AUDIO 23.1.2024
AUDIO 1.2.2024
«MAFIA E APPALTI, L’EX PM NATOLI: “BORSELLINO SAPEVA DELL’ARCHIVIAZIONE”»
Via d’Amelio, il fragile potere della memoria dei magistrati in audizione in Antimafia
Seduta n. 28 di Martedì 23 gennaio 2024 TESTO DEL RESOCONTO STENOGRAFICO
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO
La seduta inizia alle 12.10.
Audizione di Gioacchino Natoli.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Gioacchino Natoli, che ringrazio per la disponibilità.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi e in tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Prima di dare la parola al dottor Natoli mi sembra corretto dare a tutti i colleghi alcune indicazioni sul motivo di questa audizione.
Il dottor Natoli ha chiesto di essere audito per chiarire alcune circostanze emerse nei lavori della Commissione, in particolare, nel corso di alcune audizioni, è stata fatta menzione di un provvedimento sottoscritto dal dottor Natoli, nel giugno del 1992, con il quale veniva dato l’ordine di distruggere nastri e brogliacci delle intercettazioni svolte in un procedimento proveniente da Massa Carrara.
Effettivamente erano stati trasmessi una serie di atti relativi a indagini coordinate dal dottor Lama, che abbiamo sentito la settimana scorsa, della procura di Massa Carrara, che ad avviso di quest’ultimo rendevano necessario investigare, in collegamento con quell’ufficio, sull’attività del mandamento mafioso di Uditore-Passo di Rigano sul ruolo dei fratelli Buscemi e sulle cointeressenze e gli anomali rapporti professionali di costoro e delle società a loro riferibili con società del gruppo Ferruzzi.
Ne era derivata l’iscrizione di un fascicolo per associazione mafiosa e riciclaggio nel quale erano state avviate dal dottor Natoli le intercettazioni di esponenti della famiglia Buscemi Bonura e di società palermitane del gruppo Ferruzzi di cui in seguito, una volta archiviato il procedimento, era stata disposta la distruzione.
Il dottor Natoli ha fatto pervenire alla Commissione un’attestazione della procura di Palermo dalla quale si evince che, nonostante l’effettiva emissione di quell’ordinanza a sua firma, quelle bobine, cioè i nastri, e quei brogliacci, per circostanze che ovviamente in caso chiarirà il dottor Natoli, non sono stati distrutti, ma dovrebbero essere conservati negli archivi della procura.
Prima che l’audizione abbia inizio devo informare la Commissione che, a seguito di una specifica richiesta, la procura di Palermo ha comunicato che effettivamente i nastri di cui era stata disposta la distruzione erano conservati negli archivi dell’ufficio e che invece, nonostante le approfondite ricerche, non è stato possibile reperire tre dei quattro brogliacci riguardanti quelle intercettazioni.
Prego, dottor Natoli, tanto le dovevamo, a lei la parola per la relazione.
GIOACCHINO NATOLI. Grazie, presidente. Grazie, signori commissari, per questa opportunità che mi viene offerta di fornire un resoconto ordinato degli accadimenti, come risulta dai documenti ufficiali dell’epoca, rispetto ai fatti che lei ha sinteticamente riassunto, e non già le ricostruzioni inesatte se non oggettivamente false in alcuni passaggi che sono state proposte in precedenza rispetto alla mia audizione.
Devo premettere che sono venuto a conoscenza delle gravissime insinuazioni e delle accuse che sono state mosse nei miei confronti solo a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di stampa, che richiamavano le dichiarazioni rese davanti a codesta Commissione dall’avvocato Fabio Trizzino dal 27 settembre al 24 ottobre 2023.
L’enorme sorpresa per le accuse rivoltemi di sostanziale infedeltà, se non addirittura più gravi, è dovuta non tanto al fatto che mai nei 31 anni trascorsi da quei fatti, né prima di allora, è stato da alcuno anche solo ipotizzata o azzardata l’idea che la mia attività di magistrato fosse stata ispirata a principi e condotte che non fossero di correttezza, senso di giustizia e rispetto della legalità. Ma, soprattutto, perché esse si fondano su una ricostruzione degli avvenimenti reali distorta e del tutto destituita di fondamento, così come mi propongo di documentare a codesta onorevole Commissione.
Posso affermare ciò perché è cosa non dubbia che durante alcune audizioni che hanno preceduto la mia sia stato adoperato ripetutamente un metodo di schiacciamento delle conoscenze, di anticipazione delle conoscenze, senza rispettare la cronologia dei fatti processuali e degli avvenimenti storici. E così talune acquisizioni probatorie realizzatesi soltanto a partire dall’11 luglio 1997, giorno dell’inizio della collaborazione di Angelo Siino, del quale avrete già sentito parlare, sono state presentate come se fossero già conosciute dai magistrati o da altri nel 1991, cioè all’epoca dei fatti descritti nel rapporto Mafia-Appalti del ROS presentato il 16 febbraio 1991;. oppure, come nel caso di Massa Carrara del dottor Lama, sono stati narrati come fatti veri quelle che erano soltanto mere ipotesi investigative se non addirittura dei semplici sospetti.
Tanto è vero che tali ipotesi investigative non si sono mai tradotte né in una doverosa iscrizione nel registro degli indagati almeno dei ben noti fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, i quali erano già imputati a Palermo da molti anni e Salvatore, già condannato fino alla Cassazione, diventerà definitivo il 30 gennaio 1992, né nella formulazione di ipotesi di reato su cui investigare, come il codice di procedura penale prescrive obbligatoriamente a tutela dei diritti degli indagati per fare rispettare i termini massimi delle indagini. Infatti il fascicolo n. 697/90 RGNR, aperto a Massa Carrara, è sempre rimasto a carico di ignoti e senza reati ipotizzati, come dimostrato dal documento 17 rilasciatomi dalla procura di Lucca.
Questa operazione di oggettiva destrutturazione storica si è tradotta in una sostanziale immutatio veri, nel senso di dare per conosciuti nel 1991 o nel giugno-luglio 1992 fatti, avvenimenti e ricostruzioni di collaboratori che si sarebbero processualmente verificati soltanto dopo alcuni anni. Il che ha comportato, in moltissimi passaggi dell’audizione dell’avvocato Trizzino, un’oggettiva distorsione della verità, come cercherò di dimostrare in questa audizione.
Due esempi su tutti che dimostrano l’oggettiva pericolosità di dare per vere delle mere ipotesi di indagine o di spostare nel tempo, retrodatandole, portando il futuro nel passato, determinate conoscenze investigative.
Il primo. Si consideri l’importanza che si pretende di attribuire alle invero succinte dichiarazioni rilasciate da Leonardo Messina il primo luglio 1992 al compianto dottor Paolo Borsellino: «La Calcestruzzi è in mano a Riina». E su questa frase, che è divenuta tralatizia nella narrazione di molti lettori disattenti, va sottolineato subito che la sentenza del tribunale di Palermo, sezione VI, del 2 luglio 2002, che vi ho portato, divenuta esecutiva per Buscemi Antonino il 25 novembre 2002, quindi qualche mese dopo, ha affermato in modo definitivo che: «nessun elemento è stato acquisito al dibattimento idoneo a dimostrare questo tema di prova, al di fuori delle generiche indicazioni per cui la società ravennate sarebbe stata Ancora: «nulla di significativo è emerso nei confronti del Buscemi rispetto a quanto valutato nella precedente sentenza del tribunale di Palermo del Maxi processo quater del 31 dicembre 1996, su cui ritornerò, che lo aveva condannato ad anni otto di reclusione per partecipazione semplice a cosa nostra». Ancora: «il ruolo attribuitogli da Siino di organizzatore della spartizione degli appalti è risultato incompatibile», cioè non riscontrato, «con i fatti accertati in dibattimento».
Quindi: «al Buscemi Antonino resta il ruolo di mediatore nella stessa vicenda del “patto del tavolino”, in relazione alla quale ha agito in nome e per conto di Salvatore Riina».
È il documento 25 che depositerò agli atti.
Queste, dunque, sono state le valutazioni corrette dei giudici nei processi celebrati dal 1996 in poi, allorché hanno avuto il panorama completo delle conoscenze fornite da molteplici collaboratori di fede corleonese – Siino, Brusca, Salvatore Cucuzza, Salvatore Cancemi, Francesco Paolo Anzelmo, Vincenzo Sinacori, Antonino Giuffrè, Giusto Di Natale e altri ancora – che sono risultate ben diverse dalle suggestioni, dalle ipotesi e dai sospetti avanzati nel 1991.
Quanto allo schiacciamento delle conoscenze, secondo la ricostruzione proposta dall’avvocato Trizzino, tutte le preziose conoscenze sul sistema Mafia-Appalti avutesi esclusivamente a partire dalla fondamentale collaborazione di Siino del luglio 1997 e dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca del periodo 1998-1999, cioè quando Brusca comincia a diventare effettivamente attendibile, avrebbero dovuto essere conosciute e valorizzate dai pubblici ministeri della procura di Palermo, Lo Forte e Scarpinato, in anticipo rispetto alla storia, cioè al momento della richiesta di archiviazione da loro depositata il 13 luglio 1992; quando, a dimostrazione della grave capziosità di tale fallace metodo argomentativo, il famoso «uomo con la S, l’uomo che conta, quello che comanda, la persona ad alto livello vicina proprio al nucleo centrale» veniva ancora identificato, nel rapporto del ROS, in Angelo Siino mentre, come avremmo appreso a seguito del processo celebratosi dopo il 1997, parlo del cosiddetto processo del tavolino in cui i pubblici ministeri sono stati Maurizio De Lucia e Gaspare Sturzo, si venne ad accertare che si trattava in realtà dell’ingegner Filippo Salamone, titolare della Impresem di Agrigento, punto di raccordo diverso e ben più elevato tra imprenditori, politici e mafiosi.
Pertanto, senza tema di errore, deve affermarsi che fino a prima della collaborazione di Siino, dopo la sua seconda cattura e quindi l’ordinanza di custodia cautelare del 7 luglio 1997, il perverso e sofisticato meccanismo criminale cosiddetto Mafia-Appalti era stato soltanto intuito, sfiorato, accennato o intravisto dagli inquirenti, ma non se ne conoscevano struttura, articolazioni e le molteplici sfumature descritte in dettaglio soltanto nelle sentenze degli anni Duemila e seguenti, tra cui ad esempio quella del 2 luglio 2002 alla quale ho fatto cenno.
E attenzione: questa affermazione che vi sto facendo non è mia, ma la leggiamo nella richiesta di archiviazione della procura di Caltanissetta, i cosiddetti mandanti occulti bis del 9 giugno 2003, procedimento n. 4645/2000 RGNR, condivisa in toto dal GIP con provvedimento-stampone del 19 settembre 2003 e ampiamente citata dall’avvocato Trizzino, da cui si ricava appunto che: «sul tema mafia-appalti è necessario prendere le mosse dalle dichiarazioni di Angelo Siino riportate nella sentenza della corte d’appello di Caltanissetta del 7 aprile 2000 che si riferiscono all’interrogatorio dell’udienza del 17 novembre 1999».
Sempre dallo stesso documento: «successivamente al 1996 si verifica la grande svolta nello svelamento degli intrecci sugli appalti, attraverso il pentimento di Angelo Siino, il quale ricostruisce più dettagliatamente le connessioni solo in parte emerse, a livello giudiziario, negli anni precedenti», con l’errata identificazione del Siino anziché del ben più importante ingegner Filippo Salamone, come riportato a pagina 6 della richiesta di archiviazione.
E in effetti, a riprova di quanto detto, solo le indagini conseguenti alla collaborazione del Siino del luglio 1997 permisero alla procura di Palermo, dopo un’ordinanza di custodia cautelare del maggio 1993 di cui parleremo, di presentare finalmente al GIP una solida richiesta di custodia cautelare il 4 settembre 1997 nei confronti di: Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Panzavolta Lorenzo e altri ancora, per i reati di associazione mafiosa, di articolo 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, quindi l’interposizione fittizia di persone e sostanzialmente riciclaggio, aggravati dall’articolo 7 e altri di minore rilevanza.
Orbene, questa realtà processuale e storica è stata totalmente pretermessa o minus rappresentata dall’avvocato Trizzino durante la sua audizione, in cui egli ha pure omesso di valorizzare, sia pure con un semplice accenno, il passaggio di fase che si verificò nella storia giudiziaria palermitana dopo la strage di via D’Amelio, con il fiorire dei primi collaboratori di fede corleonese, quali: Giuseppe Marchese, il primo settembre 1992; Giovanni Drago, suo cugino, il 16 dicembre 1992; Baldassare Di Maggio, l’8 gennaio 1993; Salvatore Cancemi, il 23 giugno 1993, per limitarci a pochissimi nomi.
Costoro hanno dato un formidabile contributo alla migliore e corretta conoscenza anche del «sistema mafia-appalti», facendola passare dalla fase embrionale delle mere ipotesi a quella, ben più efficace, delle evidenze probatorie utilizzabili nei processi a sostegno di valide ipotesi accusatorie per ottenere, come in realtà avvenne, corrette sentenze di condanna che ressero al vaglio dei giudizi successivi.
Questi due esempi, tra i molti che si potrebbero fare, dimostrano la necessità di procedere con ordine e rigore nella ricostruzione di fatti storici e processuali complessi, come quelli che stiamo commentando, perché l’anticipazione delle conoscenze, lo schiacciamento delle conoscenze in capo ai magistrati oggetto di volta in volta di critiche o addirittura di gravissime accuse, per il proprio operato, con l’uso di una sorta di macchina del tempo che va a piacimento dal futuro al passato, la si può immaginare in altri scenari, ma non la si può ammettere in una sede così sacra, così importante per la democrazia parlamentare, come quella nella quale ho l’onore oggi di parlare.
Passiamo alle accuse mossemi dall’avvocato Trizzino che hanno spinto la mia richiesta di essere audito. Sostanzialmente sapete in che passaggi fondamentali si è sviluppata. La procura di Massa Carrara, nella persona del sostituto Augusto Lama, a partire dal 1990 stava svolgendo delle indagini sui distretti marmiferi della zona da cui sarebbe emersa la commissione di reati gravissimi da parte, tra gli altri, del noto Antonino Buscemi, già imputato a Palermo in una tranche del Maxi processo sin dal 1988, in concorso con i vertici della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna, appartenente al gruppo Ferruzzi-Gardini.
Abbiamo già visto che la sentenza del 2002 fa giustizia di questa accusa ritenendola insussistente perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, perché queste asserite condotte del 1984-1985 sono ben anteriori all’ipotesi di reato del giugno del 1992.
Tale procedimento, sempre secondo le accuse dell’avvocato Trizzino, sarebbe stato sostanzialmente bloccato. Testualmente: «Raul Gardini con una telefonata blocca Lama», pagina del resoconto di questa sua audizione.
Oppure, altra frase: «Augusto Lama su una telefonata di Raul Gardini viene allontanato dal Ministero, viene messo sotto procedimento disciplinare», pagina 22 del resoconto relativo all’audizione del 6 ottobre). Grazie a che cosa? All’intervento dell’allora Ministro della giustizia, Claudio Martelli, fascicolo poi trasmesso a Palermo.
Sempre secondo l’avvocato Trizzino, all’interno del fascicolo di indagine inviato a Palermo era contenuta, tra l’altro, una serie di intercettazioni effettuate su impulso della procura della Repubblica di Massa Carrara, da cui sarebbe emersa la prova del connubio criminoso e del rapporto tra i vertici della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna e la famiglia mafiosa dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi.
Per sgombrare il campo da una sorta di mitologia o di narrazione mitica che si è formata intorno al fascicolo di indagine inviato a Palermo, le carte sono queste, sono soltanto queste, costituite in larga parte da fotocopie di ricognizioni che la Guardia di finanza – GICO, II sezione di Palermo – aveva fatto sui registri della camera di commercio, sui registri immobiliari, sul PRA e sul registro dei natanti. La richiesta di collegamento di indagini sono queste quattro paginette del dottor Lama che già nell’oggetto richiede intercettazione telefonica e spiegherò che cosa significava a Palermo una richiesta di questo tipo.
Ricordo ancora una volta la sentenza, l’unica peraltro passata in giudicato per Buscemi sin dal novembre 2002, che esclude qualsiasi collegamento. Lo abbiamo già accennato, ma lascerò agli atti la sentenza in tutte le sue declinazioni.
Il primo giugno 1992, sempre secondo l’assunto accusatorio dell’avvocato Trizzino, chi vi parla richiese al GIP l’archiviazione del fascicolo contenente l’esito negativo delle intercettazioni disposte in base a questo collegamento di indagini richiesto dal dottor Lama e, inspiegabilmente, sempre io, in data 25 giugno 1992, chiesi la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei relativi brogliacci, tanto che – sempre a dire dell’avvocato Trizzino – da quel momento non sarebbe stato più possibile sapere cosa contenessero realmente dette registrazioni, la cui estrema importanza il dottor Lama aveva affermato in diverse occasioni.
La finalità di tale smagnetizzazione – qua la gravità delle accuse – sarebbe stata quella di impedire da parte mia al dottor Borsellino di conoscerne il contenuto, tanto che si è giunti in audizione ad affermare che: «se lo stesso Borsellino non fosse stato ucciso avrebbe certamente chiesto conto di tale provvedimento» a chi vi parla, oppure che: «chi ha disposto la distruzione», cioè io, «avrebbe dovuto giustificarsi di fronte a Borsellino».
Secondo l’avvocato Trizzino la smagnetizzazione avrebbe riguardato gli originali delle intercettazioni provenienti da Massa Carrara, delle quali non c’è traccia, come documentalmente vi proverò attraverso una nota del 17 settembre 1991 redatta dal mai troppo ringraziato da parte mia maggiore della Guardia di finanza, Roberto Rossetto, che dettagliatamente dice che cosa mi consegna, cioè delle copie di atti di Massa Carrara e non parla mai di alcuna intercettazione e meno che mai di nastri o di bobina.
Queste affermazioni denigratorie, tutte clamorosamente destituite di fondamento, attengono a fatti il cui accertamento ritengo che risulti indispensabile per il lavoro di codesta Commissione e da ciò è derivata quindi principalmente la mia richiesta di essere ascoltato.
