I PAZZI DI CORLEONE – Corleone tra medici mafiosi, vedove coraggio e testimoni abbandonati dallo Stato

 

Ernesto Oliva, “I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato, Di Girolamo, Trapani, pp. 219, euro 20.

Nell’immaginario collettivo Corleone è lo scenario del “Padrino” e la patria dei capimafia più sanguinari della storia della mafia, prima Luciano Liggio, poi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Una sorta di centrale della violenza, irredimibile e immutabile, che si accompagna all’icona della mafia come archetipo, che si identifica e si sovrappone alla Sicilia, ma scantona dall’isola attraversando l’oceano, insediandosi negli Stati Uniti. Una piovra che distende i suoi tentacoli tra due continenti.

 

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Per chi ha una memoria più lunga e meno infettata dagli stereotipi, Corleone è stata capitale della mafia ma pure dell’antimafia. Una storia che comincia con i Fasci siciliani dei lavoratori e perdura fino agli anni ’50 del secolo sorso, con significativi risvolti anche negli anni più recenti.

La “corleonesità” come epitome del Male è frutto di una visione indotta anche, o soprattutto, dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia come Tommaso Buscetta, secondo cui da un lato ci sono i moderati, lui e i suoi amici, dall’altro i sovversivi, i suoi nemici. La Cosa sua, come società di mutuo soccorso, con un codice di valori, rispettosa delle donne e dei bambini, si contrappone alla Cosa loro, dei “corleonesi”, sanguinaria e sregolata, prodotto di un tralignamento, di una degenerazione.

L’Autore di questo libro è giornalista Rai, cronista del quotidiano, ma pure autore, con Salvo Palazzolo, del primo libro su Bernardo Provenzano, con una prefazione di chi scrive: siamo nel 2001 e se ne sapeva molto poco e si giocava alle tre carte con gli identikit. Con queste pagine ha voluto tornare indietro e riscoprire vecchi documenti raccolti a suo tempo dalla Commissione antimafia. Ed è bastato leggere quelle carte per scalzare luoghi comuni e inveterati stereotipi. L’immagine di una Corleone negli anni ’60 totalmente succube della mafia, chiusa nell’omertà, viene scalzata con una documentazione che ha al centro quelli che definisce i “pazzi di Corleone”. Chi sono e perché pazzi?

I nomi di Luciano Raia, Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva oggi non dicono niente a nessuno, eppure sono stati protagonisti di vicende che, a loro modo, sono esemplari. E questa esemplarità è anche legata alla loro “pazzia”. Reale o simulata.

A Corleone alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60 gli omicidi sono all’ordine del giorno. È in atto una guerra tra una mafia storica, quella del medico-capomafia Michele Navarra, e un’altra emergente, quella del giovanissimo Luciano Liggio.

Il magistrato Cesare Terranova, fra i pochi se non l’unico che si occupava di mafia, nella sua inchiesta sulla mafia di Corleone può utilizzare una serie di dichiarazioni e su quella base rinvia a giudizio Luciano Liggio e altri mafiosi e fiancheggiatori. Terranova ha capito che la mafia non è solo una mentalità, ma è un’organizzazione e in altre inchieste ne ricostruisce la struttura, individua i componenti di un organo di comando, la commissione. Doveva essere una svolta, ma il suo lavoro sarà frustrato da processi che finiscono regolarmente con l’assoluzione per insufficienza di prove.

A cominciare a parlare sono le donne: Rosa Oliveri parla dell’omicidio del cognato Francesco Paolo Streva; Michelina Zarzana, vedova di Antonio Piraino, parla del triplice omicidio del 10 settembre 1963, in cui caddero i navarriani Francesco Paolo Streva, Biagio Pomilla e il marito, riferisce che aveva chiesto a Bernardo Marino, che sarebbe coinvolto nel delitto, notizie del marito scomparso e ne ha come risposta un’implicita confessione: «Chi iti circannu cchiù? Vossia si tinissi luntana da li sbirri!» («Che cosa cercate ancora? State lontana da polizia a carabinieri!». P. 45). Maria Paternostro, vedova della guardia campestre Calogero Comaianni, che aveva arrestato Liggio per un furto di covoni di grano ed era stato ucciso il 28 marzo del 1945, accusa l’assassino, che dopo una lunga vicenda processuale sarà assolto per insufficienza di prove.

