24 novembre 2009, LEA GAROFALO, la donna che sfidò la ‘Ndrangheta viene assassinata

 

LEA GAROFALO, la donna che sfidò la ‘Ndrangheta


LA LETTERA DI LEA GAROFALO: «Ho bisogno d’aiuto, qualcuno ci aiuti»

Signor Presidente della Repubblica, chi le scrive è una giovane madre, disperata allo stremo delle sue forze, psichiche e mentali in quanto quotidianamente torturata da anni dall’assoluta mancanza di adeguata tutela da parte di taluni liberi professionisti, quali il mio attuale legale che si dice disponibile a tutelarmi e di fatto non risponde neanche alle mie telefonate.
Siamo da circa sette anni in un programma di protezione provvisorio.
In casi normali la provvisorietà dura all’incirca un anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite, in quanto quotidianamente vengono violati i nostri diritti fondamentali sanciti dalle leggi europee.
Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia.
Sono una donna che si è sempre presa la responsabilità e che da tempo ha deciso di rompere ogni tipo di legame con la propria famiglia e con il convivente.
Cercando di riiniziare una vita all’insegna della legalità e della giustizia con mia figlia.
Dopo numerose minacce psichiche, verbali e mentali di denunciare tutti.
Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese delle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto dopo oltre un mese passato scappando di città in città per ovvie paure e con una figlia piccola, i carabinieri ci condussero alla procura della Repubblica di C.
(Catanzaro, nda) e lì fui sentita in presenza di un avvocato assegnatomi dalla stessa procura.
Questi mi comunicarono di figurare come collaboratore, premetto di non aver nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di arrestare dei criminali mafiosi. Dopo circa tre anni il mio caso passa ad un altro magistrato e da lui appresi di essere stata mal tutelata dal mio legale.
Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile.
Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l’unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi e probabilmente a far tornare sui propri passi qualche povero disgraziato sinceramente, non so neanche da dove mi viene questo spirito, o forse sì, visti i tristi precedenti di cause perse ingiustamente da parte dei miei familiari onestissimi!
Gente che si è venduta pure la casa dove abitava, per pagare gli avvocati e soprattutto, per perseguire un’idea di giustizia che non c’è mai stata, anzi tutt’altro!
Oggi e dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia, soprattutto dopo precedenti disastrosi come quelli vissuti in prima persona dai miei familiari.        
Eppure sarà che la storia si ripete che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripentendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo, e sa qual è la cosa peggiore?
La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte! Inaspettata indegna e inesorabile e soprattutto senza la soddisfazione per qualche mio familiare è stato anche abbastanza naturale se così si può dire, di una persona che muore perché annega i propri dolori nell’alcol per dimenticare un figlio che è stato ucciso per essersi rifiutato di sottostare ai ricatti di qualche mafioso di turno.
Per qualcun altro è stato certamente più atroce di quanto si possa immaginare lentamente, perché questo visti i risultati precedenti negativi si è fatto giustizia da solo e, si sa, quando si entra in certi vincoli viziosi difficilmente se ne esce indenni tutto questo perché le istituzioni hanno fatto orecchie da mercante!
Ora con questa mia lettera vorrei presuntuosamente cambiare il corso della mia triste storia perché non voglio assolutamente che un giorno qualcuno possa sentirsi autorizzato a fare ciò che deve fare la legge e quindi sacrificare se pur per una giustissima causa la propria vita e quella dei propri cari per perseguire un’idea di giustizia che tale non è più nel momento in cui ce la si fa da soli e, con metodi spicci.
Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto lei mi rispondesse alle decine, se non centinaia di persone che oggi si trovano nella mia stessa situazione.
Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiamo mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi di appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo e ad avere saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza.
Lei oggi, signor Presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo Paese vivere giustamente si può nonostante tutto!
La prego signor Presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello, e a chi si intende di diritto civile e penale, anche voi aiutate chi è in difficoltà ingiustamente!
Personalmente non credo che esiste chissà chi o chissà cosa, però credo nella volontà delle persone, perché l’ho sperimentata personalmente e non solo per cui, se qualche avvocato legge questo articolo e volesse perseguire un’idea di giustizia accontentandosi della retribuzione del patrocinio gratuito e avendo in cambio tante soddisfazioni e una immensa gratitudine da parte di una giovane madre che crede ancora in qualcosa vagamente reale, oggi giorno in questo paese si faccia avanti, ho bisogno di aiuto, qualcuno ci aiuti.
   Please! Una giovane madre disperata aprile 2009  


Una giovane madre disperata aprile 2009. La risposta del Quirinale del 2 dicembre 2010 «A proposito del dispaccio “Sciolta nell’acido: Lea Garofalo a capo Stato, mi uccideranno”, che rilancia un testo pubblicato da un quotidiano calabrese, dalle accurate ricerche compiute al Quirinale non risulta essere mai pervenuta alcuna lettera dell’allora collaboratrice di giustizia al Presidente della Repubblica. Né il Capo dello Stato avrebbe potuto conoscere il testo di una “lettera aperta” ma – stando a quanto si “rivela” – “mai pubblicata” su una vicenda il cui tragico epilogo non può che turbare profondamente”».

Pasquale Cascella, consigliere del Presidente della Repubblica per la Stampa e la Comunicazione


 


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LEA GAROFALO  (Petilia Policastro, 24 aprile 1974 – Milano, 24 novembre 2009)  Testimone di giustizia sottoposta a protezione dal 2002, decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. L’azione di repressione del clan Garofalo si concretizza il 7 maggio 1996, quando i carabinieri, di Milano svolgono un blitz in via Montello 6 e arrestano anche Floriano Garofalo, fratello di Lea, boss di Petilia Policastro dedito al controllo dell’attività malavitosa nel centro lombardo. Floriano Garofalo, nove anni dopo l’arresto e dopo l’assoluzione al processo, viene assassinato in un agguato nella frazione Pagliarelle di Petilia Policastro il 7 giugno 2005. In particolare, Lea, interrogata dal Pubblico ministero Antimafia Salvatore Dolce, riferì dell’attività di spaccio di stupefacenti condotta dai fratelli Cosco grazie al benestare del boss Tommaso Ceraudo. Inoltre, Lea dichiara al Pubblico ministero «L’ha ucciso Giuseppe Cosco (detto Totonno U lupu), mio cognato, nel cortile nostro»[1], attribuendo così la colpa dell’omicidio di Floriano Garofalo al cognato, Giuseppe, detto Smith (dal nome della serie tv “La famiglia Smith”) e all’ex convivente, Carlo Cosco, e fornendo anche il movente.[2]

Ammessa già nel 2002 nel programma di protezione insieme alla figlia Denise e trasferita a Campobasso, si vede estromessa dal programma nel 2006 perché l’apporto dato non era stato significativo in quanto ritenuta collaboratrice non attendibile. La donna si rivolge allora prima al TAR, che le dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che le dà ragione. Nel dicembre del 2007 viene riammessa al programma (sempre come collaboratrice di giustizia e mai come testimone), ma nell’aprile del 2009 – pochi mesi prima della sua scomparsa – decide all’improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di riallacciare i rapporti con Petilia Policastro rimanendo però a vivere nel capoluogo molisano per permettere alla figlia di terminare l’anno scolastico.

Il tentativo di rapimento La nuova abitazione trovata a Campobasso ha la lavatrice rotta. Questo particolare lo conosce anche Carlo Cosco, che nel frattempo vive tra Milano e Petilia Policastro e ha aiutato la compagna a trovare tale dimora. Il 5 maggio 2009 si presenta sotto mentite spoglie Massimo Sabatino, recatosi sul posto per rapire e uccidere Lea Garofalo. La donna riesce a sfuggire all’agguato grazie al tempestivo intervento della figlia Denise (che sarebbe dovuta essere a scuola) e informa i carabinieri dell’accaduto ipotizzando il coinvolgimento dell’ex compagno. Le indagini sul tentativo di rapimento avranno un’accelerazione solo dopo la sua scomparsa a Milano il 24 novembre dello stesso anno (il 4 febbraio del 2010 viene adottata una Misura Cautelare nei confronti di Carlo Cosco e Massimo Sabatino – già detenuto nel carcere di Milano dal dicembre del 2009 per spaccio di stupefacenti). Il 28 aprile 2009, poco prima di tale tentativo, Lea Garofalo indirizzò una lettera al Presidente della Repubblica nella quale lamentava di essere stata qualificata come collaboratrice di giustizia, di aver ricevuto un’assistenza legale carente sotto vari punti di vista, di essere stata obbligata a trasferirsi in diverse città con la figlia piccola nell’ambito del programma di protezione, di aver perso un lavoro precario, tutti i contatti sociali e la propria dimora anche per sostenere le spese degli avvocati.[3]

L’agguato e l’omicidio Il 20 novembre del 2009 Cosco attira l’ex compagna (ormai fuoriuscita da mesi dallo speciale programma di protezione) a Milano, anche con la scusa di parlare del futuro della loro figlia Denise. La sera del 24 novembre, approfittando di un momento in cui Lea rimane da sola senza Denise, Carlo la conduce in un appartamento che si era fatto prestare proprio per quello scopo. Ad attenderli in casa c’è Vito Cosco detto “Sergio”. In quel luogo Lea viene uccisa. A portar via il cadavere da quell’appartamento saranno poi Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Il corpo di Lea viene infatti portato a San Fruttuoso, un quartiere di Monza, dove viene poi dato alle fiamme per tre giorni fino alla completa distruzione (solo dopo la condanna di primo grado, Carmine Venturino inizia a fare dichiarazioni che nel processo d’Appello porteranno a rinvenire più di 2000 frammenti ossei e la collana di Lea Garofalo).

