- Lucia: mio padre quel giorno aveva l’agenda rossa
- Lucia: vivo nell’ergastolo del dolore
- Audio deposizioni ai processi
- Audizione 12.7.2016 alla Commissione Parlamentare Antimafia
- Al Festival di Criminalogia – Video
LUCIA BORSELLINO
«Non si è nemmeno accorto che sono nello studio, seduta nella poltrona sistemata nell’angolo della stanza, mentre scrive questa lunga lettera (indirizzata alla Professoressa di Padova, n.d.r.). Mi chiede se mi piacerebbe trascorrere quel giorno al mare, a Villagrazia. “Magari riuscirò a vederti un po’ abbronzata, l’esame che avrai domani ti ha costretto finora a non fare neanche un bagno”. Fa il programma della giornata: subito Villagrazia, poi insieme io e lui a prendere la nonna in Via d’Amelio per portarla dal cardiologo, infine a casa: io a studiare, lui a lavorare. Rispondo di no: devo andare da una collega di università per l’ultimo approfondimento di studio, e poi è il giorno del suo compleanno, mi ha invitata a pranzo. “Ma quando li chiuderai, questi libri?”, protesta. Scuoto la testa: “Papà, non posso venire con te”. È inutile dire che non mi sarei preoccupata dell’esame, se solo avessi sospettato che quel suo viso dolce e sereno l’avrei rivisto solo qualche ora più tardi, dopo aver sentito, mentre studiavo a casa della mia amica, un boato in lontananza». Da “Paolo Borsellino” di Umberto Lucentini
Lucia Borsellino: «Mi colpiva la tenerezza di mio padre nei confronti di Rita Atria» – VIDEO
L’intervista del Tg1 alla figlia di Paolo Borsellino che ricorda come il padre si relazionò con Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia morta il 26 luglio 1992
“Mio padre fu lasciato solo. Nessuno ne impedì la morte”: lo sfogo di Lucia Borsellino
La figlia del giudice ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992 con un’autobomba in via D’Amelio è intervenuta a Pisa durante un incontro con gli studenti delle scuole superiori per la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi
“Credo di non urtare la suscettibilità di nessuno se dico che allora non si è fatto nulla per evitare che lo ammazzassero. Si può dire oggi che quel disegno mafioso non fu ostacolato abbastanza dallo Stato”. Parole dure quelle pronunciate da Lucia Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso nella strage di via d’Amelio del 1992 a Palermo. La figlia del giudice, che adesso ricopre il ruolo di assessore regionale, è intervenuta a Pisa durante un incontro con gli studenti delle scuole superiori per la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi.
“Già nella commemorazione di Giovanni Falcone a un mese dalla strage di Capaci – ha detto Lucia Borsellino – mio padre disse pubblicamente di voler essere ascoltato, ma nessuno lo ha mai fatto. Fu lasciato solo e oggi è giusto che si sappia. Non voglio fare parallelismi con la vicenda di Aldo Moro, ma penso che anche mio padre abbia vissuto una sorta di sequestro morale durato 55 giorni in attesa della sua morte. Mai prima di allora ci fu un omicidio tanto annunciato che lo ha costretto a vivere ingaggiando una vera e propria corsa contro il tempo che gli rimaneva a disposizione“. (fonte Ansa 9.5.2015)
Alla luce di ciò che è accaduto dopo è facile pensare che non si sia fatto tutto il possibile, perché questa tragedia si evitasse. Noi lo gridiamo a gran voce da anni, perché sono note a tutti le molte istanze di mio padre che non riteneva chela scorta fosse il metodo più sicuro per poter tutelare la propria incolumità, anche perché si metteva a rischio quella di ragazzi che avevano la mia età, perché Emanuela Loi aveva la mia età, ma nonostante tutto mio padre invocò l’aiuto dello Stato perché venissero rafforzate le misure di protezione, in particolare per quanto riguarda i siti dove più spesso si recava, come quello dell’abitazione della madre. A parte questo episodio che racconto per far comprendere la nostra consapevolezza non solo di quei giorni, ma di quegli anni, mio padre ebbe la scorta in occasione dell’uccisione del capitano Basile e quindi nei primi anni’80, per cui tutta la mia infanzia e quelladei miei fratelli è stata vissuta con la costante presenza di persone che hanno fatto questo lavoro con onestà, con amore, con dedizione e con trasporto umano assolutamente ricambiato, per cui posso dire di aver avuto una famiglia allargata da questopunto di vista.” Estratto da un’audizione di Lucia Borsellino in commissione antimafia, 12 luglio 2016.
