tanto si lamentava.

Il papello
Sempre in carcere Di Giacomo seppe poi del papello. A parlargliene fu proprio Antonino Cinà, con il quale ha trascorso un periodo di detenzione all’interno della stessa sezione in cui le due celle erano tra loro confinanti e distanti pochi metri. “Fu scritto nell’interesse di tutta Cosa nostra – ha ricordato il pentito – anzi di tutte le mafie, perché, se ad esempio abolivano l’ergastolo, non ne beneficiavano solo i boss mafiosi, ma era un vantaggio anche per la ‘Ndrangheta e la camorra”.
E poi ancora: “Mi raccontò diverse cose. Mi disse che quando venne arrestato dalla Dia, rispetto al passato si dimostrò disponibile anche alludendo ad un’eventuale collaborazione con la giustizia. Quando loro lo chiamarono da lì a poco fu messo a conoscenza che su di lui c’erano altre indagini a suo carico. E lui esternò: ‘Pago il papello che scrissi per ‘u cristiano’. Questo termine era un modo convenzionale per intendere Totò Riina. Poi in un’altra occasione, dopo che aveva parlato con Carlo Greco, che gli chiese chi glielo aveva fatto fare, tornò ad esprimere la propria amarezza di aver scritto queste situazioni. A chi era destinato il papello? Non me lo disse. Lo doveva dare a Riina ma era per altre persone. Se fu consegnato? Una volta mi disse di stare tranquillo che l’ergastolo non l’avrei fatto perché aveva avuto un esito positivo”.

Verso la conclusione
Prima della conclusione dell’udienza odierna, con il controesame del collaboratore di giustizia rinviata al prossimo 9 febbraio per permettere ai difensori di visionare il verbale illustrativo delle dichiarazioni sue dichiarazioni, giunto solo nei giorni scorsi alla Procura, i pm hanno annunciato di voler rinunciare a tutti i “restanti” testi in lista. Dopo il controesame del sostituto commissario Salvatore Bonferraro della Dia che terminerà nell’udienza di domani, per l’accusa non ci saranno altri testi da sentire (salvo le richieste già effettuate alla Corte su eventuali esami e confronti su cui si devono ancora sciogliere le riserve). Il pm Di Matteo ha anche chiesto alla corte “in vista dell’esame degli imputati” di sapere al più presto se gli imputati vorranno o meno essere interrogati. Finora sono stati sentiti solo due degli imputati: Giovanni Brusca e Massimo Ciancimino.