Giorgio Bongiovanni
Dal dossier mafia-appalti alle parole stravolte di “Agnese Borsellino”
Nei giorni scorsi, in Commissione antimafia, si è conclusa l’audizione di Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso nella strage di via D’Amelio, e dell’avvocato Fabio Trizzino, legale della stessa Lucia, di Manfredi e Fiammetta Borsellino. Abbiamo già affrontato l’argomento dei vergognosi attacchi che in seno alla stessa Commissione sono stati rivolti nei confronti del senatore Roberto Scarpinato, “reo” di aver posto semplici domande, volte a ripristinare la verità dei fatti dopo le molteplici inesattezze della ricostruzione del legale.
La sua è stata una rappresentazione della realtà distorta e a tratti depistante su diversi punti.
Tutto passa dal dossier mafia-appalti come motivo scatenante dell’accelerazione della strage di via d’Amelio.
Una tesi che vede coincidere le posizioni dell’avvocato dei figli di Borsellino con quelle degli avvocati difensori degli ufficiali del Ros (Mori, Subranni e De Donno), nel processo trattativa Stato-mafia.
Del resto non poteva essere diversamente dopo le immagini che hanno visto ritratti tutti assieme appassionatamente la delegazione del Partito Radicale, il generale Mario Mori e l’avvocato Fabio Trizzino, accorsi dalla Presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo per esprimerle la loro solidarietà dopo le critiche sulla sua elezione.
Dunque si può essere sorpresi, ma solo fino a un certo punto, per questa campagna di delegittimazione e fango per colpire quei magistrati che ancora oggi vogliono indagare sui mandanti esterni delle stragi del 1992-1993 e capire veramente cosa è avvenuto in quel terribile biennio di bombe e sangue.
Il primo errore che viene compiuto è quello della Commissione parlamentare antimafia che sceglie di approfondire ciò che è avvenuto a Capaci, via d’Amelio, Firenze, Milano e Roma non con una visione complessiva, ma frammentata. Come se fossero episodi separati.
Non solo. Si guarda alla strage di via d’Amelio seguendo un’unica pista che, come scrive oggi Il Riformista, è esattamente ciò che ha chiesto Mario Mori alla Commissione: far “luce” sul dossier “Mafia-appalti”, sui rapporti tra mafia, politica e magistratura agli inizi degli anni Novanta.
In tutti questi anni, e Trizzino si è fatto ‘portavoce’ di questa versione, si è fatto credere che le indagini di quel dossier siano state archiviate in maniera definitiva il 13 luglio 1992.
Scarpinato, che assieme ad altri magistrati, si era occupato di quelle indagini ha dimostrato come una tale affermazione corrisponda al falso. L’ex Procuratore generale ha evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti. Tuttavia, prima di procedere all’archiviazione di tali posizioni residuali, era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo.
Un altro elemento che quando si parla di mafia-appalti deve essere considerato è l’esistenza di una doppia informativa.
Ne dà espressamente atto la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”.
In quel documento di si dimostra come una prima versione del rapporto del ROS, viene depositata alla Procura di Palermo il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. La seconda verrà depositata un anno e mezzo dopo, il 5 settembre del ’92. Stavolta però, vi saranno espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Nel mentre, dopo la prima archiviazione, scoppiò una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo. E nei giornali vennero persino pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in realtà erano solo in possesso del ROS e che a quella data non erano ancora stati trasmessi alla Procura di Palermo.
Sul punto Trizzino è stato tranciante affermando che la doppia informativa non sia mai esistita ed utilizza, quasi come fosse un Vangelo, il decreto di archiviazione del Gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti sulle fughe di notizie sul dossier “mafia e appalti”.
Più volte il legale dei figli di Borsellino, nella sua lunga esposizione, ha detto di voler rispettare le sentenze definitive. Bene, nelle motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, divenuta definitiva dopo che la Cassazione ha assolto definitivamente gli imputati istituzionali “per non aver commesso il fatto”, i giudici bacchettano proprio l’ordinanza Loforti, ritenuta “frettolosa e sommaria”, per poi evidenziare le “omissioni assai significative” compiute dal Ros.