“Il 19 luglio del 1992, il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai. Dopo la strage, la borsa ci venne riconsegnata dal questore Arnaldo La Barbera, ma mancava l’agenda rossa. Mi lamentai subito della mancanza di quell’agenda rossa. Ho avuto una reazione scomposta. Me ne andai sbattendo la porta. Chiesi con vigore che fine avesse fatto la borsa e il questore Arnaldo La Barbera, rivolgendosi a mia madre, gli disse che probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché ero particolarmente provata. Mi fu detto che deliravo. La Barbera escludeva che l’agenda fosse nella borsa”. Lucia Borsellino
ALL’ASINARA
Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorarla un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli…
Nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati… mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.
Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede «Perché non mangi?» non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa. Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara dove rimane con mamma e Manfredi fino ai primi di ottobre. Ultimata la stesura della sentenza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, l’emergenza sembra passata. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo». Da “Paolo Borsellino” di Umberto Lucentini
“Mi invidiano molto, i miei amici, quando si accorgono quale confidenza, amicizia, complicità c’è tra lui e noi. Anche loro, mi confessano, desidererebbero avere un padre come il mio. Ma, non lo nascondo, ho paura di deluderlo. Quante volte gli chiedo: «Da laureata in farmacia, come posso rendere la mia vita significativa?». È un chiodo fisso, per mio padre, quello del significato della vita. E a ogni occasione: «Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto. Ho dato alla luce e fatto crescere tre figli come voi, l’educazione e gli insegnamenti che potevo darvi li ho trasmessi. Ho la fortuna di non essere una persona sconosciuta, se pronunci il mio nome la gente sa chi sono, cosa ho fatto. Ho svolto il mio lavoro onestamente, ho saputo dare tanto amore alla mia famiglia, sono contento perché credo di essere stato un buon figlio, un buon marito, un buon padre». E aggiungo io, anche una persona disponibile con chi ha bisogno. Riesce a occuparsi di tutti, siano essi parenti o estranei, talvolta chiede sacrifici anche a noi pur di aiutare gli altri. Siamo contenti che lui ci coinvolga: «Non è bene che un padre si chiuda nell’egoismo familiare. C’è tanta gente che ha bisogno di amore e di aiuto.»
DI STRAGE IN STRAGE – ATTILIO BOLZONI, 21 LUGLIO 1992 – La giovane figlia del giudice assassinato, Lucia Borsellino, intervistata dal Tg5 ‘ MORIRE PER CIO’ IN CUI SI CREDE’ – “C’ è una frase che papà ci ripeteva sempre e che ha influenzato tutto il mio stile di vita. Era: è bello morire per ciò in cui si crede”. Così Lucia Borsellino, figlia ventiduenne del magistrato assassinato, ha ricordato il padre – durante un’intervista rilasciata ieri sera al Tg5 – “un uomo e un padre fantastico, di una bontà infinita”. Lucia ha ricostruito con voce affaticata dall’ emozione il loro ultimo colloquio. “Domenica mattina mi aveva proposto di andare al mare con lui e con mio fratello Manfredi. Ma io gli dissi che non potevo, che dovevo andare a studiare a casa di una collega di università perchè avevo gli esami in vista. Lui c’ era rimasto male. Mi chiese il numero di telefono della casa dove dovevo andare. Glielo diedi, ma lo dimenticò sulla scrivania. Verso il pomeriggio, non mi ricordo che ora fosse, ho sentito da casa della mia collega un rumore, poi sono cominciate ad arrivare le prime notizie, e sono scappata via….”. La famiglia Borsellino era molto legata a quella Falcone (“Vissi la tragedia di Capaci come sto vivendo quella di mio padre”) alla quale era accomunata “oltre che dalla forte stima, anche da una sorte comune, facevamo una vita simile”. Tanto che dopo l’agguato a Falcone, il giudice Borsellino “aveva cominciato a cautelarsi di più, a stare attento a cose alle quali prima non dava peso, per far stare noi più tranquilli”. Sì, il magistrato sapeva che ci poteva essere un nuovo attentato, “se lo aspettava”; no, non lo diceva, “con noi non ne aveva mai parlato chiaramente”; sì, “mio fratello conosceva i ragazzi della scorta”; no, Lucia non li ha mai conosciuti personalmente. E poi arriva la volta del ricordo dell’isolamento all’ Asinara. “All’ inizio non mi sembravano momenti troppo difficili, il posto era bellissimo. Ma poi abbiamo cominciato ad avvertire, giorno dopo giorno, una grande solitudine. Percepivamo che quella che facevamo non era una vita normale e non vedevo l’ora di venir via, di tornare a casa mia”. Non si sottrae ad alcuna domanda Lucia Borsellino, ma con la forza di una figlia che per anni ha temuto la morte violenta del padre dice, quasi a rendergli un ultimo omaggio: “E’ sempre stato un uomo fiducioso, sempre. E infatti è morto per questo: credeva troppo in quel che faceva. Il futuro? Vivere normalmente, secondo i suoi insegnamenti”. ‘ Occorrono giudici senza ombre’
LUCIA BORSELLINO, “MIO PADRE MORÌ COL SORRISO”.
