PAOLO BORSELLINO – Politica e mafia

 
 
Bassano Del Grappa (VI), 26 gennaio 1989

 

«[…] Ora, l’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire “quest’uomo è mafioso”. Però, siccome queste… siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato, ma erano… rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica […]». PAOLO BORSELLINO 

Paolo Borsellino: “Politica dovrebbe fare pulizia di coloro che sono raggiunti da fatti inquietanti, anche se non sono reati”

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Il 26 gennaio del 1989, il giudice Paolo Borsellino incontrò gli studenti di Istituto professionale “Remondini” di Bassano del Grappa.  Il giudice, nel suo intervento, affrontò i temi che gli stanno più a cuore: la legalità e i rapporti fra mafia e politica

 

 “Sono emerse dalle nostre indagini tutta una serie di rapporti tra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del Maxiprocesso vennero chiamati “contiguità”, cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi che però non rendevano automaticamente il politico responsabile del delitto di associazione mafiosa. Perché non basta fare la stessa strada per essere una staffetta, la stessa strada si può fare perché in quel momento si trova – almeno da punto di vista strettamente giuridico – si trova conveniente o fare convergere la propria attenzione sullo stesso interesse.
Questo non ci ha consentito dal punto di vista giudiziario di formulare imputazioni sui politici, però stiamo attenti, vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza nel provvedimento del giudice e poi successivamente nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Vi sono oltre ai giudizi del giudice, esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenza, che da certi fatti accertati, trae o dovrebbe trarre il mondo politico.
Esistono anche i giudizi disciplinari, un burocrate, un alto burocrate, che ad esempio, dell’amministrazione ha commesso dei favoritismi, potrebbe non aver commesso automaticamente, perché manca qualche elemento del reato, il reato di interesse privato in atto d’Ufficio, ma potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione.

Ora l’equivoco su cui spesso si gioca è questo, si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale.
Può dire beh ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però siccome dall’indagine sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica.
Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo “schermo” della sentenza e detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia e non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al proprio interno di tutti coloro che sono raggiunti, ovunque, da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato” (Paolo Borsellino – 26 gennaio del 1989)

 
 

Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo.


Gli uomini politici non devono soltanto essere onesti, ma lo devono anche apparire.


Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un’istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficiente dello stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso, formando giovani alla cultura dello stato e delle istituzioni.


Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia [… ]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! [… ] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!


La mafia è una istituzione alternativa che opera sul territorio ponendosi in alternativa allo stato, non lottando con lo stato andando all’assalto dei palazzi comunali o dei palazzi delle regioni, ma cercando di conquistarli dall’interno con il sistema della collusione, della corruzione, della contiguità. Esiste perché ha consenso, perché dove lo stato è debole o non si sa presentare con la forza imparziale delle leggi, il consenso non va allo stato, va a qualcuno che risolve i problemi o che può risolvere i problemi in modo alternativo allo stato. Perché la forza della mafia si basa soprattutto su questo. La forza della mafia si basa sulla capacità di offrire o di apparire offerente di servigi che lo stato non riesce a dare. E basta pensare, e ogni siciliano lo sa, alla giustizia, la mafia appresta anche il servizio di giustizia. Perché qualsiasi siciliano sa che è inutile ricorrere ad un tribunale per riscuotere una cambiale non pagata, perché la causa si vincerà fra dieci anni


“Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un Istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficace dello Stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso formando giovani alla cultura dello Stato e delle Istituzioni”.
“Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la mafia, ndr) i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.


“Questo cosí è ciò che accaduto storicamente nel Meridione d’Italia, dove il cittadino si è sentito estraneo allo Stato; non ha sentito l’impulso istintivo a rispettare le leggi. Ciò è accaduto principalmente nelle tre grandi regioni del sud: Campania, Calabria e Sicilia, dove si è venuta a creare una vera e propria disaffezione verso lo Stato e le sue leggi”. Tanto più il cittadino si sente parte integrante dello Stato, con tutte le sue ramificazioni di Regione, Comune e Provincia, tanto più sente il dovere di rispettare le leggi”.