Tra i “pazzi” il personaggio più interessante è Luciano Raia, navarriano, arrestato con l’accusa di associazione a delinquere ed estorsione continuata, nel carcere dell’Ucciardone subisce violenze da altri detenuti della fazione liggiana.  Nel gennaio del 1966 la moglie, Biagia Lanza, si reca alla questura di Palermo e incontra il vicequestore Angelo Mangano, che ha fama di superpoliziotto perché nel maggio del 1964 ha arrestato Luciano Liggio, latitante da 16 anni. A Mangano la donna riferisce un messaggio urgente di suo marito: vuole raccontare tutto quello che sa sulla mafia di Corleone, ma ha paura di morire «scannato come un animale».

Comincia così l’avventura-disavventura di Luciano Raia nelle vesti di protopentito.
Al palazzo di giustizia di Palermo incontra il giudice istruttore Cesare Terranova e il procuratore Pietro Scaglione. E fa i nomi degli autori di una serie di omicidi e dei membri della fazione liggiana. Come tutti i “perdenti” nella guerre di mafia, accusa i vincenti. Dopo gli interrogatori viene recluso in una cella di isolamento, ma all’interno del carcere e a Corleone subito circola la voce della sua collaborazione.
A Corleone in un’imponente retata vengono arrestate 42 persone. Subito dopo, l’Ansa dà notizia che c’è un pregiudicato che ha confessato. 
Prima anonimo poi con il nome per esteso. Raia diventa il Joe Valachi di Corleone, ma a differenza del mafioso americano, che ha rivelato i segreti della Cosa nostra statunitense, a cui si assicura protezione, Raia teme di fare una brutta fine e trova un suo modo per sfuggirvi: simulare la pazzia.
Nel febbraio del 1969, a Bari, per legittima suspicione, comincia il processo alla cosca di Luciano Liggio. Ci sono 151 testimoni ma è una serie di “non ricordo”.
Raia non è neppure capace di recitare la formula del giuramento. Sottoposto a perizia psichiatrica il referto, riportato a p. 137,  è: «L’attuale stato psicofisico del testimone Luciano Raia è inquadrabile in una forma di reazione psicogena (spavento)».
Come dire: è malato di paura.

Poche ore prima che la Corte si ritiri per prendere la decisione, vengono recapitate tre lettere anonime indirizzate ai giurati popolari, al presidente della Corte e al pubblico ministero. Il testo integrale viene riportato nel libro. Ne richiamo solo qualche frammento.
Nella lettera ai giurati si legge: «Noi vi vogliamo semplicemente avvertire che se un galantuomo di Corleone sarà condannato, voi salterete in aria, sarete distrutti, sarete scannati, come pure i vostri familiari». In quella al presidente: «Se condanni anche un solo imputato di Lucianuzzu Liggio sarai scannato tu e tutti i tuoi figli e i fratelli a uno a uno e tutti i giudici popolari che tieni» (p. 140). Finisce com’era prevedi
bile: l’assoluzione per insufficienza di prove. Da qui comincia la resistibilissima ascesa dei “corleonesi”ai vertici di Cosa nostra
.

Il processo di Bari bisognerebbe rappresentarlo in uno spettacolo teatrale, perché è uno psicodramma collettivo in cui le parti sono assegnate: Raia recita, ma la finzione sembra tradursi in realtà: un giornalista ha richiamato l’Enrico IVdi Pirandello. I testimoni replicano il copione dell’omertà siciliana.
I giurati non sanno di cosa si parli ma è stato facile “avvicinarli” e poi con la lettera hanno capito perfettamente di cosa si tratta. Il Pm fa la sua parte di accusatore, il Presidente si attiene al canovaccio dell’assoluzione.
Gli altri “pazzi” sono Vincenzo Maiuri e Vincenzo Streva che riferiscono di delitti che hanno commesso o a cui hanno assistito, ma anche loro si trincerano dietro i “non ricordo” e lo squilibrio mentale.
Nessuno dei “pazzi” è stato sostenuto, protetto e il loro esempio è stato vanificato. Quale spiegazione dare? Vuoto legislativo?
Le disposizioni sui collaboratori di giustizia verranno solo dopo le stragi Falcone e Borsellino. Deficit culturale?
La mafia è un reato o solo una mentalità?
Terranova aveva capito, ma era l’eccezione che confermava la regola. Complicità? I mafiosi sono “persone di rispetto” ed è consigliabile non farseli nemici.