Sulla storia personale di Lucia Borsellino è noto un aneddoto che dà la perfetta descrizione dell’educazione impartita da Paolo Borsellino e dalla moglie Agnese ai propri figli. Un’educazione intesa non soltanto come buone maniere e gentilezza, ma anche come capacità di rispondere “presente” quando il senso del dovere lo impone. Pure nelle situazioni umanamente più complesse: un po’ come Paolo Borsellino, che andò incontro alla morte pur di restare fedele alla sua onestà. Così Lucia, come racconta il fratello Manfredi, decise di compiere nell’immediato della tragedia dei gesti fortissimi:”Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre“
Le pagine di “CIÒ CHE INFERNO NON È” dedicate a PAOLO BORSELLINO e sua figlia LUCIA
Ricordiamo grande uomo, Paolo Borsellino, proponendo la lettura di una paginetta del libro “ciò che inferno non è” di Alessandro D’Avenia. Ciò che inferno non è” dedicate a Paolo Borsellino e sua figlia Lucia. Nel tardo pomeriggio Roberto, un professore, collega e amico di don Pino, legge il discorso che hanno preparato insieme: «Sono le sette di mattina di un giorno di luglio come questo, il 19 dell’anno scorso. Benché sia domenica, Paolo Borsellino si è svegliato presto come sempre. Nella stanza in cui sta lavorando alla luce ancora fresca del mattino, sua figlia Lucia è seduta sulla poltrona. Non se ne accorge tanto è preso da quella lettera, l’ultima pagina del magistrato. È la risposta a un’insegnante che lo ha invitato a partecipare a un incontro con dei ragazzi. Per una serie di disguidi, il giudice non è riuscito a intervenire né a scrivere, così la docente gli ha inviato un’altra lettera, lamentandosi del suo silenzio. Mortificato, Borsellino si scusa per la mancata presenza all’incontro e risponde ad alcune domande che la professoressa gli poneva. Il lavoro di quei mesi non gli ha consentito di trascorrere del tempo con i suoi figli: dormono quando esce di casa e al rientro è così tardi che sono già a letto. Quella domenica si è imposto di passarla con la famiglia, ecco perché all’alba è già al tavolo. Lucia racconta che il padre viene interrotto da una telefonata e solo allora si rende conto della sua presenza sulla poltrona nell’angolo dello studio. Le chiede se quel giorno ha voglia di andare al mare: la preparazione di un esame universitario le ha impedito fino a quel momento di prendere il sole. “Magari riuscirò a vederti un po’ abbronzata.” Le propone di fare un tuffo a mare, poi di andare insieme a trovare la nonna e poi di nuovo a casa: lui a lavorare, lei a studiare. Lucia rifiuta perché è il compleanno di un’amica che l’ha invitata a pranzo e con la quale farà il ripasso finale per l’esame. Dalla stanza di quell’amica, mentre studiano, Lucia sentirà l’esplosione della bomba sotto casa della nonna. La bomba che uccide suo padre e avrebbe ucciso anche lei.
Era una domenica in cui si era imposto di non lavorare e aveva portato sua moglie al mare. Poi era sparito con un amico per una gita in barca, senza avvertire la scorta, che lo aspettava a riva con apprensione. Avrà osservato per l’ultima volta la sua città, il suo immenso porto, dal mare. Quello stesso mare dal quale oggi spira quest’aria fresca e pulita.