L’incontro con gli ufficiali del Ros alla Caserma Carini
Trizzino ha affermato di non voler prendere in considerazione sentenze in cui si dice che Paolo Borsellino non “conoscesse” il rapporto mafia-appalti. Il riferimento è alla sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, che vide al tempo le condanne degli ufficiali del Ros, poi assolti nei successivi gradi di giudizio. A onor del vero i giudici, in rapporto ai motivi che portavano all’accelerazione della strage, scrivevano che “tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo (Borsellino, ndr) ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il dottor Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo)”.
Quindi, seguendo un piano logico, non avendo Borsellino in quel momento la delega per occuparsi delle indagini su Palermo, “non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche solo delegate alla P.G., che, conseguentemente possano aver avuto risalto esterno giungendo alla cognizione di vertici mafiosi, così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio”.
Ma per il legale, “Mafia e appalti” è al centro di tutto ciò che accade nei 57 giorni che separano la strage di Capaci e di via d’Amelio. Non solo.
A suo dire sarebbe anche al centro della morte di Giovanni Falcone(“Borsellino doveva cumulare le notizie da portare a Caltanissetta se doveva denunciare qualcosa in particolare nei confronti di Giammanco, per riconnettere il movente della strage di Falcone, anche a quello che aveva fatto e che avrebbe voluto fare sul dossier mafia-appalti”); e sarebbe anche il fulcro dell’incontro alla Caserma Carini avuto con De Donno e Mori il 25 giugno 1992.
E’ vero, Trizzino ha dato atto che un altro testimone, il tenente Carmelo Canale, ex braccio destro del giudice Borsellino, ha riferito che quell’incontro sarebbe stato voluto da Borsellino per discutere di altro. Il militare, sentito nel processo Borsellino quater, disse che nelle ultime settimane di vita Paolo Borsellino stava cercando di fare luce sull’anonimo, conosciuto come ‘Corvo 2’: una lunga lettera indirizzata, tra gli altri anche al magistrato, in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Manninoavrebbe avviato con il boss Totò Riina.
Canale raccontò anche che Borsellino chiese di incontrare proprio il 25 giugno del 1992, Giuseppe De Donno, ufficiale del Ros dei carabinieri, perché un collega gli aveva detto che era lui l’autore dell’anonimo in cui si parlava tra l’altro di incontri tra Mannino e Riina avvenuti nella sacrestia di una chiesa. Così in incognito andarono alla caserma Carini, a Palermo, per l’incontro al quale partecipò anche il superiore di De Donno, l’allora colonnello Mario Mori.
Se davvero era così rilevante quell’incontro come mai Mori e De Donno nulla dissero ai magistrati che si occupavano della strage? Un silenzio che durò fino al 1997 quando si pente Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, portando con sé anche la polemica sul famoso rapporto mafia-appalti. Possibile che l’oggetto di quell’incontro riguardava altro?
Alle elucubrazioni schizofreniche di Trizzino su questa vicenda ci permettiamo di ricordare che la stessa Gilda Lo Forti, nella sua ordinanza, afferma quanto segue: “Non può – in primo luogo – non osservarsi come sorprenda che sia il Maggiore De Donno che il Generale Mori abbiano riferito di questo singolare incontro presso la caserma Carini, solamente a distanza di anni (tra la fine del 1997 e gli inizi del 1998, secondo quanto riferito da De Donno innanzi alla locale Corte di Assise), e non con immediata tempestività come avrebbe dovuto, al contrario, suggerire la loro veste istituzionale, tenuto conto che, ad appena qualche settimana da quell’incontro, era stata consumata in Italia, a meno di due mesi di distanza da quella di Capaci, la seconda tra le stragi più efferate, e tutti gli organi investigativi erano alla ricerca di qualsiasi elemento di conoscenza che potesse rappresentare un utile spunto d’indagine per la individuazione degli esecutori e dei mandanti, sia palesi che occulti”.