Le indagini e i processi Le indagini per la scomparsa e l’omicidio di Lea Garofalo, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano con la Squadra Omicidi del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Milano, portano a spiccare mandati di arresto, nell’ottobre 2010, a Carlo Cosco, Massimo Sabatino, Giuseppe Cosco «Smith», Vito Cosco «Sergio», Carmine Venturino e Rosario Curcio. Pochi mesi prima, il 24 febbraio, erano già state arrestate altre due persone, di Cormano, per aver messo a disposizione il terreno di San Fruttuoso dove il corpo della donna sarebbe stato portato dopo l’omicidio.[4][5][6][7][8] Il processo vede la presenza della figlia della donna come testimone chiave, avendo questa deciso di testimoniare contro suo padre.[9]

È il 23 novembre 2011 che il processo riparte dall’inizio, con la notizia della nomina del Presidente della Corte Filippo Grisolia come Capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Paola Severino. I due incarichi risultano incompatibili e così la difesa degli imputati, avendone facoltà, ha chiesto che l’intero processo fosse annullato e ricominciato dal principio, comprese le dichiarazioni dei testimoni.[10]

Il 30 marzo 2012, quando ancora secondo la difesa Lea Garofalo sarebbe scappata in Australia, il processo si conclude con la condanna di tutti i sei imputati e il riconoscimento delle accuse di sequestro di persona, omicidio e distruzione di cadavere, ma non l’aggravante mafiosa: i giudici condannano all’ergastolo con isolamento diurno per due anni Carlo Cosco e suo fratello Vito, all’ergastolo e ad un anno di isolamento Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise.[11]

Dopo la sentenza di primo grado Carmine Venturino decide di fare alcune dichiarazioni. Queste permetteranno di rinvenire i resti della testimone di giustizia proprio nel terreno di San Fruttuoso (circa 2000 frammenti ossei rinvenuti a seguito di un vero e proprio scavo archeologico fatto dagli inquirenti in collaborazione con l’Istituto di Medicina Legale di Milano).

Il 28 maggio 2013 la Corte d’assise d’appello di Milano conferma 4 dei 6 ergastoli inflitti in primo grado. Conferma l’ergastolo per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino; 25 anni di reclusione per Carmine Venturino e assoluzione per non aver commesso il fatto per Giuseppe Cosco; inoltre la Corte ha disposto il risarcimento dei danni per le parti civili: la figlia, la madre e la sorella di Lea Garofalo e il comune di Milano.

Il 18 dicembre 2014 le condanne della Corte d’Assise d’Appello di Milano vengono tutte confermate dalla Cassazione che le rende definitive.[12]  wikimafia


Milano, “uccisero Lea Garofalo e la sciolsero nell’acido”: il pm chiede sei ergastoli

 

Della morte della donna è accusato l’ex compagno Carlo Cosco, con i fratelli Giuseppe e Vito e tre presunti complici. Il sostituto procuratore Tatangelo: “Grossolano errore della commissione ministeriale”, che nel 2006 tolse la vittima dal programma di protezione per collaboratori di giustizia. Negata l’aggravante mafiosa.
Sei ergastoli per i presunti responsabili della morte di Lea Garofalo, accusati di aver sequestrato a Milano l’ex collaboratrice di giustizia calabrese e di averla sciolta nell’acido in un terreno a Monza. Li ha chiesti il pm Marcello Tatangelonella requisitoria del processo in corso nel capoluogo lombardo. La donna scomparve il 24 novembre del 2009 a Milano dopo essere salita sull’auto dell’ex compagno, Carlo Cosco, imputato assieme ai fratelli Giuseppe e Vito, a Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino. Per tutti loro il rappresentante dell’accusa ha chiesto il carcere a vita con isolamento diurno di 18 mesi. Il primo marzo, Carlo Cosco aveva negato ogni responsabilità: “Se la volevo uccidere, la uccidevo in Calabria”.
”Sono dei vigliacchi, si sono messi in sei contro una donna”, ha detto il pm Tatangelo ai giudici della prima corte d’assise, e mentre su un telone scorrevano alcune immagini di Lea Garofalo, ha aggiunto: “Date giustizia a questa donna”.  
Nella requisitoria, il magistrato ha denunciato il “grossolano errore” della Commissione ministeriale che, nel 2006, le revocò il programma di protezione non ritenendola “attendibile”. La donna, sorella del boss della ‘ndrangheta di Petilia Policastro (Crotone) Floriano Garofalo, era entrata nel programma di protezione nell’estate 2002, ma quattro anni dopo le venne revocato perché le sue dichiarazioni ai magistrati erano rimaste senza riscontri. Poi però, ha spiegato il pm in aula, “giustamente intervenne il Consiglio di Stato che annullò quella decisione”, perchè la Commissione ministeriale aveva fatto “un grossolano errore procedurale, dato che un collaboratore può essere attendibile anche quando non si trovano riscontri alle sue dichiarazioni”.  Così la donna tornò sotto protezione “fino all’aprile del 2009”, quando poi “decise lei stessa di uscirne per cercare un contatto con il compagno, per capire se poteva vivere senza la paura di morire”. Scomparve per sempre tra il 24 e il 25 novembre del 2009.  
Lea Garofalo era andata a Milano con la figlia Denise perché Carlo Cosco aveva telefonato alla ragazza dicendole, come ha ricostruito il pm, “vieni a Milano, ti pago il biglietto e ti compro dei vestiti”. Per il pm, Cosco aveva programmato il sequestro e l’omicidio con “diabolica lucidità”, ci pensava sin “dal 2001” e ci aveva già provato “sei mesi prima a Campobasso”. Carlo Cosco e il fratello Giuseppe, secondo il pm, volevano ammazzarla e farla sparire soprattutto perché sapeva e aveva parlato con gli inquirenti “di un omicidio avvenuto nel ’95”. Cioè l’esecuzione del boss Antonio Comberiati, ucciso a colpi di pistola a Milano, nel cortile di via Montello 6, storico quartier generale dei Cosco. Lea era certa del ruolo del compagno nell’omicidio, del quale però non fu testimone oculare.  
Certo, ha chiarito il pm, “che Lea ha sopravvalutato se stessa quando è andata a Milano con la figlia, ma immaginate voi una madre che non ha soldi per comprare un vestito alla figlia, che è terrorizzata, fragile e che sta cercando di salvarsi a suo modo dall’ex compagno. Ha agito ancora per il bene della figlia”. Denise, 19 anni, ha seguito l’udienza “nascosta” per ragioni di sicurezza in un corridoio a fianco dell’aula.  
La sorella e la madre della vittima, assistite dall’avvocato Roberto D’Ippolitocome parti civili, hanno chiesto nei giorni scorsi al pm di contestare l’aggravante mafiosa. Ma Tatangelo è rimasto fermo sulla posizione assunta fini dall’inizio del procedimento. “L’aggravante viene contestata quando è provato il fine di agevolare l’associazione mafiosa – ha chiarito oggi in aula – ma deve essere provata quindi anche l’esistenza della sottostante associazione. E in questo caso abbiamo una sentenza che ha stabilito che tale associazione non c’era”.
Il riferimento è a una sentenza degli anni scorsi a carico di Carlo Cosco e del fratello Giuseppe su un traffico di stupefacenti. I due non sono mai stati condannati per associazione mafiosa, anche se la ricostruzione dello stesso pm racconta un costante tentativo di “accreditamento” presso la ‘ndrangheta di Petilia Policastro – funzionale a un’espansione nel commercio di droga a Milano – anche grazie alla quasi parentela acquisita con i Garofalo. Il pm ha spiegato, inoltre, che la donna è stata ammazzata per un mix di ragioni “di odio personale e ‘onore’ criminale”. La requisitoria dovrebbe concludersi domani, con le richieste di condanna.

 


Muore il killer di Lea Garofalo, il sindaco fa i manifesti a lutto per la famiglia Curcio


Si uccide in carcere uno dei killer di Lea Garofalo Rosario Curcio stava scontando l’ergastolo

 

Il ruolo di Curcio nell’omicidio di Lea Garofalo

Curcio, secondo quanto svelato dagli inquirenti, la sera del 24 novembre 2009, giorno in cui fu uccisa Lea Garofalo, avrebbe preso parte  alle fasi di distruzione del cadavere.
Le indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dall’allora pm della Dda di Milano Marcello Tatangelo, hanno infatti provato che la notte dell’omicidio Curcio era insieme a Vito Cosco, detto Sergio, e a Carmine Venturino (ex fidanzato della figlia di Lea Garofalo) nel magazzino di Monza in cui è stato tenuto e bruciato il corpo della testimone di giustizia.
Il cadavere di Lea Garofalo fu portato in un terreno del quartiere San Fruttuoso di Monza e bruciato per tre giorni fino alla totale distruzione. Per anni si è creduto che il corpo fosse stato sciolto nell’acido, ma in seguito la confessione di Venturino portò a ricostruire con precisione quanto avvenne e a rinvenire più di duemila frammenti ossei e la collana della donna.
La condanna all’ergastolo in primo grado per Curcio è stata confermata sia dalla Corte d’Assise d’Appello che dalla Cassazione nel 2014.

