ANTONINO CAPONNETTO (Caltanissetta, 5 settembre 1920 – Firenze, 6 dicembre 2002) ha guidato, dal 1984 al 1990, il Pool antimafia istituito da Rocco Chinnici nel 1980.
Dopo l’assassinio di Chinnici ne prese il posto nel novembre 1983. Accanto a sé chiamò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
La loro attività portò all’arresto di più di 400 criminali legati a Cosa Nostra, culminando nel maxiprocesso di Palermo, celebrato a partire dal 10 febbraio 1986.
È considerato uno degli eroi simbolo della lotta al crimine organizzato italiano. All’età di 10 anni, Caponnetto si trasferì dalla Sicilia, sua terra natia, a Pistoia, per laurearsi in seguito in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Firenze.
Entrato in magistratura nel 1954, al primo incarico come Pretore di Prato rinviò alla Corte Costituzionale due norme del testo unico sulla Pubblica Sicurezza che vietavano il volantinaggio ottenendo in favore della libertà della persona le sentenze n. 1 e 2 della Corte Costituzionale.
La sua carriera ebbe una svolta nel 1983 quando ottenne il trasferimento a Palermo, successivamente all’uccisione di Rocco Chinnici capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Iniziarono così cinque anni di trincea e di soddisfazioni professionali.
Seguendo la strategia studiata dall’ufficio istruzione di Torino, dove Giancarlo Caselli operava per la lotta al terrorismo, e continuando l’opera di Rocco Chinnici, realizzò nel 1984 un gruppo di magistrati che aveva il compito di occuparsi esclusivamente della lotta alla mafia. Il pool, che vide la partecipazione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, istruì il primo grande processo contro la mafia e si servì delle dichiarazione di pentiti come Tommaso Buscetta.
Quando decise di lasciare Palermo per tornare a Firenze indicò in Falcone il suo successore. Il Consiglio superiore della magistratura gli preferì Antonino Meli, e Caponnetto non nascose mai la sua forte amarezza per questa decisione, dovuta, secondo le sue parole a “cinque vergognose, letali, astensioni e due voti di maggioranza”.[2] Ribadendo in seguito anche le parole di Paolo Borsellino in proposito, che parlò di Giuda presenti fra coloro che presero la decisione.
Concluse la sua carriera nel 1990 e dovette assistere prima alla morte di Falcone e poco dopo di Borsellino, assassinati dalla mafia. Divenne celebre il suo amareggiato commento alle telecamere poco dopo la strage di via d’Amelio, in cui disse «È finito tutto!», stringendo le mani del giornalista che poneva la domanda.Di tale commento si pentì subito, come spiegò poco dopo alla cittadinanza durante i funerali di Paolo Borsellino e poi, successivamente, in un’intervista a Gianni Minà nel 1996 nel corso della trasmissione Storie (Rai 2):
«Era un momento particolare, di sgomento, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte ancora annerita di Paolo.
Quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, forse non scusabile, ma comprensibile. In quel momento avrei dovuto – avevo l’obbligo, forse, e avrei dovuto sentirlo quest’obbligo – di raccogliere la fiaccola che era caduta dalle mani di Paolo e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. E invece furono i giovani di Palermo a dare coraggio a me, che trovai dopo pochi minuti in piazza del tribunale. Mi si strinsero attorno con rabbia, con dolore, con determinazione, con fiducia, con speranza. E allora capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole e quanto bisognava che io operassi per farmele perdonare: operassi per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.»
Da allora, invece di ritirarsi in pensione, iniziò instancabilmente un viaggio per le scuole e le piazze di tutta Italia per raccontare, soprattutto ai giovani, chi fossero Falcone e Borsellino e lo sforzo contro il fenomeno mafioso. Caponnetto intervenne in centinaia di scuole, diventando un testimone di etica della politica e della vita civile, della giustizia e della legalità. Nel 1993 fu candidato per La Rete alle elezioni amministrative di Palermo, divenendo così presidente del consiglio comunale.