I mandanti esterni delle stragi
Altre assurde considerazioni che abbiamo sentito in queste udienze hanno riguardato anche l’analisi su fatti di mafia. Come ad esempio Totò Riina che avrebbe richiamato la squadra di Roma per “dare un segnale alla sua organizzazione” e dire “guai a chi si permette di scalarmi perché sono in difficoltà, io vi dimostro cosa so fare ancora e quanto è forte quella parte di organizzazione di fedelissimi che mi sta accanto”. La spiegazione della strage di Capaci è molto più complessa.
O ancora l’incredibile individuazione dei “mandanti esterni” della strage Borsellino.
“Noi – ha detto Trizino – siamo arrivati alla conclusione che i soggetti esterni, magari ce ne sono altri, io non lo voglio escludere, che chiesero a Riina l’esecuzione accelerata della morte di Borsellino fanno parte di quel mondo della famiglia dell’Uditore-Passo di Rigano”. Perché? Perché da lì provengono alcuni soggetti che furono oggetto dell’archiviazione del 13 luglio di una parte dell’inchiesta Mafia-appalti (Salvatore Buscemi, Nino Buscemi, poi c’è Lipari Giuseppe).
Trizzino non ha mai fatto cenno alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Totò Cancemi, ex boss di Porta Nuova e membro della Cupola morto nel 2011 che in più processi aveva affermato che “Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”. E ancora: “Mi fece i nomi di Berlusconi e Dell’Utri”.
Proprio quei Berlusconi e Dell’Utri di cui Borsellino parlerà appena due giorni prima la strage di Capaci, nell’intervista rilasciata ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean-Pierre Moscardo di Canal Plus (morto nel 2010), mai trasmessa su quel canale ma poi svelata da L’Espresso nel 1994, ed andata in onda parzialmente sulla Rai nel 2000.
Trizzino non prende minimamente in considerazione neanche le parole di Leonardo Messina. Anzi, le prende in considerazione solo nella parte in cui ha parlato a Borsellino degli interessi della mafia nel mondo degli appalti.
Sentito nel processo trattativa Stato-mafia Messina ha ammesso di aver parlato con Borsellino “fuori verbale” delle riunioni di Enna, del progetto politico di Cosa nostra, dei rapporti con la massoneria e così via. Tutti argomenti di cui parlò davanti alla Commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante, il 4 dicembre 1992.
L’agenda rossa e i soggetti esterni a Cosa nostra
Ovviamente Trizzino non ha potuto negare che nella strage di via d’Amelio possono aver preso parte soggetti esterni a Cosa nostra. Ma le dichiarazioni di Spatuzza, sull’uomo sconosciuto presente al momento dell’imbottitura dell’esplosivo, sono state solamente sfiorate. Mentre è stato dato atto delle intercettazioni tra il collaboratore Mario Santo Di Matteo e la moglie in cui si parla di “infiltrati della polizia” in seno alla strage.
Secondo Trizzino proprio dai vertici della Polizia viene orchestrato il depistaggio delle indagini e in qualche modo anche rispetto all’agenda rossa.
Infatti sono state ricordate le parole di Arnaldo La Barbera che il 25 luglio 1992 disse che “non c’era e che se c’era era stata distrutta”. Un concetto che l’ex capo della Mobile, che poi si scoprì essere stato anche uomo dei Servizi, ribadì quando fu restituita la borsa del giudice alla famiglia affermando che Lucia Borsellino, la quale chiese conto e ragione dell’agenda, era pazza.
Non una parola, però, è stata detta sull’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli.
Eppure è la sua figura ad essere immortalata in una foto con in mano la borsa di Borsellino pochi attimi dopo il delitto.
