In dialogo con un “sopravvissuto” alla guerra di mafia: Francesco Accordino incontra gli studenti a Bagheria

 

 

 

 

BAGHERIA. Furono mille i morti nella guerra di mafia dal 1981 al 1986. Francesco Accordino in quegli anni era capo della squadra omicidi ed è stato l’unico sopravvissuto a quella guerra. I suoi colleghi ed amici, Boris Giuliano, Beppe Montana, Natale Mondo, Roberto Antiochia, Ninni Cassarà, Lillo Zucchetto sono caduti vittime del massacro di quegli anni.

Gli alunni delle classi IV A e IV B dell’I.I.S. “Salvo D’Acquisto” di Bagheria, diretto dalla professoressa Lucia Bonaffino, hanno svolto nel presente anno scolastico, un’attività di lettura partecipata all’interno dell’UDA di Educazione civica “21 marzo. Adotta una vittima di mafia”. Gli studenti, con la guida dei professori Anna Maria La Monica, Rosa Virruso, Maria Guzzo, Alessandro La Tona e Maria Vittoria Romano, hanno incontrato la scrittrice Francesca La Mantia e insieme hanno letto il libro “La mia corsa. La mafia narrata ai bambini” (Gribaudo- Feltrinelli). Durante gli incontri si è discusso di mafia e di mentalità mafiosa comune che affligge la nostra società. Il percorso si è concluso con l’incontro con Ciccio Accordino a cui gli allievi hanno posto una sfilza di domande, realizzando, così, una vera e propria intervista.

Ci potrebbe descrivere la sua giornata lavorativa quando faceva parte della squadra mobile?
La mia giornata lavorativa, spesso nottata, era infinita. Anche il povero Cassarà prima di morire era stato alla squadra mobile per oltre una settimana. Ciò era possibile solo perchè facevamo il nostro lavoro con amore, un lavoro che spesso era ingrato, ma noi continuavamo a fare con amore. La mattina andavo col mio autista alla squadra mobile di Palermo, alla sezione omicidi. Ricordo ancora la mattina che appena uscito dalla caserma Lungaro e diretto alla squadra mobile dissero che c’era stato un omicidio in via Li Muli, una via vicino la caserma. Andammo di corsa e trovammo una 131 con due persone massacrate da colpi d’arma da fuoco e uno di questi, il passeggero, con i piedi fuori dal finestrino. Mi avvicinai, misi la mano all’interno della giacca di uno dei due e uscì fuori il portafogli, dove c’era un’agendina del Parlamentare. Capì subito che si trattava di qualcosa di grosso, diedi l’allarme immediatamente. Erano il deputato Pio La Torre e il suo autista Rosario Di Salvo, uccisi mentre stavano andando nel loro ufficio. L’autista aveva la pistola sotto la gamba, ma non ebbe il tempo di usarla. Dopo l’omicidio La Torre lo Stato cominciò a reagire e mandò a Palermo il Generale Dalla Chiesa con la funzione di Prefetto. Fece appena 100 giorni a Palermo il prefetto Dalla Chiesa e poi fu ucciso assieme con la moglie Emanuela Setti Carraro in Via Carini. Così cominciava la mia giornata lavorativa. Proseguiva spesso mangiando un panino a ora di pranzo e poi, spesso, anche tutta la serata. Era una vita appassionante ma molto sacrificata. Una vita che faceva dire a mio figlio in un suo tema a scuola “Spero che la mafia sia sconfitta al più presto così il mio papà può tornare a casa”.

Come ha influito il suo lavoro nella sua vita sentimentale e familiare?
Ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi sosteneva nel mio lavoro. Sono stato sotto scorta per tanto, i compagni di gioco di mio figlio erano gli agenti che stavano davanti alla porta, che facevano vigilanza a casa mia. Ci vuole una grossa volontà per affrontare queste cose. La moglie del dottore Cassarà dovette assistere all’omicidio del marito in diretta, affacciata dal sesto piano dove abitava con Ninni e i tre figli. La figlia più piccola di Natale Mondo un giorno mi disse: “mi pesa il fatto di non conoscere la voce di mio padre”. Il dottore Montana, capo della catturandi, è stato ucciso a Porticello tornando in gita dalla barca con la fidanzata. Fu ucciso in costume. Non aveva niente per proteggersi. La fidanzata ha assistito all’omicidio davanti ai suoi occhi, così come il capitano dei carabinieri Basile, comandante della compagnia di Monreale che fu ucciso alla festa del patrono del paese, con la figlia in braccio. I killer si avvicinarono e gli sparano o con il rischio di uccidere anche la bambina. Chi vive accanto a noi vive in questo tipo di pericolo.