Nel 1993 ricevette dall’Università di Torino la laurea honoris causa in scienze politiche.
Nel 1999 organizzò il primo vertice sulla legalità e la giustizia sociale a Firenze, insieme a magistrati, avvocati, associazioni, giornalisti, per discutere sulla situazione della legalità in Italia.
Cittadino onorario di Palermo, Catania, Grammichele, Monteveglio, per tre volte è stato oggetto di una raccolta di firme per la nomina a senatore a vita. È morto a Firenze dopo una lunga malattia il 6 dicembre 2002 all’età di 82 anni. WIKIPEDIA
VIDEO
LO SMEMBRAMENTO…
L’ultimo abbraccio
AUDIO interventi di Antonino Caponnetto
Con Lucia ed Agnese Borsellino al funerale del dottor Borsellino
LETTERA LAICA DI ANTONINO CAPONNETTO AL FUNERALE DI PAOLO BORSELLINO
“Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza.
Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente.
Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti.
Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore.
Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine.
Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: “Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo”.
C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo.
Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito.
Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito.
Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca.
In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita.
La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza.
Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca.
Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi.
E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa.
Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero.
Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio.
Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione.
Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo”.
Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre.
Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione.
Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento.”
Un ricordo di Antonino Caponnetto a cento anni dalla sua nascita
Antonino Caponnetto se fosse ancora in vita avrebbe compiuto cento anni. E’ stato ed è un esempio per i giovani. Coordinò e perfezionò il pool antimafia creato da Rocco Chinnici. Accanto a sé chiamò Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Era un uomo umile, mite, gentile, buono e soprattutto generoso.
Un vero servitore dello Stato.
Amava i giovani e si spese fino all’ultimo per loro, per educarli alla legalità spingendo sul senso del dovere e sulla corresponsabilità. Io lo conobbi 17 febbraio 1995.
Grazie all’intercessione di Maria Falcone, riuscii a contattarlo e portarlo a Termoli come relatore sul tema “La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive”.
Ricordo come fosse oggi che arrivò in una Termoli deserta per le imponenti misure di sicurezza: era ancora Consigliere Capo Istruttore a Palermo.
Al suo arrivo gli si presentarono tutte le più alte cariche della Regione, ma lui del tutto inaspettatamente chiese del dottor Musacchio. Oltre ad essere un emerito sconosciuto, ero l’ultimo di una lunga fila oscurato da persone istituzionalmente più importanti di me. Alzo la mano e lui scorre la fila e viene verso di me.
Mi disse: “Caro Musacchio, Maria Falcone mi ha parlato molto bene di te… Vieni … e mi porta verso il panorama marino di Piazza Sant’Antonio, circondati quasi da un esercito di poliziotti e carabinieri. Allora come vogliamo impostare quest’incontro?” E così incominciammo a parlare di come approfondire il tema del convegno.
Il Cinema Sant’Antonio era stracolmo e tantissime persone purtroppo rimasero fuori. Ricordo fece una disamina del fenomeno mafioso, fornì l’orientamento necessario per comprendere i legami che la mafia intrattiene col mondo politico.
Lo guardavo estasiato dalla sua dolcezza nell’esporre le sue tesi, poi disse: “a differenza delle organizzazioni puramente criminali, o del terrorismo, la mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile nella struttura stessa dello Stato”. E che “La mafia è l’estensione logica e la degenerazione ultima di un’onnicomprensiva cultura del clientelismo, del favoritismo, dell’appropriazione di risorse pubbliche per fini privati”. Terminò il suo intervento con un invito: occorre che gli onesti si riapproprino delle istituzioni e della politica!
Quest’ultima frase me la ripeté ogni volta che ci incontravamo o che ci sentivamo al telefono. Terminato il Convegno, era ormai buio, presi coraggio e gli chiesi se volesse cenare con me e la mia famiglia. Mi aspettavo un secco no anche perché aveva già prenotato un albergo in loco e poi lo aspettavano molte delle autorità presenti.
