Giacomo Giuseppe Gambino s’impicca in carcere il boss di Cosa nostra

 

Un pezzo di lenzuolo per cappio. Un nodo alle sbarre della finestrella del bagno e poi la morte tra due armadietti metallici nella cella del centro clinico di San Vittore. E’ morto così, sabato notte, un altro corleonese di ferro, un fedelissimo di Totò Riina, un boss palermitano che aveva scalato i gradini della gerarchia di Cosa nostra sino alla Cupola. Giacomo Giuseppe Gambino, 55 anni compiuti lo scorso 21 maggio, capomandamento della famiglia palermitana di San Lorenzo, si è ucciso forse perché riteneva di avere un tumore. O forse perché, anche per un boss, il regime dell’ isolamento totale diventa insopportabile quando pure la carta della malattia, che tante altre volte aveva portato agli arresti domiciliari, non solo era inutile ma aveva provocato nuovi guai giudiziari. DI CERTO prospettive per lasciare San Vittore dove era stato traferito da Pianosa proprio per motivi di salute, Gambino non ne aveva. E la sua morte richiama subito alla mente il nome di un altro suicida eccellente, Antonino Gioé, mafioso di Altofonte, accusato come Gambino della strage Falcone e impiccatosi a Rebibbia tre anni e mezzo fa. Con Gambino sono sette i detenuti che hanno scelto di morire quest’ anno nel carcere milanese. Il boss era già stato condannato all’ ergastolo per l’ omicidio del giudice Scopelliti e, secondo la procura di Caltanissetta, era anche tra i responsabili, oltre che della strage di Capaci, anche di quella di via D’ Amelio in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Non solo. Gambino, sottoposto al regime del “41-bis”, l’ articolo del regolamento carcerario che impone l’ isolamento, diurno e notturno, sarebbe stato uno dei killer del vicecapo della Mobile di Palermo Ninnì Cassarà. Lo ha accusato il pentito Salvatore Cancemi al processo che è ancora in corso: assieme a Nino Madonia e Giuseppe Greco “scarpuzzedda”, Gambino avrebbe materialmente premuto il grilletto di uno dei tre kalashnikov da cui partirono le micidiali raffiche che il sei agosto dell’ 85 uccisero Cassarà e l’ agente Roberto Antiochia. Ma il nome di Gambino non compare solo nelle indagini sui delitti che hanno insanguinato la storia d’ Italia: appena pochi mesi fa, a luglio, alla periferia di Palermo, i detective della Dia hanno scoperto un micidiale arsenale in un bunker sotterraneo: armi efficienti e potenti, tra cui lanciarazzi anticarro, che erano, secondo le rivelazioni del pentito Giovanbattista Ferrante, nella disponibilità della famiglia di San Lorenzo, capeggiata da Gambino. Il boss era sottoposto al “41-bis” ma, secondo il suo legale Franco Marasà, soffriva di sindrome depressiva e di crisi cardiache. La Procura di Palermo lo aveva, però, accusato di avere falsificato, con la compiacenza di un medico un esame cardiologico. Il caso doveva essere esaminato venerdì 6 dicembre, quando assieme al cardiologo doveva comparire davanti al gip Alfredo Montalto. Di Giuseppe Giacomo Gambino parlano tutti i più importanti pentiti di Cosa nostra, a partire dal primo e non creduto Leonardo Vitale. Da Buscetta a Mannoia, da Mutolo a Cancemi tutti gli attribuiscono un ruolo di primo piano. Succeduto al boss Rosario Riccobono, eliminato con il sistema della lupara bianca nell’ 82, Gambino era diventato il capo della cosca. E le ricostruzioni di questi ultimi anni lo indicano come uno dei mafiosi palermitani che da tempo si davano da fare per l’ aggiustamento dei processi e poi tra i più convinti dell’ alleanza con i corleonesi di Riina cementata nella guerra di mafia finita nell’ 83 e sviluppata tra affari e latitanze sino ad arrivare alla messa a punto e all’ organizzazione della strategia delle stragi del ‘ 92.

la repubblica 2.12.96