Paolo Setti Carraro: “Anche i mafiosi cambiano”

 

Dopo 30 anni ha superato la rabbia per la morte della sorella Emanuela, uccisa dalla mafia con il generale dalla Chiesa. Oggi crede che tra i familiari delle vittime sia necessario superare “vecchi schemi”

Dieci anni fa Paolo Setti Carraro ha deciso di uscire da quella che definisce una situazione di “congelamento emotivo”. Erano passati trent’anni dalla morte di sua sorella Emanuela, uccisa dalla mafia nella strage di via Carini insieme al neosposo, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Sono stati gli anni della rabbia che – dice Setti Carraro – è “giusta, legittima, e umanamente comprensibile”. A un certo punto però non ce l’ha più fatta a “rimanere immobile”. Con altri familiari di vittime della criminalità organizzata, ha partecipato a un percorso del Centro per la giustizia riparativa e la mediazione penale del comune di Milano e del Gruppo della trasgressione: progetto diretto a stimolare la riflessione sulla rieducazione dei detenuti dentro e fuori dalle carceri. Una scelta che l’ha portato a incontrare molti condannati e a capire che “un cambiamento è possibile, anche nei mafiosi”.

Perché ha intrapreso questo percorso?

Ero stanco di restare chiuso nel mio dolore.

“Sono tra i pochi ad avere avuto una verità giudiziaria e sono contento. Ma esiste un’altra verità ed è quella sociale”Paolo Setti Carraro

Cosa ha scoperto incontrando i detenuti?

Che spesso sono persone con alle spalle una realtà limitata e violenta. Il problema è che il penitenziario ripropone modelli molto simili, a cominciare dal rispetto passivo di regole spesso astruse e dall’infantilizzazione del recluso. Invece dovrebbe responsabilizzare e far maturare una coscienza civile.

Un criminale può cambiare?

Sì, se gli vengono fornite adeguate opportunità. Vale anche per i mafiosi. L’ho visto con Roberto Cannavò, un ex killer della mafia catanese che ha ucciso 13 persone. Oggi è in libertà condizionale, lavora e va nelle scuole a parlare con i giovani delle scelte sbagliate che ha fatto da ragazzo. Certo, le conversioni improvvise sono eccezionali. Si tratta di percorsi che durano molti anni, che vanno seguiti e stimolati, ma sono possibili.

Una delle richieste dei familiari delle vittime di mafia è la verità. Quanto è importante?

Molto. Sono tra i pochi ad aver avuto una verità giudiziaria, e quindi giustizia, e ne sono contento. Ero soddisfatto quando ho saputo che gli assassini di mia sorella erano stati individuati, così come quando li hanno condannati. Ma persistere nel desiderio di vendetta è sbagliato. Il fatto che, per esempio, esista la possibilità di rito abbreviato con sconto di pena è una regola che la società civile si è data e non abbiamo alcun diritto di contestarla, di voler far prevalere la volontà individuale su quella collettiva. C’è poi un’altra verità, ancor più importante, ed è quella sociale.

Cioè?

Faccio l’esempio del Sudafrica, dove i parenti di chi ha subito i crimini dell’apartheid hanno avuto l’opportunità di raccontare pubblicamente la propria sofferenza, ricordando il valore della vittima e restituendole la dignità di essere umano, il suo valore per ciò che era e ciò che faceva. Udienze che sono state trasmesse in televisione e viste da milioni di persone. A volte in Italia si ottengono risultati simili grazie alla verità giudiziaria. Penso a Pietro Sauna: per molti anni si è creduto fosse stato ucciso a colpi di lupara per motivi personali. I parenti hanno fatto tante battaglie e solo pian piano è emerso che aveva denunciato un giro di estorsioni e tangenti dietro un mercato ortofrutticolo di Milano, andando a toccare determinati interessi. Esperienze come quella sudafricana però mi sembrano impossibili.

Perché?

La lotta alla mafia è un saliscendi: in alcuni momenti si attenua, in altri si riacutizza. Eppure conoscere, e quindi riconciliarsi, con quella parte della nostra storia sarebbe importante. Un filosofo spagnolo, George Santanaya, ha detto che chi non ricorda il suo passato è condannato a ripeterlo.

L’esperienza sudafricana è un’esperienza di giustizia riparativa. In Italia sono stati avviati percorsi positivi con i parenti delle vittime del terrorismo. L’idea non ha avuto lo stesso successo tra i familiari delle vittime di mafia. Perché?

Non direi che non abbia avuto successo, semplicemente non c’è stato alcun tentativo serio e concreto di avviare un percorso in questa direzione perché tra i familiari delle vittime di mafia esistono opinioni diverse.