La sua risposta fu disarmante: perché no? Si deve fare carico anche di mia moglie mi disse sorridendo. Mi mise la mano sulla spalla e mi chiese, dove andassimo.
Li portai a casa dei miei genitori che rimasero a dir poco disorientati. Vidi lo sguardo di mia madre che se avesse potuto mi avrebbe “giustiziato” in loco senza processo.
Fu una cena semplicissima (mia madre da buona pugliese in fretta e furia preparò le orecchiette con i pomodorini fatte con la farina del nostro grano e ricordo, furono graditissime dalla coppia), oltre alla mia famiglia c’erano tre magistrati miei amici di lunga data. Le sorprese non finirono li.
Dopo cena convinsi il dottor Caponnetto a rimanere a dormire in casa per poi ripartire la mattina presto com’era in programma. Credo gli fossi particolarmente simpatico.
La nostra casa fu presidiata tutto il tempo.
I miei genitori cedettero il loro letto matrimoniale ed io ebbi l’enorme privilegio di passare alcune preziosissime ore con chi creò (sull’insegnamento di Chinnici) il pool antimafia di Palermo. Parlammo tanto (onestamente non ricordo tutto) e ho memoria del fatto che rimarcò molte volte di non smettere di ricordare che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Prima – continuò – sono stati continuo oggetto di veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono l’intreccio che portò alla loro fine.
Mi confermò che furono spesso accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello Stato. Quando, il 21 giugno del 1989 (attentato dell’Addaura) la polizia ritrovò l’esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggia antistante alla villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che l’attentato, il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi pubblicità. Si soffermò sugli attacchi durissimi che Falcone ricevette da Leoluca Orlando e ricordò quando Salvatore (Totò) Cuffaro inveì sempre contro Falcone sostenendo che i discorsi sulla mafia che si stavano facendo erano lesivi della dignità della Sicilia.
Si ricordò persino un’intervista di Corrado Augias a Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi prima della morte del magistrato.
A un certo punto, una delle ospiti in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone, sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese?”
Mi disse che tutti questi attacchi facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso.
Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere come fosse possibile sbagliarsi tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante all’abitazione della madre.
Era affranto e incredulo su questo fatto. Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo la Strage di via d’Amelio: “È finito tutto!”.
Mi rispose che in quel momento sarebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia.
Ci sentimmo molte volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo insieme con alcuni incontri soprattutto con gli studenti.
Quando ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa… Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi possa guidare. Vincenzo Musacchio, giurista, professore di diritto penale, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA) e ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. 4.9.2020
L’INTERVISTA DI MINÀ A CAPONNETTO
“Il CSM, a Roma, agisce ed opera in una logica del tutto particolare, secondo me aberrante. Una logica di schieramenti in cui gli interessi delle correnti prevalgono sugli interessi generali.
Dove i rappresentanti laici sono portatori degli interessi dei rispettivi partiti, eletti come tali dal Parlamento. Tutto questo costituisce certamente una grossa palla al piede del CSM. A ciò si aggiunge l’incapacità di capire l’importanza di certe decisioni.” Il commento del dottor ANTONINO CAPONNETTO sulla bocciatura del CSM di Giovanni Falcone in sua sostituzione a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo
“Chi ci tradì?” l’ultimo dubbio di Caponnetto E’ morto ieri mattina in un ospedale fiorentino il giudice Antonino Caponnetto. Aveva 82 anni. Aveva creato e diretto per oltre quattro anni il primo pool antimafia.