Di seguito verranno ripercorsi i singoli accadimenti, cercando di seguire un ordine cronologico. In parte l’ho anticipato e ve lo ripropongo, questi sono gli atti provenienti da Carrara. Azzardo un’ipotesi: questa stessa nota non è stata scritta dall’ottimo collega Augusto Lama perché dubito che le sue forme espressive forbite si ritrovino in questa nota che contiene anche degli strafalcioni.
Sostanzialmente si dice che con il prezioso concorso dell’Alto Commissario per il coordinamento alla lotta alla delinquenza mafiosa e del servizio centrale operativo, per quanto concerne l’audizione del pentito Antonino Calderone.
Questo è il motivo principale per il quale, presumo, l’allora procuratore di Palermo, Piero Giammanco, ritiene di designare i colleghi Sciacchitano, che era un collega della procura anziano, Natoli e il pool cosiddetto dell’antimafia della procura. Perché io già mi ero occupato da giudice istruttore del pool dell’ufficio istruzione di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Peppino Di Lello, De Francisci ed io, del mandato di cattura del 10 marzo 1988 nei confronti di Antonino Buscemi e di altri 159 imputati asseritamente mafiosi, mandato di cattura nato dalle dichiarazioni di Antonino Calderone che resistette purtroppo al vaglio del tribunale del riesame soltanto per quindici giorni perché poi i giudici del tribunale della libertà ritennero che quelle indicazioni di Calderone, che pure si coniugavano con precedenti dichiarazioni di Buscetta, di Salvatore Contorno e di Francesco Marino Mannoia, non avevano ricevuto sufficienti riscontri e quindi il mandato di cattura venne annullato.
Antonino Buscemi rimase chiaramente imputato nel cosiddetto Maxi processo quater che, come anticipavo, sarebbe stato esitato con il rinvio a giudizio nel 1994 dal giudice istruttore Guarnotta, con requisitoria scritta dalla procura, perché io nel frattempo ero passato in procura, scritta anche da chi vi parla. Poi il 31 dicembre del 1996 il tribunale di Palermo, sezione V, presidente Saguto, lo avrebbe condannato a otto anni di reclusione per partecipazione semplice, la stessa aggravante del comma 2 del 416-bis non venne mai riconosciuta.
In relazione a questo in cui si fanno delle ipotesi, oltre a ripercorrere evidentemente fatti che già Palermo stava indagando, cioè gli omicidi di mafia da Salvatore Inzerillo in poi, in cui sarebbero risultati coinvolti lo stesso Salvatore Buscemi e Nino Buscemi, poi Nino Buscemi sarebbe stato assolto da questa stessa accusa, erano trattate in altro contesto. Erano trattati anche nel contesto del Maxi processo quater, ma delle dichiarazioni che ad esempio poi avremmo ricevuto dopo Gaspare Mutolo, dopo Pino Marchese, Giovanni Drago e tutti gli altri, per imputare finalmente gli esecutori materiali degli omicidi della seconda guerra di mafia, Stefano Bontate, Totuccio Inzerillo e gli altri a seguire, ma sarebbero state acquisizioni degli anni successivi.
Si accennava a una ipotesi secondo la quale c’era stato l’interessamento della Calcestruzzi Ravenna all’acquisizione di due società di cave di Massa, la S.A.M. e la I.M.E.G., che venivano dal compendio proprietario dell’ENI e quando l’ENI, attraverso la cosiddetta privatizzazione o la nota privatizzazione, dismette il comparto minerario, vengono acquisite dapprima da alcune società palermitane di Buscemi e successivamente dalla Calcestruzzi che acquista il 50 per cento di questo pacchetto azionario, mentre la rimanente parte, la cassaforte era la cosiddetta FINSAVI che, ripeto, per il 50 per cento è di proprietà della Calcestruzzi S.p.A. di Ravenna, per il 17 per cento di Nino Buscemi, per il 37 per cento di un fratello di Nino Buscemi, un professore universitario della facoltà di Medicina.
Tutto questo è a livello di ipotesi, risultava così come la Guardia di finanza aveva dimostrato dalla lettura delle carte della camera di commercio e dei registri immobiliari.
Il dottor Lama chiede, in particolare, a codesta procura, di espletare opportune indagini al fine di accertare le principali utenze sia private che professionali utilizzate dai fratelli Buscemi Antonino e Salvatore, cosa che io chiaramente immediatamente faccio, segnalando altresì l’opportunità di predisporre, ai sensi della legge delle misure di prevenzione, approfondite indagini bancarie e patrimoniali.
Ma già a Palermo l’apposito gruppo di lavoro delle misure di prevenzione si occupava di Antonino Buscemi sin dal 1990 e nel 1991 aveva chiesto, ad esempio, delle indagini approfondite al gruppo carabinieri Palermo 1, che poi vengono sollecitate dall’allora PM Roberto Scarpinato il 13 luglio del 1992, in contemporanea al deposito dell’archiviazione della quale pure avete sentito parlare, nei confronti di alcuni degli indagati del processo Mafia e Appalti. Ma cosa era questo meccanismo delle archiviazioni?
La procura di Palermo era un laboratorio di investigazioni estremamente complesso, in cui il fenomeno cosa nostra veniva affrontato da gruppi di lavori diversi, che agivano in contemporanea su piani diversi, tendenti a ottenere risultati efficaci in relazione al materiale disponibile nel singolo momento in cui giungevano a completamento i termini massimi delle indagini di cui all’articolo 405 del codice di procedura penale.
Quindi le indagini venivano aperte e archiviate, se necessario, per poi essere riaperte appena ci fosse un elemento di novità. Ad esempio, la stessa archiviazione della quale mi sono occupato io, del primo giugno 1992, viene riaperta dall’allora sostituto procuratore Giuseppe Pignatone il 4 marzo 1993 perché erano sopraggiunte le dichiarazioni, ad esempio, di Balduccio Di Maggio, erano giunte a maturazione le iniziali indicazioni di Leonardo Messina con due fondamentali interrogatori che Leonardo Messina rende il 10 e l’11 dicembre 1992 a due sostituti – sempre gli stessi – l’oggi senatore Scarpinato e l’allora procuratore aggiunto Guido Lo Forte.
In parallelo, ed era l’altro lato della tenaglia, quello effettivamente forte, lavorava la sezione misure di prevenzione, che aveva orizzonti più semplici perché si muoveva sul piano del semplice sospetto. Ci aveva insegnato questo metodo di lavoro Giovanni Falcone, forse primo fra tutti i gruppi di lavoro in Italia, mettendo a frutto tutte le esperienze del vecchio pool dell’ufficio istruzione che era stato creato a partire dalla fine del 1983, dicendoci, lui che aveva contribuito alla creazione di questo attuale codice di procedura penale, che dovevamo imparare a utilizzare le indagini preliminari come qualche cosa che veniva utilizzata a tempo come lo yogurt, se erano ancora buoni i risultati delle indagini al termine delle scadenze, buoni secondo la mentalità estremamente rigorosa di Giovanni Falcone, nell’ottica del giudice e non nell’ottica del semplice pubblico ministero. Ci insegnava: «Voi dovete sempre porvi nell’ottica di chi, dopo la pronuncia della condanna, dovrà scrivere la motivazione di quella sentenza». Questo gli derivava nella unità della visione costituzionale della magistratura italiana dall’avere potuto svolgere dapprima le funzioni di giudice, anche di giudice civile e poi anche di pubblico ministero, quindi ci diceva: «Quando arrivate alla fine dell’indagine preliminare, se avete materiale andate avanti con questo rigoroso criterio di valutazione di ciò che avete in mano, altrimenti archiviate».
Ci insegnava questo perché il nuovo sistema è un sistema a un solo colpo, nel senso che il pubblico ministero, elevata un’imputazione, ha un solo colpo a disposizione con il quale o colpisce il bersaglio o fa calare l’autorità del giudicato su un’ipotesi di accusa che poi, magari a distanza di qualche anno, sarà arricchita dal sopravvenire di elementi di prova forti, ma che non potrà più essere azionato per l’ostacolo di precedente giudicato. Era un modo di pensare tutt’affatto nuovo, con il quale ci si misurava in questo campo.
E ci disse pure: «Utilizzate le misure di prevenzione». Infatti la procura di Palermo comincia a utilizzare, prima, secondo me, tra tutte le procure italiane, la legge Rognoni-La Torre a partire dal 1985. Forse qualcuno dei presenti ne sa più di me perché io a quel tempo facevo il giudice istruttore. 1985-1986 misure di prevenzione, come l’altro pezzo della tenaglia con il quale agganciare l’ipotesi principale, che era quella di contrastare efficacemente qualsiasi manifestazione riconducibile a cosa nostra.
Dell’atto analitico del 17 settembre del 1991 del maggiore Roberto Rossetto ho già detto, lo troverete nel documento numero 3.
Quindi, riprendendo il filo, tra le carte consegnate a Palermo non vi erano intanto atti di indagine in originale, infatti qui dentro troverete soltanto fotocopie di carte, né tantomeno bobine, nastri contenenti intercettazioni preventive o giudiziarie nell’ambito delle indagini svolte da Massa Carrara.
Va pure detto che tra le mitiche – permettetemi di dire – soprattutto per quello che ho letto nel ricordo del maresciallo Angeloni, credo che si chiami, che ricorda delle intercettazioni che in larghissima parte dovevano essere le intercettazioni preventive fatte su richiesta dell’Alto Commissario, ai sensi del 226-sexies del vecchio codice, che non erano utilizzabili, servivano soltanto per dare spunti di indagine ma non avrebbero mai potuto essere utilizzate in sede giudiziaria, quindi anche una smagnetizzazione di quelle intercettazioni vorrei capire, dal punto di vista effettuale, che tipo di danno avrebbe potuto creare. Ma per fortuna non se ne è creato assolutamente.
Andiamo alle risultanze delle intercettazioni giudiziarie di Palermo, risultanze che diedero da subito esito assolutamente negativo.
Io già in data 18 novembre 1991 – quindi avevo ricevuto il fascicolo il 17 o il 18 settembre 1991 – scrivo al collega Lama che invece non si è mai degnato di fare una telefonata o di scrivere e soprattutto non si è degnato di dire che nelle sue ipotesi che ho detto non c’era alcuna iscrizione, neppure ipotizzando un reato attorno al quale svolgere quelle indagini.
Tanto che utilizzando un pensiero malevolo, lontano però da quello che voglio dire, ho pensato, soprattutto in queste ultime settimane, che la richiesta di fare le intercettazioni a Palermo derivava dal fatto che, se lui le avesse chieste, come pure avrebbe potuto chiederle al GIP di Massa Carrara, il GIP non gliele avrebbe date perché mancava l’oggetto sul quale fare la intercettazione.
Ma comunque queste intercettazioni diedero da subito esito assolutamente negativo, tanto che la Guardia di finanza, già in data 2 gennaio 1992, mi comunica che tre utenze telefoniche hanno dato risultato zero e quindi mi diceva: «Interrompi le operazioni», documento 5; il 22 gennaio 1992 stessa cosa, documento 6; il 3 febbraio 1992 la stessa cosa per altre due utenze telefoniche, documento 7; il 3 marzo 1992 per rimanenti intercettazioni perché aventi contenuto esclusivamente familiare e comunque non inerente il servizio, documento 8.
Infine, in data 26 marzo del 1992, fornisce una dettagliata analisi delle risultanze investigative conseguenti alle indagini captative e concludeva affermando che le intercettazioni in argomento non hanno consentito di individuare episodi, circostanze specifiche o altri elementi di fatto tali da chiarire se e come i predetti rapporti ufficiali di partecipazione o semplicemente commerciali, come i registri della camera di commercio dicevano sin dal 1984, possono essere o essere stati influenzati in tutto o in parte dai precedenti giudiziari di taluni componenti della famiglia Buscemi o dai loro rapporti di frequentazione o di parentela con persone condannate con associazioni di tipo mafioso.
Ma va detto che a dimostrazione della bontà di questa valutazione di assenza di qualsiasi risultato utile per le indagini, la Guardia di finanza allegò le trascrizioni integrali delle ventinove conversazioni ritenute più rilevanti, le quali sono sempre state nel fascicolo n. 3589/91 che ho trattato io, ma lo sono state da allora e per tutti questi trentuno anni.
Di tal che devo fare notare, purtroppo, che se la procura della Repubblica di Caltanissetta, che fece la richiesta di archiviazione del 9 giugno 2003 sui mandanti occulti bis lamentando la smagnetizzazione dei nastri e la distruzione dei brogliacci, si fosse degnata di mandare qualcuno a leggere con attenzione almeno il contenuto di questo fascicolo, avrebbe visto che intanto c’erano le trascrizioni integrali di ventinove conversazioni ritenute rilevanti, ma avrebbe potuto fare un’altra cosa che io molto più banalmente ho fatto dopo trentuno anni, nel mese di settembre 2023, cioè di chiedere al procuratore della Repubblica – la procura di Caltanissetta lo avrebbe potuto fare autonomamente – di consultare il registro modello 37, cioè quel registro sul quale vengono annotati tutti i decreti di intercettazione e il divenire del decreto di intercettazione.
Io arrivo alla certificazione della quale gentilmente l’onorevole presidente ha fatto menzione in esordio di questa mia audizione, perché penso con un procedimento dal futuro al passato, ripensando alla data, 25 giugno del 1992, che è un periodo particolarissimo nella storia della procura di Palermo, cui venti giorni dopo conseguì purtroppo la strage di via D’Amelio con la decapitazione della procura di Palermo e la sostanziale mancanza di un vertice autorevole fino a quando non fosse arrivato il procuratore Caselli.
Conoscendo quanto i funzionari dell’ufficio intercettazione non amassero fare queste operazioni perché richiedevano verbali di apertura, verbali di risugellamento, la partecipazione del personale di polizia giudiziaria che era quello che aveva il materiale per fare la smagnetizzazione, dico: «Ma andiamo a consultare il modello 37». Ed è al modello 37 che il procuratore della Repubblica De Lucia fa attestare al funzionario dell’ufficio intercettazioni che le intercettazioni non erano mai state smagnetizzate.
Su questo dico subito che l’annotazione che si trova in calce al mio provvedimento, con aggiunta una grafia che non mi appartiene… Ecco, ora finalmente le abbiamo trovate. Queste sono le trascrizioni integrali delle ventinove intercettazioni. Sono sempre state nel fascicolo, io ne ho fatto una copia, è qua. Ripeto, quella annotazione di distruzione dei brogliacci… Dico subito più semplicemente, il provvedimento mi viene portato da un addetto dell’ufficio intercettazioni, dalla sigla che vedo in calce, perché c’è: «consegnato per l’esecuzione in data 25 giugno 1992» con una sigla che io, in base ai ricordi visivi del tempo, riconosco essere una C e una M, che potrebbe essere Carlo Maiorca, che era il funzionario addetto o il cancelliere addetto allora alla segreteria del procuratore della Repubblica Giammanco. Ma, ripeto, lo recupero così, da un ricordo visivo.
Questo è un argomento logico, ma gli argomenti logici, come gli onorevoli deputati e senatori che hanno la bontà di ascoltarmi conoscono al pari di me, hanno la stessa dignità sul piano della prova nel processo penale. Se io avessi avuto un qualche interesse alla reale smagnetizzazione di fonti di conoscenza delle quali, secondo l’avvocato Trizzino, avrei dovuto rendere conto e ragione al povero Paolo Borsellino se fosse rimasto in vita, avrei eseguito la smagnetizzazione. Smagnetizzazione che, come una relazione tecnica che fa fare il procuratore Caselli appena arriva a Palermo alla RT-Radio Trevisan, che si occupava in quasi tutta Italia delle intercettazioni che duravano mediamente tra un anno e un anno e mezzo, per la complessità alla quale ho fatto riferimento.
Ci avviamo alla conclusione, soprattutto per quanto riguarda questa parte delle smagnetizzazioni.
Contrariamente a quanto l’avvocato Trizzino ha dichiarato, cioè che si trattava di un provvedimento che lui non aveva visto né prima né dopo, evidentemente c’è una asimmetria fra le esperienze professionali mia e dell’avvocato Trizzino, era qualcosa che all’epoca invece almeno nella procura di Palermo era usuale. Era usuale perché c’era una interpretazione che non fu mai contestata né contrastata da alcuno dell’articolo 269, comma 2, del vigente codice di procedura penale, che ancora oggi afferma che la conservazione delle registrazioni va fatta fino a quando le sentenze non passino in cosa giudicata.
Quindi, alla luce di questo passaggio che era innovativo rispetto al precedente codice del 1930, c’era questa interpretazione che io trovo, io arrivo alla procura di Palermo il 9 giugno del 1991, la mia esperienza era stata all’ufficio istruzione di Palermo, non avevo alcun interesse alla gestione delle intercettazioni e delle bobine delle intercettazioni perché questa ancora oggi, per dettato del codice di procedura, è responsabilità diretta del procuratore della Repubblica, trovo questa interpretazione e questo ufficio intercettazioni che era importante perché, tra l’altro, aveva proprio in quel periodo, 1992, da alcuni mesi, conglobato le competenze di altre cinque procure della Repubblica, perché, come loro ricorderanno, nel novembre del 1991 si istituiscono le DDA e quindi la procura di Palermo ingloba l’attività antimafia di altre cinque procure del distretto occidentale dell’isola. E ci sono dei problemi reali di spazi fisici sia negli armadi particolari, perché devono essere degli armadi a tenuta stagna e con certe caratteristiche, sia dei locali sia degli stessi corridoi.
E questo sapete dove lo trovate? Io l’ho scoperto dalla lettura necessitata di tante carte in queste ultime settimane. Nelle dichiarazioni al CSM del 28 luglio 1992 rese dall’allora procuratore, Pietro Giammanco, alla prima commissione che convocò tutti gli appartenenti alla procura della Repubblica, compresi i colleghi che erano arrivati da pochissime settimane o da alcuni mesi. Lo dice, non so per quale motivo ma in dettaglio, nelle audizioni che troverete certamente laddove sono, tra l’altro basta andare sul sito del CSM e le si trova.
Per cui il problema dell’intercettazione era un problema reale. Ma ho trovato, per fortuna – e devo ringraziare il procuratore o l’ex procuratore Giuseppe Pignatone per avermi fornito questa importantissima documentazione – un decreto del neo arrivato procuratore Caselli del 22 febbraio 1993. Caselli era arrivato il 15 gennaio, come tutti ricorderete, il giorno della cattura di Salvatore Riina, ed evidentemente trova questa prassi alla procura di Palermo e chiede a Radio Trevisan una relazione tecnica.