“Questo è il motivo della nascita delle grandi organizzazioni criminali che conosciamo come Camorra e Mafia. Perché? Perché ci sono i bisogni che il cittadino chiede, quelli economici, quelli sociali, i bisogni di sicurezza, che il cittadino chiede gli siano assicurati dallo Stato in tutte le sue articolazioni regionali, comunali e provinciali; quando il cittadino non si identifica più nello Stato, quando non ha più fiducia in quest’ultimo, cerca di trovare dei surrogati. L’errore è pensare che la mafia abbia colmato il mancato sviluppo economico di queste parti disagiate del paese, quindi sbagliamo se crediamo di risolvere il problema inviando più risorse economiche in quelle zone. Lo Stato ha sì il dovere di sostenere le zone con ampie sacche di disoccupazione, di emarginazione e di miseria, ma se non capterà la fiducia dei cittadini sull’imparziale ed equa distribuzione delle risorse, le organizzazioni sfrutteranno questo profluvio di risorse per meglio lucrare. L’esempio è che quando in Sicilia arrivano delle risorse dallo Stato centrale, la prima cosa che si pensa è che queste verranno spartite dalla mafia.
Se queste sono le ragioni di fondo della nascita e dello sviluppo della mafia, non illudiamoci che le azioni giudiziarie da sole, possano fare piazza pulita dell’intero fenomeno. Potremo prendere questo o quel capo-mafia, potremo accertarne la colpevolezza, ma se non andremo a fondo nel problema, alla radice, la mafia si ripresenterà sempre più forte di prima: abbiamo tutti assistito al grande clamore intorno al maxiprocesso di Palermo, ma finito quello, eravamo punto e a capo”.

“Quando un’azione è soltanto giudiziaria e repressiva, ma non incide sulle cause del fenomeno è chiaro che non è efficace”.

“Vi è stata una delega totale ed inammissibile nei confronti della magistratura e della forze dell’ordine ad occuparsi essi solo del problema della mafia. Lo Stato non ha fatto nulla per creare le condizioni per una migliore amministrazione, per esempio, della giustizia civile, alla quale il cittadino si rivolge per piccoli fatti o piccole cause civili; un processo civile dura non meno di dieci anni”.

“Infine c’è l’equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto. …e no!”

“Quanti di voi conoscono qualcuno che seppure mai condannato sanno che non è uomo onesto?”

“Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale, può dire, beh, ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso”.

“Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarne le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica”.

Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è stato condannato quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!

 


