Palermo avrà la via Biagio Conte

 

Un nome per tutti: è morto appena quattro mesi fa, ma la figura di Biagio Conte è costantemente presente nei cuori dei palermitani e nelle opere di carità che ha contribuito a fondare e a crescere. L’amministrazione ha interpretato il sentimento di ammirazione e devozione dei cittadini che col missionario laico hanno un rapporto viscerale. Spirato a gennaio a causa di un tumore, è stato onorato da un fiume di gente durante la giornate di esposizione della salma nella camera ardente. La scelta della toponomastica è caduta su un luogo-simbolo della vita di frate Biagio, quella via Tiro a Segno, nel tratto compreso fra la via Archirafi e il corso dei Mille. Zona che abbraccia la Missione Speranza e Carità, riferimento e conforto negli anni per migliaia di derelitti, di poveri, di emarginati, di stranieri senza patria e senza casa. E dunque, sarà via Biagio Conte.

 


Biagio Conte, l’uomo eccezionale contro questa società malata

 

Se ne è andato il 12 gennaio all’età di 59 anni. Il messaggio di uguaglianza e fratellanza portato da Biagio Conte riecheggia ancora cercando un approdo tra muri sulle migrazioni, tra bombe che cadono dentro e fuori dall’Europa, tra povertà crescenti e invisibili.


Il suo modello era Francesco d’Assisi, si definiva “un piccolo servo inutile” e aveva viaggiato in lungo e in largo per lanciare un messaggio potente: non lasciare nessuno indietro. Oggi riceve attestati di stima, ricordi commossi e tributi da personaggi pubblici. Biagio Conte se ne è andato il 12 gennaio all’età di 59 anni, all’esordio di questo nuovo anno, e quel messaggio riecheggia ancora cercando un approdo tra muri sollevati contro le migrazioni, tra bombe che cadono in Europa e fuori dal nostro continente, tra povertà sempre crescenti e invisibili.

Biagio Conte non era un semplice missionario palermitano. Dalla Sicilia aveva assunto fama e prestigio con umiltà, senza proclami eclatanti, senza spot elettorali. Portava con sé un messaggio di umanità, di solidarietà, per tutti. Difendeva non solo chi attraversava mezzo mondo per la propria felicità  – verrebbe da ridere solo a pensare di parlare di “migranti economici” – ma anche la visione di un mondo governato davvero dai diritti umani. «Lo vuole il buon Dio», diceva. 

Alcuni anni fa si era fatto “clandestino” dato che «lo siamo tutti in terra straniera». Aveva viaggiato attraverso Svizzera, Germania, Francia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Danimarca per urlare dolcemente come sia ingiusto che l’uomo sia meno libero dei capitali. «Perché gli immigrati che portano soldi, come i sauditi che hanno comprato mezza Milano, ci piacciono e i poveri cristi li respingiamo?». Biagio Conte non era un missionario come tutti gli altri. Non parlava mai solo di religione come, d’altronde, quando parlava di politica non parlava solo di politica.

 

 

Portava sempre un saio di tela verde perché «verde è il colore della speranza, quella che papa Francesco ci esorta a non farci rubare da nessuno». Fratel Biagio, aveva pronunciato ormai decine di anni fa i voti di povertà, castità e obbedienza ma senza entrare in nessun ordine religioso. Quando ha iniziato questo suo cammino i genitori avevano anche chiamato Chi l’ha visto? salvo poi scoprirne la “missione”.

Fratel Biagio divenne davvero libero quando si spogliò di tutto come fece quel Francesco medievale, allontanandosi dalla famiglia e dall’agiatezza. «Il 5 maggio 1990 – raccontava Biagio – mi sono ribellato alla vita falsa che mio padre voleva per me. Sono scappato da Palermo per vivere da eremita e raggiungere a piedi Assisi e pregare sulla tomba del Poverello».

Camminava, camminava tantissimo per identificarsi in tutti coloro che stanno cercando una meta. Lo facciamo tutti, ma è più doloroso quando siamo costretti a farlo. Una condizione che Biagio non vedeva solo nell’inflazionato immaginario del migrante sbarcato dal Nord Africa, ma anche nei giovani siciliani. «Il Sud si sta svuotando dei giovani – diceva – ieri come oggi, molti italiani, quando lasciano la propria patria, sono umiliati e discriminati all’estero. Non accetto le ingiustizie e la divisione dei popoli, l’intolleranza e le discriminazioni. Anche Gesù è stato profugo e fu costretto a fuggire in Egitto ancora bambino». 

Dal Vangelo, la testimonianza di uguaglianza e fratellanza è un messaggio universale che travalica ogni credo. A maggior ragione quando a diffondere concetti simili è un uomo che ha sempre parlato con impegno e incrollabile coerenza di «società aperta». Ad assisterlo nei suoi viaggi erano cristiani, musulmani, buddisti, ortodossi. Ci sono state strutture, persone di ogni tipo, dal fan al clochard, che lo hanno ospitato e gli hanno offerto un giaciglio e una coperta in cambio di un ramoscello di ulivo.

Dichiarava a Famiglia Cristiana che lo ha intercettato durante un suo pellegrinaggio per le migrazioni: «siamo tutti fratelli e sorelle e se siamo una società aperta per l’economia dobbiamo esserlo anche per gli uomini, soprattutto chi è rimasto indietro o è povero. La vera Unione Europea da costruire è quella che rispetta gli uomini e l’ambiente». Una storia molto lontana dall’Unione “diversa” raccontata dai sovranismi che chiedono di mettere al centro una nazione, un gruppo di persone, degli interessi. Un approccio che, inevitabilmente, per definizione, mette ai margini tutto il resto.

In un mondo di indifferenza, chi non lo è sembra malato. Biagio era un uomo eccezionale, un uomo che aveva capito che la sua missione non era lontano dalla sua terra, ma era vicinissima ed era immediata. È così che ha iniziato a stare vicino ai senzatetto alla Stazione centrale a Palermo ed è così che ha continuato la sua missione. 

I primi tempi, i suoi amici, sconvolti, avevano persino tentato di convincere i genitori di Biagio a farlo curare da una presunta depressione. Lui diceva: «Curate questa società malata e guarirò anch’io». Ed è quello che proveremo a fare tutti noi, come società, come città che ti ha dato i natali, anche in tua assenza: guarire un pezzetto per volta affinché possano essere, un giorno, gli indifferenti e gli intolleranti i pochi malati da curare.