1 agosto 1993 Quei «trovarobe» di cosa nostra

 

Così sembra di capire dai risultati delle indagini sulla strage di via D’Amelio che – dopo aver incastrato Vincenzo Scarantino, l’uomo a cui la mafia aveva affidato il compito di trovare l’auto da imbottire di tritolo – ieri hanno aggiunto un tassello, con l’arresto del carrozziere indicato come il «fornitore» delle targhe false.
C’è una rete logistica in appoggio alla direzione strategica di Cosa nostra. Una rete grande quanto il territorio governato dalle «famiglie». E’ questa la vera forza della mafia.  
Ogni azione decisa dalla «cupola», quando passa alla fase esecutiva viene affidata a poche persone che da quel momento ne sono gli unici responsabili. E comincia la paziente opera di tessitura di una tela complicatissima, fatta col sistema delle scatole cinesi per rendere difficoltosi intuizioni e collegamenti degli investigatori. pTanti compartimenti stagni, indipendenti l’uno dall’altro. Il killer non sa da dove viene la pistola, il fornitore dell’arma non chiede a cosa dovrà servire. Chi dà la macchina non deve assicurare le targhe. E così via. Il «sistema» è sempre lo stesso, possono cambiare gli attori ma il copione è uguale, specialmente se ben collaudato.

Il pentito Rosario Spatola, per esempio, ha spiegato bene come fu organizzato l’agguato che costò la vita al giudice Ciaccio Montalto. E vale la pena di ricordare proprio il capitolo che riguardava l’auto. Il compito di fornirla venne affidato alla «famiglia» di Campobello.
Si trovò chi fece avere le chiavi di un’Alfasud appena venduta ad un giovane. La macchina venne prelevata senza problemi e il proprietario ne denunciò il furto, affermando di averla lasciata posteggiata e regolarmente chiusa. Accadde, però, un imprevisto. I killer, dopo aver sparato su Ciaccio Montalto, abbandonarono l’Alfasud con le chiavi inserite nel quadro. Fu messa in dubbio la versione data dal proprietario, che venne sospettato di aver imbrogliato le carte. Interrogato nuovamente, il giovane corresse il tiro: «E’ vero, c’erano le chiavi, ma io non l’ho detto subito perché avevo paura che l’assicurazione non mi pagasse». Possibile? Gli investigatori non hanno potuto provarlo, ma le cose sembra siano andate diversamente. L’Alfasud era stata lasciata chiusa: chi la rubò utilizzò le doppie chiavi gentilmente «messe a disposizione» dal commerciante che l’aveva venduta al giovane. Il sospetto è che gli fosse stata fatta «un’offerta che non poteva rifiutare». Quando quelle chiavi furono trovate appese al cruscotto, qualcuno pensò di «convincere» il proprietario ad inventarsi la seconda versione. Insomma, se mafia chiede è difficile sfuggire. A Palermo un posteggiatore preferì finire in cella piuttosto che ammettere di aver chiuso un occhio mentre due giovanotti portavano via una Bmw precedentemente indicata, con «preghiera di lasciarla aperta con chiavi inserite». E la musica non cambia se le necessità sono altre. Le armi, per esempio. Ogni «famiglia» dispone di un’armeria. Durante la guerra di mafia ne fu scoperta una sotto i piloni della Circonvallazione, nel tratto che attraversa i quartieri di Brancaccio, Ciaculli e San Ciro Maredolce. Il nascondiglio era ricavato da una «nicchia» naturale del cemento armato e si trovava proprio a due passi dalla villa di Salvatore Contorno. Sarebbe stato proprio lui, una volta pentitosi, a spiegare che quella era l’armeria della «famiglia». Ma nessuno conosceva il nascondiglio, tranne il boss e il «responsabile del settore difesa». Solo al momento dell’emergenza l’armiere era autorizzato a distribuire ai «ragazzi» pistole e fucili. Ma come si fa a trovare le armi? Si può rapinare un negozio, si può costringere il titolare a simulare un furto. Spesso si utilizzano i collezionisti e i possessori di porto d’armi che possono tenere in casa fino a due pistole e sei fucili. Se sono fidati, possono simulare di aver subito un furto: tanto la «famiglia» gli risarcirà il danno. Un «amico» per ogni necessità e il gioco è fatto. Un documento falso? Semplice: sentite come fecero qualche tempo fa a Palermo. Dall’anagrafe «uscirono» diecimila carte d’identità in bianco, furono portate a Roma e consegnate a un malavitoso vicino alla mafia, Giorgio Graziano detto «Dracula». Lui trovò la tipografia che «lavorava di fino», ha raccontato Rosario Spatola. «Anche la carta d’identità con cui giravo – ha detto il pentito – proveniva da quello stock. Era intestata a tale Luca Nicotra, celibe. Gliel’avevo chiesta io, la qualifica di scapolo. C’era un’entraineuse che non ci stava perché sospettava che fossi sposato. Con quel documento l’ho convinta». Quando può, mamma mafia ti accontenta. Anche nei capricci più bizzarri. Francesco La Licata Quando una donna si negò a Spatola perché lui era sposato la «famiglia» gli regalò una carta d’identità da cui risultava scapolo I trovarobe della mafia fornirono documenti anche a Rosario Spatola di Francesco La Licata