Nel luglio del 1992, dopo l’omicidio di Paolo Borsellino che aveva seguito di due mesi quello di Giovanni Falcone , all’uscita della camera ardente Caponnetto aveva esclamato con voce rotta dall’emozione “Non c’è più speranza….” Quella che segue è una sintesi di una toccante intervista realizzata nel maggio del 1996 da Gianni Minà, della serie televisiva Storie da lui stesso realizzata e trasmessa da Rai Due. L’intervista è pubblicata da Sperling & Kupfer e Rai-Eri.
- GIANNI MINA’: Dottor Caponnetto, il 19 luglio 1992 quando fu ucciso Borsellino, lei era realmente convinto che non ci fosse più alcuna speranza per il nostro paese?
- ANTONINO CAPONNETTO: Non fu il 19, ma quattro giorni dopo. Era un momento particolare, di sconforto. Ero appena uscito dall’obitorio dove avevo baciato per l’ultima volta la fronte annerita di Paolo, quindi è umanamente comprensibile quel mio momento di cedimento, magari non scusabile, ma comprensibile! Forse avevo l’obbligo di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Paolo, e di dare coraggio, di infondere fiducia a tutti. Invece furono i giovani di Palermo a darmela con la loro rabbia, determinazione, fiducia, e capii quanto avevo sbagliato nel pronunciare quelle parole d sconforto e quanto mi dovevo impegnare per continuare l’opera di Giovanni e Paolo.
- GIANNI MINA’: Caponnetto, lei non era nato eroe, ma uomo mite, e invece si è trovato, di colpo, a dover essere coraggioso.
- ANTONINO CAPONNETTO: Sì, con quel tanto di paura che accompagna gli uomini in questo tipo di avventure. Ricordo ancora la risposta che diede Paolo quando gli chiesero se non avesse paura. “ Certo – disse – non sarei un essere umano se non avessi paura, però mi sforzo di avere quel tanto di coraggio che serve per superarla, per andare avanti”. Che risposta meravigliosa!
- GIANNI MINA’: Come si era svolta la sua vita prima del suo arrivo a Palermo?
- ANTONINO CAPONNETTO: Sono un siciliano uscito dalla sua terra a pochi mesi, ho vissuto tra il Veneto e la Lombardia per approdare poi, a dieci anni, in Toscana, dove ho vissuto trent’anni a Pistoia e poi a Firenze.
- GIANNI MINA’: E perché invio la domanda per concorrere alla carica di consigliere istruttorio, dopo l’assassinio di Chinnici?
- ANTONINO CAPONNETTO: Perché sono un siciliano, e tra un siciliano e la sua terra c’è un cordone ombelicale che non si spezza mai! Capii che dovevo fare qualcosa per aiutare a liberare la mia terra dall’oppressione della mafia, per restituire dignità e libertà ai miei conterranei e capii che dovevo prendere il posto di Rocco Chinnici. Non dissi a mia moglie che mandavo quella domanda perché n on pensavo di avere molte speranze di successo. Fu uno sbaglio non dirglielo, ma con il tempo mi ha perdonato…(….)
- GIANNI MINA’: Di che cosa fu consapevole subito mettendo piede nel tribunale di Palermo?
- ANTONINO CAPONNETTO: Sicuramente di non trovarmi in un ambiente favorevole. Anche se ero siciliano , per loro ero comunque uno “straniero”che veniva a togliere lavoro ai siciliani, e ai palermitani….(…)
- GIANNI MINA’: Sicuramente c’erano dei traditori nei gangli vitali dello Stato, e anche negli uffici giudiziari di Palermo perché altrimenti non sarebbe stato possibile far saltare in aria Chinnici e più tardi Falcone e Borsellino. C’è la certezza che qualcuno ha tradito. Ma appena la giustizia si avvicina a questo sottobosco politico-amministrativo sembra che compia un delitto, perché? Perché sorgono mille ostacoli, mille difficoltà dovute forse, e tuttora, a “coperture” anche se si sta cercando di far luce su tutto questo.
- GIANNI MINA’: Lei ha mai conosciuto Contrada?