Radio Trevisan rende questa relazione tecnica il 2 febbraio e dice che, pur condividendo le ragioni delle raccomandazioni ministeriali, e cita le circolari del 1977 e del 1979 alle quali ho fatto riferimento prima, che dicevano che bisogna recuperare questo materiale perché ha un valore economico. Teniamo presente peraltro che nel 1992-1993 noi avevamo quei piccoli, purtroppo non inconsueti, problemi di bilancio pubblico, dovevamo entrare nell’area euro, tanto che la notte del 10 luglio 1992, quindi a ridosso dei fatti che stiamo commentando, c’è il famoso decreto-legge del Governo Amato col prelievo forzoso dello 0,06 per mille sui conti correnti o sui depositi di ciascuno degli italiani. Caselli scopre questo discorso, siccome la relazione tecnica dice che c’è una possibilità che i nastri rigenerati possano, in sede di ulteriore utilizzazione, presentare dei bug per cui poi un passaggio di un’intercettazione non c’è, Caselli dice: «Guardate che, con quello che abbiamo qua a Palermo con i fatti di mafia, io questo rischio non lo corro». Fa un decreto con il quale sospende l’utilizzazione dei nastri smagnetizzati, quindi non sospende la smagnetizzazione, sospende la riutilizzazione dei nastri smagnetizzati, lo comunica al Ministero della giustizia da cui provenivano le circolari, dicendo: «Se avete contrario avviso, ditemelo». Chiaramente il contrario avviso non interviene.
Però la questione dei nastri e della mancanza di spazi purtroppo è talmente pregnante nella vita della procura di Palermo che con altra circolare, affidata al procuratore aggiunto vicario, Vittorio Aliquò, del 22 novembre 1997, quindi di quattro anni dopo, Aliquò scrive a tutti noi sostituti, perché io ancora sono sostituto in quella procura, di procedere con cortese, massima urgenza a smagnetizzare, a dare corso ai decreti che avevamo pendenti davanti a noi e dà incarico all’ufficio intercettazioni di rivolgersi a ciascun sostituto per la sollecita definizione di questi fatti.
Dirà nelle pagine precedenti, ma avete i due documenti e quindi lo potrete leggere, che ormai questi nastri avevano invaso sia i locali deputati alla conservazione sia quelli che si erano recuperati in maniera eccezionale e supplementare.
Questo per quanto riguarda la smagnetizzazione che evidentemente è venuta meno, ma questa mia esperienza, da successivo capo dipartimento dell’organizzazione, soltanto nel 2007-2008, quando a macchia di leopardo in tutta Italia le procure, a seconda delle loro capacità di conoscenza tecnologica, riescono a cominciare a utilizzare le intercettazioni digitali che per fortuna ormai hanno risolto il problema degli spazi fisici. Ma ricordiamoci che esiste anche un problema di server del quale certamente avete sentito parlare e che è un ulteriore problema che l’attuale capo dipartimento dell’organizzazione deve ancora utilizzare.
Mi resta un ultimo passaggio che devo evidenziare, il cosiddetto spossessamento del fascicolo in capo al dottor Lama.
Come dicevo, a Palermo apriamo per cortesia collaborativa il fascicolo di indagini collegate dove poniamo in essere le intercettazioni che c’erano state richieste dal collega Lama sulle utenze che… Ecco, questo è un passaggio importante.
Io quando apro questo fascicolo, per dare il massimo di efficacia e di tempestività alle notizie con la procura richiedente, incarico lo stesso organo di polizia giudiziaria che era la seconda sezione del GICO della Guardia di finanza di Palermo che già collaborava con Lama sin dal 1990. Quindi le utenze me le indicano loro e sono loro che fanno le intercettazioni e che curano i collegamenti e le informazioni.
Lama continua a essere autonomamente dominus delle indagini del procedimento n. 697/90 e rilascia delle dichiarazioni sulle indagini che stava svolgendo ai giornalisti Romano Bavastro e Vittorio Prayez de La Nazione e Cinzia Carpita de Il Tirreno, in data 10 febbraio 1992. Aveva fatto delle perquisizioni con sequestri il 28 o il 29 gennaio 1992.
Il 10 rilascia questa intervista congiunta ai tre giornalisti, i quali pubblicano degli articoli l’11 febbraio, articoli che suscitano clamore. È addirittura La Nazione stessa, se non ricordo male, a sollevare il problema della meraviglia che aveva destato il fatto che un PM che stava conducendo indagini rilasciasse dichiarazioni.
Il dottor Lama ritiene opportuno astenersi immediatamente dalle indagini in corso perché, in contemporanea con l’apparizione di questi articoli, l’avvocato Striano, nell’interesse della Calcestruzzi Ravenna, scrive al procuratore generale di Genova, Castellano, dicendo: «Ma è mai possibile una cosa del genere?».
Evidentemente il procuratore di Massa, immediatamente interessato, chiede spiegazioni al dottor Lama, il quale ritiene opportunamente di astenersi dal fascicolo.
Quindi siamo arrivati intorno al 12-13 febbraio 1992.
La storia però ci consegna che è clamorosamente destituita di fondamento la narrazione ripetutamente fatta in questi ultimi trent’anni, ma anche recentemente, dallo stesso dottor Lama e da chi ne ha ripreso i contenuti, secondo cui il fascicolo n. 967/90 fu sottratto al dottor Lama dal Ministro Martelli – vi ricordate la telefonata, l’ispezione, eccetera – nell’interesse di Raul Gardini, suo amico e sodale politico, giacché quel fascicolo fu volontariamente restituito al procuratore Ceschi per astensione del PM che aveva rilasciato delle «imprudenti» dichiarazioni alla stampa. L’aggettivo «imprudente» è della sentenza disciplinare del CSM del 26 novembre 1993 che pure vi ho portato e che deposito.
Non c’entra nulla con questa astensione la consueta ispezione – dirò perché consueta – disposta dall’ispettorato generale del Ministero sulla vicenda giornalistica finita agli onori della cronaca, in quanto questa venne iniziata nel mese di marzo, cioè ben dopo che Lama aveva già volontariamente restituito il fascicolo almeno a partire dal 15 febbraio del 1992. Questo lo deriviamo dal fatto che il procuratore Ceschi, con una nota del 24 febbraio, dice a Lama: «Siccome ti sei astenuto e io accolgo la tua astensione, fammi una relazione sulle cose che hai condotto fino a questo momento».
Ma permettetemi di ricordare un secondo elemento logico rispetto al quale ho precedentemente fatto un riferimento. Ricordiamoci che nel febbraio del 1992, già da un anno al Ministero, accanto al Ministro Martelli che asseritamente aveva stoppato, aveva bloccato, aveva scippato il fascicolo al dottor Lama, sedeva come direttore generale degli affari penali, lo ricordiamo tutti, da circa un anno il dottor Giovanni Falcone. Il quale non ha saputo nulla di questo scippo? Conoscendo Falcone e leggendo tutto ciò che in questi trenta e passa anni è stato scritto su di lui è una cosa da escludere. Avrebbe mai potuto prestare un assenso silenzioso a questa opera del Ministro Martelli?
Quindi Falcone che, da un lato attraverso il ROS, il rapporto mafia-appalti, il generale Mori e il capitano o colonnello De Donno, voleva scoprire il mistero di mafia-appalti, poi c’era qualcuno che finalmente a Massa Carrara intravedeva sterminate sorti magnifiche e progressive e Giovanni Falcone permetteva di stoppare questo raggio di luce che finalmente squarciava le tenebre che avvolgevano la procura di Palermo?
È un elemento logico che affido ai tecnici presenti in questa Commissione, credo che non reggerebbe al vaglio di alcun giudice.
Da ultimo andiamo alle azioni disciplinari. La sentenza che il CSM mi ha autorizzato a produrre – ho fatto tutte queste ricerche da privato cittadino, utilizzando la legge n. 241 del 1990 sull’accesso agli atti, oltre che l’articolo 116 del codice di procedura penale – ci dice che la segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare viene fatta il 9 marzo 1992 dal procuratore generale di Genova, Francesco Paolo Castellano. Il procuratore generale della Corte di cassazione, dottor Vittorio Sgroi, il 25 marzo 1992 inizia l’azione disciplinare. Il Ministro, che pure è stato notiziato dell’inizio dell’azione disciplinare, non interviene assolutamente su questo versante. Questo lo deriviamo dalla sentenza del CSM, che parla di un’azione disciplinare iniziata soltanto dal procuratore generale della Corte di cassazione. Dunque, anche da questo versante nessun intervento del Ministro Martelli.
Ma il fascicolo n. 967/90, quando viene lasciato dal dottor Lama e viene preso in mano dal procuratore Duino Ceschi, cosa comporta? Che Duino Ceschi si rende conto che le indagini condotte fino a quel momento, circa due anni, non hanno un radicamento di competenza territoriale a Massa. Quindi il 10 aprile 1992 manda il fascicolo che avrebbe dovuto avere al proprio interno le famose bobine, sia pure quelle dell’Alto Commissario, ma ce ne è pure un pezzetto di indagini di intercettazioni giudiziarie, condotte a Massa, quelle che non sono mai arrivate a Palermo, ma che lì c’erano. È chiaro che finalmente quel fascicolo in originale, non fotocopie come queste che continuo a mostrarvi, va a Lucca, dove se lo tengono con un nuovo numero – ho le certificazioni del procuratore di Lucca, dottor Domenico Manzione – per circa nove mesi.
Il 22 gennaio 1993 anche Lucca scopre che non c’è competenza territoriale, perché l’unica ipotesi che residua, quella di un 2621 codice civile, cioè di un falso in bilancio, si radica sull’ipotesi che la privatizzazione fatta dall’ENI o dalle sue società controllate, per favorire Buscemi, per favorire Calcestruzzi, per favorire non si sa bene chi. Leggevo proprio stamattina che, a proposito delle privatizzazioni delle quali si sta parlando in questi giorni, opportunamente la Presidente del Consiglio diceva che le privatizzazioni, tranne che non si facciano per favorire qualcuno, si prestano sempre a letture non unidirezionali e questo era il classico caso. Quindi da Lucca finiscono alla procura di Roma per 2621 dove – altra certificazione che il procuratore Francesco Lo Voi mi ha fatto avere, a mia espressa richiesta, nei giorni passati e che produco – viene archiviata il 25 giugno 1995, dopo circa un anno e mezzo di indagini o qualcosa del genere affidate al compianto, per chi l’ha conosciuto, collega Settembrino Nebbioso, Rino Nebbioso, un collega tra l’altro molto bravo, molto attento e conosciuto certamente anche da tutti noi.
Conclusione.
Credo di avere quanto meno tentato di dare una giustificazione a quello che ho fatto. Il giudizio poi spetta ai giudici oppure, come è stato richiesto, il giudizio politico spetta all’onorevole consesso davanti al quale continuo ad avere l’onore di parlare.
Ma c’è un’ultima necessità di contestualizzare i fatti per evitare una visione asincronica, non voglio dire diacronica, ma proprio asincronica.
Cioè questo fascicolo, in quello che ho definito laboratorio di investigazioni complesse che era la procura di Palermo, checché se ne pensi, ma per fortuna molti dei protagonisti di allora sono ancora vivi e possono essere utilmente auditi, un ufficio nel quale ad esempio in contemporanea a questi fatti di scarso rilievo investigativo…
Lo scarso rilievo investigativo non è soltanto una valutazione mia, è una valutazione che, come accennavo, fanno, dopo la riapertura delle indagini, Giuseppe Pignatone, Ilda Boccassini, Roberto Saieva, Luigi Patronaggio che pure avete sentito, Biagio Insacco, i quali hanno ereditato il fascicolo n. 1593 che aveva riaperto le indagini dopo la mia archiviazione e che in periodi successivi, fino al 1995, pur con il supporto di tutti i collaboratori di fede corleonese sopravvenuti al primo giugno 1992, quando non c’era neppure Mutolo perché Mutolo sarebbe arrivato a fine mese, hanno ritenuto di archiviare tutto. Quindi quel fascicolo, quelle ipotesi illuminate che aveva intravisto il pur ottimo dottor Augusto Lama, all’esame, che è l’unico che conta, della verifica che ne fanno i giudici, perché la richiesta di archiviazione richiede sempre che un giudice dica che quella richiesta di archiviazione va accolta, altrimenti c’è il rigetto.
In tutto questo c’era stato Vincenzo Calcara che Paolo Borsellino si era portato da Marsala e che ci aveva portato a Palermo il 6 gennaio 1992 e, insieme a lui, aveva voluto che lo affiancassimo io e Franco Lo Voi, attuale procuratore di Roma. All’interno delle cui dichiarazioni, il 7 maggio 1992, quindi proprio in quei giorni, c’erano state circa 35 ordinanze di custodia cautelare nei confronti dell’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino.
Vi ricordate lo «Svetonio» che avremmo scoperto poi negli anni Duemila e passa avere intrattenuto rapporti di corrispondenza con l’allora latitante Matteo Messina Denaro? Benissimo, c’era questo. E in quei giorni, tanto per dire, avevamo il tribunale del riesame, quindi quotidianamente con Franco Lo Voi andavamo a notiziare il procuratore Borsellino, quando era presente in sede, del divenire di queste cose, raccogliendone i preziosi consigli per quello che noi avremmo dovuto fare.
Il 12 marzo 1992, come certamente tutti ricorderete, era stato ucciso l’onorevole Salvo Lima, cosa di non poco momento. Cosa era successo, tra l’altro, ed è bene ricordarlo? Che, ad esempio, il 10 ottobre 1992, proprio per il sopravvenire dopo Gaspare Mutolo delle preziosissime collaborazioni di Giuseppe Marchese, il 10 ottobre 1992 la procura di Palermo, tra cui appunto chi vi parla, Guido Lo Forte, l’allora PM e oggi senatore Scarpinato, chiedono al GIP di Palermo l’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei componenti della commissione provinciale di Palermo per l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, dopo appena sei mesi o poco più dall’omicidio.
Perché è importante questo che vi sto dicendo? Perché Mutolo, che aveva continuato a collaborare anche dopo il 19 luglio, mantenendo la sua volontà di portare avanti la sua collaborazione, si convince finalmente, il 23 ottobre 1992, a dichiarare formalmente tutto ciò che certamente ricorderete sul dottor Bruno Contrada e sull’allora pubblico ministero Domenico Signorino che purtroppo si sarebbe suicidato un mese dopo.
Quindi, tra il 19 luglio 1992 e l’arrivo del procuratore Caselli, il 15 gennaio 1993, la procura di Palermo ha portato avanti queste «piccole» indagini, cioè ha accusato i mandanti dell’omicidio Lima, poi avremmo trovato pure gli esecutori materiali, Francesco Onorato e Giovanbattista Ferrante, ma sarebbero arrivati nel 1996. Il 23 dicembre 1992 aveva ottenuto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere del dottor Bruno Contrada.
Il 4 dicembre 1992 a due PM del tempo, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, Leonardo Messina avrebbe detto che, a suo avviso, l’onorevole o meglio senatore Giulio Andreotti era «punciutu». Sapete l’espressione che cosa significa, ma chiaramente questa dichiarazione resta, come doverosamente doveva restare, nell’ambito delle dichiarazioni in attesa di riscontro e il precipitato sarà il 4 marzo 1993, allorché Gaspare Mutolo, a sua volta, avanzerà delle dichiarazioni accusatorie nei confronti del senatore Andreotti e il 27 marzo la procura di Caselli avanzerà, alla Giunta delle autorizzazioni a procedere, la richiesta di procedere nei confronti del senatore Andreotti.
Questo era il contesto o il tentativo di contestualizzazione storica degli avvenimenti di quella procura laboratorio di investigazioni complesse, all’interno del quale si è presentato questo compendio di 150 pagine come l’unica chiave di lettura di fatti.
A mio ricordo, ma potrei sbagliarmi, tutte le sentenze che sono state rese dall’autorità giudiziaria di Caltanissetta, sia in sede di procedimento contro noti sia in sede di richiesta di decreti di archiviazione, convengono su un punto: che purtroppo la strage di via D’Amelio, così come quella precedente di Capaci, hanno una molteplicità di concause, all’interno delle quali si inscrivono anche quelle riconducibili al rapporto mafia-appalti, ma soltanto come concausa e non come causa esclusiva e meno che mai come causa acceleratrice di una determinazione.
Scusatemi perché ho preso più tempo di quanto ne avessi programmato, sono disponibile ove vogliate a darvi tutti i chiarimenti del caso.
Certamente lascerò il compendio dei venticinque allegati ai quali ho fatto riferimento nel corso di queste note che comunque lascio pure a corredo della dichiarazione.
PRESIDENTE. Grazie, presidente, penso che la sua audizione sia stata molto utile per tutti e tutti abbiamo notato la sua formidabile memoria. Ci sono già diversi iscritti a parlare, ma la tempistica non permette interventi perché l’Aula della Camera riprende alle 14 e molti senatori devono partecipare anche ai lavori di Commissione. Se siete d’accordo e se il presidente Natoli ci dà la sua disponibilità, io gli chiederei di tornare, anche per rispetto dei senatori che già sono andati a votare o in Commissione. Credo sia preferibile riconvocare il presidente Natoli per consentire ai commissari di rivolgergli le loro domande. Intanto lo ringrazio ancora per la disponibilità, per i documenti lasciati alla Commissione. Dichiaro conclusa la seduta.
La seduta termina alle 13.40.
XIX LEGISLATURA
Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere
RESOCONTO STENOGRAFICO
Seduta n. 30 di Giovedì 1 febbraio 2024
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CHIARA COLOSIMO
La seduta comincia alle 13.35.
Seguito audizione del dottor Gioacchino Natoli, già presidente della corte di appello di Palermo.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del dottor Gioacchino Natoli, già presidente della corte di appello di Palermo. Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta, a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv. Risultano diversi colleghi iscritti a parlare, pertanto se il presidente Natoli è d’accordo inizierei con le domande dei commissari. Do la parola al senatore Sallemi.