Quali?

C’è chi considera possibile un cambiamento dei criminali, anche di quelli mafiosi: in particolare la cosiddetta manovalanza. E chi, a mi avviso, è congelato su dei vecchi schemi: crede che il mafioso sia irrecuperabile e ogni dialogo impossibile. Una visione arroccata sulla difensiva che non fa nulla per modificare lo status quo. Non siamo più sicuri buttando via le chiavi delle celle, ma assumendoci dei rischi, e investendo sulla formazione dei condannati. Non è detto che basti, né che funzioni o che funzioni con tutti, ma se non proviamo la società non evolve. Vorrei anche che ci si fermasse a pensare cosa significa passare 25 o 30 anni in carcere. Anni scanditi da sbarre e privazioni in cui alla pena ufficiale, cioè la sottrazione della libertà, se ne aggiungono altre collaterali e non dichiarate come la negazione del diritto alla sessualità o quello alla genitorialità responsabile. Dopo non sei più lo stesso. E, forse, hai sofferto abbastanza.

Ha mai incontrato gli assassini di sua sorella?

No, penso che dovrebbero essere loro a volerlo, in quel caso sarei disponibile a un incontro.

Li perdonerebbe?

Non mi piace parlare di perdono: presuppone un’asimmetria tra chi riceve e chi dà. Mi auguro un riconoscimento reciproco: da cittadino che ha sofferto a causa del male che gli è stato fatto a cittadino autore di quel male che si è ravveduto e si è assunto le proprie responsabilità, riacquistando dignità.

Da lavialibera n°13  31 marzo 2022


12.1.2023 Giustizia riparativa: un percorso fuori dagli schemi | lavialibera

Il fratello di Emanuela – uccisa dalla mafia nel 1982 insieme al marito, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa – racconta il viaggio interiore intrapreso dopo la morte della sorella, nella convinzione che un cambiamento, sia nei parenti delle vittime che nei carnefici, è sempre possibile

Prima ancora di cominciare a scrivere queste mie riflessioni avevo già bene in mente che scaturiscono da uno dei possibili percorsi che i familiari di vittime innocenti di mafia possono intraprendere nel corso della loro vita. Esse sono un tentativo di definire alcuni concetti conquistati nel cammino verso una pacificazione interiore. Ho piena consapevolezza che le sensibilità al riguardo sono tra loro diverse, benché discendano da eventi tra di loro simili, e che i vissuti personali e umani non sono affatto comparabili tra di loro.

Il trauma subito dalla vittima, o meglio dal familiare della vittima, ha una doppia valenza: quella individuale e quella sociale. A livello personale il trauma rappresenta una frattura da sanare, per restituire continuità alla storia personale di chi lo subisce. A livello sociale è uno strappo, una lacerazione delle regole della civile convivenza. Entrambi necessitano di essere riparati per ricomporre un’armonia tra il prima ed il dopo. È chiaro a tutti noi che il futuro non potrà mai essere uguale al passato ormai irrimediabilmente perduto, mentre la ricerca di un nuovo equilibrio è possibile, come processo di rinnovamento creativo, utile sia per le vittime, sia per la società, sia per gli autori di reato. La mancanza creata dall’offesa va colmata con la riparazione, non solo con la retribuzione.

A livello personale il trauma rappresenta una frattura da sanare, per restituire continuità alla storia personale di chi lo subisce. A livello sociale è uno strappo, una lacerazione delle regole della civile convivenza

Non basta risarcire economicamente la vittima o i suoi familiari, né espiare la pena con la privazione della libertà. Occorre viceversa che il responsabile risarcisca il danno riparando qualcosa per qualcuno e per la società, a cominciare da se stesso, uscendo dal ruolo e incamminandosi in una nuova direzione, coinvolgendosi nella ricucitura dello strappo prodotto.

Vittime strumentalizzate

Se ci si cristallizza nel ruolo di vittima si finisce col sacrificarsi, scegliendo il proprio annientamento di persona complessa e multipotente; ci si concentra sull’amplificazione del credito, in attesa perenne di un risarcimento, mentre l’autore del crimine viene introiettato come responsabile dell’infinita infelicità della nostra esistenza, giudicata immutabile. Nel nostro candore di vittima, le parole divengono oracolari, valorizzate non tanto per la verità che racchiudono, quanto per la fonte innocente da cui sgorgano. Ciò porta, da un lato, all’emarginazione, poiché ci eleviamo, volenti o nolenti, su di un piedestallo, e, dall’altro, al rischio di strumentalizzazione da parte del potere, che usa le nostre parole per rafforzare il proprio consenso, facendo leva sulla paura.