- ANTONINO CAPONNETTO: Sì, ma non ho mai avuto rapporti di lavoro con lui perché non aveva più incarichi operativi quando sono arrivato a Palermo nel 1983.
- GIANNI MINA’: Come seppe dell’attentato a Falcone?
- ANTONINO CAPONNETTO: Dalla televisione, e mi sentii morire.
- GIANNI MINA’: Parlò con Borsellino quel giorno?
- ANTONINO CAPONNETTO: Lo cercai sul cellulare e inizialmente non riuscii a rintracciarlo, quando finalmente gli potei parlare mi disse che Giovanni era appena morto tra le sue braccia. Mi cadde la cornetta di mano, e non riuscii più a parlare, mi sentii mancare le forze e persi i sensi… non ricordo più altro di quel momento.
- GIANNI MINA’: Falcone e Borsellino sono stati per lei figli o fratelli?
- ANTONINO CAPONNETTO: Sono stati tutte queste cose insieme, figli, fratelli, amici, la parte più importante della mia vita, il mio punto di riferimento più saldo.
- GIANNI MINA’: Lei mi ha detto “Borsellino sapeva di morire”; in che senso sapeva di morire?
- ANTONINO CAPONNETTO: Ha sempre vissuto tra un possibile attentato e un altro. Dopo la morte di Falcone sapeva di essere ormai nel mirino. Alcuni giorni prima dell’attentato contro di lui aveva avuto la notizia certa che era arrivato del tritolo a Palermo e la prima cosa che aveva fatto era telefonare al suo confessore per fare la comunione: voleva essere pronto ad affrontare il grande passo in qualsiasi momento.
- GIANNI MINA’: Che cosa può fare un giudice quando ha la certezza che è arrivato il tritolo per farlo saltare in aria?
- ANTONINO CAPONNETTO: Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un’altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili.
- GIANNI MINA’: Ma non c’era nessuno che lo potesse aiutare a individuare il tritolo, nessuno che lo potesse aiutare in qualche modo?
- ANTONINO CAPONNETTO: Sì, Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell’attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l’abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto nei suoi confronti disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze…(…)
- GIANNI MINA’: Perché decise di entrare in un contesto così difficile, scivoloso, costituendo il pool del quale avrebbero fatto parte Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta?
- ANTONINO CAPONNETTO: Perché non era possibile condurre una lotta seria, contro un’associazione così ben organizzata come la mafia, se non coordinandosi. C’era bisogno di riunire le forze, di non disperdere le energie, di un pool affiatato, un gruppo di lavoro rigoroso che si occupasse soltanto dei processi di mafia. Avevo già coltivato questa idea a Firenze e chiesi consiglio a Caselli, che era forte di un’esperienza simile a Torino contro il terrorismo, e a Imposimato che la stessa esperienza l’aveva vissuta a Roma.
- GIANNI MINA’: Come scelse i suoi collaboratori?
- ANTONINO CAPONNETTO: Fu una scelta obbligata: Falcone lavorava già li e aveva istruito il processo Spatola. Di Borsellino avevo sentito parlare perché si era interessato dell’omicidio del commissario Basile…
- GIANNI MINA’: Parliamo dell’operazione San Michele, quella vi mise davvero in prima linea e certamente vi causò notevoli diffidenze nel sottobosco che fiancheggiava la mafia. Era sabato 29 settembre 1984, Tommaso Buscetta divenne un collaboratore di giustizia. Non era mai accaduto prima che un boss del suo livello accettasse di fare delle rivelazioni. Parlò di quindici anni di sangue, di oltre centoventi omicidi. La maxi-retata, coinvolse 366 persone, affiorò perla prima volta i nome di Vito Ciancimino. Buscetta parlò di Liggio, dei Greco, dell’omicidio Scaglione, rivelò la struttura delle cosche, i diversi mandamenti di Palermo, la “commissione”. Buscetta scoperchiò una realtà drammatica. Soprattutto ci permise – aprendo la porta dall’interno – di entrare nei meccanismi, nei misfatti di Cosa Nostra e non so a che punto sarebbero oggi le indagini senza le rivelazioni sue e di Contorno. Il ricorso ai collaboratori era l’unico modo per entrare in una struttura segreta per statuto, verticistica: senza di loro non saremmo mai progrediti (….)