SALVATORE SALLEMI. Grazie, presidente. Buongiorno, dottore, ben trovato. Sui rapporti con i colleghi e sulla situazione della procura di Palermo, per avere un quadro un po’ più nitido, nel corso delle audizioni al CSM di fine luglio 1992, numerosi suoi colleghi hanno denunciato divergenze e spaccature all’interno della procura. Lei, in quell’occasione, dapprima ha spiegato le ragioni della non condivisione del documento
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Scarpinato del 23 luglio, sottoscritto da otto sostituti, e altresì ha offerto una descrizione di normalità all’interno degli uffici e nei rapporti con il procuratore Giammanco.
Lei dice che nei tredici mesi di sua permanenza in procura, cioè sino a quella data di luglio 1992, non c’è stato alcun problema con il procuratore. Inoltre, nessuna divergenza tra Giammanco e Borsellino. Successivamente, ventidue anni dopo, al Borsellino quater, nel 2014, ha dichiarato che Giammanco non aveva assolutamente un buon rapporto con Borsellino.
Con riferimento alla stessa situazione, Maria Falcone, quando venne audita al CSM il 30 luglio 1992, subito dopo di lei, dichiara, a proposito del fratello e dei suoi rapporti in procura: «Il procuratore Giammanco non gli permetteva più di svolgere il suo lavoro come avrebbe voluto farlo. Forse, se non ci fosse stato il 1988, cioè la polemica con Meli, Giovanni avrebbe aperto il caso Giammanco nel 1991, ma era stanco delle contese». Inoltre, Falcone spiega alla sorella: «Io non posso competere con Giammanco e con gli appoggi politici di Giammanco». Poi conclude: «Quando Falcone lascia Palermo, in procura ha fatto una scenata di quelle tremende; aveva detto davanti a tutti i sostituti e a Giammanco quello che pensava di lui».
Visto il tempo trascorso, può spiegarci com’era realmente la situazione all’interno della procura? Che cosa realmente lei ha vissuto e quali sono le sensazioni che ha avuto? Grazie.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Buongiorno a tutti e grazie della domanda. Partiamo da questa che riguarda il dottor Giovanni Falcone. In procura con Giovanni Falcone non riesco a starci neppure un giorno, perché Giovanni Falcone va via ai primi di marzo. Certamente sarà stato lì fino al 12 o 13 marzo, perché firma la requisitoria scritta nel processo in istruzione formale per gli
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omicidi politici, quindi Reina, Mattarella e La Torre, di cui io ero giudice istruttore, il giorno prima di andare via. Quindi, sarà stato, appunto, il 12 o il 13 marzo. Siamo nel 1991. Io arrivo in procura il 9 o il 10 giugno 1991, la stessa mattina nella quale deposito l’ordinanza sentenza per gli omicidi politici. Era l’ultimo giorno della mia proroga, perché io ero stato trasferito in procura nel 1990. Dal presidente del tribunale avevo ottenuto la mia proroga massima di un anno. Se quel giorno non avessi depositato il provvedimento finale, o lo avrebbe dovuto scrivere un altro, ma eravamo già in proroga, quindi sarebbe stato un bel problema, oppure sarei addirittura decaduto dall’impiego. Quindi, arrivo il 9 o il 10, credo il 9, però, era un lunedì, e Giovanni Falcone se n’era andato alcuni mesi prima.
Io non vivo, quindi, la stagione di Giovanni Falcone alla procura della Repubblica. Questo è il motivo per il quale non ritengo di firmare il documento, pur preparato da un mio carissimo amico e collega, che è il senatore Scarpinato, e da altri colleghi, perché loro mettono insieme delle vicende che hanno vissuto chiaramente in prima persona, io al massimo ne avrei potuto avere o ne avevo conoscenza de relato. Non mi sembrava una cosa corretta sottoscrivere qualcosa che diceva: Falcone faceva la fila, faceva l’anticamera, o nelle riunioni Pietro Giammanco gli faceva fare delle figure che Falcone non aveva mai fatto, che non meritava, che non avrebbe meritato, eccetera, eccetera. Questo è l’unico motivo. Ma chiaramente ne condividevo sia lo spirito che gli argomenti.
Questo per quanto riguarda Giovanni Falcone.
Credo che lei mi abbia chiesto perché io nel 1992 non avrei detto nell’audizione del 30 luglio dei rapporti tra Paolo Borsellino e Pietro Giammanco. Scusatemi, ma ho riletto, ovviamente, in queste settimane, delle audizioni di quel tempo, che per la verità non leggevo dal lontano 1992. Borsellino – questo
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è un aspetto che credo di aver detto certamente o nel 1992 o nel 2014, poi ci deve essere un’altra mia dichiarazione in un altro processo del 2017, o qualcosa del genere, e questo lo ricordo con esattezza – aveva esatta consapevolezza del suo ruolo all’interno della procura, nel senso dei ruoli gerarchici che c’erano all’interno della procura, per cui in un’occasione certamente ebbe a dire a me, ma non soltanto a me: io qua sono procuratore aggiunto, ho fatto il procuratore della Repubblica e so quali erano, evidentemente, i poteri e lo status di un procuratore capo, ma qua sono un procuratore aggiunto e so che il procuratore della Repubblica è il dottore Pietro Giammanco. Io lo dico, non so a domanda di chi, quando spiego per quale motivo Paolo Borsellino con estrema cura andava a riferire a Pietro Giammanco tutto ciò che accadeva, nel corso della sua attività, sotto la sua attenzione. Ed è in una di queste occasioni che lui dice: io so che sono qua procuratore aggiunto, io sono Paolo Borsellino. Lasciamo stare il merito, la statura eccetera, che certamente il procuratore Giammanco non gli riconosceva. Questo è pacifico. Lì il problema viene da lontano. È un problema che affonda le radici nei rapporti che si erano instaurati nel Palazzo di Giustizia – e per «Palazzo di Giustizia» intendo tutto – negli anni Ottanta nei confronti del pool dell’Ufficio Istruzione.
Mi perdonerete, non vorrei che ci fosse una sovrapposizione tra quella che è stata la stagione delle DDA, la stagione dell’antimafia palermitana, e non solo palermitana, dal 1992 a venire qua, una stagione che, grazie al sacrificio di quegli eroi, è diventata una stagione storica, che ha dato una svolta all’azione di contrasto dello Stato nei confronti di cosa nostra, rispetto a quella che, invece, era la stagione degli anni Ottanta, quella, cioè, che trova Giovanni Falcone quando arriva a Palermo, quando entra nell’Ufficio Istruzione diretto da Rocco
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Chinnici, con tutti i problemi che c’erano allora, che danno luogo alla costituzione – attenzione, dopo la strage Chinnici, non prima della strage Chinnici – di quel mini-gruppo di lavoro, che poi storicamente sarà definito dai giornalisti «pool» dell’Ufficio Istruzione, composto mediamente da quattro elementi. Per periodi brevi siamo stati anche sei. In altri periodi siamo stati in cinque.
Mi piace ricordare alla vostra attenzione come si costituì il gruppo di lavoro dell’Ufficio Istruzione, dalle parole di Paolo Borsellino, audizione al CSM, 31 luglio 1988. La trovate nel documento, in quella monografia che il CSM ha dedicato a Falcone prima e a Paolo Borsellino poi. Io l’ho scoperta per fare un convegno. La data è il 31 luglio 1988. Dico subito quale era stato il caso precedente: la famosa intervista rilasciata da Paolo Borsellino a Bolzoni e a Lodato, dieci giorni prima, il 19-20 luglio, circa lo smantellamento del pool dell’Ufficio Istruzione. Siamo a luglio del 1988.
Il 19 gennaio del 1988, giorno del compleanno di Paolo Borsellino, il CSM fa quella famosa votazione a favore del consigliere Meli e Paolo dirà: «Mi hanno fatto oggi un bel regalo». Si insedia il consigliere Meli, e qua ricordiamo per la storia che il consigliere Meli, che aveva fatto domanda per la presidenza del tribunale di Palermo, che era certamente molto, ma molto più importante di quella di consigliere istruttore presso il tribunale di Palermo, ufficio che già allora si sapeva sarebbe stato soppresso con il codice di procedura, che era prossimo ad essere approvato, rinuncia alla domanda per fare il presidente del tribunale di Palermo per andare a fare il capo di un ufficio di minore importanza nell’ordinamento giudiziario, ma che soprattutto era destinato ad essere soppresso.
Questo per dire qual era il clima che si viveva a Palermo, nel Palazzo di Giustizia, nel momento in cui si stava facendo la
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prima azione organica e organizzata, quindi efficace ed effettiva, nei confronti di cosa nostra.
Paolo Borsellino, quindi, fa questa audizione e, come tutti ricordiamo, anche voi ricorderete al pari di me, Paolo Borsellino, nell’intervista, denuncia lo smantellamento dell’Ufficio Istruzione. Il CSM tempestivamente lo convoca. Formalmente non viene messo sotto procedimento disciplinare, perché un procedimento disciplinare formale non si inizia, però l’audizione fatta su «perché hai detto queste cose da Marsala» evidentemente aveva tutto il sapore di essere un’azione contro Paolo Borsellino. Perché ho ricordato questo? Perché Paolo Borsellino in quella audizione spiega come si costituisce il gruppo di lavoro dell’Ufficio Istruzione, spiegando che è una selezione per cooptazione.
C’è, infatti, un passaggio tecnico. Dice: il gruppo di lavoro non è un collegio all’interno del quale – eravamo tutti giudici monocratici, assolutamente equiordinati secondo l’ordinamento giudiziario del tempo – bisogna contrapporre le proprie opinioni sui fatti, ma è un gruppo di lavoro che deve agire all’unisono, quindi ci deve essere una condivisione degli obiettivi e degli stessi metodi di lavoro a monte. Questo segnatamente sotto quale profilo? Perché Giovanni Falcone, che pure dal punto di vista formale era equiordinato rispetto agli altri, compreso lo stesso Paolo Borsellino, era ritenuto e gli si riconosceva soprattutto una primazia, un’autorevolezza, un potere di coordinamento che l’ordinamento non gli dava. Formalmente c’era il consigliere istruttore, c’era il pur ottimo consigliere Caponnetto, il quale, però, da persona intelligente qual era, stava un po’ indietro rispetto a Giovanni Falcone.
Perché ho fatto tutto questo discorso? Badate, questa è una mia opinione. Non voglio fare psicologia da due cents, come quella di Charlie Brown. Ma questo è quello che ho sempre
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pensato, a maggior ragione oggi, e non credo di essere stato il solo. C’era una parte del Palazzo di Giustizia che soffriva la personalità certamente straripante di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino. Lasciamo stare gli altri componenti. Noi eravamo fungibili, loro erano sicuramente infungibili. Nell’ordine, uno Pelè e l’altro Maradona. Era una bellissima squadra, anche se purtroppo lavorarono insieme, tutto sommato, per poco. A partire dal novembre 1983, anche se avevano lavorato pure prima.
Notate un’altra cosa importante. In questa audizione, Paolo Borsellino spiega che quello di Rocco Chinnici non era il pool dell’Ufficio Istruzione. Era un gruppo di lavoro in cui il consigliere Chinnici, per la prima volta, aveva ritenuto di concentrare in capo a pochi giudici istruttori… Attenzione, i giudici istruttori, all’epoca, sulla carta erano dieci, ma di fatto erano sette o otto. Quindi, parliamo sempre di numeri molto limitati. Togliete quelli che non spiccavano per solerzia, quelli su cui Rocco Chinnici poteva puntare erano cinque o sei. Di questi, ne individua tre: Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Giuseppe Di Lello, a cui assegna processi particolarmente delicati. Altri li assegna a se stesso, quindi lavoravano in quattro, ma tutto sommato erano ancora giudici monocratici. Si scambiavano le notizie, ma non è lo stesso grado di compartecipazione e di sinergia che si avrà, invece, con Caponnetto. Questo non sono io a dirvelo.
Sono rimasto sorpreso, ripeto, un anno fa, quando l’ho letto per la prima volta con attenzione. Lo spiega Paolo Borsellino. C’è soprattutto questo passaggio splendido della differenza tra il gruppo di lavoro, pool dell’Ufficio Istruzione, e un collegio. Paolo dice: «Ci voleva una condivisione anche di tipo caratteriale». Ecco perché parla di cooptazione. Bisognava incastrarsi. Personalità divaricanti non potevano essere accettate, perché,
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spiega Paolo, già allora bisognava correre, bisognava galoppare, bisognava raggiungere risultati, quindi non ci potevano essere queste situazioni nelle riunioni che normalmente facevamo il lunedì pomeriggio, ma certe volte c’erano le riunioni volanti. Nelle riunioni del lunedì pomeriggio Falcone veniva con l’elenco di tutto quello che c’era in ballo e cominciava: «Paolo, tu che cosa hai? Questo? Che cosa hai fatto questa settimana? Che cosa pensi di fare? Leonardo Guarnotta che cosa fa? Peppino Di Lello? De Francisci? Natoli?». C’era una specie di appello con il quale lui, da un lato, ricordava quali erano gli incarichi che ci eravamo o che aveva distribuito a ciascuno di noi, e dall’altro ci chiedeva conto di quello che avevamo fatto e dei programmi di ciò che dovevamo fare.
Giammanco – questa è la psicologia alla quale facevo riferimento prima – appartiene a quel gruppo, che non era particolarmente modesto nel Palazzo di Giustizia, che quando ha l’opportunità di segnare il momento di distacco rispetto a questo modello lo segna. Ecco per quale motivo «io sono il procuratore della Repubblica, tu Falcone sei un procuratore aggiunto». Con tutto il rispetto, con tutto l’apparente rispetto delle forme, nella sostanza … Vero è che Giovanni aveva la delega per la distribuzione degli affari, però, siccome lui partecipava in quanto procuratore della Repubblica, non mancava di fare interventi. Credo di ricordare un’audizione della collega Sabatino, che era una tra le più giovani. Parlo di un periodo nel quale, ripeto, io non sono in procura, quindi sto parlando di cose che ho letto, ma vi indico delle fonti che certamente conoscerete e mi permetto di ricordarle.
La collega Sabatino: Giovanni Falcone stava facendo una distribuzione di processi che dall’Ufficio Istruzione, che non aveva potuto concluderli entro il 31 dicembre 1990, erano passati alla procura della Repubblica, che avrebbe dovuto
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aprire dei fascicoli di indagine preliminare. Lì, ad esempio, si trattava delle indagini sull’omicidio del tenente colonnello Russo. Quindi, parliamo di agosto 1977. Mentre Falcone sta pensando a chi assegnarlo, interviene Giammanco e dice: «Sabatino», che è la prima che si trova seduta a questo tavolo. Insomma, introduce un sistema di assegnazione che chiaramente non ha senso. Falcone, infatti, cercava sempre di far fare a ciascuno dei colleghi cose che o aveva già fatto o che lui riteneva che il collega avrebbe potuto fare al meglio delle proprie possibilità. Non è che assegnasse le cose così, casualmente.
Non so se ho risposto alla sua domanda.
SALVATORE SALLEMI. Solo una curiosità, dottore. Lei ritiene che questo rapporto Giammanco-Borsellino abbia avuto un’influenza negativa in procura anche a livello di indagine, di impostazione, di lavoro, abbia creato dei paletti, abbia reso difficile l’attività?
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Credo che neppure siamo arrivati al punto di mettere alla prova questa sua ipotesi, che comunque può avere valide ragioni per essere posta. Perché? Perché Paolo Borsellino arriva in procura, se ricordo bene, il 1° marzo 1992. In precedenza, sin dal mese di novembre, era stato applicato, già da procuratore, per due giorni o tre giorni alla settimana, perché aveva cominciato a portare Calcara, che lui aveva trattato da procuratore di Marsala. Credo che Calcara cominci a collaborare il 3 dicembre 1991. Come ricordavo l’altra volta, a Palermo arriva il 6 gennaio 1992, perché il gruppo di lavoro era composto da me, Paolo Borsellino e Franco Lo Voi; Paolo in quel periodo faceva, forse, tre volte alla settimana e due volte o altre tre, perché lavorava pure il sabato, andava a Marsala. Viene trasferito, finalmente, il 1° marzo. E siamo ancora in una
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fase di studio. È in questa fase che io ho ricordato, in uno dei dibattimenti, che Paolo diceva: «Guardate che se io mi alzo per andare a riferire al procuratore è perché ritengo che sia corretto fare così, perché io sono il vice e lui è il capo». Non voleva che si dicesse che non rispettava le gerarchie. Paolo era uno che le gerarchie le conosceva e le rispettava, sia quelle di merito, ma soprattutto quelle di forma.
Colgo l’occasione per dire che, ad esempio, la maledetta vicenda del ritardo nell’assegnazione della collaborazione di Mutolo a Paolo Borsellino, che andava contro tutta la storia della nostra esperienza a Palermo, Ufficio Istruzione prima e poi quella che sarebbe stata la procura della Repubblica, è un altro dei momenti nei quali Giammanco è portatore di quella idea che circolava nel Palazzo, ma che nessuno aveva il coraggio di dire: i collaboratori si sceglievano Falcone. L’avrete letto, ormai è nei libri di storia. Ecco per quale motivo mi arriva il verbale del procuratore Vigna, che mi dice che Gaspare Mutolo ha manifestato la disponibilità a collaborare, però vuole parlare con Paolo Borsellino, e lui immediatamente: «la forma», intanto perché c’è il procuratore anziano, che era Vittorio Aliquò, al quale aveva assegnato gli affari di Palermo. Quindi, intanto faccio questo. Guido Lo Forte, poi individua me perché, siccome avevo trattato all’Ufficio Istruzione, nel Maxi ter, Vincenzo De Caro, che era il cognato di Mutolo, quindi mi ero occupato di una guerra che aveva insanguinato il mandamento di Partanna-Mondello negli anni Settanta e addirittura anche negli anni Sessanta, che non era facilissimo. È un modo per dire «Vigna mi segnala che sei tu che devi fare questa cosa. Io sono il procuratore, non te la faccio fare». Contemporaneamente dice: «Siccome è arrivato Leonardo Messina, che parlerà di Agrigento, di Caltanissetta, eccetera e quindi è la tua competenza cosiddetta territoriale, distribuzione degli affari…». Quello di
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distribuzione degli affari è stato un criterio che nel principio ispiratore era quello della trasparenza e della opportunità di evitare che si dicesse che il procuratore della Repubblica assegnava gli affari a Tizio o a Caio, perché li voleva orientare. È una sorta di conquista, tanto che oggi i programmi organizzativi delle procure lo prevedono espressamente, ma sono cose che sono nate nel 1996-1997, quindi ben dopo questo periodo.