Diveniamo interessanti e utili non perché portatori di diritti, ma perché funzionali alla conservazione di un potere che ci usa, mentre nei fatti si disinteressa del nostro destino. La nostra sofferenza, anziché essere un’esperienza transitoria da superare, diviene uno stato in cui installarsi, come unica identità residua di una relazione affettiva perduta. Il reciproco riconoscimento di vittime, basato sulla fiducia, rischia di trasformare la solidarietà umana tra noi naturale in un legame acritico, che pretende identità di vedute, pena il tradimento di un patto tra umani sofferenti. Esiste un concreto rischio di chiusura identitaria, che ostacola il rimodellamento delle nostre relazioni e della nostra quotidianità. Occorre viceversa ritrovarsi come persona autonoma, allontanandoci dalla vittima oggettiva che siamo stati. Emanciparsi dall’identità vittimaria ci rende capaci di divenire responsabili del nostro futuro e del nostro destino. Guardando lucidamente ai fatti, non siamo noi le vittime, noi siamo vivi e proprio per questo in grado di agire per cambiare il nostro presente ed il nostro futuro.

Prigionieri del nostro passato

Il rancore è un sentimento ben noto a ciascuno di noi, parte delle nostre emozioni passate e presenti. Poiché si nutrono reciprocamente, il rancore si associa spesso al desiderio di afflizione del reo, che trasforma quest’ultimo in vittima, circondandolo di un’aura di valore che non ha. Il rancore è autodistruttivo e contemporaneamente rappresenta una resa, l’accettazione dell’impossibilità di riorganizzare la propria esistenza dopo il trauma, lasciandoci ingabbiati nel nostro passato.

Il rancore si associa spesso al desiderio di afflizione del reo, che trasforma quest’ultimo in vittima, circondandolo di un’aura di valore che non ha

È noto che qualcuno di noi è passato da questa forma di dipendenza emotiva ad altre forme di dipendenza, in una folle spirale autodistruttiva. Lo sforzo più grande che ci è richiesto è quello di riparare la nostra perdita senza rimuoverla ed al tempo stesso senza replicare l’offesa subita col desiderio di vendetta. L’offesa deve essere riconosciuta e riparata mantenendo la nostra identità e dignità di persona, mantenendoci autonomi dalle correnti di pensiero falsamente solidali e opportunistiche che ci vorrebbero uniti a rivendicare l’ infinita afflizione dei colpevoli.

Un dialogo necessario

Raccontare e raccontarsi, fare memoria, è la chiave del cambiamento. La storia di alcuni di noi che hanno avuto la fortuna di incontrarsi al Centro per la giustizia riparativa e mediazione penale del Comune di Milano ci racconta proprio questo. Anche attraverso giochi di ruolo orientati alla potenziale mediazione, ognuno di noi è riuscito a raccontarsi pienamente, a “scongelarsi”, a percorrere un lungo e travagliato viaggio di ritorno dal passato, sconfiggendo la propria impotenza. Sorprendentemente il nostro racconto è cambiato di pari passo con l’elaborazione del lutto; ciò non vuol dire che è cambiata la verità narrata, bensì che è cambiato il modo di rivivere episodi e dettagli, così come è cambiato il nostro modo di reagire al trauma. 

Ognuno di noi è riuscito a raccontarsi pienamente, a percorrere un lungo e travagliato viaggio di ritorno dal passato, sconfiggendo la propria impotenza

Da questa esperienza è nata in alcuni di noi la spinta al confronto con autori di reato: per comprendere il vissuto speculare e le motivazioni al reato, per testimoniare il danno ed il dolore prodotto con le loro condotte, e per attivare, senza pregiudizi, riserve e condizioni, un movimento compiuto assieme agli autori di reato verso un cambiamento culturale ed emotivo che ci può avvicinare, ponendo fine al ciclo della vendetta.

La riparazione reciproca

Il dialogo tra il responsabile di reato e la vittima metaforica, cioè non necessariamente colui che è stato oggetto della sua offesa o i suoi familiari, ma la vittima di un’offesa simile in natura ed effetto, permette al colpevole di ri-conoscere l’entità dell’offesa, affinché si assuma le sue responsabilità, mediti, e dia il suo contributo alla riparazione dello strappo. Siedono di fronte due figure simboliche delle “mancanze”: da un lato, chi ha perso una persona cara e, dall’altro, chi è venuto meno alle sue responsabilità verso la società e le regole che questa si è data. Riparare l’altro, ripararsi reciprocamente, confrontando le sofferenze di chi ha subito e di chi ha commesso l’offesa, aiuta a colmare il vuoto creato e responsabilizzare il colpevole, orientando il suo comportamento futuro verso il rispetto delle regole violate.