- GIANNI MINA’: Chi decise di smantellare il pool antimafia?
ANTONINO CAPONNETTO: Non so se fu una decisione meditata, o il frutto di una sintesi su come affrontare la lotta alla mafia. So che io avevo chiesto di essere trasferito a Firenze dopo quattro anni e quattro mesi di vita in caserma soltanto per lasciare il posto a Giovanni che era l’unico per competenza, prestigio internazionale, conoscenza delle carte, legittimato a succedermi. Ma le cose andarono diversamente. - GIANNI MINA’: Chi bocciò Falcone?
- ANTONINO CAPONNETTO: Il Csm
- GIANNI MINA’: Nelle persone di?
- ANTONINO CAPONNETTO: Mi porto sempre dietro l’appuntino di Falcone. Da un lato aveva scritto i nomi dei presunti favorevoli, dall’altra quella dei quali dava per scontata l’opposizione. Il conteggio era a suo favore, poi ci fu quel tradimento avvenuto all’ultimo momento per cui dovette cancellare due nomi su cui contava e trasferirli nella colonna a lui contraria.
- GIANNI MINA’: Me li può fare? La storia in fondo si fa anche con gli errori. Noi accettiamo la buona fede, ma vogliamo sapere chi non volle Falcone e preferì invece Meli a Palermo.
- ANTONINO CAPONNETTO: Oggi preferisco sorvolare, la gente li conosce, sono descritti in tanti libri, in tanti documenti. Borsellino li definì “giuda”, quando commemorò Falcone nella biblioteca comunale di Palermo, nel luglio del 1993, dopo l’eccidio di Capaci: “Nel gennaio del 1998”, disse quella sera Borsellino, “quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere a Caponnetto, il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi anni della sua vita professionale a Palermo, ma quest’uomo rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita non sopportabile da nessuno, di morire a Palermo, perché non avrebbe superato lo stress fisico a cui si sottoponeva. A un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pur convinti del pericolo che si correva, a convincerlo, riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo; Falcone concorse, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli.”
- GIANNI MINA’: Non so se – come disse Borsellino – siano stati dei giuda, so però che chi non ha votato Falcone dopo avergli promesso la sua adesione è stato Vincenzo Geraci e so che Brancaccio, alle otto, per un impegno familiare, lasciò il Consiglio senza votare, e certamente una responsabilità morale in tutto questo c’è. Mi ricordo che il 14 marzo 1988, quando Antonino Meli prese il suo posto, negli occhi di Falcone si distinguevano chiaramente delle lacrime. Chi ha distrutto il pool antimafia, Meli o Giammanco?
- ANTONINO CAPONNETTO: Ognuno ha fatto la sua parte.Meli ha contribuito ad anticipare la chiusura dell’Ufficio istruzione, non coordinando più le indagini, esautorando Falcone, emarginandolo, smembrando i processi di mafia e vanificando tutto il lavoro fatto. Giammanco ha fatto la sua parte presso la procura della Repubblica,e ha emarginato anche lui Giovanni, con anticamere imposte, umiliazioni varie che lo portarono a Roma ad accettare un incarico ministeriale per fuggire da questa tagliola palermitana. Ci sono alcune delle poche pagine rimaste del diario elettronico di Falcone che descrivono due sue giornate presso la procura della Repubblica, una vita di amarezza, di delegittimazioni continue (…)
- GIANNI MINA’: In un’intervista del 1986 Falcone afferma: “Le confessioni dei collaboratori di giustizia hanno consentito un importante riscontro a risultati probatori già raggiunti e una lettura interna al fenomeno mafioso. Il fenomeno della dissociazione è indubbiamente utile e a mio avviso dovrebbe essere valutato in maniera adeguata e soprattutto regolamentato”.