PRESIDENTE. Grazie, presidente Natoli. Mi scuso io a nome del senatore Cantalamessa, che è dovuto andare via a causa del question time. Sono normali problemi e dinamiche delle Aule. Do la parola al senatore Scarpinato.
ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Signor presidente, ho alcune domande molto sintetiche. Il dottore Patronaggio, che è stato sentito in una precedente audizione, ha riferito che il 14 luglio 1992 si svolse un’assemblea generale nell’ufficio della procura di Palermo, nell’ambito della quale si discusse di mafia e appalti. Volevo chiedere se lei fu presente, chi parlò di questo argomento, che cosa disse, se c’era Borsellino e quali furono i suoi commenti.
Seconda domanda. Lei ha interrogato, insieme a Borsellino e al dottor Lo Forte, Gaspare Mutolo. Le volevo chiedere se Gaspare Mutolo ha rilasciato, nel corso della sua collaborazione, dichiarazioni rilevanti sul tema mafia e appalti, in particolare per quanto riguarda le informative al ROS nel 1991.
Altra domanda, sempre che riguarda Mutolo. Se le risulta che Mutolo anticipò a Paolo Borsellino che avrebbe fatto importanti dichiarazioni sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e cosa nostra e se, dopo la strage di via D’Amelio, Mutolo fece queste dichiarazioni spontaneamente oppure fu sollecitato a farle.
Ultima domanda, se lei partecipò a una delle prime riunioni del pool della procura della Repubblica sul rapporto mafia e
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appalti, chi era presente, se le posizioni per le quali fu deciso di fare la richiesta di ordinanza di custodia cautelare furono concordate da tutto il pool, se vi furono dissensi e come avvenne quella discussione.
PRESIDENTE. Grazie. Presidente, le chiedo soltanto di stare sulle domande, in modo che tutti i commissari riescano a intervenire.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Senz’altro. Provo ad andare veramente per sintesi.
Sulla seconda domanda che lei ha posto, se Mutolo ha parlato di mafia e appalti, non ha mai parlato di mafia e appalti perché non ne aveva conoscenza. Questo perlomeno a memoria mia, che pure l’ho interrogato lungamente. Almeno per quello che ha riguardato gli interrogatori fatti in mia presenza, e non sono mai stati degli interrogatori fatti soltanto a me, ma c’era con me sempre qualche altro collega, a cominciare dal procuratore aggiunto Guido Lo Forte, non ha mai parlato di mafia e appalti. Tanto che credo di ricordare, io che pure non mi sono interessato del dossier mafia e appalti… Colgo l’occasione per dire espressamente che uno dei grandi equivoci che si è creato è quello secondo cui io mi sarei interessato di mafia e appalti. Stranamente, perché mi sono interessato veramente di parecchie cose all’interno della procura della Repubblica, questa assegnazione non mi è mai stata fatta, tranne in una fase iniziale della quale dirò immediatamente. Anzi, parliamone immediatamente, perché la quarta domanda che ho annotato riguarda proprio la riunione del cosiddetto «pool» della procura. Perché dico cosiddetto pool? Perché avviene a giugno 1991, quindi siamo prima dell’istituzione delle DDA, che sopravverranno, invece, alla fine di novembre 1991. Quindi, c’era un gruppo di lavoro, che io trovo quando arrivo dall’Ufficio
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Istruzione, che è costituito da cinque o sei colleghi, tra i quali anche il senatore Scarpinato. Come anticipavo poc’anzi, arrivo il 9, era un lunedì, e nel pomeriggio mi insedio, cioè prendo ufficialmente possesso del nuovo ufficio in tarda mattinata, mezzogiorno, l’una, nel pomeriggio c’è una riunione del pool della procura del tempo, costituito da cinque o sei colleghi, coordinato dal procuratore Giammanco, e vengo invitato a parteciparvi.
È l’occasione in cui il procuratore mi presenta agli altri colleghi, mi presenta ufficialmente, è chiaro che ci conoscevamo da moltissimo tempo. Quel pomeriggio, se ricordo bene e credo proprio di ricordare bene, i colleghi dovevano concludere, grosso modo, le loro valutazioni sul rapporto mafia e appalti, sul dossier mafia e appalti, quello presentato nel mese di febbraio.
Vengono illustrate le posizioni. Si cominciano a delineare le posizioni, poche, rispetto alle quali i colleghi, a memoria mia in maniera assolutamente unanime, selezionano cinque o sei posizioni, sette posizioni, ora non ricordo.
Tenete presente che io arrivo e non ho letto assolutamente nulla, quindi ascolto semplicemente quello che dicono gli altri. Il leitmotiv di questa riunione è incentrato sul fatto che il dossier mafia e appalti non ha elementi molto forti, ha più criticità che non elementi di forza. È un dossier molto ampio, credo di ricordare di 900 e passa pagine, non so quanti allegati di trascrizioni di intercettazioni, che avevano la caratteristica, da quello che ricordo, e che poi è inutile nascondervi, oggi, trentadue anni dopo, è chiaro che ho letto moltissime cose che all’epoca non sapevo. Selezionare quello che ho sentito quel giorno da quello che poi avrei appreso nei trenta e passa anni successivi sarebbe impossibile. Non avevano delle chiavi di lettura chiare. Evidentemente, il problema era trovare elementi
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che potessero sostenere le posizioni che si portavano a dibattimento, che si sarebbero dovute portare o potute portare a dibattimento.
Il procuratore Giammanco, alla fine di questo incontro, ecco perché parlavo poc’anzi di aver avuto soltanto un accenno, un inizio di conoscenza di questo rapporto, siccome tra le schede che accompagnavano – così sento – quel rapporto ce n’era una di un mafioso del trapanese, della parte di Mazara del Vallo, Nunzio Spezia, chissà per quale motivo ritiene di assegnarmela, dicendo: «Siccome tu hai lavorato, prima di venire a lavorare a Palermo, per cinque anni a Trapani» dove avevo fatto di tutto, praticamente, anche misure di prevenzione che erano appena sorte «leggiti questa scheda». Abbiamo passato tante settimane, tanti mesi. Per carità, alla fine ho visto che non è che i mesi fossero tantissimi. Credo che il dossier fosse stato assegnato, i pezzi del rapporto fossero stati assegnati sul finire di marzo. C’erano aprile e maggio, ed eravamo ai primi di giugno. Comunque, abbiamo passato queste settimane. «Leggiti questa scheda, aggiorniamoci alla prossima settimana e traiamo le conclusioni che oggi sono state avviate».
C’è una riunione successiva, che non saprei, a questo punto, se della settimana successiva o di dieci-dodici giorni dopo, in cui si riprende questo argomento. Chiaramente, mi si chiede se ho letto la scheda e rispondo: «Sì, secondo me non c’è assolutamente nulla che può sostenere una qualche misura» e i colleghi assegnatari (tra i quali non ci sono io, tanto che questa mia affermazione non è che viene supportata da «scrivi qualche cosa» o «dicci qualche cosa», ho semplicemente manifestato oralmente questo discorso) selezionano le cinque o sei richieste di ordinanza di custodia cautelare, sul finire, se non ricordo male, del mese di giugno, che poi porteranno, all’inizio di luglio, all’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti
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di Angelo Siino più altri quattro o cinque. Ripeto, su questi non saprei dire nulla di più.
La cosa che di certo posso nuovamente ribadire è che qualsiasi decisione fu presa senza che alcuno manifestasse opinione contraria o dissenso, sempre in questo clima generale, giusto o sbagliato che sia stato. È chiaro? La rivisitazione di questi ultimi mesi ci porta quasi a pensare che evidentemente tutti hanno sbagliato, tutti abbiamo sbagliato. Sta di fatto che, se abbiamo sbagliato o se hanno sbagliato, abbiamo sbagliato all’unanimità, in una coerenza e in una coesione di valutazioni che certamente, per quello che è il mio ricordo, fino a quel momento ci sono state. E siamo quindi arrivati alla fine di giugno, primi di luglio del 1991.
C’era un’ultima cosa, ho annotato «Mutolo, Servizi e cosa nostra». Se per «Servizi» lei intende il dottore Contrada, presumo, che all’epoca era il numero 3 del SISDE, in mia presenza e per quello che ho letto dalle dichiarazioni di sempre del dottore Lo Forte, Mutolo non parlò mai fino a quando Paolo Borsellino è stato in vita. Per carità, gli interrogatori ai quali faccio riferimento non è che siano tantissimi. Sono quelli di giovedì 16, venerdì 17 e sabato 18 luglio.
I primi due fatti con Paolo Borsellino, quello del venerdì fino alle 12.35. Non è in memoria, l’ho dovuto rivedere nelle settimane passate. Poi, noi siamo rimasti con Lo Forte a interrogare nel pomeriggio del venerdì 17 e nella mattinata di sabato 18.
Mutolo non parlò mai del dottor Contrada, né espressamente né in maniera informale, per quello che riguarda, ripeto, la mia diretta conoscenza. Questo è stato oggetto di varie domande nei dibattimenti ai quali sono stato citato come teste.
Avrete saputo tutti e conoscerete tutti meglio di me che, invece, da altre fonti, intendo altri colleghi, abbiamo appreso, io
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per primo, che Paolo Borsellino il sabato o il venerdì 17… Ecco, dalla lettura delle audizioni, dalla mia audizione del 30 luglio 1992, avevo dimenticato e con sorpresa l’ho letta e la sto riferendo, emerge che Paolo Borsellino il venerdì 17, al mattino, dice a me e a Guido Lo Forte: «Sbrighiamoci perché io oggi, alle 14.30, devo prendere un aereo perché devo rientrare a Palermo». Leggo dall’audizione, ripeto, al CSM di dieci giorni dopo via D’Amelio, che mi disse: «Perché nel pomeriggio ho una riunione di coordinamento con il procuratore Tinebra, che si è insediato mercoledì».
Tinebra si era insediato mercoledì 15 luglio e Paolo venerdì mattina, il 17, ci dice: «Ho questa riunione di coordinamento». Era una cosa che avevo completamente dimenticato e che chissà perché era diventata nel mio ricordo «perché ho un impegno familiare nel pomeriggio».
Poi, invece, dalle audizioni di altri colleghi apprendo che, non so se il venerdì pomeriggio, certamente il sabato mattina, Paolo ha detto ad alcuni colleghi, tra cui anche al senatore Scarpinato, se non ricordo male, che Mutolo aveva fatto riferimento al dottore Contrada e al PM Mimmo Signorino. Cosa, ripeto, che in presenza mia e certamente di Guido Lo Forte, non è mai accaduta.
Quando riusciamo a mettere a verbale, con Gaspare Mutolo, questi due nomi? Ricorderete, forse, che la scorsa settimana ho fatto riferimento, per storicizzare il periodo del quale ci stavamo occupando, al fatto che, dopo via d’Amelio, l’attività della procura continuò abbastanza intensa ed efficace, devo dire. Gaspare Mutolo, per fortuna, mantenne ferma la sua decisione di collaborare con la giustizia. Il 1° settembre sopravvenne l’altra importantissima collaborazione di Pino Marchese. Sulla base già delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo e di Pino Marchese, la procura, in particolare l’allora PM Scarpinato, io,
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Guido Lo Forte e forse nessun altro o forse un altro collega, non lo ricordo in questo momento, avanziamo, il 10 ottobre 1992, al GIP la richiesta di custodia cautelare nei confronti di tutti i componenti della commissione provinciale di Palermo di cosa nostra, quali mandanti dell’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, avvenuto il 12 marzo precedente.
Perché è importante questo discorso? Perché, ottenuta la misura, la settimana successiva, credo il 23 ottobre 1992, con Lo Forte andiamo a interrogare nuovamente Gaspare Mutolo, il quale, nei mesi precedenti, in quei tre mesi in cui aveva mantenuto ferma la sua volontà di andare avanti, ci diceva: «Io voglio parlare intanto dell’organizzazione cosa nostra, di cosa nostra militare, delle decine se non centinaia di omicidi che abbiamo fatto sul versante, appunto, militare, e non voglio parlare di rapporti che riguardano la politica, di rapporti che riguardano esponenti o comunque appartenenti alle istituzioni deviate». Noi approfittiamo della importanza, soprattutto dell’impatto mediatico che questo provvedimento fatto nei confronti della commissione per l’omicidio Lima ha sulla stampa, per ritornare da Mutolo e dirgli: «Mutolo, lei si sta rendendo conto che lo Stato, attraverso questa azione, sta dimostrando di avere una seria volontà di andare avanti, di non guardare in faccia nessuno, perché finalmente si vuole fare chiarezza su tutto ciò che riguarda le azioni a 360 gradi poste in essere da cosa nostra? Quindi, ha per caso conoscenza di rapporti tra cosa nostra e pezzi deviati dello Stato?». A questo punto Mutolo finalmente comincia a parlare dei rapporti con il dottore Contrada e con l’allora sostituto della procura di Palermo Mimmo Signorino, che era stato uno dei due rappresentanti in dibattimento davanti alla corte d’assise di Palermo, nel primo storico processo contro cosa nostra. Quindi, verbalizziamo queste prime dichiarazioni il 23 ottobre 1992 e chiaramente
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– l’avevo accennato l’altra volta – una misura cautelare nei confronti del dottore Contrada la otteniamo nel mese di dicembre, non ricordo, forse il 22 dicembre 1992.
Resta l’assemblea del 14 luglio 1992. Ho partecipato a quella assemblea, era una assemblea abbastanza partecipata – una trentina di colleghi – che era stata preannunciata con una convocazione scritta che diceva: «Riuniamoci perché intanto cogliamo l’occasione per fare quest’ultima assemblea prima delle ferie estive.» – siamo al 14 luglio – «Nel corso di questa assemblea saranno trattati i seguenti punti» che a memoria credo di ricordare fossero: mafia e appalti, ricerca latitanti, cosiddetto «libro mastro dei Madonia o di via D’Amelio».
Questo discorso perché nelle settimane precedenti, nei giorni precedenti, non saprei quantificare esattamente il numero dei giorni, sulla stampa era ritornata – il motivo per cui era ritornato questo problema non lo ricordo, ma certamente il problema era ritornato sulla stampa – una polemica su quello che riguardava il dossier mafia e appalti, sempre sull’onda del «avremmo potuto fare delle cose, si sarebbero potute fare delle cose straordinarie, ma siccome la procura è fatta da gente inaffidabile, evidentemente queste cose non vengono fuori».
Poi, ricerca latitanti, perché? Perché c’era stata una notizia di stampa secondo la quale Totò Riina avrebbe potuto essere catturato e non era stato catturato.
Libro mastro, perché? Il 29 agosto 1991, quindi circa un anno prima, lo ricorderete, era stato ucciso a Palermo l’imprenditore Libero Grassi. Sulla stampa era venuta fuori, era montata una polemica secondo la quale la procura di Palermo, sempre questa procura inaffidabile, aveva lasciato liberi o non aveva catturato soggetti che emergevano dal cosiddetto libro mastro. Il libro mastro era stato trovato in un appartamento di via d’Amelio e conteneva una serie di soggetti, una serie
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numerosa di soggetti che erano stati estorti, ma con indicazioni che erano appena accennate. Ne dico una. Vi ripeto, l’ho letta, ma rileggetele pure voi queste cose. C’era Ciccio Taglia. Chiaramente, per noi Ciccio Taglia era Ciccio Tagliavia, uomo d’onore dalla parte di Brancaccio. Era stata fatta una misura. La Cassazione aveva ritenuto che Ciccio Taglia non potesse identificarsi in Ciccio Tagliavia. Questo per dire – mi riporto a un passaggio dell’audizione della volta passata – che tra le idee, i sospetti, le ipotesi di una procura e di un pubblico ministero e il vaglio che un giudice, dal giudice delle indagini preliminari al tribunale del riesame, alla Corte di cassazione, fa, poi, delle evidenze di questi elementi c’è di mezzo il mare. Ciccio Taglia, che per noi, e non solo per noi, era certamente Ciccio Tagliavia, per la Cassazione era un elemento, invece, insufficiente per ottenere un provvedimento di custodia cautelare nei confronti del soggetto.
Questo elemento, quindi, aveva portato alla polemica sulla stampa, secondo la quale la procura aveva lasciato liberi certi killer a Palermo, i quali avevano ucciso il povero Libero Grassi. Ecco per quale motivo c’è il passaggio assicurato. Per quanto riguardò «Mafia e appalti», uno dei relatori certamente fu Guido Lo Forte. L’altro avrebbe dovuto essere il senatore Scarpinato, se fosse stato presente, ma aveva, purtroppo, gravi problemi di famiglia e non partecipò a quella riunione. Fece la relazione ampia Guido Lo Forte, il quale, ad esempio, fece presente che c’era a monte del dossier mafia e appalti un problema giuridico di non poco momento, soprattutto per dei sostituti procuratori e per una procura che, costituzionalmente orientata, ragiona, come ho detto pure nell’audizione passata, o avrebbe dovuto ragionare con la mentalità del giudice, quindi non andando avanti a testa bassa in una ipotesi accusatoria, ma ponendosi nell’ottica «e poi, quando andiamo avanti, come si
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può motivare questa decisione?». Quindi, Guido Lo Forte spiegò che il dossier mafia e appalti metteva insieme una serie di intercettazioni che avevano delle fonti di tipo diverso, alcune intercettazioni fatte un po’ come quelle di Massa-Carrara, alle quali pure ho fatto riferimento, richieste dall’Alto Commissario, buone per andare avanti nelle indagini, ma inutilizzabili a livello giudiziario a qualsiasi livello.
Ottenute dal giudice istruttore, sotto l’impero del codice del 1930, intercettazioni che dal giudice istruttore erano passate alla procura della Repubblica con il codice nuovo del 1989, perché l’istruzione non era stata conclusa entro il 31 dicembre 1990. Quindi, erano utilizzabili, non erano utilizzabili, soprattutto su un punto: l’utilizzabilità, la transitabilità delle intercettazioni quando riguardavano il 416-bis semplice, cioè per la semplice partecipazione, per il primo comma e non già per il secondo comma, cioè per i capi, gli organizzatori e coloro che avevano costituito l’associazione.