 

Le indagini e i processi

Le indagini per la scomparsa e l’omicidio di Lea Garofalo, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano con la Squadra Omicidi del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Milano, portano a spiccare mandati di arresto, nell’ottobre 2010, a Carlo Cosco, Massimo Sabatino, Giuseppe Cosco «Smith», Vito Cosco «Sergio», Carmine Venturino e Rosario Curcio. Pochi mesi prima, il 24 febbraio, erano già state arrestate altre due persone, di Cormano, per aver messo a disposizione il terreno di San Fruttuoso dove il corpo della donna sarebbe stato portato dopo l’omicidio.
Il processo vede la presenza della figlia della donna come testimone chiave, avendo questa deciso di testimoniare contro suo padre.
È il 23 novembre 2011 che il processo riparte dall’inizio, con la notizia della nomina del Presidente della Corte Filippo Grisolia come Capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Paola Severino. I due incarichi risultano incompatibili e così la difesa degli imputati, avendone facoltà, ha chiesto che l’intero processo fosse annullato e ricominciato dal principio, comprese le dichiarazioni dei testimoni.

Il 30 marzo 2012, quando ancora secondo la difesa Lea Garofalo sarebbe scappata in Australia, il processo si conclude con la condanna di tutti i sei imputati e il riconoscimento delle accuse di sequestro di persona, omicidio e distruzione di cadavere, ma non l’aggravante mafiosa: i giudici condannano all’ergastolo con isolamento diurno per due anni Carlo Cosco e suo fratello Vito, all’ergastolo e ad un anno di isolamento Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise.
Dopo la sentenza di primo grado Carmine Venturino decide di fare alcune dichiarazioni. Queste permetteranno di rinvenire i resti della testimone di giustizia proprio nel terreno di San Fruttuoso (circa 2000 frammenti ossei rinvenuti a seguito di un vero e proprio scavo archeologico fatto dagli inquirenti in collaborazione con l’Istituto di Medicina Legale di Milano).
Il 28 maggio 2013 la Corte d’assise d’appello di Milano conferma 4 dei 6 ergastoli inflitti in primo grado. Conferma l’ergastolo per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino; 25 anni di reclusione per Carmine Venturino e assoluzione per non aver commesso il fatto per Giuseppe Cosco; inoltre la Corte ha disposto il risarcimento dei danni per le parti civili: la figlia, la madre e la sorella di Lea Garofalo e il comune di Milano.


OMICIDIO LEA GAROFALO, si è impiccato in carcere a Opera l’ergastolano Rosario Curcio

 

UNA FIMMINA CALABRESE. Ha fatto parte del gruppo criminale capeggiato da Carlo Cosco (condannato all’ergastolo), il compagno della Garofalo e padre di Denise. Anche lui proveniva da un ambiente criminale.

Si è suicidato in carcere, nella tarda serata di mercoledì 28 giugno, Rosario Curcio (detto “patatino”), originario di Camilletto, una frazione di Petilia Policastro in provincia di Crotone. Gli operatori hanno fatto il possibile per salvarlo. E’ stato immediatamente trasportato presso una struttura ospedaliera. Dopo poche ore è morto in terapia intensiva. Era stato condannato, definitivamente, all’ergastolo (nel dicembre del 2014) per la morte e la distruzione del cadavere della fimmina calabrese Lea Garofalo, massacrata a Milano (e bruciata in un bidone in una struttura privata, un magazzino a “cielo aperto”, nel quartiere di Monza, precisamente San Fruttuoso) nel novembre del 2009.
Ha fatto parte del gruppo criminale capeggiato da Carlo Cosco(condannato all’ergastolo), il compagno della Garofalo e padre di Denise. Anche lui proveniva da un ambiente criminale. Suo zio (il fratello del padre) è stato ritenuto responsabile della scomparsa di un certo Vona, di Petlia Policastro. Lo zio porta il suo stesso nome.
Con i Cosco ha partecipato alle attività criminali del gruppo ‘ndranghetistico (spaccio di droga, usura, esorsioni, minacce, violenza e tanto altro). Non ha partecipato, nel maggio del 2009, alla trasferta molisana per il tentativo di sequestro di Lea Garofalo. Non si è tirato indietro (“è stato costretto”, continua a sostenere il suo ex legale Salvatore Staiano) per i fatti del 24 novembre del 2009 a Milano. Nell’ex capitale morale d’Italia. Oggi capitale delle mafie.

E per la sua partecipazione all’omicidio della fimmina calabrese Lea Garofalo ha incassato un ergastolo in primo grado, confermato in Appello e poi dalla Cassazione. 

«Alle 20.41 – scrive il GIP nell’Ordinanza di applicazione di misura cautelare personale – Cosco Carlo chiama Curcio Rosario, avviando una sequenza di contatti che porteranno all’incontro con Crivaro e che – secondo la ipotesi qui sostenuta – sono strettamente collegati alla eliminazione della Garofalo». E’ proprio la sera del 24 novembre 2009. Si legge ancora nelle carte: «I tabulati di traffico documentavano non solo tale incontro, ma addirittura il passaggio di VENTURINO presso il magazzino la stessa notte, tra mezzanotte e l’una e la permanenza presso il magazzino di VENTURINO Carmine, COSCO Vito e CURCIO
Rosario
, il giorno successivo alla scomparsa, fin dalle prime luci dell’alba».

Una partecipazione cristallizzata dalle indagini degli inquirenti: «Il terzetto composto da VENTURINO Carmine, COSCO Vito e CURCIO Rosario, anziché partecipare alle ricerche (della sedicente scomparsa della donna, nda), risultava, fin dalle prime luci dell’alba, localizzato nella cella di Monza.»      
Rosario Curcio poteva evitare la sua partecipazione al delitto. Ci sono degli SMS che provano l’interessaqmento della sua ex compagna che lo invita a “ritirarsi”, per non fare la stessa fine dei suoi amici criminali. Il Curcio non saprà gestire le questioni di cuore. Le sostituirà con il forte legame che si era creato con il gruppo di assassini. Il giovane non ascolterà le ragioni del cuore e si beccherà l’ergastolo. Secondo i magistrati sarà lui a bruciare, insieme ad altri, il corpo della donna.  
«Ultimamente – ha raccontato a WordNews una operatrice legata ad una associazione che opera all’interno della struttura carceraria di Opera – non partecipava ai nostri incontri. Ci siamo interessati ma non abbiamo capito il motivo. Tra i detenuti esistono delle regole, non comunicano gli stati d’animo o le preoccupazioni o le confidenze degli altri detenuti. Lavorava in cucina, non stava benissimo. Nella cella era da solo. Da qualche mese non lo vedavamo. Era depresso.»
Ma è così facile suicidarsi in cella? «Purtroppo sì. Se non c’è una sorvegliana speciale per il detenuto è molto facile.» 
Tra i soggetti in alto quattro sono stati condannati all’ergastolo, Carmine Venturino (l’ex findanzatino di Denise, la figlia di Lea Garofalo) – diventato collaboratore di giustizia – è stato condannato a 25 anni di reclusione e Giuseppe Cosco, detto Smith, è stato assolto in Appello. 

Rosario Curcio: ergastolo

La sua partecipazione nella fase ultima del progetto è provata dai tabulati telefonici, dalle dichiarazioni di Venturino (in sua compagnia si reca a Cormano per incontrare Crivaro) e da quelle di Floreale (la consegna delle chiavi del box e la restituzione di quelle dell’appartamento di piazza Prealpi).
Dagli altri imputati viene indicato come compartecipe all’attività delittuosa successiva all’omicidio. Curcio, addirittura avvisato dalla sua ragazza con un SMS (“Fai quello che vuoi, stacci ancora un po’ così ti arrestano a me lì dentro non puoi vedermi”), non riesce e non vuole cambiare il suo destino. È, ormai, troppo compromesso con la famiglia Cosco.  
Si tira indietro, come Venturino, per Campobasso, ma a Milano viene risucchiato nel vortice infernale. Consapevolmente.  
È lui che si attiva in diverse circostanze per avvantaggiare le azioni criminali, partecipa anche alla riunione preparatoria per decidere le modalità esecutive del progetto criminoso.  «È fin troppo palese che l’esclusione di Curcio – così come di qualunque altro concorrente – è funzionale alla tesi del “raptus”, proposta da Carlo Cosco in dibattimento. Quanto a Venturino, la sua versione è talmente illogica ed incoerente da apparire insostenibile. Non si comprende, invero, perché mai Curcio, dopo aver prestato il proprio consenso, a distanza di pochi minuti avrebbe cambiato idea, cercando addirittura di indurre lo stesso Venturino a desistere». WORDNEWS


Lea Garofalo, donna-coraggio e testimone di giustizia, venne uccisa il 24 Novembre 2009 ed il suo corpo dato alle fiamme. Mori’ senza alcuna protezione dopo che aveva accusato molti mafiosi e tra questi Carlo Cosco, il boss di Petilia Policastro che era stato il suo compagno col quale aveva avuto una figlia. Nel maggio 2009 in una prima occasione Cosco aveva tentato di farla rapire per ucciderla e poi il 24 novembre, dopo averla attirata in una trappola, la fece uccidere e il suo corpo fu bruciato per tre giorni fino alla completa distruzione. A Lea era stata data la protezione nel 2002, ma poi tolta nel 2006 perché ritenuta non attendibile. Quando morì era da sola .La sua è stata una storia emblematica che riassume la DISATTENZIONE verso i testimoni ed i collaboratori di giustizia. Il 28 aprile 2009, poco prima del primo tentativo di ucciderla, Lea Garofalo rinuncio’ alla protezione che gli era stata ridata dal giudice amministrativo. Poi si rivolse al Presidente della Repubblica Napolitano con una lettera nella quale “lamentava di aver ricevuto un’assistenza legale carente sotto vari punti di vista, di essere stata obbligata a trasferirsi in diverse città con la figlia piccola nell’ambito del programma di protezione, di aver perso un lavoro precario, tutti i contatti sociali e la propria dimora anche per sostenere le spese degli avvocati.” Oggi lo Stato la riabilita, con ritardo e con grandi responsabilità rispetto al suo sangue innocente.  SEBASTIANO ARDITA Magistrato CSM 24.11.2021


