L’origine della Mafia: dal Pizzo ai rapporti con lo Stato

 

La leggendaria origine della Mafia

Toledo, anno 1412. I fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, tre membri di una società segreta di stampo criminale detta la Garduña, devono vendicare l’onore della sorella e uccidere l’uomo che l’ha violentata, un protetto del re di Spagna. L’omicidio gli vale una condanna a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di detenzione, da scontare nel carcere dell’Isola

Durante questo lungo periodo dietro le sbarre, i tre fratelli gettano le basi di un’utopica organizzazione criminale basata sull’onore, sull’omertà e il sangue. Quando tornano in libertà, le loro strade si separano. Osso resta in Sicilia e dà vita a Cosa Nostra; Mastrosso e Carcagnosso si spostano rispettivamente in Calabria e in Campania, dove fondano la ‘ndrangheta e la Camorra.

Secondo la tradizione popolare, questa è l’origine della Mafia, ma è bene specificare che Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono personaggi del folklore assunti a mito fondativo per nobilitare la nascita della malavita, e la stessa Garduña è il frutto della fantasia degli scrittori iberici dell’Ottocento. Un’altra teoria vuole che Cosa Nostra abbia raccolto l’eredità dell’antica setta dei Beati Paoli, attiva a Palermo nel XII secolo. Anche in questo caso siamo di fronte a una società segreta liquidata come semplice leggenda.

I Gabellotti dell’Ottocento

Sul fronte storico, l’ipotesi più attendibile è legata alla Sicilia di inizio Ottocento. Il contesto è quello di un’isola arretrata dove vige ancora il sistema feudale. Da una parte ci sono i grandi proprietari terrieri, dall’altra i braccianti, la forza lavoro della nobiltà. Nel mezzo di queste due classi sociali si inseriscono i gabellotti, un ceto medio di capitalisti che prende in affitto il feudo dai proprietari terrieri e lo gestisce per contro proprio.

Nella Sicilia pre Unità d’Italia, i gabellotti girano armati e a cavallo, sfruttano i braccianti, riscuotono le gabelle, si arricchiscono e, in alcuni casi, riescono addirittura a elevarsi a proprietari terrieri comprando i feudi dei nobili in difficoltà economiche. La Mafia, quindi, nasce come braccio armato di quei gabellotti che impongono la difesa dei raccolti con la violenza. Iniziano le intimidazioni, i ricatti, i servizi di protezione e le cosiddette lettere di scrocco, in cui si chiede una somma di denaro in cambio dell’incolumità personale e dell’integrità dei beni. Tutto ciò è a discapito della plebe, che subisce senza possibilità di replica e finanzia l’ascesa sociale di questi signorotti locali.

Si va così delineando uno stretto rapporto di controllo e protezione – o repressione, a seconda dei casi – legato all’omertà e allo strapotere delle confraternite criminali, la cui struttura interna si ispira al concetto di famiglia, il principale modello di aggregazione sociale dell’epoca. Quello che succede in Sicilia non è affare dello Stato e la stessa Mafia – in realtà più una proto-Mafia, perché siamo ancora agli albori della sua storia – è, a tutti gli effetti, uno Stato nello Stato.

Le prime indagini sulla Mafia

Nel 1837, il procuratore della Gran Corte di Trapani Pietro Calà Ulloa redige un documento in cui descrive l’esistenza di alcune cosche coinvolte in dubbie attività criminali. Siamo ancora lontani da un’effettiva presa di coscienza e il termine Mafia entrerà a far parte dell’immaginario collettivo siciliano solo nel 1863, con la rappresentazione del dramma popolare I mafiusi di la Vicaria.

Nel frattempo, l’isola è sempre più terra di nessuno e, proprio come i Borbone prima di loro, dopo l’Unità d’Italia, anche i Savoia non riescono a imporre la propria autorità sul territorio. A partire dal 1861 vengono introdotte la tassa sul macinato e la leva obbligatoria, due novità esportate dal nord che generano tensioni sociali e nuove ondate di criminalità.