Questo era un problema di grandissima importanza, soprattutto perché siamo in una fase iniziale delle interpretazioni delle norme del nuovo codice, sulle quali non c’era una giurisprudenza, quindi si poteva sostenere che erano tutte utilizzabili oppure bisognava fare attenzione perché, se si portavano avanti delle ipotesi, poi davanti al giudice sarebbero potute crollare.
Attenzione, da questo punto di vista, non è solo il giudice dell’indagine preliminare, non è solo il giudice del riesame, ma è il giudice fino alla Cassazione. Laddove certi elementi a carico di un soggetto si fossero basati su intercettazioni illegittime, talché inutilizzabili, evidentemente fino alla Cassazione ci sarebbe stata la possibilità di vedere revocare una eventuale decisione di grado inferiore o precedente di responsabilità.
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Questi erano i motivi sui quali si è parlato. Si parlò dell’indagine, della necessità, che era stata assunta, per i motivi ai quali pure facevo riferimento l’altra volta, di chiudere delle posizioni, che erano chiaramente posizioni che in quel momento non presentavano elementi sufficienti per andare avanti. Intanto faccio l’archiviazione. Dopodiché, mi sopravviene un elemento di novità che mi legittima a richiedere al GIP la riapertura delle indagini per il quid novi che è sopravvenuto. Riapriamo e andiamo avanti. Questo è quello che ricordo io.
Paolo Borsellino, io ho un’immagine…
PRESIDENTE. Chiedo scusa, presidente Natoli, così indico dei tempi e do una specifica, e poi la faccio continuare. Credo che la domanda del senatore Scarpinato fosse specifica: si è parlato o no dell’archiviazione? Patronaggio ci ha detto di sì.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Sì.
PRESIDENTE. Quindi, Borsellino era a conoscenza dell’archiviazione?
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Certo. Per quello che ricordo io…
PRESIDENTE. Che non risulta nel verbale di Patronaggio al CSM.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Perdonatemi. Non risulta dal verbale di Patronaggio, però non vi sarà sfuggito da quel verbale che l’ottimo oggi procuratore generale di Cagliari dice, in quel verbale, che era la prima riunione alla quale lui partecipava, che era arrivato da due-tre mesi in procura, che addirittura quello è il primo
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giorno nel quale – se ricordo bene le sue parole – lui ha preso coscienza delle divaricazioni esistenti all’interno della procura di Palermo.
Ecco, io ho detto che ho partecipato…
PRESIDENTE. Come se avesse preso coraggio.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Non come se avesse preso coraggio, attenzione. È quello che io ho detto con riferimento alla mia prima riunione del 9 giugno 1991. Io non avevo letto nulla. Ho partecipato a una riunione nella quale i colleghi hanno rappresentato quello che avevano letto e studiato del dossier mafia e appalti. Il mio apprezzamento delle loro rappresentazioni dei fatti è l’apprezzamento di un soggetto che non ha la stessa conoscenza delle cose.
Quindi, tornando a Patronaggio, inquadriamolo in questo riferimento. A che cosa intendo fare riferimento, per quello che, invece, è stato il mio ricordo? Patronaggio dice che Paolo Borsellino chiese spiegazioni delle carte: «Che fine hanno fatto le carte di Marsala?». Le carte di Marsala erano quelle che riguardavano l’appalto di Pantelleria, della litoranea di Pantelleria, che egli aveva trattato, lui e Antonio Ingroia avevano trattato alla procura di Marsala, in quanto competenti territorialmente – ripeto, ne ho una conoscenza de relato e come tale ve la porgo – che aveva mandato, se non sbaglio, a Palermo, perché c’era stata una segretaria che aveva fatto delle dichiarazioni a carico di qualche soggetto che risultava nel rapporto. Quindi, chiede: «Quelle carte che abbiamo mandato» – e tenete presente che Antonio Ingroia era in procura da noi già, quindi era transitato qua con il bagaglio delle sue conoscenze – «che fine hanno fatto?».
Questo è il mio ricordo di quella richiesta di chiarimenti di Paolo Borsellino.
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Stavo dicendo che, sempre come immagine visiva, io ho un’immagine di Paolo Borsellino che stava a ridosso di una porta aperta, che era la porta d’accesso alla sala nella quale noi eravamo riuniti, appoggiato ad uno stipite. Perché? Perché Paolo fumava, fumava in continuazione. Giammanco, se c’era una cosa, tra le tante, che odiava era il fumo, quindi Paolo stava appoggiato allo stipite. Ho un vago ricordo che c’era un altro che fumava insieme a lui, che potrebbe essere stato Antonio Ingroia. Ogni tanto entrava all’interno della stanza – era come se fosse stato lì e noi fossimo seduti qua –, faceva una domanda o seguiva, comunque, quello che si stava dicendo e ritornava fuori. Quindi, non ho un ricordo – per essere preciso sul punto – di critiche che Paolo Borsellino muove relativamente all’illustrazione di questo rapporto mafia e appalti. Poi, c’è il dottor Pignatone che parla della cosiddetta «mancata cattura» di Riina e sul libro mastro di via d’Amelio, Vittorio Teresi e Ignazio De Francisci. Il terzo avrebbe dovuto essere Alfredo Morvillo, che però, anche lui, per motivi familiari, quel pomeriggio non è presente.
Questo ricordo, ripeto, dopo trentadue anni, o qualcosa di più, di quel 14 luglio 1992. Mi pare di aver risposto alle sue domande.
PRESIDENTE. Prego, senatore, soltanto una cosa.
ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Le chiedo se Borsellino le parlò di un’arrabbiatura che aveva avuto che riguardava Contrada, in un incontro con Contrada.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Questa è famosissima.
PRESIDENTE. Mi scusi, prima che risponda, per gestire al meglio i lavori, vorrei far presente che ci sono ancora sei iscritti
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a parlare e, volendo stare nei tempi, dovremmo chiudere per le 16.30, massimo 17, per cui le chiedo una sintesi, diversamente non si riesce a consentire ai commissari di intervenire e non mi sembra corretto.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Certamente. Si riferisce l’arrabbiatura – ne ho già parlato in altre sedi e quindi mi rifaccio a questo ricordo – all’incontro del 1° luglio 1992, quindi è il giorno nel quale Paolo Borsellino e Vittorio Aliquò vanno a Roma, dopo che c’è stato tutto il problema dell’assegnazione controversa «chi deve interrogare Mutolo»; su Leonardo Messina non ci furono questioni.
Per il primo interrogatorio di Leonardo Messina e di Gaspare Mutolo vengono designati i due procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Paolo Borsellino. Paolo Borsellino sta interrogando, insieme a Vittorio Aliquò, Gaspare Mutolo e ricevono, non so attraverso quale passaggio, una telefonata dal Viminale, secondo la quale il Ministro Mancino che si sarebbe insediato quel giorno desiderava incontrarli. Vanno al Viminale e questo Paolo me lo racconta, se ricordo bene, il giorno successivo, quando rientra a Palermo. Vanno al Viminale dove, invece di andare direttamente nella sala nella quale il Ministro si sarebbe dovuto insediare, non so bene che tipo di manifestazione o che tipo di evento fosse, vengono portati in un salottino dove restano per un quarto d’ora, venti minuti. Paolo, tanto per cambiare, come dicevo prima, fuma nervosamente. Dice che a un certo punto vede aprire una porta dalla quale appare la figura dell’allora capo della Polizia Parisi, che lo saluta, chiaramente, e dietro Parisi c’è il dottor Bruno Contrada, che probabilmente era l’ultima persona che Paolo Borsellino immaginava di incontrare quel giorno, perché non aveva motivo di incontrarlo. Il dottor Contrada, nello scambio di saluti e di cose
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che il capo della Polizia dice, aggiunge: «So che state sentendo Gaspare Mutolo. Lei se lo ricorda che io, negli anni Settanta, ho fatto indagini su Gaspare Mutolo? Se per caso dovesse avere bisogno di qualcosa, tenga presente di queste mie pregresse conoscenze».
Chiaramente Paolo Borsellino – ecco il perché dell’arrabbiatura, per non usare altra espressione più greve – ritorna il giorno dopo dicendomi: «Guarda che cosa è accaduto». Della esistenza della collaborazione di Gaspare Mutolo noi pensavamo di essere i pochissimi destinatari. La notizia dalla procura di Firenze, a memoria mia, arrivò intorno al 24 giugno, quindi era una cosa recentissima. Era il primo giorno che loro stavano incontrando Gaspare Mutolo. Ritenevano e ritenevamo che la cosa fosse avvolta dalla riservatezza, non voglio dire dal segreto, ma dalla riservatezza più assoluta. Il fatto che spunti un soggetto, intendo il dottor Bruno Contrada, che non aveva alcun motivo di conoscere queste cose, che dice: «So che state sentendo Gaspare Mutolo», evidentemente, fa saltare in aria il dottor Paolo Borsellino.
Addirittura, in un interrogatorio successivo, Gaspare Mutolo ci dirà che quel giorno, quando ritornò da quest’incontro al Viminale, Paolo Borsellino era talmente esagitato che aveva una sigaretta in bocca e contemporaneamente tentò di accenderne una seconda, al punto che Gaspare Mutolo dice: «Procuratore, ma già sta fumando». Questo per dire come era fuori dai gangheri. Questo è il ricordo che ho di quella vicenda.
PRESIDENTE. Do la parola al senatore Russo.
RAOUL RUSSO. Dottore, in apertura della sua audizione della settimana scorsa, lei avrebbe parlato di errori metodologici nei quali sarebbero incorsi gli altri auditi precedenti, in particolare sulla vicenda della famosa trasmissione atti da
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Massa-Carrara alla procura di Palermo, il famoso procedimento 3589/91. Anzi, esattamente le sue parole furono: «Sono stati narrati come fatti veri quelle che erano soltanto mere ipotesi investigative, se non addirittura dei semplici sospetti o suggestioni». Poi, lei ha aggiunto che successivamente da questo procedimento non sarebbe scaturito sostanzialmente nulla, addirittura ci sarebbero state una serie di archiviazioni, una serie di…
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Sono i documenti che mi sono arrivati da Lucca.
PRESIDENTE. Faccia finire, poi le do io la parola.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Certo. Ha ragione.
RAOUL RUSSO. … non ci sarebbe stato nessun collegamento con la famosa Calcestruzzi di Ravenna.
Io vorrei comprendere un passaggio. Ho rivisto la sua audizione e ho cercato di informarmi attraverso alcuni atti. Queste sue affermazioni come si conciliano con la stessa condanna, che lei ha ricordato qui, della sentenza del 2 luglio 2002, che poi è divenuta definitiva, nel quale Lorenzo Panzavolta, amministratore delegato della capogruppo e holding ravennate, quindi l’apice, nel capo di imputazione viene condannato «per aver consentito ad esponenti di rilievo di cosa nostra, fra cui Buscemi Antonino, il totale controllo nell’ambito della Regione Siciliana e per quanto riguarda la SAM e la IMEG toscane delle attività economiche riferibili alle imprese del gruppo». Questo è nell’ambito della citazione. «Parimenti Giovanni Bini, all’epoca dirigente e capo area in Sicilia sempre della Calcestruzzi» – leggo sempre dal capo di imputazione – «essersi messo a disposizione di Buscemi Antonino e della famiglia mafiosa di
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Passo di Rigano, nell’interesse della quale, oltre che dell’interesse dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra”, svolgeva, per volontà di Riina Salvatore, il ruolo di soggetto incaricato della illecita gestione degli appalti pubblici in Sicilia e di gestore del connesso mercato delle forniture di calcestruzzo, di marmo e inerti a cui la società del gruppo Calcestruzzi e Buscemi erano interessati».
Questa sentenza mi sembra che sia in contraddizione con quello che lei ha affermato e che, invece, dimostri la correttezza dell’ipotesi formulata dal dottore Lama, quando le trasmetteva quegli atti, che fossero rilevanti i legami tra il controllo della società SAM e IMEG di Massa-Carrara da parte di Buscemi Antonino per il tramite del cognato Cimino, che era l’intestatario di quelle realtà.
Da un lato, quindi, lei dice che questa indagine aveva poco costrutto e che addirittura poi non avrebbe portato a nulla, ma non riesco a comprendere come si riesca a collegare con questa sentenza.
Parimenti, nella stessa logica, si è parlato tanto delle famose intercettazioni. Lei, a seguito di quella trasmissione di atti, avvia delle trasmissioni su utenze fisse, a suo dire, da sue risultanze, intestate agli indagati, che non portano a nulla, tant’è vero che poi c’è la famosa vicenda della smagnetizzazione e quant’altro, ma non vengono disposte intercettazioni ambientali. Vengono disposti altri approfondimenti. Se non ricordo male, studiando, la Guardia di finanza le aveva anche rappresentato che i soggetti monitorati erano soliti incontrarsi di persona. Uno si aspetta logicamente che probabilmente, date le utenze fisse, già a quell’epoca, si avesse la prudenza di non parlare di particolari fungibili di incriminazioni. In quel caso, perché non è stata acquisita alcuna dichiarazione, perché non si è proceduto a un interrogatorio o dichiarazioni testimoniali, perché non si è
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proceduto ad attività investigativa che andasse ulteriormente a verificare questa cosa? Perché, a mio sommesso parere, comunque il fatto che arrivasse da Massa-Carrara un collegamento così delicato tra uno dei principali gruppi imprenditoriali italiani in quel momento e personaggi comunque già di conoscenza, di potenzialità criminale, perché non ha portato a ulteriori passaggi?
Le rifaccio, al contrario, la domanda che ho posto al dottore Lama. Il dottore Lama non l’ha chiamata, ma neanche lei lo ha chiamato. Io non sono un giudice, saranno carte sia pure succinte, però personalmente penso che avrei fatto un salto sulla sedia: c’è in quel momento il più importante gruppo industriale che via via era diventato sostanzialmente a livello della Fiat, comunque sono personaggi di un certo rilievo, perché il collega mi manda questi atti, sia pure in maniera succinta?
Chiudo con la terza domanda o considerazione. Sostanzialmente, da quello che ho detto prima e anche dalle sue affermazioni, è come se tutta l’attività investigativa – peraltro, oltre alla trasmissione di atti, se non ricordo male, c’è un’ulteriore nota dell’aprile 1992 che integra quella trasmissione atti – appare un’attività investigativa di non sufficiente importanza rispetto a quanto si poteva acquisire.
La dottoressa Principato, nell’audizione del 30 luglio 1992 in cui al CSM parla della logica della procura di Palermo, da lei ampiamente descritta in alcuni passaggi come detto oggi le carte a posto. Non vorrei che questo atteggiamento derivasse da un indirizzo che formalmente, giustamente, rileva che potevano esserci, come diceva lei, elementi che potessero portare ulteriore incriminazione e quant’altro. Però non comprendo una cosa, e chiudo. Lei stesso ha parlato del metodo della procura di Palermo: «archivio, ma tengo pronte le carte per poter riaprire» se ho ben compreso «quando possono sorgere elementi
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ulteriormente importanti». A quel punto, non comprendo perché andare addirittura a chiedere la smagnetizzazione di quelle intercettazioni. Non comprendo perché non tenere comunque un filone importante, con la dovuta attenzione, pronto per essere ripreso, come lei stesso ha detto che era vostra prassi.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Lei ha citato la sentenza del 2 luglio 2002. Quella è una sentenza che – se avete avuto modo di vedere – nasce non solo e non tanto dopo le dichiarazioni di Angelo Siino dell’11 luglio 1997, ma addirittura dopo che c’è stato il contributo di Giovanni Brusca, che è del 1998-1999, di Sinacori, di Francesco Paolo Anselmo, di Giuseppe Marchese, di Totò Cancemi del 1993 e chi più ne ha più ne metta. Io ho parlato di uno «schiacciamento di conoscenze», di un portare le conoscenze posteriori in un momento anteriore e ho detto che lo schiacciamento è avvenuto nel momento in cui si è dato per conosciuto o conoscibile un dato che in rerum natura si sarebbe verificato anni dopo.
Lei ha fatto riferimento ad un capo di imputazione per la formulazione del quale evidentemente c’è stato il contributo di questo bel numero di collaboratori di giustizia, il primo dei quali, il più prossimo ai dati dei quali io avevo la disponibilità al 1° giugno 1992, sarebbe stato Giuseppe Marchese, il 1° settembre, oppure quella frase icastica, della quale ha dato la sua valutazione il giudice della piena cognizione, «la Calcestruzzi è nelle mani di Riina», che si dice essere stata assolutamente non provata nel dibattimento e a cui rinuncia lo stesso pubblico ministero di udienza, che era un signor pubblico ministero, l’attuale procuratore della Repubblica Maurizio De Lucia che era colui che ha seguito quel processo al dibattimento.
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Ma veniamo a quello che io avrei dovuto fare. Non dico «potuto fare», perché credo di avere fatto, al meglio delle mie scarse capacità, quello che avete avuto modo di vedere. La base di partenza, egregio senatore, sono queste quattro paginette del dottor Lama o meglio sottoscritte dal dottor Lama, ma, come ho avuto modo di dire l’altra volta, presumo che gliele abbia scritte qualcun altro, perché il dottor Lama avrebbe scritto certamente di più e meglio, in cui si dice che Calderone ha parlato di Buscemi. Vi ho già detto che lui me lo dice il 2 settembre 1991. Giusto? Io, insieme agli altri, a cominciare dal compianto dottor Falcone, avevamo fatto il mandato di cattura nei confronti di Buscemi il 10 marzo 1988, per sentirci dire, il 21 marzo 1988, dal tribunale del riesame che ce ne dovevamo ritornare a casa «con le pive nel sacco», perché le dichiarazioni non già del solo Calderone, ma anche di Marino Mannoia e degli altri prima di Marino Mannoia erano insufficienti a sostenere un mandato di cattura. Ha retto dal 10 al 21: undici giorni.
Mi sono fatto una scaletta della storia di Nino Buscemi che se volete vi posso riepilogare in sintesi, fino ad arrivare al 2002.