Lea Garofalo, la testimone di giustizia uccisa dalla ‘ndrangheta a Milano  24 nov 2019 Giovanni Marrucci SKYtg24 Simbolo della lotta contro la criminalità organizzata, la donna scompare nel nulla il 24 novembre del 2009. Rapita e uccisa, il corpo trasportato in un campo vicino a Monza. Il mandante è Carlo Cosco, il suo ex compagno e padre della figlia Denise.  È il 24 novembre 2009 e alcune telecamere vicino all’Arco della Pace, a Milano, riprendono la passeggiata di due donne. Una madre e una figlia. La madre è Lea Garofalo e di lì a poco sparirà nel nulla. Sequestrata e uccisa in un appartamento in piazza Prealpi, con il corpo poi trasportato nelle campagne della Brianza e infine bruciato. Il mandante dell’omicidio, stabiliranno i giudici, è il boss della ‘ndrangheta Carlo Cosco, il padre di sua figlia Denise, l’altra donna inquadrata dalle telecamere. Quella è stata la loro ultima passeggiata insieme.

Chi era Lea Garofalo  Lea Garofalo, nata nel 1974 a Petilia Policastro, in provincia di Crotone, è ricordata come un simbolo della lotta contro la criminalità organizzata. Figlia di Antonio Garofalo e Santina Miletta, rimane orfana a soli nove mesi perché il padre viene ucciso nella cosiddetta “faida di Pagliarelle”. A 14 anni Lea si innamora di Carlo Cosco. Siamo alla fine degli anni Ottanta e Lea decide di trasferirsi con lui a Milano, dove Cosco aveva cominciato a frequentare alcuni spacciatori di Quarto Oggiaro e dove era già presente un gruppo della ‘ndrangheta operante in Lombardia. I due si stabiliscono in un palazzo di via Montello 6 di proprietà della Fondazione Policlinico, occupato abusivamente da famiglie calabresi che campano con la droga.

La figlia Denise  Il 4 dicembre 1991, a 17 anni, Lea dà alla luce la figlia Denise. Cinque anni più tardi, il 7 maggio 1996, Carlo Cosco e altri componenti della sua famiglia vengono arrestati per traffico di stupefacenti: durante un colloquio in carcere, Lea comunica al compagno la volontà di lasciarlo e di volersi portare via la figlia. Per placare la reazione violenta dell’uomo devono intervenire le guardie carcerarie, ma la donna abbandona comunque Milano insieme a Denise.

Gli anni nell’anonimato  Sei anni più tardi, nel 2002, Lea Garofalo trova la propria macchina bruciata sotto casa e realizza che i Cosco sono sulle sue tracce. Decide allora di rivolgersi ai carabinieri e di raccontare tutto ciò che sa su alcuni omicidi avvenuti negli anni ’90 a Milano. Viene così inserita nel programma di protezione dei testimoni, cambia città (va a Campobasso con la figlia Denise) e generalità. La vita da testimone, però, è complicata. Come ricorderà Denise in un’intervista del 2013, sua mamma “passava la maggior parte del giorno chiusa in casa”. A un certo punto, nel 2006, Lea perde le tutele garantite dal programma perché la sua collaborazione non viene ritenuta sufficientemente rilevante. Ricorre al Tar e poi al Consiglio di Stato, che le dà ragione: nel 2007 viene riammessa al programma.

Il primo tentativo di sequestro  Nell’aprile del 2009, a pochi mesi dalla sua scomparsa, Lea Garofalo, sfinita e completamente sfiduciata nei confronti delle istituzioni, rinuncia al programma di protezione. Decide di tornare in Calabria, nella sua Petilia Policastro, convinta che finché avrà con sé Denise nessuno le farà nulla. Poco dopo, però, si ritrasferisce di nuovo a Campobasso, in una casa che le ha trovato proprio l’ex compagno Carlo Cosco. A maggio la donna denuncia ai carabinieri di aver subito un’aggressione nel suo appartamento da parte di un sicario inviato da Cosco, preoccupato di ciò che Lea avrebbe potuto rivelare di lì a poco durante l’udienza di un processo a cui era stata chiamata a testimoniare a Firenze. È la figlia Denise ad aiutarla a sfuggire all’agguato.

L’uccisione  Nel novembre successivo Cosco riesce a convincere Lea Garofalo a incontrarlo a Milano per parlare del futuro della figlia Denise. Nonostante il suo avvocato faccia di tutto per farla desistere, la donna decide di partire, convinta che a Milano, con sua figlia accanto, non sarebbe potuto succederle nulla. E invece nel pomeriggio del 24 novembre 2009 Lea e Denise si concedono una passeggiata, l’ultima insieme. Le raggiunge intorno alle 18 Carlo Cosco, parla con loro e poi dice di voler portare Denise a salutare gli zii. Lea non ci vuole andare e allora dà appuntamento alla figlia direttamente in stazione, dove avrebbero dovuto prendere il treno per rientrare a casa. Da quel momento si perdono le tracce della donna, inquadrata poi da altre telecamere lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale. Lea viene sequestrata e uccisa in un appartamento di piazza Prealpi, di proprietà della nonna di un amico dei Cosco. Poi il suo corpo viene trasportato in un capannone industriale vicino a San Fruttuoso e lì bruciato. I resti del suo cadavere, che inizialmente si pensava sciolto nell’acido, saranno ritrovati solamente nell’autunno di tre anni dopo.

Gli arresti  Il giorno successivo alla scomparsa della madre, Denise racconta la sua vita da “protetta” ai Carabinieri della caserma di via della Moscova: è il maresciallo Persurich a raccogliere la deposizione. Denise sostiene di avere la certezza morale che la madre non è scomparsa (e tanto meno si è allontanata volontariamente come afferma fin da subito il padre e poi gli avvocati difensori durante il processo), ma che in realtà è morta. Quasi un anno dopo, il 18 ottobre 2010, Carlo Cosco viene arrestato insieme ad altri presunti partecipanti al delitto.

I processi  Il processo comincia a luglio 2011, ma per i giudici non si può parlare di delitto di ‘ndrangheta e quindi a Denise non viene riconosciuto lo status di familiare di vittima di mafia. Nonostante questo, Lea Garofalo viene ricordata il 21 marzo ogni anno nella giornata, organizzata da Libera, della memoria e dell’impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie. La sentenza di primo grado arriva il 30 marzo 2012: ergastolo per tutti e sei gli imputati. Nell’estate successiva uno di loro, Carmine Venturino, decide di collaborare con la giustizia. In secondo grado viene stabilito che Carlo Cosco non ha materialmente ucciso Lea Garofalo, ma che è lui il mandante dell’omicidio. A maggio 2013 la sentenza in appello: ergastolo confermato per i fratelli Carlo e Vito Cosco e per Rosario Curcio e Massimo Sabatino, pena ridotta a 25 anni per Venturino e assoluzione per Giuseppe Cosco. Nel 2014 la Cassazione rende definitive le condanne.

I funerali di Lea Garofalo  Nel frattempo, il 19 ottobre 2013, in piazza Beccaria a Milano si tengono i funerali di Lea Garofalo, trasmessi in diretta nazionale. La figlia Denise chiede che la mamma venga salutata “come se fosse una festa” e che lo si faccia a Milano, città che si era dimostrata molto vicina alla sua vicenda. I resti della collaboratrice di giustizia Lea Garofalo riposano oggi al cimitero monumentale di Milano, perché l’amministrazione le ha riconosciuto di aver dato lustro alla città.

Donne contro la ‘ndrangheta, parla il procuratore di Reggio Alessandra Cerreti   “Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”. Il procuratore ha ricordato Lea Garofalo e Giuseppina Pesce; è intervenuta poi anche la direttrice di Fimmina Tv.

Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”: così Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria, ha aperto il suo intervento nella serata conclusiva degli incontri antimafia organizzati dal Collegio S. Caterina di Pavia, dal titolo “La forza espansiva della ‘ndrangheta”.“Quando sono arrivata alla DDA di Reggio Calabria – ha spiegato il procuratore – mi è stato detto che le donne all’interno delle cosche mafiose non contavano nulla. Ma io, fin da subito, ci credevo poco. Infatti, ha raccontato la Cerreti, le intercettazioni utilizzate dalla procura nelle indagini hanno rilevato una componente femminile fondamentale nelle associazioni di ‘ndrangheta, e già nel 1882 due donne furono condannate perché affiliate, anzi “punciute”.

Donne di ndrangheta, e donne che si ribellano. Sempre di più – Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale soprattutto nel portare messaggi dei familiari dal carcere al mondo esterno, ma soprattutto, purtroppo, nell’insegnare la cultura e i valori mafiosi ai loro figliMa negli ultimi anni le donne sono sempre più in prima linea contro la ‘ndrangheta, ribellandosi a questo meccanismo socio-culturale e criminale. A questo proposito, il procuratore ha ricordato naturalmente il sacrificio di Lea Garofalo, e ha espresso tutto il suo rimpianto per non aver protetto forse abbastanza la collaboratrice di giustizia che è stata  raggiunta e uccisa a Milano dal marito – aguzzino. La Cerreti ha raccontato poi una storia positiva, quella di Giuseppina Pesce, giovane mamma calabrese che, grazie alla sua testimonianza, ha permesso l’arresto dei familiari e il sequestro di beni per 224 milioni di euro. E forse sta riuscendo, finalmente, a ritrovare la libertà.

