di Piero Melati
“Paolo Borsellino, per amore della verità”, di Piero Melati, è stato tessuto da due donne, Lucia e Fiammetta Borsellino. L’autore ha fatto semplicemente da telaio. Con Fiammetta, la figlia minore del giudice, avevamo una consuetudine. Prima della pandemia, ci incontravamo al mattino in un paio di bar del quartiere palermitano della Kalsa, mentre le sue figlie Felicita e Futura erano a scuola. Fiammetta mi aveva così raccontato in anticipo la sua intenzione di incontrare in carcere i fratelli Graviano, boss di Brancaccio, condannati quali autori della strage di via D’Amelio, dove il 19 luglio del 1992 un’autobomba aveva ucciso il magistrato e i cinque agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, 57 giorni dopo la strage di Capaci. Fiammetta non si aspettava particolari rivelazioni, non voleva investirli di rabbia e odio, e neppure voleva perdonare. Piuttosto, tentava un percorso dentro il suo dolore, simile a quello delle vittime del terrorismo che hanno incontrato i loro carnefici. Non a caso, prima del faccia a faccia con i Graviano, ne aveva parlato con la figlia di Aldo Moro, Agnese.
Le istituzioni preposte non hanno mai compreso il gesto di Fiammetta, senza precedenti nella storia della mafia, e hanno cercato di ostacolarlo. Alla fine, però, lei è riuscita nell’intento, contro il parere di tutti. Per trarne che cosa? Per quanto mi riguarda, grazie a Fiammetta, avevo iniziato un analogo percorso di ricapitolazione delle vicende siciliane – culminate nelle stragi del ‘92 – che, alla fine, dopo la pandemia, mi ha portato a rivederla altre volte per scrivere questo libro. Grazie a lei avevo conosciuto anche la sorella Lucia, la figlia maggiore del giudice, e il marito Fabio Trizzino, che rappresenta la famiglia nei processi. Ho raccolto anche altre testimonianze, ma sempre guidato dal tentativo di lasciare immacolata l’impronta che le figlie di Borsellino hanno dato alla loro incredibile storia.
Sono stati scritti più di ottanta libri su via D’Amelio. Ma non era mai stato raccontato quello che è accaduto ai figli e alla famiglia nei trent’anni successivi alla strage. Ricostruirlo è stato come imbarcarsi in un viaggio kafkiano, al termine del quale ci si accorge che la vera storia rischia di essere cancellata per sempre, come nei romanzi di Orwell. Ho subito compreso che non si trattava di ristampare il già noto, ma piuttosto di far parlare i figli per illuminare così anche i frammenti più significativi della storia del padre. Comprese nuove ipotesi sulla stagione delle stragi.
Oggi sappiamo che l’inchiesta su via D’Amelio è stata distorta dal più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, per il quale era stato inventato un finto pentito e condannati all’ergastolo degli innocenti. Una sentenza della Cassazione, relativa al cosiddetto processo Borsellino Quater, ha sancito questa verità in via definitiva. Ma cosa era accaduto nel frattempo alla famiglia, in trent’anni di depistaggi? Minacce, manipolazioni, attacchi anche da parte della cosiddetta “antimafia”, bugie, tradimenti, isolamento. Nessun parente di vittima di mafia è stato mai trattato come loro. Un’autentica odissea, al termine della quale nessuna autorità dello Stato ha chiesto formalmente scusa alla memoria del giudice e ai suoi figli per lo scandaloso insabbiamento.
Loro, invece, hanno dovuto versare nuovi, elevatissimi tributi. Lucia, figlia di un “eroe” siciliano, ha dovuto abbandonare la Sicilia, dopo la breve esperienza da assessore regionale alla sanità e le minacce che ha subìto per avere combattuto il malaffare. Oggi, nella sua nuova casa romana, vive circondata dalle foto più significative della storia del padre. Ognuna racconta qualcosa. Quella più famosa, scattata da Tony Gentile, che vede Falcone e Borsellino vicini a sorridere e confabulare, è diventata un francobollo commemorativo e una moneta celebrativa. Eppure, il giorno in cui venne scattata, a Palermo, in un convegno nel quartiere della Kalsa, nel 1992, l’anno delle stragi, i partecipanti – come racconta Lucia – non lesinarono frecciate velenose ai magistrati.
Questa storia si chiude per me con un paradosso.
È noto che Leonardo Sciascia, da posizioni “garantiste”, polemizzò in vita con i giudici antimafia, e direttamente con Paolo Borsellino, che se ne dispiacque molto. Il giudice era cresciuto con i suoi libri. A casa di Lucia ci sono anche le foto del loro successivo incontro. Eppure, ecco il paradosso, non ci sono mai state due figure quanto quelle di Borsellino e Sciascia che di più condivisero una idea “utopistica” e umana di giustizia. La stessa che Fiammetta ha cercato in quegli incontri in carcere con i suoi carnefici. Qualcosa che possa andare oltre la pena, la vendetta e il perdono. La Repubblica, 16 luglio 2022