PRESIDENTE. Presidente, ci fidiamo sulla parola.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Il 7 febbraio 1986 c’è una sorveglianza speciale per anni due. Il 9 gennaio 1987 la corte d’appello annulla la sorveglianza speciale. Il 10 marzo 1988 vi ho detto del mandato di cattura, che dura undici giorni. Dopodiché, c’è un decreto di misure di prevenzione dell’8 aprile 1994, quello originato dalla proposta della procura di Palermo del 27 ottobre 1992 che comprende obbligo di soggiorno per la durata di anni quattro, più sequestro dei beni. Il 23 gennaio 1996 la corte d’appello revoca il sequestro dei beni. E siamo arrivati al 1996. Il 20 maggio 1998 c’è, finalmente, l’ultima proposta per sequestro e
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confisca dei beni che porta al decreto del 15 maggio 2002 di sequestro e confisca nei confronti di Buscemi. Siamo arrivati, come vede, al 15 maggio 2002.
Fino a quel momento, quindi fino al 23 gennaio 1996, ci sono tentativi di andare nei confronti di Buscemi che vengono puntualmente bocciati da tutti i giudici che valutano quegli elementi, sia in termini di indagini (parlo del Maxi quater, quindi del mandato di cattura del 1988) che in sede di misure di prevenzione. L’unica misura di prevenzione che attinge a un risultato è quella che viene proposta il 20 maggio 1998, quindi con il conforto di tutti quei collaboratori ai quali facevo riferimento prima, e che si conclude quattro anni dopo.
La base di partenza delle intercettazioni, che sono le cose che mi richiede il dottor Lama, è esattamente questa. Lei diceva: per quale motivo vi siete limitati alle intercettazioni sulle utenze fisse? Io ho fatto riferimento al supporto tecnico e di conoscenze specifiche delle indagini del GICO della Guardia di finanza di Palermo, che già collaborava sin dal 1990 con il dottor Lama. Sono loro che mi propongono i numeri e i sistemi di intercettazione.
Non vorrei sfondare una porta aperta, ma attenzione che nel 1991-1992 i cellulari li avevamo appena intravisti con Italia ’90, se lei ricorda. I cellulari, a Palermo, la procura della Repubblica li ottiene all’indomani dell’omicidio Lima, 12 marzo 1992. Venimmo dotati dei primi cellulari. Intanto venimmo dotati chi? Il sostituto di turno. Anzi, noi ne avevamo due: avevamo un sostituto DDA e un sostituto della procura ordinaria. I primi ad aver avuto i cellulari sono stati i sostituti che erano di turno in quel caso.
Questo per quanto riguarda la sentenza del 2002, alla quale ella ha fatto riferimento, o le intercettazioni.
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RAOUL RUSSO. Io non ho parlato, intanto, di intercettazione dei cellulari, che ricordo perfettamente in quel momento essere poco diffusi, ma di riscontri. Credo che le intercettazioni ambientali fossero già in essere in qualche caso e che ci fosse, comunque, la possibilità di fare altra attività investigativa.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Non vorrei dire una cosa della quale non sono certo al 101 per cento, ma che azzardo. Vado a memoria sulla mia esperienza. Credo che fino al 1990-1991 io di intercettazioni ambientali non ne ricordo. Forse, se potessi fare appello al… Non glielo posso chiedere, perché ha altra veste. Non ricordo. Credo che le ambientali siano diventate, per fortuna, utili e molto più praticate nei decenni o nel decennio successivo. Comunque, ripeto, non viene proposto nulla.
Lei giustamente diceva: «Lei non gli ha telefonato». Io gli ho scritto. Il 18 novembre 1991 gli ho scritto dicendogli: «Guarda che ho ricevuto questo tuo fascicolo due mesi fa, ho fatto l’iscrizione e sono io a fare le iscrizioni per primo». Lei faceva riferimento alle mancate iscrizioni del fascicolo del dottor Lama. Lo ho appreso dalle certificazioni che mi fa il procuratore di Lucca, che ha ricevuto il fascicolo originariamente del dottor Lama.
Ancora, lei ha fatto riferimento ad un ulteriore supplemento di informazioni che sarebbero arrivate, anzi, che sono arrivate a Palermo il 10 aprile 1992. Questa carta finisce a Paolo Borsellino per la distribuzione posta. Paolo Borsellino la assegna a Pignatone e Lo Forte. Questo a dimostrazione del fatto che il fascicolo 3589/91 non viene mai associato a mafia e appalti. Non viene mai associato. Questa è un’associazione che viene fatta anni dopo, non so bene da chi, perché io per primo sto ancora cercando di capire chi per primo mette insieme queste due cose.
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Per noi, il 3589 è una richiesta di intercettazioni telefoniche delle quali ho forse parlato troppo o comunque non a sufficienza, a quanto pare, che dà luogo alla risposta della Guardia di finanza che abbiamo citato l’altra volta, pagina 6 di questo rapporto, in cui si dice che non c’è assolutamente nulla. A supporto di questo, vengono trascritte integralmente ventinove conversazioni ritenute le più rilevanti a sostegno della valutazione di vacuità che la Guardia di finanza fa nel rapporto 26 marzo 1992.
Per noi è questo. Il 3589/91 con mafia e appalti non c’entra mai, tanto che quando poi il dottor Pignatone, il 4 marzo 1993 – e poi, come abbiamo detto, Ilda Boccassini, Roberto Saieva, Biagio Insacco e credo qualche altro – riapre questo fascicolo, con queste carte, addirittura non quelle mie, che, come vedete, contenevano quasi nulla, non voglio dire nulla, ma quasi nulla, ma quelle ricche, con i contributi dei collaboratori della fine 1992, 1993, 1994 e 1995, portano tutte alla archiviazione. Questo lo vedete dalla certificazione che ha fatto il Registro Generale della DDA di Palermo sul divenire del fascicolo 1500/93 RGNR, che è il 3589/91 mio, riaperto da Pignatone successivamente. Ecco qua, Pignatone, Boccassini, Insacco, Patronaggio – c’è pure Patronaggio – e Saieva, definito da ultimo nel 1995. Sono le certificazioni che vi ho prodotto la volta passata.
Attenzione, questi sono i sostituti. I sostituti fanno le richieste. I giudici hanno accolto queste richieste e hanno evidentemente convalidato. Avranno sbagliato tutti? Per carità, ripeto, nel campo delle ipotesi, non possiamo non escludere questo discorso, ma siccome convenzionalmente, nel mondo del diritto, sappiamo che si arriva alla stazione finale con le sentenze passate in cosa giudicata o con i provvedimenti che non danno luogo a qualcosa di successivo a loro stessi.
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È chiaro? È una convenzione, perché, altrimenti, potremmo dire che tutte le sentenze di condanna sono sbagliate, perché tutti gli imputati erano assolutamente innocenti oppure che tutti gli imputati ritenuti e dichiarati innocenti erano tutti irreversibilmente colpevoli. Per carità, se le indagini diventano soggette alla interpretazione che ciascuno di noi dà dei risultati delle indagini stesse, ovviamente, cambiamo assolutamente registro. Credo che, però, non sia un criterio non dico giuridicamente – perché giuridicamente ovviamente non sta in piedi – ma neppure logicamente utilizzabile.
RAOUL RUSSO. L’ultima considerazione. Però comunque il Panzavolta viene condannato. Quindi, il fatto di dire che non c’è stato alcun rapporto è un’affermazione un po’ eccessiva. Poi, se non ricordo male, lei dice di avere scritto a Lama, se ho capito bene…
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Sì, è qua, guardi…
RAOUL RUSSO. … e non c’è una risposta dell’aprile?
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Assolutamente, guardi, gliela do.
RAOUL RUSSO. Non c’è una nota in cui dice che ci sono altre intercettazioni e altre…?
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Mi perdoni…
PRESIDENTE. Io sto lasciando, come avete visto, a differenza di altre volte, la possibilità di interloquire, perché sono atti molto complicati, altrimenti diventa difficile per tutti capire.
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GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Scusatemi, per il verbale e per chiarezza, questa è la nota iniziale della richiesta di intercettazioni che fa Augusto Lama o chi per lui. Questa è la relazione finale che gli chiede il procuratore Duino Ceschi quando lui ha restituito il fascicolo perché si è astenuto. Ceschi si accorge che non c’è neppure la competenza territoriale e gli chiede di fare una relazione. Questa relazione dell’aprile 1992 è omologa a quella del 1991 che lui aveva mandato a me, né più e né meno. Non è qualcosa di aggiuntivo, è qualche cosa che si replica. È chiaro? Il procuratore dice: «Guarda, siccome devo mandare il fascicolo a Lucca, mi fai un riepilogo, per piacere, di quello che hai fatto?» e lui fa un riepilogo che è esattamente quello che aveva chiesto in precedenza a me. Queste sono le carte. Guardate che le carte, continuo a dire, sono purtroppo molto più modeste. Si è creata una sovrapposizione impropria fra questo fascicoletto, che – lo ripeto – oltre che da me è stato visto da almeno altri cinque signori pubblici ministeri molto più bravi di me e da giudici delle indagini preliminari, che hanno archiviato le loro richieste, e mafia e appalti. Nessuno ha trovato nulla. Lo ripeto, c’è questa sovrapposizione fra questo fascicoletto e mafia e appalti, che è un’altra cosa.
Lei giustamente ricorda Panzavolta, Bini, eccetera. Ebbene, sono stati condannati sulla base delle sopravvenienze che sono quelle degli anni successivi, soprattutto successivi all’11 luglio 1997. Io ho in mano carte fino al 31 maggio 1992, che sono quelle carte scarne che sto tentando, anche visivamente, di farvi vedere.
Scusatemi, ma io per primo sono rimasto sorpreso da questa sovrapposizione. Per noi il procedimento 3589/91 non c’entra nulla con mafia e appalti. Non c’entra nulla. È chiaro?
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PRESIDENTE. Chiedo intanto all’onorevole D’Attis se è collegato e se mi sente.
MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Sì, sono collegato.
PRESIDENTE. Perfetto. Mi permetto di provare ad aiutare la Commissione su una riflessione semplicemente legata al fatto che anche il presidente Natoli ci sottolinea un dato su Tinebra, che, come avete sentito, riemerge in più occasioni, e cioè se è vero che il CSM indica Tinebra il 28 maggio a sostituire Celesti alla procura di Caltanissetta. Noi sappiamo – qui ce lo ribadisce il presidente Natoli – che Tinebra arriva a Caltanissetta solo il 15 luglio e che Borsellino che peraltro da mio ricordo, ma penso che lui lo potrà confermare, è della stessa corrente di Tinebra, ha urgenza di andare a parlare con Tinebra, ma io mi domando, avendo sentito il presidente: come è possibile che Tinebra, che è amico di Borsellino, non sappia di quello sfogo su Contrada e, quindi, affidi le indagini a Contrada? Domanda che faccio a me stessa e condivido con i commissari.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Posso darle una risposta?
PRESIDENTE. Se ce l’ha, magari.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. O, perlomeno, un elemento. Ecco perché ricordavo le 12.35 del 17 luglio, momento in cui Paolo lascia l’interrogatorio che stavamo conducendo lui, io e Guido Lo Forte e parte per l’aeroporto, perché, recentemente, in un articolo in prima pagina sul Sole 24 Ore c’era scritto che non erano state acquisite mai le intercettazioni in entrata sul cellulare di Paolo Borsellino, in generale.
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Invece, il giornalista, che non è Giovanni Negri, non ricordo come si chiami, cita due telefonate in uscita che il 17 luglio Paolo Borsellino fa a Tinebra, alle 12.40 e alle 12.42, in cui non so derivandolo da dove, presumo da qualche processo di Caltanissetta, dice che Borsellino gli dà informazioni su quello che Mutolo ci aveva detto quella mattina del 17 luglio.
Ecco perché ero andato a guardare dal verbale a che ora Paolo si era allontanato, perché Borsellino dal verbale risulta essersi allontanato – siamo a piazza della Libertà, nei locali della DIA – alle 12.35.
Dice sempre il giornalista che mentre è in macchina e sta andando all’aeroporto a prendere l’aereo del quale ci aveva parlato, telefona a Tinebra alle 12.40 e alle 12.42, probabilmente sarà caduta la linea e l’avrà richiamato, per informarlo del contenuto dell’interrogatorio della mattina.
PRESIDENTE. Purtroppo aumenta i miei dubbi questa sua ricostruzione.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Sta di fatto che, a sentire, e non ho motivo di dubitare, le audizioni dei colleghi della procura di Palermo – uno è il senatore Scarpinato, un altro è Vittorio Teresi, un altro è Ignazio De Francisci, Teresa Principato – dicono che Paolo tra il venerdì pomeriggio, certamente il sabato mattina, dice loro che Mutolo aveva parlato di Contrada… Ripeto, davanti a me e davanti a Guido Lo Forte non lo ha fatto. Io in un dibattimento ho ricostruito dove potrebbe essere accaduto questo discorso. Secondo altre testimonianze che ho pure letto, addirittura questa conoscenza, questa confidenza non verbalizzata sarebbe avvenuta il 1° luglio, quindi nel primo contatto ufficiale che loro hanno qui a Roma. Ripeto, io, purtroppo, non ne ho conoscenza.
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Tinebra lo sa. I rapporti tra Paolo e Tinebra sono estremamente intensi, di estrema amicizia. Lei lo ricordava, facevano parte entrambi dello stesso gruppo associativo dell’ANM, cioè di MI. Credo di non sbagliare che in quel momento Tinebra fosse presidente del gruppo e Paolo Borsellino presidente del Consiglio nazionale. Al di là di tutto, erano certamente molto, molto vicini. Quindi, se Paolo sa questa cosa, come ricordavo, a me dice – perché io lo riferisco dieci giorni dopo, quindi la memoria in quel momento era sicura – che il venerdì pomeriggio deve rientrare perché ha una riunione di coordinamento con Tinebra. Gli avrà detto qualche cosa di Contrada? Poi, però, uno dei primissimi provvedimenti del procuratore Tinebra è quello di affidare le indagini di PG a un soggetto che non le poteva fare per legge, perché era appartenente a una delle agenzie di informazione di questo Paese. Questo lo lascio, ovviamente…
PRESIDENTE. A noi.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. A lei o a tutti noi.
PRESIDENTE. Aggiungo anche il tempo che è passato…
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Io ho questo ricordo, ma verificatelo. Il plenum lo nomina il 28 maggio.
PRESIDENTE. Queste sono le fonti che ho trovato anch’io.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. L’ha trovato pure lei. Come possa essere, per quale motivo sono passati quaranta giorni non riesco a capirlo.
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Probabilmente, se si fossero sentite al tempo le persone, a cominciare dal Consiglio Superiore…
PRESIDENTE. O da Borsellino, che non è stato sentito.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Da Borsellino non tanto. Il Consiglio Superiore e il Ministero. Se c’è stato qualche motivo per il quale Tinebra non poteva insediarsi prima, mi pare obiettivamente una cosa strana tanto quanto è apparso a lei.
MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Signor presidente, purtroppo mi sono spostato, però il Covid ci ha regalato la possibilità di poterci relazionare anche così.
Faccio una premessa. Con riferimento proprio al dossier mafia e appalti che stiamo guardando con particolare attenzione, lei non è entrato nel dettaglio di quel procedimento, però ha accennato al fatto che nel corso delle audizioni che l’hanno preceduta è stato compiuto un errore metodologico, così ha riferito, cioè quello dello «schiacciamento delle conoscenze». Solo dopo che Siino ha collaborato, nel 1997, si è adeguatamente ricostruito o si è potuto ricostruire il sistema illecito di aggiudicazione degli appalti. Ha richiamato il «decreto mandanti occulti bis», leggendo la parte del provvedimento, per evidenziare come, anche da parte del giudice che lo aveva scritto, fosse stata evidenziata l’importanza della collaborazione di Siino per la ricostruzione efficace del sistema.
Al di là del fatto che – lo devo dire sinceramente – sembra che abbia portato via una frase dal contesto attribuendole un significato forse diverso da quello proprio della frase, cioè la rilevanza del ruolo di Siino era, in quel provvedimento, sottolineata per definire il ruolo esatto di mediatore con gli interessi mafiosi di Salamone e non per ricostruire il sistema mafia-
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appalti, questo è quello che è anche uscito fuori dalle audizioni che abbiamo fatto, io le chiedo se ritiene di poter condividere l’affermazione – un’altra affermazione, però – contenuta nel decreto di archiviazione sui mandanti occulti bis, in cui, facendo proprio riferimento alla sua decisione di archiviare il provvedimento collegato alle indagini di Massa-Carrara, il giudice dà atto di una vostra sottovalutazione del fenomeno.
Infatti, dice: «La magistratura di Palermo» – questo è il virgolettato – «probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi-Gruppo Ferruzzi, dal momento che, uno, il procedimento iniziato a Massa-Carrara a carico di Buscemi Antonino fu archiviato a Palermo il 1° giugno del 1992».
Dopo la strage di Capaci le relative intercettazioni furono utilizzate, e questo lo abbiamo visto, anche se si diede atto dei rapporti commerciali, di scambio e di concambio di pacchetti azionari fra Ferruzzi, la famiglia, Calcestruzzi e i Buscemi.
Due, soltanto in un secondo momento, a carico di Buscemi Antonino vennero elevate imputazioni inerenti al reato associativo. Tutto questo fa ritenere che vi fosse una sorta di scompenso fra le intuizioni investigative che erano state elaborate, in questo caso da Giovanni Falcone e dal team, dal suo pool, e puntualmente anche tracciate dai reparti specializzati di polizia giudiziaria, il ROS in primo luogo, poi anche lo SCO, da un lato, e anche le utilizzazioni processuali conseguenti da parte della procura di Palermo dell’epoca, che dimostra ulteriormente come gli eccidi di Capaci e di via D’Amelio avessero rallentato di molto l’attuazione dell’originario programma investigativo e che, di conseguenza, cosa nostra, di fatto, poi, aveva raggiunto i suoi scopi.
Quindi, le ribadisco la domanda, se lei ritiene di poter condividere quest’altra affermazione che è stata contenuta nel
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decreto di archiviazione sui mandanti occulti bis, facendo riferimento alle dichiarazioni del giudice nel procedimento collegato a Massa-Carrara.
Grazie.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Buonasera, se ho colto bene, ce l’ho qua davanti, lei ha riportato quanto scritto nella richiesta di archiviazione sui mandanti occulti bis di Caltanissetta, quella del 9 giugno 2003.