Le parole di Agnese Borsellino
Ma l’oscenità più grande è andata in atto quando l’avvocato Trizzino ha cercato di dare un nuovo senso alle parole della suocera, Agnese Borsellino, quando raccontò ai magistrati ciò che il marito le disse sul generale Antonio Subranni. Anche in questo caso la logica è quella di non analizzare le parole nel loro insieme, ma atomizzandole in maniera singola. E così a suo modo di vedere l’unico verbale a cui si dovrebbe far riferimento sarebbe quello dell’agosto 2009 e non anche quello del 2010, colpevolmente minimizzato dal legale (poi vedremo perché). In quell’occasione la vedova del giudice disse queste parole: “Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era ‘punciutu’. Non chiesi, tuttavia, a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri”. Trizzino, in maniera inquietante, ha sostenuto apertamente che il riferimento alla mafia in diretta non sarebbe a Subranni, ma alla persona che gli diede la notizia sul Generale perché “ci si muove lungo una linea di delegittimazione del Ros”.
La realtà è ben diversa. Perché Agnese Borsellino nel verbale del 2010 torna sul punto: “Mi disse che il gen. Subranni era ‘punciuto’ – (punto in un rito di affiliazione a Cosa nostra, ndr) – Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”.
Non solo. Ai magistrati disse anche che “dopo la strage di Capaci mio marito disse che c’era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato. Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”. E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa, temendo di essere visto da Castello Utveggio. Mi diceva: ‘Ci possono vedere a casa’”. Altro che parole “stringate”.
Altrettanto grave è ciò che è avvenuto nel primo giorno di audizione quando è stata riportata in maniera difforme alla realtà, un’altra dichiarazione della moglie del giudice.
“A un certo punto (se voi cliccate su Google ‘frasi famose di Paolo Borsellino‘ vi sono anche delle copertine di libri che riportano questa frase) lui dice alla moglie, e la moglie ne fa testimonianza alla procura della Repubblica di Caltanissetta: ‘Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri’. Ebbene, è stato costantemente espunto, censurato in questa definizione il riferimento ‘ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri’. ‘I miei colleghi’”.
In realtà la frase è leggermente diversa: “Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere”.
Quel riferimento ai colleghi da parte di Paolo Borsellino è testimone di quell’isolamento interno alla Procura (che si manifestava in maniera evidente con il Procuratore Pietro Giammanco) che lo stesso magistrato aveva raccontato tanto ai suoi più stretti collaboratori quanto alla famiglia. Un isolamento testimoniato anche dalla lettera firmata da otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Quel documento fu redatto proprio dallo stesso Scarpinato che in questi giorni è stato continuamente attaccato all’interno della Commissione.
Ma in molti fanno finta di dimenticarlo.
“Menti raffinatissime” in questo momento storico vorrebbero riscrivere la storia ed affossare definitivamente le indagini che possono riguardare i mandanti esterni.
Le Procura di Firenze, Caltanissetta, Palermo, Reggio Calabria e Roma, con il coordinamento della Procura nazionale antimafia, stanno compiendo tutta una serie di accertamenti proprio per dare una risposta su quanto avvenuto in quegli anni.
Indagini scomode che toccano i vertici del potere di ieri e di oggi.
Per questo si vuole distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica. E questo Governo fascista, anticostituzionale, guerrafondaio e amico della mafia si presta a questo gioco.
La questione mafia-appalti non si semplifica in un’archiviazione di luglio e al tempo l’operato del Ros non fu così limpido e certosino come diversamente si vorrebbe far credere.
Una verità che non si vuole vedere e che prescinde dalle sentenze di assoluzione che hanno riguardato i Mori di turno.
Di depistaggi su via d’Amelio ne abbiamo già avuti troppi. Che vanno ben oltre le vicende del “pupo” Scarantino.
Un depistaggio che vide l’impegno di apparati deviati, poliziotti, 007, e non certamente quello di due magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo, oggi attaccati dal solito senatore Maurizio Gasparri.
Loro e pochi altri, con coraggio e caparbietà, hanno sempre cercato di svelare il volto coperto dei mandanti di quella stagione di delitti e terrore.
Atomizzando i fatti delle stragi, spezzettandoli, quindi infangando e delegittimando quei pochi magistrati che in questi anni hanno lavorato proprio per smascherare autori e mandanti.
Ciò che genera sconcerto è che i figli di Borsellino, tramite le analisi sconclusionate e depistanti del loro legale, siano divenuti strumento, più o meno inconsapevolmente, di queste operazioni.