Le fimmine ribelli – Dopo il procuratore di Reggio, è intervenuta nel dibattito Raffaella Rinaldis, direttrice dell’emittente calabrese Fimmina TV, che ha raccontato come le sue trasmissioni cerchino di mostrare un’alternativa di giustizia ai giovani calabresi facendo parlare sempre più le donne: un modo per ribaltare quel processo di trasmissione di cultura mafiosa in cui le stesse donne di ‘ndrangheta sono state protagoniste nel silenzio. Di questi temi si è occupato anche Trame. Festival dei libri sulle mafie, che si è svolto a Lamezia Terme nel giugno scorso con la collaborazione dell’Associazione Antiracket di Lamezia e dell’Associazione italiana editori. E, a proposito, di donne che si ribellano alla ‘ndrangheta, non possiamo non ricordare Anna Maria Scarfò, minacciata e isolata dalla sua comunità a San Martino di Taurianova per aver denunciato un branco di ragazzi del paese affiliati alle cosche che l’avevano violentata ripetutamente per tre anni, da quando ne aveva tredici. Poche settimane fa gli stupratori cono stati condannati in secondo grado per violenza sessuale di gruppo. Claudia Borgia 18/11/2013

“Le donne contro la ‘ndrangheta”, Pavia incontra il procuratore Cerreti  Non si parla mai delle donne legate alla ‘ndrangheta”. Con queste parole ha cominciato il suo intervento Alessandra Cerreti, sostituto procuratore della DDA di Reggio Calabria e ospite dell’ultima serata pavese del ciclo “Storia delle mafie italiane”. Il procuratore Cerreti ha voluto subito ricordare Lea Garofalo, celebrata con l’ascolto di una canzone calabrese in suo onore, esprimendo il suo sgomento ed il suo rimpianto per non aver protetto abbastanza la giovane testimone di giustizia che a Milano cercava la libertà ma, purtroppo, non l’ha trovata. “Quando sono arrivata alla DDA di Reggio Calabria – ha proseguito Alessandra Cerreti – mi è stato detto che le donne all’interno delle cosche mafiose non contavano nulla. Ma io, fin da subito, ci credevo poco”. Infatti il procuratore ha poi affermato di aver indagato a lungo e, tramite intercettazioni, di essere arrivata a conoscenza di ruoli fondamentali della componente femminile nelle associazioni di ‘ndrangheta già dal 1882, quando due donne vennero condannate perchè colpevoli di essere “punciute”, ovvero affiliate. Cerreti ha poi spiegato nel particolare i ruoli delle donne, fondamentali nel portare “ambasciate”, cioè messaggi, dal carcere all’esterno, ma ancora più importanti nell’insegnamento della cultura e dei valori mafiosi ai figli. Il procuratore ha voluto poi concludere il suo discorso raccontando la storia di Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia che, con tanto coraggio, è riuscita, o meglio, sta riuscendo, a trovare la strada per la libertà. Al termine dell’intervento di Alessandra Cerreti, ascoltato con molta attenzione dai tantissimi studenti, in prevalenza, va da sé, di sesso femminile, presenti in sala, la parola è passata all’altra ospite della serata, Raffaella Rinaldis, direttrice dell’emittente calabrese “Fimmina TV”. La giornalista ha descritto questa nuova sua esperienza raccontando come le sue piccole trasmissioni diano sempre più voce alle donne, per far capire ai giovani calabresi che esiste una giusta alternativa. L’incontro è stato concluso dalle parole del consueto moderatore Enzo Ciconte, che ha ringraziato tutti i presenti per la bella risposta della città al ciclo di serate, il quale verrà sicuramente proposto anche l’anno prossimo. Nov 16, 2013 |  di Pierfilippo Saviotti


«Lea Garofalo è una testimone di giustizia» La fimmina calabrese, uccisa brutalmente dalla ‘ndrangheta, è una TESTIMONE DI GIUSTIZIA. Il riconoscimento non è mai arrivato ufficialmente. Dall’inizio l’hanno inserita tra i collaboratori, ma la donna non aveva mai commesso alcun reato. Il 28 settembre del 2018 (nove anni dopo) il magistrato Salvatore Dolce dirà pubblicamente: «Lo Stato ha sbagliato con Lea Garofalo».

«No, non è una testimone. L’hanno inserita tra i collaboratori di giustizia. Non si può far rientrare Lea Garofalo tra i testimoni di giustizia.» Queste affermazioni, dopo undici anni dalla sua morte violenta, continuano ad essere utuilizzate – a sproposito – da chi non sa o, peggio, fa finta di non sapere. Allora bisogna dirlo e sostenerlo chiaramente (con carte alla mano). Lea Garofalo, uccisa a Milano e bruciata in un bidone a San Fruttuoso (Monza) è a tutti gli effetti una TESTIMONE DI GIUSTIZIA. Come Peppino Impastato, come Rita Atria è nata in una famiglia mafiosa (padre e fratello), ma non ha mai commesso alcun reato. Ha denunciato la sua famiglia e quella del suo convivente (clan) Cosco. E, in vita, non è stata ritenuta credibile. Le sue dichiarazioni sono state utilizzate dopo. I processi, con i relativi arresti, sono stati fatti dopo.    
«Sì, ma c’è la normativa che parla chiaro». In questa vicenda c’è una storia limpida che parla chiaro. Un riscatto cercato ed ottenuto con le proprie forze. Soprattutto per sua figlia Denise. Senza l’aiuto di nessuno, nè dello Stato nè delle Associazioni (che oggi sbandierano il suo nome). Questa donna è stata rivalutata dopo la sua morte, dopo il barbaro omicidio di ‘ndrangheta

«Ma non è stata riconosciuta vittima di mafia». Cosa rispondere a questa inutile provocazione? Prima di parlare o sparlare è doveroso studiare. E possibilmente capirle certe informazioni. Cosa è successo a Milano? Perchè è stato eliminato l’articolo 7, l’aggravante mafioso, durante il processo? In questo Paese si continua a ricordare solo quello che si vuole ricordare. Ma restano i documenti, i libri, gli articoli. Viva Dio! Bisogna informarsi, prima di fare brutte figure. 

Vi piacciono le provocazioni? Vi piace sparlare? Procediamo, allora, con una domanda retorica. Lea Garofalo è una testimone di giustizia o una collaboratrice di giustizia? In attesa di ricordare questa donna, in occasione dell’anniversario della sua morte (24 novembre 2009) , riproponiamo le considerazioni di magistrati, esperti, componenti della commissione antimafia. Possono bastare? Cosa serve, ancora, per eliminare queste perplessità intorno a questa eroina antimafia?

«Lo Stato ha sbagliato con Lea Garofalo», Salvatore Dolce, il primo magistro che ha “ascoltato” Lea, Firenze, 28 settembre 2018   «Deve essere considerata come una testimone di giustizia, così dovrebbe essere considerata. In alcuni casi ho visto dei verbali di interrogatorio in cui risultava indagata di reato connesso dai Pm di Catanzaro. Il problema è che l’assunzione di una determinata garanzia serve anche a garantire la validità delle dichiarazioni rese. Comunque, non ho trovato falle nel sistema di protezione, è tutto motivato.», Armando D’Alterio, DDA Campobasso, intervista realizzata nel giugno 2012.

Oggi il magistrato, già PM del caso Siani (Giancarlo, il giornalista precario de «Il Mattino», ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985), ricopre l’incarico di PG presso la Procura della Repubblica di Potenza.

 «…i punti di criticità che l’attuale normativa presenta rispetto alle garanzie che dovrebbero essere dovute al testimone di giustizia. C’è stata la morte di Lea Garofalo, a questa morte credo che vadano anche aggiunte e attenzionate le morti per suicidio di altre due donne testimoni di giustizia calabresi (Maria Concetta Cacciola e Santa Boccafusca, nda).»

Lei ha definito Lea Garofalo una testimone di giustizia, ma…  «In realtà era una collaboratrice di giustizia. Lea Garofalo era una collaboratrice di giustizia come tanti altri collaboratori e, pur appartenendo a famiglie ‘ndranghetiste, non si sono macchiate di reati, non hanno ucciso. Li considero come testimoni. Se poi penso che la legge sul cosiddetto pentitismo consente dei benefici ai collaboratori di giustizia, caratterizzati spesso da persone che hanno alle spalle magari decine di omicidi, mi sento di definire Lea una testimone e non una collaboratrice.», On. Angela Napoli, componente commissione antimafia, intervista realizzata nel settembre 2012.

Ad oggi, ancora non si sono registrati riscontri alla interrogazione e alla interpellanza parlamentare.