L’Autore si chiede: come si spiegano le ripetute assoluzioni di Liggio? E rispolvera, problematicamente, una vecchia storia che vuole il giovanissimo Liggio reclutato per recitare un ruolo importante: uccidere il bandito Salvatore Giuliano. Liggio avrebbe reso un servizio allo Stato e ne ha chiesto e ottenuto il conto: la certezza dell’impunità, almeno per un certo lasso di tempo.
La risposta alla domanda sull’impunità penso che vada cercata nel ruolo che la mafia aveva a quel tempo, a Corleone, in Sicilia e in un contesto più ampio. Intanto, chi erano i mafiosi di quella stagione?

Michele Navarra è un medico, dei suoi quattro fratelli uno è pure medico, docente universitario e primario ospedaliero; un altro è dipendente dell’Ast (Azienda siciliana trasporti) e sarà direttore generale, un terzo è funzionario del Banco di Sicilia, il quarto è funzionario presso l’Assessorato regionale agli Enti locali. Una famiglia di borghesia professionale. Nella parentela c’è uno zio materno che è stato un capomafia: Angelo Graziano, principale indiziato dell’assassinio del dirigente politico e sindacale Bernardino Verro, ucciso il 3 novembre del 1915, quando era sindaco di Corleone. Graziano fu assolto e sarà ucciso il 7 luglio del 1930. È lui che ha lasciato in eredità il germe mafioso?
All’inizio della carriera di Michele Navarra c’è un omicidio: viene ucciso il dottore Carmelo Nicolosi, direttore dell’ospedale dei Bianchi, delitto impunito.
Si dice che a volere la sua morte sia stato proprio il dottore Navarra che si vede spianata la strada alla direzione dell’ospedale. E, come capomafia, il dottore Navarra è un avveduto organizzatore.
Corleone è troppo grande per potere essere governata da un piccolo gruppo. Occorre una struttura: al vertice c’è lui, ma il territorio viene diviso in due zone, ognuna con un luogotenente e un consigliere, alla base i gregari. E il medico-capomafia Navarra è un collezionista di incarichi, è pure cavaliere della Repubblica, è considerato un benefattore del paese, “u Patri nostru”, è al centro di una ragnatela di relazioni; politicamente è stato indipendentista nel 1947, liberale nel 1948, democristiano dal 1951. Anche per suo merito, la Dc dal 1953 al 1958 passa da 1.985 a 4.158 voti; il Pci, che è stato alla testa delle lotte contadine, ha 1.983 voti nel ’53 e 2.242 nel ’58.
Il movimento contadino è stato un problema, con un sindacato combattivo e un dirigente come Placido Rizzotto che portava con sé l’esperienza partigiana e ora era impegnato in una Resistenza più lunga, dall’esito incerto. Un problema che è stato risolto. L’11 marzo del 1948 Placido viene sequestrato, ucciso e gettato in una “ciaca” (una fenditura in una roccia). Tra gli assassini c’è Luciano Liggio, che sarà assolto per insufficienza di prove.
Senza colpevoli è pure la morte del pastorello Giuseppe Letizia, che avrebbe visto gli assassini compiere il delitto, avrebbe avuto delle allucinazioni e muore dopo che gli viene praticata un’iniezione. Il medico che ha redatto il certificato di morte si trasferirà in Australia.
Luciano Leggio (per un errore di trascrizione, Liggio) viene da una famiglia di contadini, ma non ha mai lavorato. Comincia con piccoli furti, con Navarra è un campiere e un sicario, ma aspira a un ruolo più alto. E nascono le invidie e le contrapposizioni, che porteranno allo scontro che ha il suo culmine con l’uccisione di Navarra il 2 agosto 1958.
Ora a Corleone ci sono due fazioni in guerra e vincerà Liggio. Con Liggio sono due giovani, Totò Riina e Bernardo Provenzano; il primo contadino che ha ereditato dal padre un po’ di terra, il secondo bracciante. Dapprima sono luogotenenti di Liggio, poi pari grado e in seguito, anche perché Liggio si trasferisce al Nord ed è continuamente in giro, capimafia con l’occhio puntato verso la città, dove si concentrano interessi e relazioni.
A Palermo nei primi anni ’60 è in atto una guerra di mafia, anche qui tra la mafia storica dei Greco e quella emergente dei La Barbera. Ed entrano in scena le macchine imbottite di tritolo.
La prima è per Cesare Manzella, lo zio di Peppino Impastato, esploso assieme al suo fattore il 26 aprile del 1963. E dopo c’è la strage di Ciaculli del 30 maggio, in cui sono morti sette rappresentanti delle forze dell’ordine, che finalmente desta l’attenzione a livello nazionale. E fioccano gli arresti e gli invii al confino, comincia a operare la Commissione parlamentare antimafia.
La mafia è in crisi e a dirigerla viene nominato un triumvirato. Ne fanno parte Stefano Bontate, erede di una dinastia mafiosa imperante a Palermo, Gaetano Badalamenti di Cinisi, Luciano Liggio, sostituito da Riina come rappresentante della mafia di Corleone, già inurbata, ma c’è pure una sorta di gemello: Provenzano. Sono cominciate le grandi manovre per conquistare Palermo e egemonizzare Cosa nostra.
I “corleonesi” possono contare su un loro compaesano, Vito Ciancimino, diventato assessore comunale e regista della politica cittadina. Giocano a dividere le famiglie palermitane e a fagocitare gli scontenti, violano le regole, tessono e disfano relazioni e infine scatenano la guerra e impongono con il terrore la loro dittatura. Contestualmente alla guerra interna c’è l’attacco allo Stato e alla classe dirigente. Cadono, tra gli altri, Piersanti Mattarella e Pio La Torre, ma solo l’assassinio del generale-prefetto Dalla Chiesa ha un effetto boomerang: la legge antimafia e il maxiprocesso.