Oggi tocca a noi ricordare quest’uomo che diceva a sua moglie: “Come sarebbe bella l’Italia se ciascuno realizzasse un suo piccolo sogno e lo offrisse agli altri”, e dimenticare invece la parola scritta nell’ultima riga della sua ultima lettera alla professoressa: “consenso”. “La forza della mafia è nel consenso” scriveva Borsellino.
Oggi noi siamo qui per ricordare un uomo che ha cercato di cancellare questa parola e ha pagato con la vita.
Ecco perché il comitato inter condominiale, con l’appoggio del centro Padre Nostro, ha richiesto ufficialmente che via Brancaccio venga re intitolata via Falcone e Borsellino. Perché, come dice sempre 3P, è dalle piccole cose che comincia ogni grande cambiamento.»
Il pubblico è numeroso. Una giornalista prende appunti. L’articolo le costerà il posto nel giornale per cui lavora. E non sarà l’ultima a commettere un simile errore: dire la verità.
Quando il professore finisce di leggere, il silenzio riempie per qualche secondo la piazza e i balconi e le finestre e il cielo. Poi un applauso porta via quel silenzio, scacciandolo insieme alla paura. Alessandro D’Avenia, “Ciò che inferno non è“, (pp.221-3)
Lucia Borsellino: “Lo studio usato da mio padre messo a soqquadro da ignoti”
Ignoti sarebbero entrati nel villino della famiglia Borsellino a Villagrazia di Carini e avrebbero messo a soqquadro lo studio utilizzato dal giudice Paolo Borsellino. La circostanza è emersa oggi al processo per i depistaggi sulla strage di via D’Amelio e sarebbe avvenuta pochi mesi dopo l’eccidio del 19 luglio 1992. A raccontarla, Lucia Borsellino, figlia del magistrato assassinato, che oggi ha deposto al tribunale di Caltanissetta in cui si svolge il dibattimento: “Entrammo nello studio di mio nonno che era quello dove mio padre si appoggiava per lavorare e lo trovammo tutto divelto, c’erano tutte le carte per terra. Era l’unica stanza che era stata messa a soqquadro”.
Non è, però, l’unico mistero raccontato da Lucia Borsellino, che, rispondendo alle domande del capo della procura nissena Amedeo Bertone e dell’aggiunto Gabriele Paci, ha svelato anche alcuni particolari sull’agenda rossa appartenuta al padre e misteriosamente scomparsa: “Mi recai direttamente in via D’Amelio. quel luogo è stato letteralmente vandalizzato. in quel momento tutto potevo immaginare tranne che ci potesse essere qualcuno che si infilasse nella macchina ancora fumante e prendesse quello che lui aveva lasciato. Chiesi ad Arnaldo La Barbera, quando mi riconsegnò la borsa di mio padre, come mai non fosse presente l’agenda rossa e mi fu risposto in maniera quasi trasecolata, come se io stessi parlando di un oggetto che non era presente perchè non c’era, non perchè qualcuno lo avesse sottratto”.
Lo stesso La Barbera, secondo chi indaga, sarebbe uno degli autori del depistaggio, e avrebbe gestito il finto pentito Scarantino, che sarebbe servito a spostare l’attenzione sulla strage, indicando false piste. Alberto Samonà 3.12.2018 IL SICILIA
Borsellino. Il dubbio di Lucia: “Mio padre tradito da uomini dello Stato”
L’anniversario della strage di via d’ Amelio, in cui 24 anni fa persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, arriva in un’ atmosfera carica di ombre, di dubbi, sull’attività dei poliziotti che tra il 1992 e il 1994 svolsero le indagini sull’attentato, tirando letteralmente fuori dal cilindro tre pentiti, e in particolare Vincenzo Scarantino, che in realtà nulla sapevano dell’eccidio e delle trame di mafia che lo avevano innescato. Arrivarono i primi processi, le contraddizioni, gli scivoloni e le ricostruzioni fasulle, nonostante qualche magistrato – innanzitutto Ilda Boccassini – avesse avvertito che Scarantino era solo un piccolo delinquente e non appariva credibile. Altri magistrati in fase di indagini e poi in aula di dubbi non ne ebbero, o quanto meno non ne mostrarono, se non in qualche caso -e tardivamente- magari per usarli come ciambella di salvataggio. I suoi racconti, palesemente imbeccati, portarono alla condanna di innocenti e, tra gli altri, anche di qualche mafioso, ma che comunque con la strage non c’entrava. Menzogne, insomma, smascherate dall’inchiesta che ha portato al quarto processo Borsellino e ad una indagine per depistaggio nei confronti di sei funzionari di polizia che dipendevano da Arnaldo La Barbera, dirigente della Polizia di Stato, deceduto anni fa. Ora per chiarire alcuni di questi aspetti -che saranno comunque approfonditi dall’indagine per il depistaggio- sono stati ascoltati una seconda volta Lucia e Manfredi, i figli di Paolo Borsellino.