 Lei ha definito la Garofalo una testimone. La stessa cosa ha fatto Angela Napoli e anche Lea non si sentiva una collaboratrice di giustizia, ma nelle carte ufficiali…  «Naturalmente la linea di confine è sottile, noi la individuiamo come testimone perché Lea Garofalo non era una criminale. Aveva preso le distante dalla famiglia dei mafiosi, non aveva mai agito per rafforzare le finalità mafiose di questa famiglia. È un po’ la storia di Peppino Impastato, padre mafioso, lo zio capomafia ma lui aveva preso le distanze. Naturalmente Lea Garofalo non aveva gli strumenti culturali, non aveva la passione politica, il contesto era diverso di quello di Peppino Impastato. Ma ha fatto una scelta di tale portata e quindi questa scelta è tipica del testimone di giustizia, di chi non è nell’organizzazione mafiosa e dà un contributo allo Stato, con la sua testimonianza, con le sue conoscenze. Lea Garofalo deve essere valorizzata e considerata una testimone di giustizia. Anche Denise, un’altra donna straordinaria, una donna che non ha avuto dubbi, che non si è fatta assolutamente assorbire dalla omertà familistica, dove spesso si consumano violenze inenarrabili e si sta zitti. Lei ha capito che il padre, che gli zii, che il nonno, che il contesto familiare era un contesto di mafia, che aveva ucciso e sciolto nell’acido la mamma. Non ha avuto dubbi a schierarsi dalla parte giusta, della verità, della giustizia sino ad essere presente in tribunale.», Sen. Giuseppe Lumia, componente commissione antimafia, intervista realizzata nel settembre 2012.
Ad oggi, ancora non si sono registrati riscontri alla interrogazione parlamentare.


Il grido d’aiuto (inascoltato) di Lea Garofalo –  La LETTERA della TESTIMONE DI GIUSTIZIA. «La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte! Inaspettata indegna e inesorabile…»

Lea ha conosciuto la ‘ndrangheta da vicino: come tante donne, ha subìto la violenza brutale della mafia calabrese. Ha denunciato quello che ha visto, quello che ha sentito: una lunga serie di omicidi, droga, usura, minacce, violenze di ogni tipo. Ha raccontato la ‘ndrangheta che uccide, che fa affari, che fa schifo!
È stata uccisa perché si è contrapposta alla cultura mafiosa, che non perdona il tradimento – soprattutto – di una fimminaA 36 anni è stata rapita a Milano per ordine del suo ex compagno, dopo un precedente tentativo di sequestro in Molise, a Campobasso. 
Le mafie, sino ad oggi, hanno ucciso più di 150 donne. Solo grazie alle fimmine è possibile immaginare un futuro diverso per questo Paese, un futuro senza il puzzo opprimente di queste organizzazioni criminali, che possono tutto per la loro immensa potenza economica e militare. Per i loro legami secolari con la politica e le Istituzione. Ma con Lea e con Denise non hanno potuto nulla. Gli assassini sono stati condannati all’ergastolo. Al carcere a vita. Il clan Cosco è stato distrutto da due donne, che hanno avuto la forza e il coraggio di dire No.
Lea in vita si è sentita «una giovane madre disperata», stanca di chiedere aiuto, di chiedere protezione. Nessuno, come in tante altre occasioni, ha mai chiesto scusa. Nessuno ha mai telefonato alla madre di Lea, la signora Santina. Il suo memoriale è stato pubblicato solo dopo la sua morte. In questo strano Paese succede sempre tutto dopo.

 


La versione di Venturino. Separato da un paravento bianco da coloro che «per tre anni sono stati – così come li ha definiti – la mia famiglia», Carmine Venturino, collaboratore di giustizia dal 31 luglio 2012, si è trovato nel secondo giorno di udienza del processo di secondo grado per la morte di Lea Garofalo a dover confermare le dichiarazioni fatte nei mesi scorsi al pubblico ministero e ad autoaccusarsi del concorso all’omicidio della madre della ragazza che lui stesso dice di amare.

Lo scorso 10 aprile dichiara dunque questo davanti alla corte d’Assise del Tribunale di Milano: «È     una scelta d’amore per Denise perché deve sapere come sono andate le cose sull’omicidio di sua madre». Con queste parole Carmine Venturino, nato a Crotone nel 1987 da una famiglia di incensurati, inizia la ricostruzione di tutte le fasi di organizzazione dell’omicidio di Lea Garofalo; dal progetto sventato a Campobasso nel maggio del 2009 fino al giorno, il 24 novembre 2009, in cui la donna viene rapita, torturata e uccisa. Strangolata con un nastro floreale delle tende dell’appartamento di Via Fioravanti, il cadavere messo in uno scatolone e alla fine trasportata in un garage. Lì l’ordine di Carlo Cosco: «La dovete carbonizzare».  Poche parole quelle dell’ex compagno della donna ma soprattutto poche domande, afferma Venturino: «Non si fanno domande nella ‘ndrangheta, significherebbe poca serietà; l’unico commento di Carlo Cosco è stato ‘la bastarda se n’era accorta’». Il collaboratore poi prosegue il suo agghiacciante racconto sulla distruzione del cadavere di Lea Garofalo: «Apriamo lo scatolone e rovesciamo il corpo a testa in giù nella benzina; si intravedevano solo le scarpe. Poi abbiamo buttato la benzina ma il cadavere bruciava lentamente, così mentre il corpo bruciava venivano spaccate le ossa con un badile. Ciò che rimaneva l’abbiamo messo in una borsa e coperto da una lamiera». Continua poi la sua ricostruzione, raccontando alla corte il recupero degli abiti sporchi di sangue di Carlo Cosco, nascosti vicino al cimitero monumentale e recuperati da Rosario Curcio perché “erano firmati”. Dettagli che, sommati alle altre dichiarazioni, lasciano intravedere lo scenario ‘ndranghetista dentro il quale si è consumato il terribile omicidio: «Lui doveva ammazzare la compagna per le regole della ‘ndrangheta; io non sono un affiliato, sono un contrasto onorato, ho preso parte a questo disegno criminoso perché facevo parte della famiglia, in quanto spacciavo per loro e quindi dovevo loro dei soldi; non potevo dire di no; a Pagliarelle non si muove una foglia che i Cosco non voglia». E sulla dichiarazione spontanea rilasciata da Carlo Cosco il 9 aprile, alla fine della prima udienza, Carmine Venturino dichiara: «Secondo Carlo Cosco si doveva dovevano uccidere anche Denise; nel processo di primo grado c’è stato un episodio in cui l’avvocato ha mostrato delle fotografie rimaste appoggiate sul banco della difesa e Carlo Cosco quando le ha viste ha detto, ‘ancora davanti a me la metti questa puttana’». Carmine Venturino ha dovuto riportare tutto quello che ha detto anche nel corso della terza udienza, tenutasi venerdì 11 aprile. In questa giornata la corte ha ascoltato anche altri due testimoni, che hanno definito meglio l’ambiente malavitoso in cui si è consumato l’omicidio di Lea Garofalo. L’udienza si è infatti aperta con il contro esame da parte degli avvocati difensori, in primo luogo il legale di Carlo Cosco, Daniele Sussman Steinberg. La maggior parte delle domande era mirata ad un unico tema: la ‘ndrangheta. Sussman ha cercato di far cadere le informazioni che Venturino aveva rilasciato riguardo a quell’ambiente malavitoso in cui operava Carlo Cosco. Incalzato dall’avvocato, Carmine Venturino dichiara le doti, i gradi di potere, che avevano i membri della famiglia Cosco. Giuseppe avrebbe il grado di sgarrista, Massimo di picciotto, Vito di camorrista e infine Carlo avrebbe la dote di Santa, facendo così parte della Società Maggiore. Con questa dichiarazione viene quindi sollevata l’ipotesi che non solo l’imputato sia vicino alla ‘ndrangheta, ma che ne ricopra una posizione di rilievo nei vertici. Certo davanti a lui ci sono altre doti, altri gradi, da raggiungere prima di arrivare in cima, ma comunque lui sarebbe un capo zona. Il collaboratore di giustizia ha quindi chiarito anche alcune dinamiche interne al gruppo degli imputati. «Carlo Cosco era il capo. Rosario Curcio era uno dei suoi soldati. Suo fratello Giuseppe invece era quello più indipendente della famiglia, si occupa dello spaccio di droga». Per quanto riguarda poi la sera dell’omicidio, Venturino afferma ancora l’estraneità dei fatti per Massimo Sabatino, mentre a Giuseppe Cosco attribuisce solo un ruolo organizzativo. «Carlo non è che abbia tutto questo cervello, a preparare tutto quanto, per me può essere stato solo Giuseppe». Sembra infine che Rosario Curcio fosse già sulla lista nera dei Cosco, colpevoli di averli insultati in pubblico. «I Cosco avevano aperto un’impresa edile, la Olimpia srl, che si occupava di cartongesso. Avevano fatto diversi lavori in giro, per esempio a Desio o Buccinasco. Nella ditta c’era anche Curcio, ma lui non aveva preso nemmeno un euro per tutte queste opere. Una sera allora, dopo che si era ubriacato, aveva insultato i Cosco in mezzo al cortile, apertamente. Da quel momento Carlo ha sempre avuto l’idea di ucciderlo». Venturino non ha risposto a tutte le domande, spesso infatti si è riservato di non parlare perché le informazioni richieste erano coperte da segreto istruttorio. L’ipotesi più probabile è che dalle sue dichiarazioni sia iniziato un altro procedimento penale, che riguarda invece l’usura, lo spaccio e tutte le altre attività criminali dei Cosco.  Il processo è continuato poi con la deposizione di Giulio Buttarelli, tenente colonnello dei carabinieri, che ha riportato l’esito dei sopralluoghi fatti grazie alle indicazioni di Venturino. Ha confermato il ritrovamento di una scheda sim distrutta e poi nascosta in una grata  e ha dichiarato anche che dal suo appartamento mancava la corda di una tenda, quella usata per strangolare Lea. Ultima ad avvicinarsi al microfono è stata Denise. La ragazza si è mostrata subito decisa, disposta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda le venisse rivolta. La sua testimonianza è stata breve, ha dovuto solo riconoscere dei gioielli che portava la madre il giorno della sua scomparsa. Questo piccolo esame è servito per identificare ancora il corpo di Lea Garofalo, dato che, per adesso, non si è ancora riusciti ad estrarre il suo Dna dai resti. Prima di andarsene Denise ha però voluto chiarire una cosa. Era stato detto infatti che lei aveva partecipato alla festa organizzata da suo padre Carlo in occasione del suo diciottesimo compleanno. Era il 4 dicembre del 2009, pochi giorni dopo la scomparsa di sua madre. «Io a quella festa non ci sono mai andata, non volevo neanche che la organizzasse. Mia madre era appena scomparsa. Io non avevo niente da festeggiare, forse gli altri sì». Tramite il suo legale, Carlo Cosco ha infine chiesto di poter testimoniare in aula. Dopo essersi sempre dichiarato innocente fino alla prima udienza del processo di secondo grado, il principale imputato per la morte di Lea Garofalo si siederà per la seconda volta davanti ai giudici. da Sara Manisera | Apr 20, 2013 STAMPO ANTIMAFIOSO