I “corleonesi” e i loro alleati reagiranno alle sentenze di condanna con le stragi di Capaci, di via d’Amelio, di Firenze e Milano.
Nel 1993 viene arrestato Riina, ma bisogna attendere il 2006 per l’arresto di Provenzano: una latitanza record, 43 anni, “tutelata”, perché avrebbe fatto da “calmieratore”, traghettando quel che rimane di Cosa nostra verso lidi più moderati.

Questa storia, che mirava a mettere in ginocchio il Paese, lascia domande in attesa di risposte. Una risposta può venire dal far piena luce sui delitti e le stragi politico-mafiosi, dove si incrociano mafia e settori delle istituzioni, su cui ancor’oggi, bene che vada, abbiamo mezze verità. La questione criminale, in Italia, ha avuto e continua ad avere un ruolo rilevante, perché è parte della questione del potere.
Da questi annali di sangue è nata una nuova stagione dell’antimafia, in cui la memoria si coniuga con un progetto di mutamento. Il segno più visibile è l’uso dei beni confiscati ai mafiosi. Una riappropriazione del territorio. E non è un caso che si siano dedicati a Placido Rizzotto e alla strage di Portella della Ginestra i luoghi liberati dalla mafia, in continuità con la storia dell’“altra Corleone” e dell’altra Sicilia. Una storia di cui fanno parte, in qualche modo, anche i protagonisti di questo libro. di Umberto Santino L’ESPRESSO 20.1.2022


A proposito dei “pazzi” di Corleone: la storia non si fa con i “se”, ma…

 

Questi fatti ed altro ancora ci racconta il bel libro del giornalista Rai Ernesto Oliva. L’abbiamo voluto presentare al Cidma (Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e sul  Movimento Antimafia) per far conoscere una pagina dimenticata della storia di Corleone. La “vulgata” mafiosa tramanda che non ci sono mai stati pentiti tra “i corleonesi”, mafiosi duri e puri, che si spezzano ma non si piegano. Non è vero.

Luciano Raia era un mafioso corleonese della cosca navarriana che, “per paura di essere scannato come un maiale”, volle parlare prima col vicequestore Angelo Mangano e poi con i magistrati Pietro Scaglione e Cesare Terranova. Confessò tanti crimini commessi dalla cosca avversaria, quella dei “liggiani, per salvarsi la pelle.