Questo confronto collaborativo, che secondo alcuni di noi incarna il concetto di giustizia riparativa, ricrea una prossimità tra esseri umani, senza rimuovere il passato, ma piuttosto valorizzandolo. Il confronto serve ad ampliare l’orizzonte del colpevole muovendolo dal sé, che si è nutrito del potere e della prevaricazione fino a negare l’altro, oltre il confine familiare e di clan, ad abbracciare e includere quello più ampio della comunità. Esso promuove un cambiamento culturale, l’acquisizione della coscienza di un bene comune e delle sue regole come fondamento e condizione del bene personale. È un percorso lento, incerto, faticoso, che non è per tutti, da tutti né di tutti. È raramente frutto di una folgorazione, più spesso è il risultato di una contaminazione fatta di esposizione a pensieri, valori, regole e sentimenti diversi da quelli del mondo di provenienza, che spesso sono gli unici conosciuti.

Il confronto serve ad ampliare l’orizzonte del colpevole, oltre il confine familiare e di clan, ad abbracciare e includere quello più ampio della comunità

La riparazione dello strappo del tessuto sociale è, a mio parere, percorribile solo con il coinvolgimento del colpevole e attraverso il suo cambiamento, la catarsi. Nel corso di questi confronti mi è capitato una volta di sentirmi chiedere scusa: per me chi si scusava esprimeva, forse per la prima volta nella sua vita, preoccupazione, senso di colpa e responsabilità delle azioni commesse, delle proprie mancanze verso le regole comunitarie. È questo un passaggio fondamentale dall’emozione (mi spiace) all’attenzione, al pensiero (ne ho colpa, me ne assumo la responsabilità), un primo importante passo verso la riparazione e la costruzione di una coscienza civica.

Vittime abbandonate

I sostegni di cui ognuno di noi ha avvertito, chi più e chi meno, il bisogno sono ancora estremamente scarsi e occasionali. Diversamente da quanto da decenni avviene, ad esempio, in Francia, i familiari di vittima di violenza in Italia sono troppo spesso abbandonati a se stessi. I  sostegni economico, legale, psicologico, e sociale, tuttora ampiamente carenti, sono fondamentali purché intervengano a ridosso dell’evento, quando massimo è il bisogno e maggiore la loro efficacia. Raggiungere questo obiettivo, colmare questa lacuna dovrebbe divenire un impegno su cui concentrare i nostri comuni sforzi futuri. Ciò non toglie che qualunque sostegno è comunque sostitutivo, orientato a mitigare le difficoltà e il dolore, ma incapace di restituire la perdita subita. 

La verità che andiamo incessantemente cercando e rivendichiamo come diritto è complessa ed eterogenea, risultanza di molte componenti: c’è quella giuridica, che pochi hanno ottenuto, con le sue evidenze fattuali, scientifiche e legali, raramente capace di soddisfare la nostra sete di giustizia. C’è la verità sociale, dove l’esempio riconosciuto, valorizzato, adottato come pratica quotidiana di vita e di comportamento ridà continuità e dignità al vissuto delle vittime innocenti. E quella storico-politica, che legge trasversalmente gli eventi, ricollocandoli su piani ricchi di profondità, diversamente dai piatti resoconti mediatici; che addita responsabilità individuali e collettive, le inazioni, i silenzi, le inerzie vigliacche e l’indifferenza degli spettatori.

Diversamente da quanto da decenni avviene, ad esempio, in Francia, i familiari di vittima di violenza in Italia sono troppo spesso abbandonati a se stessi

C’è la verità personale, esperienziale, narrativa, fonte di soddisfazione e di pacificazione emozionale proporzionate all’attenzione ed all’ascolto ricevuto, profondamente terapeutica, benché sempre molto dolorosa. Ed infine c’è quella dialogica, che necessita della voce e della verità anche dei colpevoli, risanatrice e riparativa del tessuto sociale. La verità, in particolare quella giudiziaria, che spesso è l’unica, quando possibile, per i parenti di vittime meno conosciute, costituisce con la memoria uno dei baluardi che possiamo opporre al potere mafioso, che punta al silenzio e all’oblio delle sue vittime. Quei capi che vivono, lottano e si sbranano per il potere, per imporre il loro potere sulla società attraverso l’intimidazione, la violenza e l’omertà, hanno in odio la giustizia poiché la loro eventuale condanna è emblematica dell’esistenza di uno Stato cui anch’essi sono sottoposti, in grado di giudicarli e di punirli, smentendo le loro minacciose pretese di impunità.