Com’è cambiata la sua vita dopo l’esperienza nella squadra mobile?
La mia vita è stata totalmente rivoluzionata dall’esperienza nella squadra mobile. Pensate che quando io giro per Palermo non dico mai il nome della via, dico andiamo dove hanno ammazzato quello, vai dove hanno sparato a quell’altro. È una deformazione professionale, perché la squadra mobile e la sezione omicidi hanno fatto per tanto tempo parte della mia vita e la mia vita non è più la stessa dopo quei 1000 omicidi a cui ho assistito e soprattutto dopo gli omicidi dei miei colleghi più vicini, più cari, Cassarà, Montana, Natale Mondo, Antiochia un ragazzo come voi, giovanissimo, che volle stare accanto a Cassarà. Era in ferie a Roma, era romano, volle tornare a Palermo per stare accanto a Ninni Cassarà per proteggerlo. Trovò la morte davanti casa sua. Come Calogero Zucchetto, un ragazzo giovanissimo, innamoratissimo della vita che girava per discoteche, per locali, ucciso proprio mentre usciva da uno di questi locali. Ci portava molte notizie perché viveva in mezzo a quella gente, a quei posti dove si svolgevano certe attività.

Qual era il suo più grande obiettivo quando faceva parte della squadra mobile?
Sicuramente non mi sono mai illuso di vincere la mafia. La mafia non può essere vinta dalla polizia o dai carabinieri o dalla finanza, la mafia può essere sconfitta soltanto con un esercito di insegnanti che hanno il compito formare le nuove generazioni secondo una mentalità antimafiosa. Chi crede che, arrestando Matteo Messina Denaro, la mafia sia finita, sbaglia. La mafia non è finita ma soprattutto non è finita quella mafiosità che spesso sta nella nostra formazione e che gli insegnanti dovranno contribuire ad eliminare. La mafiosità di chi avendo avuto rubato il motorino, anziché andare a fare denunce, si rivolge a “persone” per riaverlo indietro. Vero è che spesso glielo fanno riavere, ma poi non ne uscirà più. È una dipendenza dalla quale non si esce più. Quando vi diplomate non vi rivolgete a quello che vi deve raccomandare per farvi trovare un lavoro, perché le ho viste queste persone che sono rimaste schiave. Se soltanto per una volta ci compromettiamo con queste persone non ne usciamo più, per cui se vi rubano il motorino andate a fare la denuncia alla polizia o ai carabinieri, potranno trovarlo ma lo troverà lo Stato che non vi chiederà mai cose contro la legalità.

Qual è il suo più grande rimpianto?
Non avere potuto salvare i miei colleghi dalla morte; non aver potuto evitare la morte dei piccoli che venivano uccisi dai cosiddetti uomini d’onore. È un grosso rimpianto che mi si fa più acuto quando incontro i figli dei colleghi che hanno perso i loro padri impegnati nella lotta contro cosa nostra.

Ci può raccontare qualche aneddoto su Natale Mondo e Beppe Montana?
Questa la domanda mi piace perché mi riporta a un tempo felice della mia vita quando assieme con questi colleghi condividevamo la nostra attività lavorativa alla squadra mobile, riuscendo anche a vivere momenti di libertà. Natale Mondo, lo scrissi nel mio rapporto, fu ucciso due volte: la seconda volta dalla mafia, la prima volta dallo Stato che lo ha creduto una talpa al servizio dei mafiosi. Io che conoscevo benissimo la sua funzione di infiltrato nelle cosche dell’Arenella per conto della squadra mobile, ho testimoniato in suo favore, citando un episodio. Spesso Natale Mondo si portava il giudice Falcone e il dottore Cassarà a pescare con lui in barca di nascosto; ovviamente il dottore Falcone diceva alla scorta che si stava ritirando e lo stesso il dottore Cassarà e di nascosto se ne andavano sulla barca di Natale a pescare. Se effettivamente Mondo fosse stato una talpa della mafia non c’era occasione migliore per sbarazzarsi in un solo colpo di due uomini di punta dell’attività investigativa di Palermo. Natale Mondo non era una persona al servizio della cosca ma era una persona di cui Falcone si fidava benissimo, una persona onesta, una persona che lavorava per lo Stato. Questo mi piace ricordare, come mi piace ricordare quando insieme a Cassarà decidemmo di acquistare un vespone e andando dal concessionario della Piaggio per scherzare e per esorcizzare la morte che avevamo sempre vicino e incombente su di noi, gli abbiamo chiesto “avete un vespone blindato?”‘ Il concessionario ci guardò stupefatto e noi scoppiamo a ridere perché era un modo per esorcizzare la morte che aleggiava su di noi. Come quando andavamo a prendere il caffè tutti insieme, io, Cassarà e Montana e passando davanti alla lapide, posta all’ingresso della squadra mobile, con tutti i nomi dei caduti di mafia, Cassarà mi diceva: “lo sai qua c’è ancora un po’ di spazio, ci potremmo mettere Accordino sotto” e io rispondevo: “no, sta meglio Cassarà”. Oggi su quella lapide ci sono tutti i loro nomi.

Cosa ha provato quando nell’estate dell’85 la mafia ha ucciso i suoi amici?
Ho provato un grande sconforto, ho provato una sensazione di rabbia e frustrazione, per la mancanza dei miei amici, che lavoravano con me, spesso senza mezzi e senza alcun aiuto. Pensate che non ci davano macchine per poter fare i nostri servizi, perché lo Stato non aveva possibilità di acquistarle, e il dottore Cassarà prese la 127 di suo padre, la portò alla squadra mobile e io gli misi le targhe dei mezzi sequestrati, e con quella potevamo girare nell’interesse della giustizia, per Ciaculli.

Si è mai sentito un sopravvissuto?
Di quell’avamposto di uomini perduti mi definiscono un sopravvissuto. Spesso mi chiedo perché non sono morto pure io. Non lo so, ma sicuramente è morta una parte di me con i miei colleghi.

Ha mai pensato di mollare tutto? Se si perché?
Nei momenti di sconforto si, capita. Nei momenti di rabbia si, capita. Capita nei momenti in cui vedi delle ingiustizie palesi, in cui pensi di non poter porre rimedio alle storture. Ma il ricordo dei colleghi che hanno perso la vita, mi porta a non mollare, ad andare avanti ad ogni costo.

Alla luce della sua carriera rifarebbe le stesse scelte che ha fatto?
Rifarei esattamente tutto quello che ho fatto perché ritengo di avere fatto cose giuste, legali e nell’interesse dello Stato e della società civile, anche se la società civile soltanto ora è sensibile a questi argomenti; allora non esistevano Presidi che mi chiamavano per incontrare i ragazzi. E allora io vi dico che rifarei esattamente tutto quello che ho fatto e forse qualcosa in più.

Si è mai sentito isolato dallo Stato?
Si, ci sono stati alcuni momenti di sconforto. Quando avevamo difficoltà ad ottenere anche gli strumenti per lavorare, quando venivamo visti come dei pazzi che continuavano, nonostante tutto, a lottare per la città e per le persone oneste. Una rivoluzione nella mentalità comune è avvenuta dopo le stragi del ’92 di Falcone e di Borsellino. Soltanto allora iniziarono manifestazioni pubbliche, come quella dei lenzuoli, contro la mafia, soltanto allora cominciò una coscienza antimafiosa e per l’affermazione della legalità. Oggi a Ciaculli, così come a Brancaccio campeggia un grande murales di Padre Puglisi che sorride.

Qual è stata la sua più grande sconfitta ?
La mia più grande sconfitta è stata vedere per terra il cadavere di Ninni Cassarà con la moglie che cercava di rianimarlo, pensando che poteva essere ancora vivo. Il mio più grande rimpianto vedere il piccolo Claudio Domino con un colpo di pistola in mezzo agli occhi, senza avere potuto fare
niente.

Secondo lei quali sono le motivazioni per cui noi giovani dobbiamo fidarci dello Stato?
Perché la mafia vi porterà soltanto a finire male o a finire in galera. Io e voi dobbiamo avere fiducia nello Stato perché alla fine la forza paziente dello Stato vince sempre e la legalità se viene affermata in mezzo alla società contribuisce a far vivere bene voi che finirete il vostro corso di studi e vi inserirete legalmente nella società senza dovere chiedere nulla a nessuno e senza dovere ringraziare nessuno.

Cosa direbbe all’Accordino di vent’anni fa?
Continua a fare quello che stai facendo, coraggio non demordere e soprattutto stai sempre più attento a cercare di salvare i colleghi.

Perché ha scelto di fare il poliziotto?
Mio padre era nella polizia. Ho vissuto in un ambiente di polizia, io amo questo lavoro che mi permette di essere utile a tutti voi, mi permette di dare una mano a chi è debole e oppresso dalla
prepotenza.

Cosa ne pensa della cattura di Matteo Messina Denaro, e del fatto che sia riuscito ad essere latitante per 30 anni?
Non mi interessano i dettagli della cattura. Ciò che mi interessa è sapere che Matteo Messina Denaro oggi sia in carcere e non può fare più danno. Che cosa è successo, come lo hanno preso, non è rilevante. Trent’anni di latitanza si, ma è finita. Noi tutti abbiamo visto con quali appoggi si riesce a portare avanti una latitanza, però la forza dello Stato vince sempre. Indubbiamente Messina Denaro è stato coperto da una omertà diffusa, nessuno può farmi credere che nessuno si accorgeva che lui passeggiava nel paese. La gente, però, preferiva non vedere e girarsi dall’altro lato.

Qual è la differenza tra la mafia di ieri e quella di oggi?
Se voi pensate, oggi, di trovare il mafioso con la coppola e la lupara, pensate male, non lo vedete e non lo vedrete mai. La differenza sta in questo. Oggi è possibile che il mafioso stia in giacca e cravatta, in uffici pubblici, in una banca o vicino al flusso di soldi. Era, poi, quello che Giovanni Falcone portava avanti: segui i soldi e arriverai alla mafia. La differenza fra la mafia degli anni 80 e quella di ora sta essenzialmente in questo: nei metodi di lavoro. Spero che con la eliminazione dell’ultimo dei corleonesi sia finita quella ferocia che ha portato i corleonesi a scavare le vette della mafia. Abbiamo fatto con un regista francese un documentario sulla mafia che spiegasse ai francesi e ai tedeschi, come mai due ignoranti e buzzurri come Riina e Provenzano avessero scalato le vette della mafia, fino a diventare i capi della mafia siciliana palermitana e nazionale, e abbiamo trovato la risposta nell’assoluta ferocia che avevano e nella mancanza di ogni scrupolo nell’eliminare persone. Spesso, i pentiti mi dicevano “ora non ricordo se questo l’ho ammazzato”, pensate, compievano un omicidio eppure non si ricordavano se l’avevano ammazzato, tanti ne avevano fatti e tanto valore davano alla vita umana.

Come si svolgono le indagini per gli omicidi?
Si parte sempre dal cadavere, dal morto. Io non sono capace di fare indagini se non vedo la scena del crimine. Quando non andavo nella scena del crimine, avevo difficoltà a sviluppare le indagini, perché le indagini si sviluppano vedendo il fatto, il morto, le circostanze e poi si passa a sentire le persone, i testimoni. Poi si sentono quelli che ti portano le notizie in maniera anonima, chiamati comunemente confidenti. Sono delle persone che riferiscono notizie in maniera anonima.
Le indagini si possono concludere in maniera veloce con l’arresto del presunto colpevole, o si possono prolungare quando necessità una attività investigativa che richiede molto tempo.
Ci sono indagini che durano lunghissimo tempo, a volte non si trovano i killer, a volte non si trovano i mandati. Spesso i killer vengono identificati in un secondo momento. Però alla fine non si scappa.

Perché ha accettato di venirci ad incontraci?
Io penso all’assoluta utilità degli incontri. Io preferisco incontrare voi e non incontrare per esempio adulti o persone che organizzano dei convegni sulla mafia. Io penso che il campo su cui lavorare sia quello dei giovani e mi piace rendervi edotti e farvi conoscere cose che magari voi non potevate mai conoscere perché manco nati in quel in quei periodi bui; però quando passate per una strada che si chiama via Cassarà dovete sapere che quell’uomo era un uomo che aveva dato la vita per la legalità e per la giustizia e anche a Bagheria ci sono un sacco di strade intitolate a queste persone.

Il libro della Prof. La Mantia rispecchia la sua vita nella squadra mobile?
Si, anche se la mia attività e quella dei miei colleghi era molto più complessa e molto più pericolosa.