- ANTONINO CAPONNETTO: Molti dimenticano che senza la morte di Giovanni e Paolo, il parlamento non avrebbe mai approvato la legge di tutela dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari. E’, quindi, alla loro morte che dobbiamo questi strumenti decisivi perla lotta alla mafia.
- GIANNI MINA’: Chi tradì, Caponnetto? Chi tradì nei servizi segreti italiani? Chi comunicò ogni passo della vita di Falcone per poterlo far saltare in aria?
- ANTONINO CAPONNETTO: Vorrei saperlo, Minà. Vorrei saperlo prima di chiudere gli occhi, ma temo che non lo saprò mai. “Il Manifesto”, 07/12/2002
|
ANTONINO CAPONNETTO
Riappropriatevi del vostro passato: del vostro passato di fierezza, del vostro passato di cultura, del vostro passato di civiltà. E fatelo diventare avvenire, fatelo diventare avvenire per tutti voi. Dovete crederci, dovete crederci incrollabilmente. È questo lo spirito con cui dovete affrontare gli anni meravigliosi della vostra giovinezza e con cui dovrete affrontare, poi, anche le difficoltà della vita. Credere in questi valori: credere in voi stessi, credere in voi quali portatori di valori autentici. I valori che non cambiano mai, i valori che finiranno col prevalere sui disvalori della illegalità, sui disvalori della ‘ndrangheta, sui disvalori della mafia, sui disvalori della camorra, sui disvalori della sacra corona unita, sui disvalori della criminalità politica e affaristica. Siete voi che dovete costruite il vostro avvenire. Fatelo. Fatelo con decisione, fatelo con fermezza, fatelo con serenità, ma fatelo anche con amore e con speranza.
- La mafia ha più paura della scuola che dei giudici perché prospera sull’ignoranza della gente e sui bisogni delle famiglie.
- E una persona non può ottenere la cittadinanza americana se non sostiene un esame approfondito sulla sua conoscenza della Costituzione… Da noi, invece, la Costituzione è un oggetto misterioso. Qualcosa di cui si sente parlare ogni tanto… È nata sulla base della Resistenza, che i giovani oggi non conoscono più, perché nelle scuole non insegnano queste cose. Ed ha fuso tre esperienze che avevano fatto fronte comune nella Resistenza: quella sociale cattolica, quella liberale e quella socialista marxista
- Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova Resistenza, la Resistenza dei valori, la Resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi! L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”. Rifiutate i compromessi. Siate intransigenti sui valori. Convincete chi sbaglia. Rifiutate il metodo del “saperci fare”, questo vezzo italiano della furbizia. Non chiedete mai favori o raccomandazioni. La Costituzione e le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere. Chiedeteli, esigeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Dsorreggere tutta la vostra vita. Abbiate sempre rispetto della vostra dignità e difendetela. E votate in modo consapevole, quando sarà il vostro momento. Votate in modo consapevole, non per ottenerne dei vantaggi, e tanto meno per fare dei favori o per ricambiare dei favori.…
- Rifiutate i compromessi. Siate intransigenti sui valori.
- Convincete chi sbaglia. Rifiutate il metodo del “saperci fare”, questo vezzo italiano della furbizia.
- Non chiedete mai favori o raccomandazioni.
- La Costituzione e le leggi vi accordano dei diritti, sappiateli esigere. Chiedeteli, esigeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Dovete esigerli!
- Questo è un imperativo che deve sorreggere tutta la vostra vita.
- Abbiate sempre rispetto della vostra dignità e difendetela. E votate in modo consapevole, quando sarà il vostro momento, non per ottenere dei vantaggi e tanto meno per fare favori o per ricambiare favori.
FONDAZIONE ANTONINO CAPONNETTO