Il neonato Stato italiano non ha un controllo diretto sulla Sicilia e l’apparato burocratico locale finisce per fare affidamento sulle cosche mafiose, famiglie che conoscono bene i meccanismi sociali della zona e possono tenere a bada il popolo.

Sono anni in cui Cosa Nostra approfitta del vuoto di potere e si impone sempre di più nelle aree rurali dell’isola. È un fenomeno in crescita, che certo non può passare inosservato e, nel 1864, Nicolò Turrisi Colonna dà alle stampe l’opuscolo Pubblica sicurezza in Sicilia, in cui svela l’esistenza di una presunta organizzazione criminale che minaccia proprietari terrieri e contadini.

Il termine Mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nel 1865, con un rapporto del prefetto di Palermo Filippo Antonio Gualterio. Per delle indagini più approfondite bisogna attendere il 1875, anno in cui viene istituita la Giunta parlamentare d’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia.

La conclusione a cui giunge il deputato lombardo Romualdo Bonfadini è che la Mafia non è un’associazione a delinquere organizzata. Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino non sono dello stesso avviso e, nella loro inchiesta del 1876, pubblicano il documento Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, un testo che analizza la Questione Meridionale dal punto di vista sociale e identifica i mafiosi come una delle principali criticità dell’isola.

A differenza di Bonfadini, Franchetti e Sonnino sono convinti che la Mafia sia un’organizzazione ben strutturata, retta da una classe media di facinorosi che, in assenza del controllo dello Stato, si afferma e si arricchisce imponendo con la violenza i propri servigi.

Tale conclusione smuove la coscienza del governo e, nel 1877, il Presidente del Consiglio Agostino Depretis invia a Palermo il prefetto Giovanni Nicotera per reprimere il fenomeno del brigantaggio e le sette di stampo mafioso. Per circa un decennio seguono inchieste e processi in cui si scopre che tutti i criminali portati alla sbarra appartengono a delle associazioni con statuti, segni di riconoscimento e riti di iniziazione in comune.

I Fasci siciliani

Ma sul finire dell’Ottocento, nelle campagne siciliane, i gabellotti continuano ad affidarsi ai mafiosi e a gestire le terre per conto della nobiltà. Chi ne paga le conseguenze sono i contadini, che, dal 1891, iniziano a riunirsi in sindacati agricoli detti Fasci.

La situazione precipita nel giro di un paio di anni. Da un lato ci sono i capi socialisti dei Fasci, che chiedono contratti equi e condizioni migliori per i lavoratori; dall’altro c’è il governo Crispi, che non sembra disposto a scendere a patti con i dimostranti. Nel mezzo si inserisce la Mafia, che guarda bene ai suoi interessi e offre appoggio a entrambe le fazioni.

In particolare, il fondatore del Fascio di Corleone, Bernardino Verro, stringe un’alleanza strategica con un clan mafioso della città, a cui chiede protezione durante gli scioperi. Addirittura, per rafforzare la sua posizione ottiene l’affiliazione alla cosca corleonese dei Fratuzzi.

Intanto, il 1° febbraio del 1893, arriva la prima vittima eccellente della Mafia, il direttore del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo, ucciso con 27 pugnalate dopo aver denunciato la presenza di politici legati a Cosa Nostra nel consiglio di amministrazione.

In Sicilia, la situazione è fuori controllo e, nel 1893, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi ordina all’esercito di reprimere i Fasci con la violenza. La Mafia osserva l’evolversi degli eventi e capisce che deve ritirare l’appoggio ai socialisti per schierarsi solo dalla parte Stato.

Dopo atti di guerriglia, disordini ed esecuzioni sommarie, il 4 gennaio del 1894 viene dichiarato lo stato di assedio di tutta l’isola. I militari sciolgono i Fasci e ne arrestano i capi, ma il vero vincitore è la Mafia, che ha saputo trovarsi dalla parte giusta al momento giusto e mantenere intatta la sua influenza sul territorio.

Il rapporto Sangiorgi

Così arriviamo agli ultimi anni dell’Ottocento. Al fine di sgominare il fenomeno mafioso, il nuovo Presidente del Consiglio Luigi Pelloux invia a Palermo il questore Ermanno Sangiorgi, che, nel 1899, riesce a far arrestare il parlamentare Raffaele Palizzolo e il boss Giuseppe Fontana per il loro coinvolgimento nell’omicidio di Emanuele Notarbartolo.

Le indagini sui delitti di stampo mafioso si allargano a tutto il territorio palermitano e Sangiorgi è il primo a intuire che i vari episodi di criminalità non sono atti individuali nati su iniziativa dei singoli, ma decisioni prese su base collegiale da cosche mafiose che si contendono le zone d’influenza.

Addirittura, arriva a scoprire che le due più importanti e ricche famiglie palermitane, i Florio e i Whitaker, vivono a stretto contatto con i mafiosi della cosiddetta Conca d’Oro, a cui pagano un pizzo – ovviamente non negoziabile – per ottenere protezione.

Nell’ottobre del 1899, il capo della cosca di Malaspina, Francesco Siino, si salva da un attentato del rivale Antonino Giammona, a capo della cosca dell’Uditore, e finisce nelle mani di Sangiorgi, che lo convince a collaborare e confessargli i segreti della Conca d’Oro.

Grazie a Siino, il questore stila un rapporto in cui descrive il modus operandidella Mafia e svela l’esistenza di otto famiglie che compongono la famigerata Conca d’Oro. Rapine, estorsioni, pizzo, commercio illegale di limoni, falsificazione di banconote… Dietro la realtà rurale della Sicilia c’è un’organizzazione che mette le mani su tutto, che si infiltra nelle aziende e nelle istituzioni, che opera una gestione congiunta del territorio e amministra un fondo comune destinato alle famiglie e all’assistenza legale degli affiliati in prigione.

Nella notte fra il 27 e il 28 aprile del 1900, Sangiorgi emette un mandato d’arresto per 218 mafiosi. Ne finiscono alla sbarra 51 e il processo viene celebrato nel maggio del 1901. Siino ritratta le sue dichiarazioni e tantissimi testimoni si presentano davanti ai giudici per manifestare attestati di stima nei confronti degli imputati. Dopo un mese, si giunge a 19 assoluzioni e 32 condanne a 3 anni e 6 mesi di carcere per associazione mafiosa.

Il commento di Sangiorgi è questo:

«Non poteva essere diversamente, se quelli che li denunciavano la sera andavano a difenderli la mattina»

Dal primo Novecento alla Grande Guerra

All’inizio del Novecento la situazione non cambia e la Sicilia balza agli onori delle cronache di mezzo mondo per una serie di omicidi. Il più eclatante ha luogo la sera del 12 marzo del 1909, quando il poliziotto newyorkese Joe Petrosino, in Italia per indagare sulle relazioni fra Mafia e Mano Nera statunitense, viene ucciso a Palermo con quattro colpi di pistola. Il governo mette a disposizione una somma di 10.000 lire per invogliare le persone a fornire indizi sugli assassini, ma l’omertà è più forte dei soldi e le bocche restano chiuse.

Lo stesso destino spetta anche a Bernardino Verro. Dopo il fallimento dei Fasci, rinnega l’affiliazione alla Mafia e si trasforma in un acerrimo oppositore. Intanto prosegue la carriera politica e, nel giugno del 1914, diventa il primo sindaco socialista di Palermo. Il suo mandato è breve e, il successivo 3 novembre, due sicari lo freddano con undici colpi di rivoltella.

Nel 1915 l’Italia entra nella Prima guerra mondiale e le campagne siciliane perdono sia i giovani in partenza per il fronte sia i reticenti alla leva, che scappano nelle foreste e iniziano a vivere di rapine. In tutta l’isola cresce la criminalità e, senza forza lavoro, i contadini sono costretti a darsi all’allevamento di bestiame. Questi due fenomeni sfociano in un’unica grande conseguenza: chi si è dato alla latitanza finisce per derubare chi si è improvvisato pastore e, nel mezzo, si inserisce ancora una volta la Mafia, che si fa garante della protezione delle fattorie e media la restituzione del bestiame fra vittime e banditi.

Con la fine della Grande Guerra la situazione non cambia, e Cosa Nostra può accrescere la propria influenza sul territorio grazie al malcontento del Sud. I giovani di ritorno dal fronte si lamentano per le promesse non mantenute dal governo e in molti cercano di rifondare i Fasci; altri si danno al banditismo o si uniscono alla Mafia. Le impotenti autorità locali devono di nuovo affidarsi ai boss della malavita, che si impongono sui dimostranti e soffocano col sangue le manifestazioni.

Cesare Mori, il Prefetto di Ferro

Dopo la marcia su Roma e l’inizio del Ventennio Fascista, nel novembre del 1922, Mussolini riceve a Roma una delegazione del sud a cui assicura una rapida risoluzione della Questione Meridionale. In Sicilia, infatti, le percentuali di analfabetismo sono spaventose, cui si somma povertà e arretratezza del sistema agricolo. La popolazione è scontenta – spera che ci siano riforme come l’abolizione dei feudi e un’equa ridistribuzione dei terreni – ma dovranno passare ancora due anni prima che il Regime faccia qualcosa di concreto.

Secondo un aneddoto del Duce, il pretesto per l’inizio di una campagna antimafia glielo fornisce un viaggio in Sicilia del 1924. Il 7 maggio, Mussolini e la sua scorta arrivano nel comune palermitano di Piana degli Albanesi, dove li accoglie il sindaco Francesco Cuccia, detto Don Ciccio, un boss malavitoso che, durante un breve percorso in macchina, si avvicina all’orecchio del Duce e gli sussurra queste parole:

«Voscenza non ha bisogno di questi sbirri. Non ha niente da temere finché sarà in mia compagnia»

Mussolini fa finta di niente, abbozza un sorriso e, nel frattempo, chiede ai suoi uomini di svolgere delle indagini. Il giorno successivo è ad Agrigento. Adesso sa chi è Don Ciccio, qual è il suo ruolo nell’amministrazione del territorio e quanto è grande il suo potere: un potere così vasto da superare quello del Regime. Il Duce non ci sta – nessuno può rivaleggiare col Fascismo – e, nel bel mezzo di un comizio in pubblica piazza, promette di debellare il fenomeno mafioso.

L’uomo della provvidenza è Cesare Mori. Mussolini rientra a Roma, lo nomina prefetto prima di Trapani, poi di Palermo, e gli dà carta bianca per intraprendere una guerra senza quartiere fatta di rastrellamenti e arresti su larga scala.

I suoi metodi, talvolta brutali e poco convenzionali, sono il frutto di un’intuizione

Il Prefetto di Ferro, come lo chiameranno in seguito, capisce che Cosa Nostra è un tramite fra il popolo e lo Stato, un intermediario che va assolutamente sradicato per dimostrare ai siciliani che lo Stato è più forte della Mafia, che può offrire una protezione migliore.

Ma la Mafia ha radici molto profonde e non è facile smuovere il tessuto interno della Sicilia. Questo Mori lo sa bene e se la Mafia gioca sporco, lo Stato deve giocare ancora più sporco.

Un perfetto esempio pratico di questa linea di pensiero è il celebre rastrellamento di Gangi. Il 31 dicembre del 1925, Mori mobilita esercito e carabinieri e marcia su questa piccola roccaforte di banditi para-mafiosi, dove sa che i criminali su cui sta indagando si sono rifugiati per trascorrere il Capodanno in famiglia.

All’alba del 1° gennaio del 1926, le truppe circondano Gangi, tolgono l’acqua, tagliano le comunicazioni con il mondo esterno e il sindaco riceve un telegramma in cui il Prefetto di Ferro parla chiaro:

Intimo tutti i latitanti esistenti in questo territorio di costituirsi alle forze dell’ordine entro 12 ore. Decorso il termine, sarà proceduto nei confronti delle famiglie, dei possedimenti e di ogni specie di favoreggiatore, sino alle estreme conseguenze”.

Durante l’assedio, Mori ordina di non aprire il fuoco in nessun caso – non vuole che i mafiosi abbiano la soddisfazione di una sparatoria – poi, a ultimatumscaduto, passa alle maniere forti: prende in ostaggio le famiglie dei delinquenti, sequestra i loro beni e li costringe a costituirsi.

La propaganda fascista lo innalza a eroe nazionale, ma il suo lavoro non è ancora finito

Il 4 ottobre del 1927, a Termini Imerese si apre il processo ai mafiosi di Gangi. A coordinare le indagini c’è il procuratore Luigi Giampietro, un magistrato che Mussolini ha mandato in Sicilia per completare in aula, con condanne e detenzioni, l’operato di Mori sul campo.

Anche in questo caso vige la regola dell’umiliazione. Non bisogna solo sconfiggere la Mafia, ma è necessario annichilirla, ferirla nell’orgoglio e mostrare al popolo che i mafiosi non sono nulla in confronto allo Stato.

Così, nel primo giorno di udienze, i 154 imputati sfilano fra la folla, a piedi nudi e in catene, e prendono posto in aula. Il 10 gennaio del 1928, i giudici emettono le sentenze con condanne che vanno dall’ergastolo a 30, 10 o 5 anni di detenzione. Lo stesso modus operandi si ripete per tutti i processi della prefettura Mori e il risultato è che molti scappano dall’Italia e si uniscono a Cosa Nostra statunitense, qualcuno collabora con la giustizia, altri ancora si limitano a tenere un profilo basso in attesa di tempi migliori.

La propaganda fascista pubblicizza il Prefetto di Ferro come l’uomo che ha sconfitto la Mafia, ma la verità è un’altra

Il 23 giugno del 1929, Mussolini manda un telegramma a Mori e lo richiama a Roma per sopraggiunta anzianità di servizio. La guerra a Cosa Nostra prosegue senza di lui e negli anni ’30 compare un rapporto di polizia che fa luce sulle vere condizioni dell’isola. Anche se l’Italia è convinta che Mori abbia sgominato la criminalità organizzata, la Mafia sta solo dormendo ed è in attesa di riaffermare il suo controllo sul territorio.

Lo sbarco in Sicilia e la presunta collaborazione fra Mafia e Alleati

Nell’ultima fase del Ventennio Fascista si susseguono arresti, inchieste e processi. Si fa avanti Salvatore Anello, uno dei primi collaboratori di giustizia, che svela alle autorità il complesso schema delle strutture interne malavitose. Poi arriva la Seconda guerra mondiale e in Sicilia viene meno l’autorità del Regime, terreno fertile per una Mafia ferita e in cerca di riscatto.

Il 13 gennaio del 1943, va in scena la Conferenza di Casablanca, dove gli Alleati decidono di aprire un secondo fronte in Italia. Il successivo 10 luglio, un’imponente flotta raggiunge le coste sudorientali della Sicilia e sbarca senza quasi incontrare resistenze. È l’inizio della cosiddetta Operazione Husky, che porterà gli Alleati a liberare l’isola e spostarsi sull’Italia continentale.

In questo capitolo di storia della Seconda Guerra mondiale si annida una leggenda metropolitana che vede i mafiosi allearsi con l’esercito anglo-statunitense per agevolarne lo sbarco. La storiografia ufficiale non ha alcun documento a riguardo e questa fake news degli anni ’40 si ricollega a dei contatti fra i servizi segreti americani e il boss newyorkese Lucky Luciano.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1942. I sottomarini dell’Asse affondano regolarmente le navi statunitensi dirette in Europa e a Washington DC si diffonde il timore che possa esserci qualche fuga di notizie dai porti. I servizi segreti della Marina si rivolgono a Lucky Luciano e gli chiedono di verificare questo sentore. Anche se si trova in carcere, Luciano controlla ancora i sindacati portuali e accetta di collaborare con il governo in cambio di uno sconto della pena.

Fin qui, esistono rapporti e testimonianze che attestano l’effettiva alleanza fra governo statunitense e Lucky Luciano, ma il leggendario coinvolgimento di Cosa Nostra nell’Operazione Husky vuole che la CIA abbia interpellato il boss italo-americano anche per agevolare lo sbarco degli Alleati.

Secondo questa teoria, Lucky Luciano, poi graziato ed espatriato in Italia nel ’46, avrebbe accettato un ruolo da intermediario e fornito ai generali americani i contatti di alcuni dei più importanti boss della Sicilia.

È per questo che, il 10 luglio del 1943, gli Alleati non hanno incontrato quasi nessuna resistenza?

La realtà storica è un’altra. Siamo in una fase della guerra in cui l’Italia è in ginocchio. Da una parte c’è un esercito grande e disorganizzato, quello italo-tedesco; dall’altra gli anglo-americani, inferiori in numero ma ben armati e ben organizzati.

L’esercito dei fascismi è comunque perdente, con o senza intervento della Mafia

L’infiltrazione nell’AMGOT e la rinascita della Mafia

Leggende a parte, nel ’43, gli Alleati sbarcano, liberano la Sicilia e instaurano un governo provvisorio, l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories), che ha l’onere di provvedere all’amministrazione dell’isola.

In questo preciso momento storico, la Mafia fa la sua mossa

I capi dell’AMGOT devono sostituire i funzionari fascisti locali e trovare figure nuove a cui affidare i comuni e gli apparati burocratici della Sicilia. I soggetti ideali sono gli anti-fascisti, i dissidenti politici che durante il Ventennio hanno subito le persecuzioni del Regime. Il problema è che gli Alleati fraintendono il curriculum politico di certi individui e finiscono per fidarsi di mafiosi che si spacciano per vittime della repressione fascista.

Ed è così che il boss Calogero Vizzini diventa sindaco di Villalba, Nick Gentile ottiene l’amministrazione di Agrigento e dintorni, il ruolo di responsabile dell’ufficio per la requisizione dei cereali e degli alimenti va al capomafia Vincenzo Di Carlo… In genere i malavitosi arrestati durante la prefettura Mori vengono liberati o richiamati dal confino.

Con questa nuova infiltrazione nel tessuto politico della Sicilia, Cosa Nostra ricomincia a gestire i vecchi racket e ristabilisce la sua autorità sul territorio, ma non tutto è come prima. Nelle aree rurali non c’è più quello stretto legame con la popolazione e gli interessi della Mafia si spostano lentamente verso le grandi città, dove avrà inizio la grande speculazione edilizia degli anni ’50-’60 e l’immissione nel mercato internazionale degli stupefacenti. Seguiranno decenni di business fiorenti, stragi, guerre interne ed esterne. Una crescita esponenziale, un’affermazione di potere che ci riporta al 23 maggio del 1992.

Gli uomini passano, le idee restano

Giovanni Falcone sapeva di avere le ore contate, perché Capaci era la cronaca di una morte annunciata. Si racconta che un giorno, ai tempi delle lunghe ore di lavoro per l’istruttoria del Maxiprocesso, Paolo Borsellino gli abbia detto queste parole dal retrogusto auto-ironico:

«Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte. “Ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero, ma oggi, signori e signore, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”».

Un sogno, una suggestione, per alcuni un obiettivo, una missione. Sconfiggere la Mafia non è facile. Ce lo dimostra la sua storia fatta di indagini e processi, business illegali e infiltrazioni nella politica, pressioni sulla popolazione, opportunismo e capacità di adattarsi alle situazioni. Ma una cosa è certa. Come disse Falcone, “la Mafia è un fattore umano, e come tutti i fattori umani ha un inizio e avrà una fine”.