CRIMINALITÀ, POLITICA E GIUSTIZIA di Paolo Borsellino

Io sono sempre stato estremamente convinto che la mafia sia un sistema, non tanto parallelo, ma piuttosto alternativo al sistema dello Stato ed è proprio questo che distingue la mafia da ogni altra forma di criminalità.
In particolare nell’ordinamento del nostro stato, a differenza che in qualsiasi altro Stato, si tratta di una organizzazione criminale dal grossissimo potere, e sebbene organizzazioni criminali di grandissimo potere e di grandissima potenzialità vi siano anche negli altri stati, il nostro mi pare sia l’unico paese in cui a chiare lettere si è potuto dire, da tutte le parti politiche, che l’esistenza di questa forma di criminalità mette addirittura in forse l’esercizio della democrazia. Probabilmente in nessuna altra parte del mondo esiste una organizzazione criminale la quale si è posta storicamente e si continua a porre, nonostante talvolta questo lo abbiamo dimenticato e nonostante talora facilmente si continui a dimenticarlo, come un sistema alternativo, che offre dei servizi che lo Stato non riesce ad offrire.
Questa è la particolarità della mafia e, anche nel momento in cui la mafia traeva – e forse ancora continua a trarre, anche se probabilmente in misura minore – i suoi massimi proventi dalla produzione e dal traffico delle sostanze stupefacenti, l’organizzazione mafiosa non ha mai dimenticato che questo non costituiva affatto la sua essenza. Tanto che, e questo lo abbiamo vissuto tutti coloro che abbiamo partecipato a quell’esperienza del maxiprocesso e del pool antimafia, anche in quei momenti ed anche quando vi erano famiglie criminali mafiose che guadagnavano centinaia e centinaia, se non migliaia di miliardi dal traffico delle sostanze stupefacenti, quelle stesse famiglie non trascuravano di continuare ad esercitare quelle che erano le attività essenziali della criminalità mafiosa, perché la droga non lo era e non lo è mai stata.
La caratteristica fondamentale della criminalità mafiosa, che qualcuno chiama territorialità, si riassume nella pretesa, non di avere ma addirittura vorrei dire di essere il territorio, così come il territorio è parte dello Stato, tanto che lo Stato “è” un territorio e non “ha” un territorio, dato che esso è una sua componente essenziale.
La famiglia mafiosa non ha mai dimenticato che sua caratteristica essenziale è quella di esercitare su un determinato territorio una sovranità piena.
Naturalmente si determina un conflitto tra uno stato che intende legittimamente esercitare una sovranità su un territorio e un ordinamento giuridico alternativo, il quale sullo stesso territorio intende esercitare una analoga sovranità, seppure con mezzi diversi. Questo conflitto – ecco perché io non le chiamo istituzioni parallele ma soltanto alternative – si compone normalmente non con l’assalto al palazzo del comune o al palazzo del governo da parte delle truppe della criminalità mafiosa, ma attraverso il condizionamento o il tentativo di condizionamento dall’interno, delle persone atte ad esprimere la volontà dell’ente pubblico, che rappresenta sul territorio determinate istituzioni.
La soluzione finale del problema, la finalità cui devono tendere le forze politiche che veramente intendono combattere la mafia, è quella di chiudere questi canali di infiltrazione, attraverso i quali la volontà delle persone fisiche che impersonano l’ente pubblico, di coloro che sono abilitati ad esprimere la volontà delle istituzioni pubbliche che operano sul territorio, viene condizionata da queste istituzioni alternative. Chiudere come? Ci sono stati chiesti esempi concreti. Ebbene in Italia mi sembra che spesso le istituzioni pubbliche non vengano considerate dalle forze politiche come istituzioni dove inviare i migliori che vadano ad impersonarne la volontà, ma piuttosto teatri di lobbies che si azzuffano e si scornano per impossessarsi quanto più possibile di fette di potere per esercitarlo in funzione non tanto del bene pubblico, ma di interessi particolari.
Questa è l’accusa che da più parti viene fatta alla “partitocrazia”, a quella che da tutti dispregiativamente è così chiamata, ma da tutti sostanzialmente sopportata. L’occupazione da parte dei partiti e delle lobbies partitiche delle istituzioni pubbliche crea la strada naturale perché all’interno di queste istituzioni si formino volontà che non sono dirette al bene pubblico ma ad interessi particolari. Chiudere queste strade attraverso interventi, anche istituzionali, significa evidentemente chiudere possibilità di accesso delle organizzazioni criminali all’interno delle organizzazioni dello Stato. Certamente questo deve farsi salvando i principi democratici che reggono oggi tutte le nostre istituzioni.
La sordità del potere politico a modificare radicalmente quelle che sono le legislazioni che regolano, ad esempio, gli enti locali è chiaramente una sordità nei confronti di un problema il quale, una volta affrontato e risolto nel migliore dei modi, impedirà l’accesso all’interno degli enti locali di quelle lobbies che vanno lì dentro per provocare, come normalmente provocano, affinché la volontà di coloro che gestiscono le istituzioni sia rivolta non al bene pubblico ma agli interessi di questo o di quel gruppo affaristico, fra i quali primeggia l’organizzazione mafiosa. PALERMO 27 MARZO 1992  PALAZZO TRINACRIA – TAVOLA ROTONDA 


Verbale della 1ªcommissione 10 dicembre 1991 – Audizione del dottor Paolo Borsellino con allegata nota del 9 settembre 1991 a firma di Borsellino


Assumono notevole rilievo le carte relative alla audizione di Paolo Borsellino dell’ottobre ’91 nell’ambito della procedura che condusse al trasferimento d’ufficio (disposto dal C.S.M., con delibera 1 luglio 1992) dell’allora Procuratore di Trapani, dott. Coci, per incompatibilità ambientale ex art. 2 Legge sulle Guarentigie.

Esse, infatti, offrono uno spaccato a tutto tondo del contesto ambientale giudiziario, ma anche socio-politico, nel quale Paolo Borsellino agiva a pochi mesi dal suo barbaro assassinio, con un coraggio che non si può esitare a definire eroicamente controcorrente.
Borsellino, all’epoca Procuratore di Marsala, venne, infatti, sentito dal C.S.M. in quanto la Procura di Trapani gli trasmise con un anno di ritardo verbali recanti dichiarazioni, definite dallo stesso Borsellino “dirompenti”, di due pentiti a carico di alcuni esponenti politici siciliani, definiti ‘uomini d’onore’.
Borsellino apprese, con un misto di sconcerto e stupore, il contenuto di quei verbali dei due collaboratori di giustizia soltanto attraverso un articolo di stampa, pubblicato in conseguenza di una “fuga di notizie”.
Al di là dei fatti storici, già in sé di sommo interesse, evincibili dagli atti che seguono, le carte in esame fanno emergere due antinomici modelli di magistrato requirente in relazione al contrasto del fenomeno mafioso al tempo in cui operava Paolo Borsellino.
Da un lato, l’atteggiamento del magistrato requirente, denominato nella citata delibera C.S.M. “dottrina Coci” (dal cognome del Procuratore di Trapani trasferito d’ufficio), che, muovendo dalla rassegnata considerazione della esistenza atavica del fenomeno mafioso, col quale inevitabilmente si doveva convivere, operava con eccesso di prudenza nell’azione investigativa antimafia, teorizzando l’opportunità di una limitata esposizione al rischio e, pertanto, di una ridotta  visibilità.
Al riguardo, così si legge nella delibera C.S.M., adottata tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio: “la dottrina Coci sul ruolo del Procuratore della Repubblica in aree di criminalità organizzata … si risolveva, da un lato, nel consiglio a non esporsi troppo con atti che potessero indurre i criminali ad azioni violente contro la persona e, dall’altro, in una valutazione rassegnata del fenomeno della mafia e delle sue conseguenze sociali’’.
Al contempo, emerge dalle carte consiliari come i teorici della prudenza nella lotta alla mafia erano allo stesso tempo aspramente critici nei confronti dei colleghi che si erano distinti invece per coraggio e per i risultati nel contrasto al fenomeno mafioso, qualificati alla stregua di “professionisti dell’antimafia”, termine ingeneroso e infelice coniato da Sciascia in un articolo di stampa del gennaio 1987, che la stessa delibera C.S.M. in esame definisce “… articolo sfortunato, di scrittore molto apprezzato, ma in questo caso dimostratosi poco consapevole delle conseguenze della portata del suo messaggio, il quale intese censurare la valorizzazione di alcuni magistrati che si erano distinti nell’attività repressiva della criminalità  siciliana’’.
A magistrati coraggiosi ed eroici, come Paolo Borsellino, insomma, si contestava, a torto, un eccesso di visibilità nell’azione antimafia, se non addirittura una sottesa finalità di autoaffermazione nell’agire investigativo.
Questo era il contesto ambientale difficile e irto di ostacoli, anche culturali, nel quale si muoveva coraggiosamente Paolo Borsellino con la sua instancabile azione investigativa, votata in via esclusiva alla ricerca della verità e della giustizia, mai orientata da interessi personali o di visibilità.
Infatti, come contraltare rispetto al modello di magistrato emergente dalla c.d. ‘dottrina Coci’, le stesse carte consiliari in esame ci offrono un valoroso modello di magistrato requirente, incarnato in toto da Paolo Borsellino, che certo non temeva di andare a fondo nella propria azione investigativa, anche quando questa era destinata ad intaccare quello che storicamente viene definito ‘terzo livello’ e che chiama in causa il rapporto tra mafia, affari e politica.
Emerge, inoltre, dagli atti in modo nitido l’opzione di Paolo Borsellino a favore della trattazione coordinata e unitaria delle indagini, e l’avversione per la frammentazione investigativa, frutto, come ricordava lo stesso Borsellino nel corso della audizione, dell’orientamento espresso in quel tempo dalla Prima sezione penale della Cassazione, coniato in relazione ad altra inchiesta condotta da Giovanni Falcone.
Così si esprimeva Paolo Borsellino riguardo a detto orientamento giurisprudenziale e alle sue conseguenze sul piano pratico: “… (anche se personalmente poco convinto, ma so che devo prestare ossequio) alla famosa sentenza della I sezione, presieduta dal collega Carnevale, che … decise, invece, che siccome la mafia non avrebbe una struttura unitaria, ogni Tribunale, ogni Procura, delle 18 (quante ce ne sono in Sicilia), si fa la propria.”
Evidente l’ironia critica che emerge dalle sue parole, accompagnate sempre e in ogni caso da profondo senso dello Stato.
Resta il dato storico per cui il citato orientamento giurisprudenziale, applicato nel caso di specie, come evidenziato dallo stesso Borsellino nel corso della sua audizione, aveva condotto ad esiti affatto singolari, traducendosi nella frammentazione di una indagine, che coinvolgeva esponenti politici anche di livello nazionale, in tre Procure diverse (quelle di Marsala, Trapani e Sciacca, tutte racchiuse in un perimetro di pochi chilometri), chiamate ad indagare ciascuna per esponenti politici diversi, in luogo della trattazione unitaria e coordinata.