Ma le cose, purtroppo per lui e per l’Italia civile, andarono diversamente. Allora non c’era una legislazione per i “pentiti” e per i “testimoni di Giustizia”, il codice penale ancora non prevedeva il reato di associazione mafiosa (il 416bis della futura legge La Torre), erano di più i pezzi dello Stato che sottovalutavano la mafia (o flirtavano con essa), che quelli che la combattevano con determinazione e coraggio. *Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano sono stati gli artefici di una stagione di violenza mafiosa che ha segnato con stragi ed omicidi la storia contemporanea della Sicilia e dell’Italia.
A loro si devono i delitti di numerosi rappresentati delle istituzioni e l’eredità di un indelebile marchio di omertà attribuito a Corleone.  
Negli anni di ascesa criminale dei liggiani, numerosi corleonesi invece diedero prova di credere nella forza della denuncia, affidando allo Stato la speranza di potersi affrancare dalle logiche di un potere vessatorio e sanguinario. Il loro tentativo fallì perché quello Stato non fu capace di tutelare e valorizzare il loro contributo, vanificando così la possibilità di stroncare sul nascere la violenza dei liggiani. Costretti dai mafiosi a ritrattare le loro accuse, alcuni di questi testimoni furono addirittura indotti a simulare la follia. Ancor oggi, i protagonisti dimenticati di quella tradita capacità di opposizione alla regola dell’omertà vengono da pochi ricordati come “i pazzi di Corleone”. Come scrive Umberto Santino nella sua prefazione, l’Autore «con queste pagine ha voluto tornare indietro e riscoprire vecchi documenti raccolti a suo tempo dalla Commissione antimafia. Ed è bastato leggere quelle carte per scalzare luoghi comuni e inveterati stereotipi…». 


Quando solo i pazzi denunciavano i mafiosi di Corleone

Se si vuol capire la ragione per cui le aree para-mafiose del ceto dirigente italiano replicano, con puntualità, i tentativi di smantellare la legislazione sui “collaboratori di giustizia” (giornalisticamente noti come “pentiti”) e sui “testimoni di giustizia” (cittadini onesti esterni alle cosche o addirittura vittime di intimidazioni mafiose) occorre leggere questo intrigante volume di Ernesto Oliva, I pazzi di Corleone. I compaesani di Liggio, Riina e Provenzano, testimoni minacciati dalla mafia e abbandonati dallo Stato, Di Girolamo, Trapani 2020.

Si tratta, infatti, di una puntuale ricerca su documenti, archiviati e dimenticati, relativi a vicende della seconda metà del secolo scorso (pubblicati soprattutto dalla Commissione parlamentare antimafia negli anni Ottanta), da cui si traggono storie ben al di là di ogni immaginazione letteraria.

Dalla ricerca, infatti, emergono nomi e cognomi di abitanti di Corleone che – per le ragioni più svariate – decidono di accusare i colpevoli ignoti di delitti ben noti alle autorità giudiziarie, ma che, privi di qualsiasi conseguente protezione, vengono tempestivamente minacciati dai mafiosie indotti ad annullare le prime loro deposizioni. Con quale stratagemma?

Da qui il titolo del volume: assumendo atteggiamenti, pose, reazioni da “pazzi”.

Uno di questi folli per autodifesa è Luciano Raia, della famiglia perdente del dottor Michele Navarra (medico condotto e capomafia), che inizia a denunciare d’intesa con la moglie Biagia Lanza i membri della famiglia vincente di Luciano Liggio: la loro collaborazione non rimane segreta, viene sbandierata dal Giornale di Sicilia  e al “Valachi siciliano” non resta che comportarsi da smemorato clinico. Un altro pazzo a scoppio ritardato è Vincenzo Maiuri che aveva assistito all’omicidio di un luogotenente di Navarra.

Davvero autentico pare sia stato l’impazzimento di Vincenzo Streva che, dopo l’autodenuncia per l’assassinio di un giovane ladro di bestiame e la denuncia dei suoi complici, finisce ricoverato in manicomio criminale (mentre i correi da lui indicati restano a piede libero).

Oliva stesso evidenzia alcune delle numerose considerazioni suggerite dalle vicende che egli ha strappato all’oblio.