Manfredi, oggi funzionario di polizia, ha risposto a una domanda del pm affermando che intorno a quello che era accaduto durante le indagini sulle stragi circolavano commenti pesanti: “Posso dire che, nel nostro ambiente, si parlava di colleghi che si sono salvati, tra virgolette, intuendo che c’era qualcosa che non andava, perché avevano preso le distanze dal gruppo d’indagine”.
Ai magistrati di Caltanissetta Lucia Borsellino ha detto: “Se fosse vero quanto emerso fino ad ora su eventuali manipolazioni da parte di uomini dello Stato vorrebbe dire che mio padre è stato ucciso due volte. Ciò che mi indigna –ha proseguito– sono i tanti non ricordo portati qui da tanti uomini dello Stato ha concluso”. Ascoltata qualche giorno prima in Commissione Parlamentare Antimafia la figlia di Paolo Borsellino era stata altrettanto netta. “Nel caso della strage – aveva chiarito Lucia Borsellino – non è stata fatto ciò che sarebbe stato giusto si facesse, il lavoro fatto è tanto ma per quello che sta emergendo credo ci si debba interrogare se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni. Scusate se dico questo in una sede istituzionale, ma il sospetto che uomini dello Stato abbiano potuto tradire un altro uomo dello Stato mi fa vergognare e mi spinge a chiedere un supporto a chi ritiene di potersi impegnare nella ricerca della verità”.
Quello che emerge da Caltanissetta -che qui è solo sommariamente tratteggiato-, le parole di Manfredi e Lucia Borsellino, interrogano magistratura e investigatori sul tempo trascorso, sul percorso tortuoso, discutibile, seguito nella ricerca della verità e sulle condotte per lo meno dubbie, se non decisamente inammissibili e gravi di alcuni. Interrogano altrettanto seriamente i comportamenti di una parte consistente dei media, dell’informazione, vertici di testate importanti: hanno ignorato -sordi a chi ne richiamava l’attenzione- che quanto tanti magistrati e investigatori onesti cercano da anni di scoprire, quello che accadeva a Caltanissetta, al processo Borsellino quater, riguarda la storia e la vita del Paese.
Via d’Amelio, Lucia Borsellino: “Mio padre attese invano una chiamata dai giudici”
Ha rotto il silenzio ed è tornata a parlare in un’aula di Tribunale Lucia Borsellino, l’ex assessore alla Salute della Regione Sicilia e figlia del Giudice ucciso assieme agli agenti della sua scorta nell’attentato di Via d’Amelio.La Borsellino ha deposto nei giorni scorsi a Caltanissetta al processo per il depistaggio della strage di via d’Amelio che vede come imputati i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
Borsellino che già in passato era stata chiamata a testimoniare, ha parlato dell’agenda rossa del padre, dello scontro che ha avuto con Arnaldo La Barbera, proprio in merito alla scomparsa di quell’agenda, ma ha anche ricordato anche altri episodi come l’intrusione subita nel villino di Carini, solo qualche mese dopo l’attentato, in cui è stato messo sottosopra l’ufficio del padre e poi il ricordo di quei 57 giorni tra Capaci e Via d’Amelio in cui il padre attese invano una chiamata, da parte dei giudici, che non arrivò mai.
Quella chiamata attesa invano – Nei 57 giorni che passarono tra Capaci e via d’Amelio, Paolo Borsellino che attendeva di essere chiamato dai giudici si espose anche mediaticamente ma non accadde nulla: “Papà era molto turbato di non essere mai stato chiamato a Caltanissetta a deporre nell’ambito delle indagini sulla morte di Falcone. Il 26 giugno 1992 aveva rilasciato le dichiarazioni durante l’incontro alla biblioteca comunale ed aveva detto chiaramente di essere testimone e destinatario di confidenze di Falcone. E non vedeva l’ora di raccontare quelle cose a suo dire utili per lo sviluppo delle indagini. Lui sapeva che in quella maniera si stava esponendo in una sede non propria. Ma poi sono passati altri 25 giorni e nessuno ha mai alzato il telefono degnandosi di chiamarlo”.