L’appello di Denise – Domani le esequie della testimone uccisa dalla ’ndranghetaUna ragazza che vive sotto scorta in una località segreta ci prega di far conoscere questo messaggio: «Lea, la mia cara mamma, ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Il suo funerale pubblico – al quale vi invito e al quale spero parteciperanno tante persone – è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per i propri valori, per la propria dignità e per la giustizia di tutti».
Questa ragazza è la protagonista di una delle storie più terribili, ma anche più dense di speranza, degli ultimi anni. Si chiama Denise Cosco, compirà 22 anni in dicembre e il funerale di cui parla è molto speciale: sua mamma Lea è morta già da quattro anni, uccisa e bruciata, e solo da pochi mesi sono stati recuperati i suoi poveri resti. Ma l’invito di Denise ad andare ai funerali è molto speciale soprattutto perché l’assassino di sua mamma è suo padre, che lei ha avuto il coraggio di denunciare.
Lea Garofalo nasce nel 1974 a Petilia Policastro, in Calabria, figlia di un boss della ’ndrangheta. Ha davanti a sé un percorso segnato dalla quale si illude di uscire a 16 anni, quando finisce nella braccia di Carlo Cosco, un uomo che credeva diverso. Quando nasce Denise, Lea ha solo 17 anni e la certezza di essere stata ingannata. Il 18 agosto 1992 annota: «…So solo che la mia vita è stata sempre niente, non gliene è mai fregato niente a nessuno di me, non ho mai avuto né affetto né amore da nessuno, sono nata nella sfortuna e ci morirò. Oggi però ho una speranza, una ragione per cui vivere e per andare avanti, questa ragione si chiama DENISE, ed è mia FIGLIA. Lei avrà da me tutto quello che io non ho mai avuto da nessuno».
È nel 2002 che Lea capisce qual è il bene più grande che possa dare a sua figlia, anche se immagina il prezzo: comincia a collaborare con la giustizia, racconta i loschi traffici del compagno e dei clan. La mettono sotto protezione. Dopo quattro anni, però, le autorità stabiliscono che la collaborazione non è significativa e tolgono la protezione. Lea non si arrende. Fa ricorso al Tar. Perde. Insiste: ricorso al Consiglio di Stato. Questa volta vince. Nel 2007 è di nuovo «protetta». Ma nel 2009 è lei a lasciare: è esasperata dalle continue pressioni dei Cosco, ha difficoltà a nascondersi, si sente abbandonata dallo Stato perché le sue denunce restano inascoltate. Così, torna a Petilia Policastro, poi a Campobasso.
Ma Carlo Cosco non le dà pace. Tenta anche di farla rapire. Lea gli chiede di uscire dalla sua vita, di trovare un accordo. Ed è qui che scatta la trappola. Cosco la chiama a Milano per parlare del loro futuro. Invano Denise tenta di convincere la mamma a non andare: il 24 novembre 2009, giorno dell’appuntamento, una telecamera della sicurezza riprende madre e figlia vicine all’Arco della Pace, pochi attimi prima di separarsi per sempre. Lea viene fatta salire su un furgone da Carlo Cosco e due suoi complici. Da quel momento Denise non ha più notizie della mamma. Il padre le dice di averla accompagnata alla Stazione centrale, Denise capisce che mente. Scopre perfino che Carmine Venturino, il suo fidanzato, è in realtà una spia inviata dal padre per controllarla. È in questi giorni che Denise ha il coraggio di andare da un magistrato. Da allora, è lei a vivere sotto protezione. I funerali civili di Lea Garofalo saranno celebrati domani alle 10 in piazza Beccaria a Milano. Interverranno il sindaco Giuliano Pisapia e don Luigi Ciotti; parlerà anche Denise, con un audio registrato. In piazza ci saranno migliaia di bandiere con la scritta «Io vedo io sento io parlo».
«Il coraggio di queste due donne», dice don Ciotti, «testimonia che battere le mafie è sempre possibile, e che l’illegalità e il crimine non sono un destino cui i figli sono condannati. La possibilità di cambiare c’è sempre». La cerimonia religiosa si terrà in un altro momento e in un luogo segreto. Lea Garofalo ha almeno avuto giustizia: Carlo Cosco e tre complici sono stati condannati all’ergastolo; Carmine Venturino, il finto fidanzato, ha avuto uno sconto: 25 anni. È lui che ha parlato e fatto ritrovare i resti di Lea. Dicono che il suo pentimento è sincero. MICHELE BRAMBILLA 18 Ottobre 2013 LA STAMPA


«Lea Garofalo è una testimone di giustizia».   di Paolo De Chiara, WordNews.it 1.12.2020«No, non è una testimone. L’hanno inserita tra i collaboratori di giustizia. Non si può far rientrare Lea Garofalo tra i testimoni di giustizia.» Queste affermazioni, dopo undici anni dalla sua morte violenta, continuano ad essere utilizzate – a sproposito – da chi non sa o, peggio, fa finta di non sapere. Allora bisogna dirlo e sostenerlo chiaramente (con carte alla mano). Lea Garofalo, uccisa a Milano e bruciata in un bidone a San Fruttuoso (Monza) è a tutti gli effetti una TESTIMONE DI GIUSTIZIA. Come Peppino Impastato, come Rita Atria è nata in una famiglia mafiosa (padre e fratello), ma non ha mai commesso alcun reato. Ha denunciato la sua famiglia e quella del suo convivente (clan) Cosco. E, in vita, non è stata ritenuta credibile. Le sue dichiarazioni sono state utilizzate dopo. I processi, con i relativi arresti, sono stati fatti dopo.    
«Sì, ma c’è la normativa che parla chiaro». In questa vicenda c’è una storia limpida che parla chiaro. Un riscatto cercato ed ottenuto con le proprie forze. Soprattutto per sua figlia Denise. Senza l’aiuto di nessuno, nè dello Stato nè delle Associazioni (che oggi sbandierano il suo nome). Questa donna è stata rivalutata dopo la sua morte, dopo il barbaro omicidio di ‘ndrangheta. 
«Ma non è stata riconosciuta vittima di mafia». Cosa rispondere a questa inutile provocazione? Prima di parlare o sparlare è doveroso studiare. E possibilmente capirle certe informazioni. Cosa è successo a Milano? Perchè è stato eliminato l’articolo 7, l’aggravante mafioso, durante il processo? In questo Paese si continua a ricordare solo quello che si vuole ricordare. Ma restano i documenti, i libri, gli articoli. Viva Dio! Bisogna informarsi, prima di fare brutte figure. 
Vi piacciono le provocazioni? Vi piace sparlare? Procediamo, allora, con una domanda retorica. Lea Garofalo è una testimone di giustizia o una collaboratrice di giustizia? In attesa di ricordare questa donna, in occasione dell’anniversario della sua morte (24 novembre 2009) , riproponiamo le considerazioni di magistrati, esperti, componenti della commissione antimafia. Possono bastare? Cosa serve, ancora, per eliminare queste perplessità intorno a questa eroina antimafia?
«Lo Stato ha sbagliato con Lea Garofalo», Salvatore Dolce, il primo magistro che ha “ascoltato” Lea, Firenze, 28 settembre 2018
«Deve essere considerata come una testimone di giustizia, così dovrebbe essere considerata. In alcuni casi ho visto dei verbali di interrogatorio in cui risultava indagata di reato connesso dai Pm di Catanzaro. Il problema è che l’assunzione di una determinata garanzia serve anche a garantire la validità delle dichiarazioni rese. Comunque, non ho trovato falle nel sistema di protezione, è tutto motivato.» 
Armando D’Alterio, DDA Campobasso, intervista realizzata nel giugno 2012.
Oggi il magistrato, già PM del caso Siani (Giancarlo, il giornalista precario de «Il Mattino», ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985), ricopre l’incarico di PG presso la Procura della Repubblica di Potenza.
«…i punti di criticità che l’attuale normativa presenta rispetto alle garanzie che dovrebbero essere dovute al testimone di giustizia. C’è stata la morte di Lea Garofalo, a questa morte credo che vadano anche aggiunte e attenzionate le morti per suicidio di altre due donne testimoni di giustizia calabresi (Maria Concetta Cacciola e Santa Boccafusca, nda).»
Lei ha definito Lea Garofalo una testimone di giustizia, ma… «In realtà era una collaboratrice di giustizia. Lea Garofalo era una collaboratrice di giustizia come tanti altri collaboratori e, pur appartenendo a famiglie ‘ndranghetiste, non si sono macchiate di reati, non hanno ucciso. Li considero come testimoni. Se poi penso che la legge sul cosiddetto pentitismo consente dei benefici ai collaboratori di giustizia, caratterizzati spesso da persone che hanno alle spalle magari decine di omicidi, mi sento di definire Lea una testimone e non una collaboratrice.» 
On. Angela Napoli, componente commissione antimafia, intervista realizzata nel settembre 2012. Ad oggi, ancora non si sono registrati riscontri alla interrogazione e alla interpellanza parlamentare.

Lei ha definito la Garofalo una testimone. La stessa cosa ha fatto Angela Napoli e anche Lea non si sentiva una collaboratrice di giustizia, ma nelle carte ufficiali…  «Naturalmente la linea di confine è sottile, noi la individuiamo come testimone perché Lea Garofalo non era una criminale. Aveva preso le distante dalla famiglia dei mafiosi, non aveva mai agito per rafforzare le finalità mafiose di questa famiglia. È un po’ la storia di Peppino Impastato, padre mafioso, lo zio capomafia ma lui aveva preso le distanze. Naturalmente Lea Garofalo non aveva gli strumenti culturali, non aveva la passione politica, il contesto era diverso di quello di Peppino Impastato. Ma ha fatto una scelta di tale portata e quindi questa scelta è tipica del testimone di giustizia, di chi non è nell’organizzazione mafiosa e dà un contributo allo Stato, con la sua testimonianza, con le sue conoscenze. Lea Garofalo deve essere valorizzata e considerata una testimone di giustizia. Anche Denise, un’altra donna straordinaria, una donna che non ha avuto dubbi, che non si è fatta assolutamente assorbire dalla omertà familistica, dove spesso si consumano violenze inenarrabili e si sta zitti. Lei ha capito che il padre, che gli zii, che il nonno, che il contesto familiare era un contesto di mafia, che aveva ucciso e sciolto nell’acido la mamma. Non ha avuto dubbi a schierarsi dalla parte giusta, della verità, della giustizia sino ad essere presente in tribunale.»
Sen. Giuseppe Lumia, componente commissione antimafia, intervista realizzata nel settembre 2012. Ad oggi, ancora non si sono registrati riscontri alla interrogazione parlamentare.
«Lea Garofalo, donna e madre capace di sfidare la ‘ndrangheta diventando una testimone di giustizia, il 24 novembre 2009 veniva ammazzata dal suo ex compagno, ‘ndranghetista anche lui.
Eppure c’è chi ancora sostiene che le mafie rispettino donne e bambini.»
Nicola Morra, Presidente Commissione Antimafia, 24 novembre 2020 «Lea GAROFALO era una testimone di giustizia che aveva accusato molti mafiosi di Petilia Policastro e tra questi il boss che era stato il suo compagno Carlo Cosco, col quale aveva avuto una figlia.
Nel maggio 2009 in una prima occasione Cosco aveva tentato di farla rapire per ucciderla e poi il 24 novembre, dopo averla attirata in una trappola, la fece uccidere e il suo corpo fu dato alle fiamme e bruciato per tre giorni fino alla completa distruzione.
A Lea era stata data la protezione nel 2002, ma poi tolta nel 2006 perché ritenuta non attendibile. Quando morì non era protetta. La sua è stata una storia emblematica anche che riassume la DISATTENZIONE verso i testimoni ed i collaboratori di giustizia.
Il 28 aprile 2009, poco prima del primo tentativo di ucciderla, Lea Garofalo rinuncio’ alla protezione che gli era stata risata dal giudice amministrativo. Poi si rivolse al Presidente della Repubblica Napolitano con una lettera nella quale “lamentava di essere stata qualificata come collaboratrice di giustizia, di aver ricevuto un’assistenza legale carente sotto vari punti di vista, di essere stata obbligata a trasferirsi in diverse città con la figlia piccola nell’ambito del programma di protezione, di aver perso un lavoro precario, tutti i contatti sociali e la propria dimora anche per sostenere le spese degli avvocati.”
Oggi lo Stato la riabilita, con ritardo ed avendo molte molte colpe rispetto al suo sangue innocente.»
Sebastiano Ardita, magistrato, 24 novembre 2020 

 


Vedere, sentire e parlare Lea Garofalo e l’antimafia che si organizza

La storia di Lea e De­nise è diventata la sto­ria di tutti, il simbolo di un riscatto, l’orgo­glio di una ribellione
Milano, Arco della Pace, è la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009. Lea Garofalo, una testimone di giustizia calabrese, viene rapita, torturata ed uccisa. Strangolata con un nastro flo­reale delle tende di un appartamento di via Fioravanti a Milano, a pochi passi dalla movida milanese, dall’ex compagno Carlo Cosco e il fratello di questo, Vito; il corpo messo in uno sca­tolone e alla fine trasportato in un ga­rage nella località San Fruttuoso vici­no a Monza. Lì l’ordine di Carlo Co­sco: “La dovete carbonizzare”. Lea deve pagare con la vita la scelta di aver visto, sentito e parlato della ‘ndran­gheta. Il 6 luglio del 2011 si apre il processo di primo grado, che vede la diciannoven­ne Denise costituirsi parte civile contro il padre, la sua famiglia e l’ex fidanzatino Carmine Venturino complice dell’omici­dio della madre. Sarebbe stato proprio lui – dopo la sen­tenza di primo grado che condanna i sei imputati all’ergastolo – a rivelare agli in­quirenti che i resti carbonizzati di Lea Garofalo sono stati frantumati e nascosti in un tombino; non quindi sciolta nell’acido come ipotizzato inizialmente.
Una testimone di verità Il 29 maggio 2013 la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha emesso la sen­tenza di secondo grado, confermando quattro ergastoli per Carlo Cosco, Vito Cosco, Massimo Sabatino e Rosario Cur­cio, assolvendo Giuseppe Cosco per non aver commesso il fatto e condannando Carmine Venturino a venticinque anni di reclusione, senza le attenuanti specifiche previste per i collaboratori di giustizia.
Per la legge italiana, infatti, Lea Garo­falo non è vittima di ‘ndrangheta. Ma lo è per i ragazzi del presidio milanese di Libera dedicato proprio a Lea Garofalo e per tutta la società civile: per loro Lea è una testimone di verità e di giustizia – e mai una collaboratrice, come tanti organi di stampa si ostinano, erroneamente, a scri­vere.
Per questo, all’indomani della chiu­sura del secondo grado, si fa strada la richies­ta di un degno funerale a Milano.
La celebrazione di un funerale civile per Lea Garofalo rappresenta un momen­to decisivo per Milano, “una città anti­mafia” per dirla con le parole del suo sin­daco Giuliano Pisapia. Rappresenta una tappa di un percorso iniziato ormai due anni fa con la prima udienza del processo contro i Cosco.
Un processo pressoché ignorato dai media nazionali, eccezion fatta per Stam­poantimafioso, i Siciliani giovani e Nar­comafie, con la giornalista Marika De­maria.
È stata chiara sin da subito l’importan­za simbolica e concreta di questa vicen­da: non si può affermare di fare giornali­smo sul fenomeno mafioso al nord se non si racconta la storia di Lea, testimo­ne di giustizia uccisa dalla ‘ndrangheta proprio qui, a Milano.
Oggi le persone ci sono
Poi, qualche mese dopo l’inizio del processo sono arrivati i ragazzi che avrebbero fondato il Presidio Libera Lea Garofalo con il preciso scopo di sostene­re Denise, la figlia di Lea e di Carlo Co­sco. Ragazzi a cui si deve molto; è in­dubbio che se sabato 19 ottobre la centra­lissima Piazza Beccaria si è stretta nel ri­cordo di Lea è grazie alla loro caparbietà, al loro spirito di iniziativa.
Oggi, infatti, a differenza di due anni fa, le persone ci sono. Nessuno, ieri. Al­meno duemila, ora.
È vero, ha ragione don Ciotti quando richiama tutti alla re­sponsabilità di “sce­gliere, di scegliere di più”; ma ha una ra­gione anche quella piazza, che piange e sventola bandiere gialle, arancioni, fucsia e si fa carico dell’impegno di vedere, sentire e parlare, come recita lo slogan scelto dagli orga­nizzatori della manife­stazione.
E nelle stesse ora, a Sedriano…
Il 19 ottobre passerà alla storia: come la giornata in cui Milano onora colletti­vamente Lea Garofalo proprio nelle stes­se ore in cui per le strade di Sedriano, cittadina nell’ovest milanese, sfila un corteo di protesta contro il sindaco Alfre­do Celeste, arrestato un anno fa per cor­ruzione. Un corteo di protesta contro la ‘ndrangheta. Sedriano infatti è il primo comune lombardo sciolto per infiltrazio­ne mafiosa.
La ‘ndrangheta, attestano la magistra­tura e il Ministero dell’Interno, ne ha pe­santemente condizionato l’attività ammi­nistrativa.
Sedriano, Milano, Lea Garofalo: tre simboli di riscatto, di lotta, di moralità violata e riconquistata. O da riconquista­re, con la promessa, come ammonisce don Ciotti, di “stare tutti dalla stessa par­te”. Scriveva Ester Castano in un articolo sul settimanale l’Altomilanese: “Se la mafia si organizza, anche l’antimafia deve farlo”. Che questo stia avvenendo? Carmelo Catania