Innanzitutto “un quadro corale di aperte denunce contro i delitti del clan, del tutto contrastante con l’opinione comune secondo cui Corleone sia stato il luogo per eccellenza della pratica dell’omertà” (p. 20); inoltre che lo Stato – in particolare la magistratura  – ha “permesso in quegli anni alla mafia di Corleone di affermarsi con la forza della soggezione, salvando i liggiani da ergastoli e condanne che avrebbero potuto forse impedirgli di uccidere in seguito investigatori, magistrati, politici, giornalisti e chiunque fosse stato ritenuto capace di opporsi al loro potere stragista” (p. 21). Come si è icasticamente espresso il magistrato e senatore Giuseppe Di Lello, “allo storico silenzio dei siciliani” è corrisposta “una storica sordità dei giudici” (p. 41).

Ancora una volta, dunque, si conferma la teoria sociologica per cui i responsabili dei delitti di mafia non sono soltanto i mandanti (più o meno occulti) e gli esecutori, ma anche quei rappresentanti delle istituzioni che – per interesse, per vigliaccheria, per mille altre motivazioni – si sottraggono ai propri compiti: abbandonando i cittadini inermi al ricatto delle cosche, ne inducono la maggioranza alla rassegnazione  e condannano all’isolamento i pochi coraggiosi che preferiscono rischiare la vita anziché svendere la dignità.

Tra queste persone eroiche alcune sono cadute in trincea, come il giudice Cesare Terranova e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (già comandante dei carabinieri a Corleone); ma altre no.

Come le tre infermiere dell’Ospizio Marino (Maria Aiello, Camilla Plaia e Angela Traina) che non esitarono a testimoniare contro Luciano Liggio ricoverato nell’ospedale di Palermo sotto falso nome.

Proprio Terranova, in un documento del 1965, così scrive di loro: “Queste giovani donne, dando prova di coraggio e di un senso di civismo non comune e purtroppo molto raro nel nostro ambiente, non hanno minimamente esitato a rivelare tutto ciò che sapevano e a fornire indicazioni per l’identificazione degli imputati, pur essendo perfettamente consapevoli della pericolosità dei soggetti da loro accusati” (p. 31).

Il volume, che ha il merito di portare alla luce delle vicende trascurate o comunque sottovalutate dalla storiografia sul tema, è arricchito da una relazione, sulla mafia a Corleone negli anni 1963 – 1964 a firma del vicebrigadiere Agostino Vignali, comandante della Squadra di Polizia Giudiziaria del comune palermitano. L’estensore del documento “riservatissimo” si mostra consapevole della necessità che l’azione repressiva giudiziaria venga accompagnata da iniziative efficaci sui “tre cardini fondamentali”: “scuole, industrie, bonifica agraria” (p. 209).

Sessant’anni dopo siamo costretti a riconoscere che il groviglio è ancora più complesso perché il sistema di potere politico-economico-mafioso ha dimostrato di saper approfittare delle risorse statali come, nel passato, delle condizioni di arretratezza e povertà. Scuole? I mafiosi controllano gli appalti per costruire le pubbliche e mandano i rampolli nelle private più prestigiose.

Industrie? Molti imprenditori – pur sbandierando slogan antimafia – cercano la complicità dei mafiosi prima ancora di essere contattati da essi e non pochi arrivano ai vertici delle associazioni di categoria con metodi mafiosi.

Bonifica agraria? L’agricoltura è un terreno fertilissimo per truffe concernenti i finanziamenti europei e, comunque, se i mafiosi hanno allentato la morsa nelle zone agricole é perché hanno trovato molto più lucroso il settore dell’edilizia prima; delle droghe, delle armi, dei flussi migratori e della speculazione finanziaria, dopo.

Almeno in Italia, il capitalismo, che in altri Paesi esige regole certe nell’esercizio della libera concorrenza, sembra invece supportare politiche governative ‘grigie’ in cui alla severità per le trasgressioni banali corrisponde uno sconcertante lassismo verso la macro-corruzione e la mega-evasione fiscale.

Con la conseguenza che, nella migliore delle ipotesi, viene perseguita la delinquenza comune e incoraggiata la criminalità mafiosa sistemica.

Augusto Cavadi   13.8.2023 ZERZERONEWS

Giornalista pubblicista, Filosofo. Fondatore della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo