La storia di GIUSEPPINA PESCE, una madre che ha sfidato la ‘ndrangheta per salvare i suoi figli

 

 

Biagio Chiariello 6 Aprile 2023 FANPAGE


Giuseppina Pesce, figlia, sorella e nipote di boss
di una delle cosche più potenti della Calabria, ha deciso di ribellarsi alla sua famiglia di sangue. Lo ha fatto per lei e per i suoi figli. Il suo coraggio le ha regalato una seconda possibilità colorata di dignità e libertà.

 
 
Giuseppina Pesce

 

Giuseppina Pesce apparteneva alla ‘ndrina dei Pesce di Rosarno, una delle famiglie più importanti nel mondo della mafia calabrese. È una delle poche donne andate contro la ‘ndrangheta ad essere ancora viva. Maria Concetta Cacciola è morta dopo aver bevuto misteriosamente dell’acido e i suoi familiari sono in carcere per istigazione al suicidio; il corpo di Lea Garofalo invece non è mai stato trovato.
Nell’ottobre del 2010 la donna che all’interno della cosca aveva il compito di fare da staffetta di ordini tra il padre in carcere e i suoi uomini fuori, decide di collaborare con la giustizia. Giuseppina vuole assicurare ai tre suoi figli un futuro diverso. Fuori dalla criminalità organizzata.

La sua testimonianza ha permesso agli inquirenti di ricostruire la piramide del potere dei Pesce. Oltre al sequestro di beni per oltre 200 milioni di euro. Oggi vive sotto protezione in una località protetta.

Il matrimonio con Rocco Palaia e la nascita dei tre figli

Giuseppina nasce nel 1976 in una nota famiglia di spicco della ndrangheta. È figlia, sorella e nipote dei boss più potenti della Calabria. Ad appena 14 anni conosce Rocco Palaia, di 22 anni. Dopo qualche mese la coppia ha la prima figlia, Angela (oggi 29enne), e si trova ‘costretta’ a fare la ‘fuitina’.
La vita con quel ragazzo però non è quella che si aspettava. Ben presto arrivano le botte e le minacce, ma anche altri due figli (una che ora ha 21 anni e uno di 19). Giuseppina conosce un altro uomo e vorrebbe lasciare il marito, ma la ‘ndrangheta non perdona. A salvarla è l’arresto.

L’arresto e la decisione di collaborare con la giustizia

Nel 2010 finisce in carcere con l’accusa di essere la ‘postina’ del clan. A questo punto inizia a collaborare con il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti. In questa ultima trova una preziosa alleata: le inizia a raccontare i soprusi subiti dal marito e soprattutto la sua vita da ‘mafiosa’, quindi svela i traffici illegali della sua famiglia.
In cambio ottiene la protezione per lei e i suoi tre figli che all’epoca avevano 16, 9 e 6 anni.

Le minacce e l’ostilità della figlia Angela

Giuseppina comincia così una nuova vita, ma la figlia maggiore, Angela, non approva la decisione della madre, così la donna cede e ritratta le sue testimonianze. Non fa però rientro in Calabria: teme per la sua vita, rimane in una località nascosta. Ma quando viene scoperta con il suo nuovo compagno, il marito la minaccia: chi tradisce deve pagare con la vita.
Nel frattempo viene messa sotto protezione con le due figlie (il figlio è stato, invece, affidato al nonno). Ma durante un viaggio verso Lucca, in cui erano presenti la figlia e il nuovo compagno di Giuseppina, viene nuovamente arrestata con l’accusa di evasione.

Il ripensamento di Giuseppina e l’appoggio della pm Alessandra Cerreti

È in quest’occasione che spiega il perché del suo ripensamento. Per esempio la non condivisione da parte dei figli, in particolare Angela, della sua collaborazione. E poi anche un’altra verità forse quella più sentita; il timore che qualcosa di male potesse accadere ai suoi ragazzi.
Ma la pm Cerreti le garantisce che nulla sarebbe accaduto a lei e ai suoi figli. Così Giuseppina inizia a confessare tutti gli illeciti della famiglia. Questa volta con la figlia Angela dalla sua parte. Queste testimonianze daranno il via all’operazione All Inside 2, e al consecutivo processo del 2012.
In sede di processo, gli uomini della famiglia Pesce pretendo che la Cerreti venga sostituita con un uomo. Non riescono a sopportare l’idea che ad accusarli siano delle donne. Ma il pm non si fa intimorire.

La vita di Giuseppina Pesce oggi

Oggi Giuseppina Pesce continua a vivere in una località protetta con i suoi figli. Il suo coraggio le ha regalato una seconda possibilità colorata di dignità e libertà. È riconosciuta come un’eroina non soltanto per aver voltato le spalle alla sua famiglia di sangue, ma per essere una donna testimone ancora in vita.

Nel film Le buone madri, disponibile, su Disney+, c’è anche la sua storia, insieme a quella di Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola, altri due madri il cui destino è stato meno fortunato di quello di Giuseppina. Tutte e tre vittime di quel sistema che avevano deciso di denunciare. Il loro esempio rimane un’ispirazione per molte altre donne.


Chi è Giuseppina Pesce: storia della donna che ha sfidato la ‘ndrangheta

Chi è Giuseppina Pesce: figlia, sorella e nipote di boss appartenenti alle cosche più potenti della ‘ndrangheta calabrese, è andata contro la sua famiglia pur di proteggere i suoi tre figli. Dal 2010 è infatti una collaboratrice di giustizia.
Giuseppina Pesce, nata nel 1979, apparteneva alla ‘ndrina Pesce di Rosarno, famiglia all’apice della ‘ndrangheta calabrese. A 14 anni conosce Rocco Palaia, di 22. Rimane incinta e nasce Angela: sono così costretti alla ‘fuitina’. Ma la vita con quel ragazzo non era quella si aspettava: le botte vogliono metterla a tacere. Lei conosce un altro e vorrebbe lasciare il marito, ma la ‘ndragheta non perdona. A salvarla è l’arresto: nel 2010 infatti finisce in carcere con l’accusa di essere la ‘postina’ del clan.

Ed è qui che inizia a collaborare con con il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti.


A lei racconta tutti i soprusi subiti negli anni e ottiene la protezione per lei e i suoi tre figli che all’epoca avevano 16, 9 e 6 anni. Ricomincia una nuova vita, ma la figlia maggiore non approva la decisione della madre, così lei cede. Viene costretta dalla famiglia a ritrattare, ma non rientra in Calabria: teme per la sua vita, rimane in una località protetta. Ma quando viene scoperta con il suo nuovo compagno, il marito la minaccia: chi tradisce deve pagare con la vita. Giuseppina allora capisce che la sua strada è un’altra. Riprende la collaborazione, la figlia è finalmente dalla sua parte, lo fa per salvare lei e i suoi fratelli. Accusa, anche se con dolore, chi amava. In sede di processo, gli uomini della famiglia Pesce chiedono che la Cerreti venga sostituita con un uomo. Non possono sopportare che ad accusarli siano delle donne, che per loro non meritano lo stesso rispetto. Ma lei non si fa intimorire.

Giuseppina Pesce oggi

Esempio di grande coraggio, Giuseppina Pesce ha sfidato la cultura maschilista della ‘ndrangheta per amore dei suoi figli. Ha denunciato non solo tutti gli illeciti della famiglia, ma ha mostrato cosa le donne, nella ‘ndragheta, erano costrette a subire: l’onore della famiglia è sempre più importante e loro devono stare zitte. Preparandosi a pagare con la vita la ribellione a quel codice non scritto.
Oggi Giuseppina Pesce continua a vivere in una località protetta ed è una delle poche donne che hanno denunciato la ‘ndrangheta ad essere ancora viva. Nel film The Good Mothers, disponibile dal 5 aprile su Disney+, c’è anche la sua storia, insieme a quella di Lea Garofalo e Maria Concetta Cacciola, altre due madri coraggiose che avevano osato sfidare la loro famiglia mafiosa. Lea e Maria Concetta non ci sono più, vittime di quel sistema che avevano deciso di denunciare. Ma il loro esempio rimane d’ispirazione per tante altre donne. Mariangela Celiberti TG24 22 Agosto 2023

 


Donne e ‘ndrangheta. «Colonne portanti» in «un universo maschile che non esisterebbe senza il femminile»

 

Nel podcast “Le Onorate” il racconto delle donne boss, come Aurora Spanò, ma anche di quelle che dall’interno si sono ribellate, come Maria Concetta Cacciola e Lea Garofalo

 

Una parola, «’ndrangheta», che rimanda a un immaginario completamente maschile. Un termine che deriva dal greco: “andrós” e “agathós” insieme formano il significato di «uomo valente». E che da tre uomini (Osso, Mastrosso e Carcagnosso) secondo la leggenda, fu fondata insieme a Cosa Nostra e alla Camorra. Una narrazione, quella del mondo dei cosiddetti “uomini d’onore”, fatto da uomini e in cui a operare sarebbero solo uomini, che viene tuttavia smentita dalle decine di inchieste che hanno dimostrato come le donne siano tutto fuorché che entità ai margini e subordinate. Inchieste, ma anche storie di donne boss o che accanto ai boss si sono ritagliate spazi importanti, anche ai vertici. Come nel caso di Aurora Spanò, condannata a 18 anni e sei mesi per il ruolo apicale ricoperto all’interno del clan Bellocco di San Ferdinando. Dall’altra parte della barricata, invece, quelle donne che si sono ribellate alla violenza e alla sopraffazione dei clan, decidendo di intraprendere una strada diversa.
A indagare sul tema è un podcast, “Le onorate. Donne dentro e contro la ’ndrangheta”, del Post, prodotto in collaborazione con Disney+ in occasione dell’uscita della serie originale The Good Mothers, e realizzato dal giornalista Stefano Nazzi e Anna Sergi, docente in criminologia all’Università dell’Essex.

La “mamma” della ‘ndrangheta

Sebbene di questo universo fatto di giuramenti, ruoli ben definiti e strategie criminali si parli quasi sempre in termini maschili, «la ‘ndrangheta – spiega Anna Sergi – non esisterebbe senza il femminile». È “Mammasantissima” il termine utilizzato per definire il capobastone, il reggente, il capo supremo. Ed è presso il santuario della “mamma di San Luca”, “la mamma dell’Aspromonte”, la Madonna di Polsi, «il posto dove sarebbero state trovate le dodici tavole che dettano i comportamenti degli ‘ndranghetisti». Per tale ragione a San Luca viene riconosciuto un ruolo apicale in Aspromonte. «San Luca fa da Mecca per tutti i clan», spiega Sergi

Ma “la mamma di San Luca” non è l’unica, «ha creato un modello per altre famiglie che hanno creato mamme territoriali. Nel processo Rinascita Scott si parla ad esempio della mamma del Vibonese, che è a Limbadi. Avere la mamma significa avere un “Crimine”, la struttura principale della ‘ndrangheta, riconosciuta in seno a una specifica famiglia».

Il ruolo delle donne in una organizzazione familiare

Rimaste ufficialmente ai margini, le donne in quanto mogli e mamme, hanno tuttavia sempre avuto un valore fondamentale in un contesto in cui la famiglia, specialmente nei clan calabresi, è il fulcro di tutta l’organizzazione. Nella ‘ndrangheta, più che nelle altre organizzazioni criminali, i rapporti familiari, e quindi si presuppone di totale fiducia, hanno rischiato di renderla inespugnabile. «Le donne – spiega ancora Sergi – ufficialmente non si affiliano alla ‘ndrangheta, sono conosciute come sorelle d’onore, però senza di loro non esisterebbe la ‘ndrangheta proprio perché l’onore ha un valore fondamentale, è il cuore del potere ‘ndranghetista e rende morboso l’attaccamento alle donne della famiglia. La ‘ndrangheta è femminile proprio in quanto è famiglia, il suo contesto è femminile e la sua connessione con il contesto è femminile». Le donne sono dunque «colonne portanti». Ma non solo in quanto curano l’educazione dei figli e sostengono le azioni criminali di mariti, padri, fratelli.

Donne dentro la ‘ndrangheta

Sempre più spesso si assiste all’ascesa di donne boss, come nel caso sopracitato di Aurora Spanò, con il ruolo apicale ricoperto all’interno del clan Bellocco di San Ferdinando, ma anche di donne la cui morte ha provocato l’innesco di sanguinose azioni. La faida di San Luca, portata avanti con l’uccisione di Maria Strangio il 25 dicembre 2006, ha portato alla strage di Duisburg in un attentato in cui furono uccise sei persone del clan Pelle-Vottari il 15 agosto 2007. Una vicenda che ha visto il coinvolgimento di altre donne, «Teresa e Angela Strangio – spiega Anna Sergi –  sono state anche condannate per i loro ruoli dirigenziali nella famiglia».
Emblematico poi il caso di Anna Rosalba Lazzaro, la madre di Maria Concetta Cacciola, condannata insieme ad altre persone per l’omicidio della figlia.

Uccise dopo aver deciso di collaborare con la giustizia

Maria Concetta era figlia di Michele Cacciola, il cognato del boss di Rosarno Gregorio Bellocco. La donna muore nel 2011 dopo aver ingerito una grossa quantità di acido muriatico. Cugina di Giuseppina Pesce – anche lei si ribellerà e diventerà testimone di giustizia – Maria Concetta Cacciola, sofferente per il contesto familiare soffocante in cui vive decide di allontanarsi dalla famiglia e di intraprendere il percorso come collaboratrice di giustizia. Tornerà a casa convinta dai familiari che faranno leva sul rapporto con i figli e qui troverà la morte. Analoga la storia di Tita Buccafusca, moglie di Pantaleone Mancuso. Morirà divorata anche lei dall’acido muriatico che era stata costretta ad ingerire dai suoi assassini, la sua famiglia, a un mese esatto dallo slancio che l’aveva portata a collaborare con gli investigatori. Con il figlio in braccio era entrata nella caserma dei carabinieri di Nicotera chiedendo di parlare con un magistrato. Stessa decisione e stessa sorte per Lea Garofalo, uccisa a Milano dal suo ex compagno Carlo Cosco dopo aver deciso di testimoniare sulle dinamiche di ‘ndrangheta del suo paese di origine, Petilia Policastro, nel crotonese. La verità su Cosco, condannato insieme ad altre persone per la morte di Lea Garofalo, verrà scoperta grazie alla testimonianza della figlia Denise. Donne uccise per aver deciso di parlare, che per amor proprio e per amore dei propri figli avevano deciso di allontanarsi da un contesto familiare fatto di costrizioni, sofferenze e malaffare. Corriere della Calabria 10.4.2023


22.9.2011 – Le lettere di Giuseppina Pesce: ”Collaboro per dare un futuro ai miei figli”


di Claudio Cordova –
Le guerre emotive, interiori, di una donna, i drammi e le pressioni derivanti dall’essere

 

cresciuta in un contesto di ‘ndrangheta, la paura di perdere tutto ciò che si ama. Dietro la scelta di Giuseppina Pesce, figlia del boss Salvatore Pesce, di ritornare a collaborare con la Dda di Reggio Calabria, si nascondono vicende umane molto complesse.La donna viene arrestata nell’ambito dell’operazione “All inside” che, appena due giorni fa, ha registrato, nello stralcio degli abbreviati, condanne pesantissime e la disposizione del Gup che la cosca Pesce risarcisca il Comune di Rosarno con 50 milioni di euro. Il 14 ottobre 2010, Giuseppina Pesce inizia a collaborare con il pubblico ministero della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti. La Pesce firma diversi verbali d’interrogatorio e le sue dichiarazioni contribuiscono al sequestro di ingenti patrimoni nei confronti del clan di Rosarno, tra cui alcune squadre di calcio. Il 2 aprile 2011, la donna scrive una lettera al Gip di Reggio Calabria, paventando la circostanza che i magistrati della Dda reggina l’abbiano costretta a collaborare. Due giorni dopo, il pm Cerreti, ignara della lettera (che verrà trasmessa in Procura solo una settimana dopo) interroga nuovamente la Pesce, che risponde tranquillamente. Il “gran rifiuto” arriva l’11 aprile, quando la donna non firma il verbale di fine collaborazione (i pentiti hanno a disposizione 180 giorni per dichiarare ciò che sanno). Segnale inconfutabile che qualcosa di strano stia accadendo è la scelta, da parte della donna, di revocare il proprio legale, nominando l’avvocato Giuseppe Madia, che ha assistito, in passato, i membri della famiglia Pesce. Il 10 giugno Giuseppina Pesce viene arrestata per evasione dagli arresti domiciliari.
Quando, però, la storia sembra aver imboccato una strada problematica per la donna, arriva la svolta.
Il 24 e il 25 giugno, Giuseppina Pesce scrive due lettere al pm Alessandra Cerreti, manifestando la propria volontà di riprendere la collaborazione con la giustizia: “Ribadisco le mie scuse per la mia titubanza, consapevole di aver creato grosse difficoltà e inutili perdite di tempo” scrive il 24 giugno. “Spero”, “sperando”, sono parole ricorrenti nelle lettere della Pesce, che chiede più volte scusa al pm Cerreti e a tutto l’Ufficio di Procura. La donna ricomincia a collaborare, ufficialmente, il 7 luglio: “Sono stata indotta a retrocedere dalla mia collaborazione in quanto i miei figli non accettavano la nuova situazione” esordisce la donna. La Pesce, madre di tre bambini, spiega al procuratore aggiunto Michele Prestipino e al sostituto Alessandra Cerreti i motivi che la indussero a recedere dalla volontà di collaborare: “Durante la collaborazione sentivo telefonicamente mio suocero, al quale avevo parlato delle mie difficoltà. Mio suocero mi ha offerto di pagare le spese legali e di provvedere a tutte le mie necessità economiche ove avessi deciso di interrompere la collaborazione. Certamente, se avessi continuato a collaborare con l’Autorità Giudiziaria non avrei avuto alcun aiuto economico da mio suocero”.
Un rapporto drammatico, quello che la donna ha vissuto nell’ultimo anno con la famiglia: “Mia figlia Angela mi ha scritto di non condividere la mia scelta, accusandomi di “sputare nel piatto in cui mangio”. Angela mi ha pure scritto che non sarebbe più venuta a trovarmi. Nonostante ciò, io le ho risposto che sarei andata avanti per la mia strada. Dopo una settimana mia figlia mi ha scritto di nuovo, dicendomi che era costretta dai familiari a scrivere quella lettera. Mio marito Palaia Rocco mi ha scritto una lettera minacciosa, con riferimento alla mia relazione extraconiugale”. Una situazione difficile da sopportare, una situazione in cui i figli della donna hanno pagato per colpe che non hanno: “Nel corso dei colloqui in carcere con i miei figli, ho appreso che i parenti di mio marito li maltrattano: mia cognata li ha cacciati da casa sua e li ha mandati da mio suocero. Non gli danno da mangiare adducendo di non avere più soldi a causa del pagamento del mio difensore. Il piccolo Gaetano mi ha raccontato che viene picchiato dal nonno con una cintura, circostanza confermata dalla mia figlia maggiore”.
Storie tristi, per certi versi inquietanti, che proiettano, totalmente, all’interno di un contesto, quello della ‘ndrangheta, per giunta in un piccolo centro come Rosarno, fatto di ristrettezza culturale, prepotenza e sofferenza. Lo stesso contesto vissuto da un’altra donna di ‘ndrangheta, Maria Concetta Cacciola, imparentata con il clan Bellocco, morta alcune settimane fa in seguito a un presunto suicidio, dopo la scelta di collaborare, in qualità di testimone, con i Carabinieri.
E la lettera più toccante è proprio quella che Giuseppina Pesce scrive il 23 agosto 2011, pochi giorni dopo il presunto suicidio di Maria Concetta Cacciola, cui la Pesce era legata da sinceri rapporti d’affetto, oltre che di lontana parentela. La Pesce spiega i motivi che l’hanno spinta a intraprendere la collaborazione con la giustizia, ribellandosi, di fatto, a un ambiente, quello della propria famiglia, in cui gli appartenenti respirano aria e ‘ndrangheta fin dai primi anni di vita: “Ho espresso la mia volontà di iniziare questo percorso, spinta dall’amore di madre e dal desiderio di poter avere anche io una vita migliore, lontano dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Ero e sono convinta che sia la scelta giusta, dal momento che per scelte di vita di familiari e congiunti, siamo sempre stati segnati da una vita piena di sofferenza e difficoltà e soprattutto mancanza di coraggio per paura delle conseguenze”. Una scelta che, però, ha subito una brusca fermata, con la conseguente decisione di interrompere i contatti con i magistrati. Scelta che la Pesce riconduce soprattutto all’affetto nei confronti dei tre figli: “Ho pensato di non avere il diritto di privarli anche del padre che loro cercavano con insistenza”. Da qui, dunque, anche per via della pressione della famiglia, la valutazione di interrompere il rapporto di collaborazione con gli inquirenti che indagavano sulle attività illecite del clan Pesce: “I giorni dopo li ho vissuti come se ogni giorno che passava sarebbe stato l’ultimo con loro (i figli, ndr)”.
Il tempo passa e nel corso di uno dei tanti spostamenti in auto, la donna matura la decisione definitiva, schierarsi dalla parte della giustizia. Ancora dalla lettera del 23 agosto scorso: “Ho capito l’importanza della motivazione per cui ho collaborato: il futuro dei bambini e l’amore per un uomo che mi ama per quello che sono e non per il cognome che porto. Oggi anche se come collaboratrice posso aver perso di credibilità, come donna tutte queste esperienze mi hanno rafforzata e cosa ancor più importante mi hanno fatto ritrovare la fiducia in me stessa, i miei bambini, il mio compagno (che devo ammettere c’è sempre stato) e soprattutto mia figlia di 16 anni che in una lettera del 27 luglio mi ha scritto “Mamma io voglio stare con te, io non voglio vivere con gli altri, tu sei la mia mamma e senza di te non sono niente, qualsiasi scelta farai io ti seguirò” […] Sento che forse in fondo non sono stata poi così egoista, ma che se fossi stata più coraggiosa forse oggi stavo al mare con i bambini”.
Pensieri e speranze che fanno il paio con le inaspettate dichiarazioni rese in aula, appena due giorni fa, da un altro collaboratore, Consolato Villani, che ha esortato gli affiliati a collaborare con la giustizia. Anche Giuseppina Pesce è di questo avviso: “Spero anche che molte persone come me che si trovano in queste situazioni trovino il coraggio di ribellarsi. Io ho trovato la forza di prendere una decisione così importante mettendomi contro una famiglia molto temuta e potente che difficilmente perdona, sapendo quale può essere il rischio per me e per le persone che mi staranno vicina, ma alla fine l’ho fatto”.STRLL