STORIA DI SALVATORE, PICCIOTTO PENTITO

 

PALERMO – Ma chi è questo Salvatore Di Marco: il primo a pentirsi di essersi pentito o un pentito vero che corre verso il sacrificio? Lui sostiene, a dir la verità, che chiamarlo pentito è uno sbaglio, almeno nel significato “buscettiano” del termine: “Io non ho svelato niente e ho denunciato solo me stesso”. Nei primi fotogrammi del processone, quel ragazzotto basso e nervoso che passeggia da solo nella gabbia numero 30 dell’ aula apre la galleria dei protagonisti che scriveranno la lunga storia di questo processo. Quando ieri l’ altro ha chiesto al microfono di poter sedere – lui, un pentito – accanto agli altri mafiosi, il grande bunker verde è rimasto di sasso: giudici, avvocati, pubblico, giornalisti. E due ipotesi agghiaccianti han cominciato a rincorrersi. Prima ipotesi: minacciando la famiglia, la mafia ha costretto il ragazzo a tornare nel mucchio, per essere sgozzato come un vitello. Seconda ipotesi: Salvatore e i suoi familiari avranno salva la pelle solo se il picciotto ritratterà le confessioni. Una bella responsabilità per la corte: accogliere o no la richiesta di Salvatore? E se poi, restituito alla vita comune del carcere, qualcuno gli pianta una coltellata nella pancia? Secondo i Pm Ayala e Signorino i quali hanno dato parere favorevole, questo rischio non esiste. Ma il presidente Giordano vuol pensarci su riservandosi una risposta. Vicenda tristemente esemplare quella di Salvatore Di Marco, anni 26, nato e svezzato a Corso dei Mille dove il primo dovere dei bambini è quello di crescere in fretta. Il papà fa il custode di una grossa azienda, la mamma fa bidella. Ha due fratelli e due sorelle. Famiglia numerosa, afflitta da immaginabili problemi, ma unita da affetti profondi. Salvatore frequenta le scuole medie, bivacca per qualche anno, poi va militare nei paracadutisti. Gli sarebbe piaciuto arruolarsi nei carabinieri, se un lancio disgraziato non lo avesse reso invalido. Tornato a casa, non gli resta che arrangiarsi. Un po’ come aiuto meccanico, un po’ come bidello. Un posto fisso non lo trova. Ristagna nei bar, allaccia rischiose amicizie. E’ la comune passione per le moto che lo porta a stretto contatto con Lo Verro e Fallucca, due balordi della borgata. Insieme progettano una rapina. Il 24 luglio del 1981 assaltano, con altri tre banditi, il vagone postale fermo allo scalo di Villabate Ficarazzelli, periferia orientale di Palermo. Bottino cospicuo: settecentosettanta milioni di lire. Troppo per poter passare inosservato. Filippo Marchese, boss del quartiere, aveva dato il suo assenso all’ operazione? No, non lo aveva dato. Lo Verro viene ucciso, anche Fallucca muore sotto i colpi della lupara. Salvatore, terrorizzato, fugge da Palermo. Ma dove va? Da chi va? Rientra in città di soppiatto, avvicina Vincenzo Sinagra detto “Tempesta”, gli offre il bottino della rapina in cambio del perdono da parte del clan Marchese. “Io non sapevo… non volevo”. Gli credono. Ma da adesso deve mettersi al servizio della cosca nelle file della banda Sinagra. Con delle mansioni precise: rubare auto e motociclette. “Fui costretto ad accettare”, racconterà ai giudici, “per salvare la mia vita e quelle della mia famiglia”. Quando, nell’ agosto dell’ 82, Vincenzo Sinagra (cugino dell’ omonimo chiamato “Tempesta”) viene arrestato, per Salvatore “finisce un incubo”. Anche se lo stesso Sinagra e Buscetta lo indicheranno ai giudici come appartenente alla cosca dei Marchese. Lo arrestano il 6 gennaio dell’ 84. Salvatore non batte ciglio. Nega per pochi minuti, poi dice: “Chiamatemi il giudice istruttore”. E racconta quel poco che sa, quelle azioni alle quali ha partecipato; scorrerie, rapine. Per due volte danneggiò altrettante moto rubate dopo aver saputo che avrebbero dovuto portare i killer all’ appuntamento con l’ omicidio. Un piccolo pesce, dunque, imputato di associazione per delinquere di stampo mafioso e qualche furto nelle gioiellerie. Un caso che i giudici prendono però ad esempio per sferrare un durissimo attacco alla debolezza e alle deficienze dello Stato. Di Marco, si legge nell’ ordinanza, è “vittima di una tristissima realtà sociale che spesso offre ai giovani in cerca di lavoro e di sistemazione, solo il delitto come facile e talvolta unico sbocco alle loro aspirazioni”. E’ credibile il giovane Salvatore? “Assolutamente credibile”. E’ sincero il suo pentimento? “Ha radici sicuramente morali”. Un bravo figlio, parrebbe, rovinato da un ambiente malsano. Paolo Gullo, il legale che assieme ad Aldo La Manna lo assiste al maxi-processo, sostiene che altrimenti non lo avrebbero prosciolto da reati più gravi come il traffico di droga e l’ ordinanza non gli avrebbe dedicato tanti apprezzamenti. D’ accordo. Ma Gullo sa a che cosa va incontro il suo assistito una volta mischiato agli altri imputati della mafia? Risponde così: “Nessun rischio. Il ragazzo non è un pentito, non ha nulla da temere. I due anni di carcere preventivo li ha trascorsi assieme a tutti gli altri. Solo cinque giorni prima del processo è stato messo in isolamento. E’ un detenuto modello: gli danno i colloqui premiali, gli consentono di telefonare. Proprio ieri mi ha chiamato: avvocato, mi ha detto, diteglielo voi di mettermi assieme agli altri, a stare da soli c’ è da impazzire”. Chissà se Salvatore è sincero o se sta al gioco che gli hanno imposto. Se lo sta chiedendo anche il presidente Giordano e quella che deve dare non è una risposta da poco. In gioco c’ è una vita umana, sullo sfondo della tragedia di cui Salvatore Di Marco è lo sfortunato protagonista si staglia un macigno che prima o poi cadrà sul processo. I pentiti entreranno oppure no dentro l’ aula verde? Parleranno oppure no? Quale protezione viene data alle loro famiglie? Sono interrogativi dai quali possono dipendere le sorti dell’ intero dibattimento. Quesiti che seminano preoccupazione e imbarazzo. Preoccupazione per la notizia piombata già da diversi giorni nelle stanze del palazzo di giustizia: la strategia della mafia si basa attualmente proprio sull’ intimidazione delle famiglie dei pentiti. Nessuna azione militare, taceranno le lupare. Il vertice mafioso intende smontare il processo privandolo di ingranaggi essenziali, cioè la testimonianza dei Buscetta, dei Contorno, di tutti coloro che nell’ ordinanza compaiono come “delatori”. Non sono queste delle semplici supposizioni, ma certezze derivate da precise indagini di polizia. L’ imbarazzo deriva da un’ altra domanda: come porre argine a questa sorda offensiva? Erigendo una barriera tra la mafia e le famiglie dei pentiti. Sembra una ricetta facile, ma purtroppo è invece molto complicata. Sentiamo cosa dice un sostituto procuratore: “E’ un problema che ci siamo posti più volte. Che si è posto anche il ministero. Nessuno ha mai saputo dare una risposta accettabile. Ai parenti più stretti dei pentiti della mafia abbiamo assegnato una “volante”. Personalmente penso però che serva a poco. Può risultare addirittura un segnale di riconoscimento per chi vorrebbe vivere al riparo. Alcuni, oltretutto, la scorta la rifiutano poichè non gli consente di sbrigare certi affari. Il rimedio più efficace lo hanno trovato gli americani, e a questo dovremmo ispirarci. Quale? Gli americani offrono ai parenti dei pentiti una nuova residenza, una nuova identità, denaro a sufficienza per sopravvivere. I pentiti interessati al dibattimento di Palermo sono venticinque. Se calcoliamo una media di cinque parenti stretti per ciascuno sommiamo 125 persone da proteggere a vista. Troppe? Sì, gli stessi magistrati del pool antimafia, non se la sentono, su questo tema, di calcare la mano. “Ci vorrebbero duemila uomini per scortare tutti gli scortabili d’ Italia”. Già, ma che guaio sarebbe se Salvatore Di Marco rimanesse da solo dietro le sbarre delle tre gabbie riservate ai pentiti.