L’intrusione rimasta nel mistero – Questo il racconto fatto della Borsellino relativamente a quell’episodio dell’intrusione avvenuta nella casa di Carini: “Entrammo nello studio di mio nonno che era quello dove mio padre si appoggiava per lavorare e lo trovammo tutto divelto, c’erano tutte le carte per terra. Era l’unica stanza che era stata messa a soqquadro”. All’epoca di quell’intrusione venne presentata una denuncia ma in seguito emerse che non sarebbe stata trasmessa a Caltanissetta e ancora ora non si capisce se per un’omissione o perché ritenuta di poco contro da chi allora stava svolgendo le indagini
Lo scontro con La Barbera – Altro punto su cui si è soffermata Lucia Borsellino rispondendo alle domande del Procuratore Bertone dell’aggiunto Gabriele Paci, è quello che riguarda la famosa Agenda Rossa e l’incontro avuto con l’ex Capo della Squadra mobile Arnaldo La Barbera che la Borsellino incontrò in occasione della riconsegna della borsa del padre. Cosi descrive l’incontro con La Barbera: “Mi recai direttamente in via d’Amelio quel luogo è stato letteralmente vandalizzato, non c’erano transenne o qualcosa per impedire che si avvicinassero ai corpi. In quel momento tutto potevo immaginare tranne che ci potesse essere qualcuno che si infilasse nella macchina ancora fumante e prendesse quello che lui aveva lasciato. La borsa ci fu restituita verso la fine dello stesso anno. Chiesi ad Arnaldo La Barbera, che ci riconsegnò la borsa di mio padre, come mai non fosse presente l’agenda rossa e mi fu risposto in maniera quasi trasecolata, come se io stessi parlando di un oggetto che non era presente perché non c’era, non perché qualcuno lo avesse sottratto. Io chiedevo spiegazioni e la sua era una risposta tranciante e tendeva implicitamente al fatto che l’oggetto non ci fosse e che si trattava di una mia invenzione. Me ne andai sbattendo con violenza la porta”.
L’agenda era nella borsa – La figlia di Borsellino ne è certa che in quel 19 luglio il padre aveva messo nella sua borsa anche l’agenda rossa: “Papà era particolarmente preciso e quella mattina l’avevo vista sulla scrivania assieme alle altre agende che aveva, quella marrone in cui annotava dei numeri, e quella grigia dove appuntava le spese di famiglia e qualche appunto con gli incontri che teneva. Quando mio padre è uscito sono sicura che la scrivania fosse pulita”.
Secondo l’accusa l’ex questore La Barbera è sicuramente tra gli autori del depistaggio ed in particolare nella costruzione del pentito Scarantino, che aveva il compito di sviare l’attenzione sulla strage, dando le indicazioni su false piste.
Nel corso della deposizione Lucia Borsellino ha parlato anche dell’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada. In particolare ha riferito un episodio in cui fu chiesto al padre cosa ne pensasse di quella persona. Ecco il racconto della Borsellino: “Il mio fidanzato di allora era un poliziotto della polizia scientifica ed una volta chiese a mio padre cosa pensasse di Contrada. E lui rispose che quella era una persona della quale era meglio non parlare. Dalla sua espressione in viso pensai che non era una persona di cui papà pensava in maniera positiva. Altrimenti qualcosa in più l’avrebbe detta. Il periodo? Siamo tra la strage di Falcone e la sua”.
Altro capitolo riguarda il racconto, con le confidenze ricevute della madre, sulle reazioni del padre rispetto la notizia dell’arrivo del tritolo a Palermo per l’attentato contro di lui e quella dichiarazione fatta dalla madre su Antonio Subranni. “So che mamma fu molto precisa dicendo che papà gli avrebbe detto che il generale Subranni fosse in qualche modo ‘punciutu’, che si era lasciato cooptare da richieste che non si sarebbero dovute soddisfare. Papà disse anche che non era solo la mafia che lo avrebbe ucciso e che altri lo avrebbero consentito. Posso immaginare che mio padre avendo saputo quelle cose soprattutto nell’ultimo periodo di vita abbia avuto la sensazione di toccare la morte con le mani”. TP24 8.12.2018