Proprio con riferimento alle indagini che stava conducendo a carico di esponenti politici, la audizione al C.S.M. dell’autunno del ‘91 di Borsellino costituisce una sorta di magna charta del suo metodo investigativo, improntato ad analitico approfondimento a raggiera, unito al rigore nella ricerca dei riscontri esterni, volti a vagliare in concreto l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori, senza acritiche o pregiudiziali adesioni al loro contributo dichiarativo.

Così, al riguardo, Paolo Borsellino afferma nel corso della citata audizione quanto segue: “Io ho il dovere di fare una indagine esplorativa a vasto raggio, anche nell’interesse dello stesso indagato, perché, se l’indagato deve essere sollevato da questa accusa, non deve essere sollevato da questa accusa, perché le dichiarazioni del … ( ndr collaboratore di giustizia ) … non hanno trovato riscontri; se deve essere sollevato da questa accusa, deve essere sollevato a pieno titolo, dopo che il magistrato ha fatto quello che è suo dovere, cioè cercare le prove dovunque è possibile trovarle.”

Così, poi, si espresse sul rigore negli accertamenti conformi al canone della completezza investigativa: “… una volta che debbo indagare sulla asserita appartenenza di una persona a Cosa Nostra, … debbo aprire il ventaglio di indagini a tutte le possibili fonti di prova, … su tutto ciò che nel panorama giudiziario italiano risulta, come indagini, su queste persone.”

Così, anche in relazione alle modalità di gestione dei pentiti, Paolo Borsellino ha lasciato, unitamente a Giovanni Falcone, in eredità alle generazioni future di magistrati inquirenti un “modello operativo” che si è tradotto nel tempo in principi normativi e in consolidati orientamenti giurisprudenziali, nonché in diffusa metodica operativa: rigore nella verbalizzazione,   preliminare ricostruzione del profilo soggettivo personale e criminale del collaboratore di giustizia, al fine di inquadrarne la potenzialità dichiarativa e la credibilità delle chiamate in correità, tutela della genuinità del contributo dichiarativo, evitando impropri contatti tra collaboratori per preservare la valenza dei riscontri c.d. incrociati, tutti valori investigativi e processuali che oggi sono patrimonio comune, ma di cui Paolo Borsellino è stato precursore e coartefice, unitamente a Giovanni Falcone. Di viva attualità, infine, il pensiero di Paolo Borsellino, espresso nel corso della audizione, sulla necessità indefettibile di salvaguardare con ogni mezzo la segretezza delle indagini contro il malcostume della “fuga di notizie”, come avvenne appunto nel ’91 con la pubblicazione sulla stampa del contenuto dei verbali dei pentiti nella disponibilità della finitima Procura di Trapani.

Al riguardo, nel corso della audizione, Paolo Borsellino rimarca con orgoglio il dato per cui, sotto la sua gestione della Procura di Marsala, non si era mai verificato alcun episodio di violazione del segreto investigativo e di fuga di notizie, e ricorda, quasi con stile aneddotico, ma esemplare, quanto egli e Giovanni Falcone si fossero prodigati per salvaguardare la segretezza del contributo dichiarativo di Buscetta al tempo delle indagini che condussero al maxi-processo.
Le pagine degli atti consiliari sopra richiamati, che con la pubblicazione diventano patrimonio di tutti, ci consegnano, in conclusione, una sorta di testamento vivo e attuale, al quale le presenti e le future generazioni di magistrati potranno attingere per orientare il loro agire sul modello virtuoso ed eroico, incarnato integralmente da Paolo Borsellino, che, pur con l’estremo sacrificio, ha vinto per sempre ai nostri occhi e agli occhi della Storia.

(testo curato dal Cons. Luca Forteleoni)