Per tutto questo essa è irrinunciabile. Sono tuttavia l’educazione, a partire dalla scuola, e la contaminazione culturale tra mondi antitetici, antagonisti e inconciliabili ad agire da leva per scardinare sentimenti, credenze e valori ereditati dal contesto di appartenenza, al fine di ottenere la diserzione auspicata dei soldati degli eserciti mafiosi. Cambiare la mente e il cuore dei mafiosi richiede sforzo e impegno condivisi, e tempo, ma è talora possibile, almeno nella mia esperienza. Rimane infine la speranza che questi cambiamenti possano aiutare a ricostruire pezzi di verità su episodi criminali oscuri, sui quali solo gli attori possono contribuire a portare luce, rinunciando alla seduzione dell’omertà.

Trasformazione meglio del perdono

Personalmente sono lontano dal concetto di perdono. Innanzitutto perché non mi riconosco il diritto a perdonare, non essendo la vittima diretta. Certo, la mia sofferenza è ed è stata profonda, ma esercitare il perdono in nome di chi ha subito la violenza mi lascia quantomeno sgomento. Come posso arrogarmi un diritto in nome di chi non c’è più, immaginando disposizioni d’animo che non mi appartengono? Quale parte della mia anima andrebbe a soddisfare la concessione del perdono? La mia arroganza o supponenza? Il mio desiderio di umiliare o affliggere con un rifiuto il colpevole? A lenire il mio senso di colpa? E’ l’assoluzione della mia impotenza?

Poi, nel concetto di perdono vedo un’asimmetria tra chi dona da una posizione di superiorità, acquisendo per di più un merito, e chi riceve il per-dono: una subalternità oggettiva del ricevente che confligge con l’idea di vicinanza, di prossimità tra esseri umani di pari dignità che rappresenta il senso del dialogo costruttivo in cui mi impegno. Inoltre, il perdono prescinde dall’avvenuto manifesto cambiamento, non è per definizione condizionale. Non a caso il perdono, un tempo appannaggio di re o imperatori, emanazioni di potere divino, è oggi riservato in forma di grazia alla massima carica dello Stato. O, per i credenti, a Dio. E poi, il perdono andrebbe richiesto, motivato, indirizzato precisamente a una persona. Con discrezione e riserbo.

Nel concetto di perdono vedo un’asimmetria tra chi dona da una posizione di superiorità, acquisendo per di più un merito, e chi riceve il per-dono

Proprio perché ha l’enorme valenza di alleviare il peso del rimorso nell’anima del reo confesso. Non può, per me, esistere un perdono generico, per quanto frutto di una generosa disposizione d’animo. Gesto prodigo, fastidiosamente richiesto ad uso e consumo dei media, slegato dai contesti e dai vissuti.  Come se il perdono fosse un doveroso risarcimento da parte dei familiari delle vittime, utile a saziare le aspettative di pacificazione degli spettatori, irrispettose dei tormenti e dei percorsi personali. Il perdono, la rinuncia volontaria al diritto al risarcimento come manifestazione di potere su di sé, può solo attenere alla sfera personale e tale rimanere nella massima discrezione, avvolto dal silenzio. Al perdono preferisco la trasformazione reciproca attraverso il lavoro di confronto e di dialogo.

Guardare al futuro

In sintesi, ammettendo di non conoscere, per mio limite, eventuali percorsi alternativi, intravedo in generale due possibili strategie per alleviare il dolore e la perdita provocati dal trauma: quella di mantenere un portamento eretto, rigido, ma passivo, benché pur sempre legittimo, che trova nel risentimento lo scudo protettivo, il rifugio, il riparo; e quella di sperimentare la meraviglia di guardare al futuro nonostante il trauma, uscendo attivamente dall’impotenza. Abbiamo conosciuto e vissuto il terribile, le nostre vite ne sono state sconvolte, ma non dobbiamo soccombere allo smarrimento. Cerchiamo assieme una nuova disposizione d’animo che dia un rinnovato valore al nostro dolore, praticando l’equilibrio difficile dell’etica dei giusti. 

Sabato 14 gennaio a Milano, presso la Camera del Lavoro – corso porta Vittoria 43, a partire dalle 10 – si terrà l’evento “Per una giustizia che accoglie e ascolta”, primo incontro sul tema della giustizia riparativa in riferimento ai reati di mafia. 

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