A pagina 9 si dice «la magistratura di Palermo, probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi-gruppo Ferruzzi, dal momento che…». Mi permetto di farle rilevare che questa frase, che è presa dalla mia richiesta di archiviazione dell’1 giugno 1992, corrisponde testualmente a quanto la Guardia di finanza, nella annotazione del 26 marzo 1992, a pagina 6 e 7, scrive relativamente alle indagini che erano state richieste a Palermo, cioè alle intercettazioni: «in attualità di rapporti fra Buscemi Antonino con Cimino Girolamo, che è suo cognato, e le richiamate imprese del Carrarese, cioè SAM e IMEG, delle quali il Cimino era amministratore delegato, o comunque amministratore unico, non ricordo. Confermati i rapporti fra le società palermitane del Buscemi e la Calcestruzzi Ravenna, come logica conseguenza, è testuale, del controllo azionario esercitato dalla società ravennate sulle menzionate imprese siciliane – che, ripeto, erano note, soltanto con riguardo, ad esempio, ai registri della Camera di commercio, sin dal 1984 e poi 1985 e 1986 – compresi i rapporti azionari». Rispetto alla Finsavi che era la «cassaforte» del gruppo Buscemi, «il 50 per cento della Finsavi è della Calcestruzzi Ravenna, il 17 per cento arrotondato è di Buscemi Antonino, il 33 per cento è dell’altro fratello chirurgo universitario di Palermo, cioè Giuseppe Buscemi». Questi erano i rapporti dei quali la Guardia di finanza,
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appunto, dà atto, logica conseguenza del controllo azionario esercitato dalla società ravennate sulle imprese siciliane, che non era appunto un controllo, era un 50 per cento. «Peraltro», continua la Guardia di finanza, «le intercettazioni in argomento non hanno consentito di individuare episodi e circostanze specifiche o altri elementi di fatto tali da chiarire se e come i predetti rapporti ufficiali di partecipazione o semplicemente commerciali possano essere o essere stati influenzati, in tutto o in parte, dai precedenti giudiziari di taluni componenti della famiglia Buscemi o dai loro rapporti con persone condannate per associazione di tipo mafioso». Poi continua: «Parimenti non sono stati accertati i fatti indicativi di un attuale interesse nelle vicende del gruppo di imprese indagato – leggasi, quindi, SAM e IMEG, oppure Calcestruzzi, oppure le altre del gruppo Buscemi – da parte di Bonura Francesco, il quale nel corso delle operazioni» – operazioni che evidentemente si sono sviluppate, come dicevo, tra il mese di novembre e il mese di marzo – «è rientrato in carcere a seguito della condanna inflittagli dalla Cassazione nell’ambito del primo maxiprocesso». Il 30 gennaio 1992, come tutti ricordiamo, la Cassazione fa passare in giudicato il Maxi 1, nell’ambito del quale Buscemi Salvatore, per un verso, e Bonura Francesco, per l’altro verso, vengono condannati con sentenza definitiva e assicurati a scontare della loro pena nelle carceri italiane.
Questa stessa motivazione è quella che lei trova testualmente nella mia richiesta di decreto di archiviazione.
Nella stessa pagina 9 di Caltanissetta, al quale lei fa riferimento, alla lettera b) dice: «Soltanto in un secondo momento a carico del Buscemi Antonino vennero elevate imputazioni inerenti al reato associativo». E in nota si precisa: «All’epoca dell’ordinanza di custodia cautelare del 25 maggio 1993 nel procedimento 6280/92 della DDA di Palermo». È quello, cioè,
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che i colleghi che si occupavano di mafia e appalti, tra cui il qui presente senatore Scarpinato, avanzano a maggio 1993, perché sono sopravvenute le dichiarazioni soprattutto di Balduccio Di Maggio, a partire dall’8 gennaio 1993. Condivido quello che sto leggendo testualmente da questo decreto, anzi da questa richiesta di archiviazione che venne accolta dal GIP con uno stampone.
PRESIDENTE. Grazie mille. Grazie, onorevole D’Attis.
MAURO D’ATTIS. (intervento da remoto) Quindi, presidente, la risposta è che ritiene di poter condividere l’affermazione che è contenuta nel decreto. La ringrazio per aver dettagliato la risposta.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Attenzione, non vorrei che si equivocasse sulle parole. La condivido non nel merito, nella forma testuale che lei ha citato e che abbiamo letto. In ordine al merito, mi rifaccio a tutto ciò che ho detto nella audizione precedente e in questa di oggi. Nel merito, chiaramente, lo «schiacciamento delle conoscenze» è assolutamente ribadito e ripetuto.
PRESIDENTE. Grazie. A questo punto, do la parola all’onorevole De Corato.
RICCARDO DE CORATO. Buonasera, dottore. Lei ha affermato che è stata attribuita eccessiva importanza alla dichiarazione di Leonardo Messina: «la Calcestruzzi è in mano a Riina» e che la sentenza del tribunale di Palermo del 2 luglio 2002 ha in merito definitivamente stabilito che «nessun elemento è stato acquisito al dibattimento idoneo a dimostrare questo tema di prova, al di fuori delle generiche indicazioni per cui la società ravennate sarebbe stata nelle mani del noto Salvatore Riina. Si
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tratta, pertanto, di uno scenario metaprocessuale, privo di alcuna rispondenza nelle risultanze dibattimentali».
Ora, la sua affermazione mi ha sorpreso, perché è sembrato come volesse dire che, secondo il tribunale di Palermo, fosse del tutto indimostrata e non riscontrata l’esistenza di un rapporto penalmente illecito tra Calcestruzzi SpA e cosa nostra in particolare per mezzo di Buscemi Antonino, con il suo capo, Totò Riina, con ciò consacrando la totale infondatezza delle ipotesi formulate negli atti che erano stati trasmessi dalla procura di Massa-Carrara. Dalla lettura della sentenza risulta che il rapporto Calcestruzzi-cosa nostra era, invece, dimostrato e che ciò non risultava provato, perciò restava fuori dal processo. «Era il pretesto contenuto politico dell’accordo». Infatti, il titolo del paragrafo si conclude proprio con la frase che è stata da lei letta.
La Ferruzzi e Totò Riina. Tramite il Partito Socialista, il gruppo Calcestruzzi avrebbe dovuto assicurare, in cambio dei favori di cosa nostra, l’adozione di riforme ad essa favorevoli. Chiaramente questo è il tema di prova che il tribunale ritiene indimostrato.
Dottore, non le sembra che la sua lettura di questa sentenza sia un po’ fuorviante ed erronea, viste le considerazioni che ho premesso? Grazie.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Come lei cortesemente e correttamente ha riportato, io ho citato passaggi testuali della sentenza che sembrano essere la valutazione conclusiva di ciò che il dibattimento aveva accertato fino a quel momento.
Il punto mi pare essere il seguente: la semplice frase «la Calcestruzzi era nelle mani di Totò Riina», che lascia o lasciava intravedere degli scenari di carattere fattuale estremamente significativi, alla luce delle verifiche che il dibattimento aveva
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portato non erano state conseguenti rispetto alle aspettative, rispetto alle premesse. Solo questo.
Perché ho fatto quel riferimento? Perché al 1° luglio 1992, che, peraltro, è bene sottolineare, è un mese dopo che io comunque ho fatto la richiesta di archiviazione, l’unica frase che Leonardo Messina aveva pronunciato in quel verbale del 1° luglio era esattamente quella sopra riportata: «La Calcestruzzi era nelle mani di Totò Riina». Tanto che poi ho pure ricordato nell’audizione precedente che la vera esplicitazione, la vera articolazione del significato di quella frase Leonardo Messina la rende ai PM Lo Forte e Scarpinato il 10 e l’11 dicembre del 1992, cioè circa sei mesi dopo.
Per cui, concludendo, ho citato la frase «È la valutazione che il giudice di merito, passata in giudicato» – e non mi permetto di censurare la valutazione del giudice, la prendo e la riporto così come l’ho riportata – aveva fatto della sola frase che era il massimo che si addebita alla mia conoscenza, che peraltro non poteva esserci al 1° giugno, considerato che quella frase è stata pronunciata il 1° luglio.
Anche ad ammettere che quella frase io l’avessi conosciuta il 1° giugno, evidentemente la valutazione della frase stessa era assolutamente insufficiente e incongrua rispetto alle conclusioni che se ne potevano trarre.
Ripeto, e spero di essere finalmente chiaro, il procedimento, il fascicolo 3589 del 1991, nella valutazione che abbiamo dato, ho dato io, che non ero solo perché c’era pure Sciacchitano che non ha firmato, ma chiaramente era uno dei colleghi che seguiva dall’esterno queste indagini, affermava che dovevamo dare cortese seguito e sfogo alle richieste del collega Lama di fare delle intercettazioni.
Ripeto, le ipotesi che Lama avanzava erano semplicemente quelle di queste quattro paginette, che non contengono assolutamente
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nulla e alle quali non possiamo attribuire conoscenze che sono intervenute anni dopo in un contesto che non aveva nulla a che fare con questo fascicolo. Comunque, ripeto, sono intervenute anni dopo, a partire dall’11 luglio 1997. Il vero decrittatore o il primo decrittatore delle conversazioni intercettate nel rapporto mafia e appalti consegnato nel febbraio del 1991 comincia ad essere Angelo Siino. Fino a Angelo Siino, lo ricordavo l’altra volta e mi permetto di sottolinearlo ancora oggi, quello con la «S», quello vicino al gruppo che comanda, e chi più ne ha più ne metta, veniva ritenuto lo stesso Siino laddove, invece, poi, si sarebbe accertato, in maniera inequivoca, che si trattava dell’ingegnere Filippo Salamone. Questo per dire la divaricazione tra l’apparenza e la realtà quale è stata accertata.
RICCARDO DE CORATO. Comunque, anni dopo viene indagato.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Certo. Ma anni dopo. Lo sta dicendo lei, onorevole. Lo condivido. Anni dopo.
RICCARDO DE CORATO. Da quello che sta dicendo lei…
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Se io avessi conosciuto quelle cose al 1° giugno, ovviamente io per primo mi porrei qualche domanda sulla valutazione. Il 1° giugno non c’era assolutamente nulla. Ripeto, su questo compendio, non sono soltanto io a dirlo. Io posso essere il soggetto meno preparato o più sospettabile. Dica tutto quello che vuole. Lo accertano, poi, Pignatone, Ilda Boccassini, Roberto Saieva, Luigi Patronaggio, Biagio Insacco e i relativi giudici delle indagini preliminari che hanno accolto le loro richieste di archiviazione con il compendio di tutti i collaboratori
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di fede corleonese che sono sopravvenuti. Qui dentro, cioè nell’ipotesi partita da Massa-Carrara, che sarà stata una intuizione splendida, ma purtroppo era soltanto un’intuizione nel momento in cui finisce nel fascicolo mio o nel fascicolo che poi viene riaperto dai colleghi successivamente e archiviato fino al 1995.
Con mafia e appalti questo fascicoletto non ha nulla a che vedere.
PRESIDENTE. Se posso fare una sintesi, quello che emerge e che fa emergere il presidente Natoli, fermo restando che nessuno è qui a puntare il dito contro di lei, e questo lo specifico, è che quella intuizione a cui lei fa riferimento a Massa-Carrara ha trovato poi fondamento in processi successivi, su cose e collaborazioni che voi al momento non conoscevate. Però, ha trovato fondamento, altrimenti non avrebbero continuato le indagini in quel senso. Questo ho compreso io. Poi, se ho sbagliato, mi corregga.
Do la parola all’onorevole Provenzano.
GIUSEPPE PROVENZANO. Grazie. Vorrei ringraziare il presidente Natoli per la chiarezza con cui ha esposto il suo punto di vista, ma anche per la ricostruzione della sequenza cronologica degli eventi, dei fatti, degli atti di cui stiamo discutendo in queste audizioni e da ultimo anche per aver aggiunto numerosissimi dettagli, presidente, alla mole di lavoro già molto significativa che questa Commissione dovrà affrontare nella ricostruzione storico-politica di eventi che riguardano trenta anni fa.
Io mi chiedo, e lo dico alla presidente, quando avremo il tempo per essere richiamati all’urgenza che a me deriva forte e che voglio restituire a tutti gli altri membri di questa Commissione, per esempio, immagino, cosa che avete fatto anche
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voi, dall’aver assistito da ultimo all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso le corti d’appello, io ero a Palermo.
L’urgenza sulla pregnanza dei fenomeni mafiosi attuali credo che meriterebbe, da parte di questa Commissione, in linea con le sue finalità, un altrettanto lavoro importante, come questo.
Io non metto in contrapposizione, presidente, il presente con il passato. Mi dico che dobbiamo organizzare i nostri lavori, credo, per rispondere il più possibile al mandato che dovrebbe avere questa Commissione, perché adesso, lo dico a chi si sta facendo delle domande in questo momento, il nostro lavoro è molto assorbito da questo tentativo di ricostruzione dei fatti che riguardano più di trenta anni fa.
Comunque, nella sequenza cronologica di questi oltre trenta anni, presidente, il dossier mafia e appalti è ciclicamente tornato con un’importanza, una forza, al centro anche di polemiche.
Non voglio chiederle le ragioni per cui, a suo avviso, che pure lo ritiene tra le possibili concause degli omicidi e delle stragi del 1992, ma, come ha detto in audizione, non la determinante, non l’unica, e questa interpretazione potrebbe essere fuorviante, non le chiedo le ragioni per cui oggi viene così, ma le chiedo una cosa puntuale: che cosa avviene tra l’archiviazione del 1992 e le dichiarazioni di Siino del 1996-1997 su questo dossier che è stato controverso fin dall’inizio? Coloro che ritenevano, a cominciare dal ROS, dai Carabinieri, che fosse così cruciale questo dossier nella lettura e nella spiegazione, anche, di quelle stragi, che hanno fatto in quegli anni, tra il 1992 e il 1996? Sulla base della sua conoscenza, della sua esperienza diretta. Questa domanda, poi, si riallaccia a un’altra questione che vorrei porle. Per la sua conoscenza diretta o indiretta, dal momento in cui lei arriva e parla con i suoi colleghi, qual è il clima che trova tra la procura e il ROS, per esempio? Proprio intorno a questo
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dossier c’erano state molte controversie, già a partire dal 1991. Articoli di giornale che ricostruivano polemiche tra la procura e i Carabinieri. Se queste considerazioni lei è in grado di poterle fare, cioè sul clima, su come, per esempio, Giovanni Falcone visse, seppure da Roma, quelle controversie, quelle polemiche. Quale era il clima dei rapporti non solo con il ROS, ma in generale con l’Arma dei carabinieri. In particolare, secondo la sua non solo conoscenza, ma anche esperienza, maturazione di opinioni che si è fatto dopo, i rapporti tra Borsellino e l’Arma, segnatamente il generale Subranni, che nel corso delle audizioni che abbiamo fatto in questa Commissione sono stati oggetto di interpretazioni del tutto diverse.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. La ringrazio, intanto, per la domanda, rispetto alla quale, però, desidererei precisare che una espressione di valutazioni, a parte l’aspetto riguardante il clima che io trovo in procura a giugno del 1991, nei rapporti tra la procura e il ROS, tutto il resto, compreso anche ciò che accade tra il 1992 e il 1997, cioè le dichiarazioni confessorie di Siino dopo la sua decisione di collaborare, non le conosco dall’interno. Come ho cercato di spiegare, io non sono tra gli assegnatari del fascicolo mafia e appalti. Questo non lo dico io, ma, sempre avendo avuto la necessità di dover leggere tutto quello che riguardava questa vicenda in queste ultime settimane, lo dice l’allora procuratore di Palermo Giammanco, nell’audizione al CSM del 28 luglio 1992. Dice che, alla fine, per tutta una serie di motivi che lui dettaglia, degli originari assegnatari del processo mafia e appalti erano rimasti disponibili, per potersi occupare di questo dossier, il procuratore aggiunto Guido Lo Forte che peraltro, a quel tempo, non era nemmeno procuratore aggiunto, se ben ricordo, e il dottor Scarpinato. Sono gli unici due che, alla fine, vengono onerati, sia pure con la condivisione da parte degli altri, di
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scrivere i provvedimenti che riguardano la richiesta di archiviazione, della quale pure si era parlato insieme agli altri.
Rispetto a questa progressione di conoscenze, potrei esprimere una mia valutazione, ma una mia valutazione da lettore delle carte, lettura che è avvenuta in questi ultimi mesi. Confesso che in precedenza non avevo avuto motivo di occuparmene.
Partiamo, invece, da ciò rispetto a cui sono stato testimone, cioè il clima dei rapporti che io trovo nel giugno del 1991. Trovo un clima di rapporti che è improntato ad estrema incredulità.
Rispetto a ciò, che già sui giornali cominciava ad apparire come valutazione negativa rispetto a ciò che la procura si accingeva a fare, quindi siamo a metà giugno del 1991, sul rapporto mafia e appalti, cioè avrebbe detto qualcuno «tanto rumore per nulla».
Nelle audizioni, sempre Giammanco, il 28 luglio 1992, ricorda testualmente, quindi riporto le parole di un altro, quello che in quella riunione, che può essere stata quella del 9 giugno alla quale facevo riferimento io o qualcuna successiva, comunque sempre della metà di giugno 1991, avevano riportato Alfredo Morvillo «non c’è assolutamente nulla», Ignazio De Francisci «il rapporto è, con espressione siciliana, vacante, cioè vuoto» e altri ancora.
Soprattutto rilevo la incredulità rispetto al fatto che gli articoli di stampa, sulla cui ispirazione non voglio dire nulla, perché basta leggere quello che hanno scritto coloro che si sono occupati giudiziariamente di questa vicenda, secondo cui nel rapporto ci sarebbero stati dei politici che, viceversa, dalla lettura del rapporto consegnato a Palermo, non c’erano.
Tra i nomi dei politici che venivano evocati in quel rapporto, perlomeno fino a giugno del 1991, c’era un onorevole Nino
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Cicero che non so neppure chi sia. Era un deputato regionale di neppure so quale partito che si era occupato di questa cosa.
Poi c’era probabilmente Ciaravino. Non voglio fare nomi, ripeto, a casaccio, perché vado a memoria e non ho mai letto quel rapporto, perché non mi è mai stato consegnato e quindi non l’ho mai studiato.
Certe intercettazioni importanti, e segnatamente una intercettazione, che peraltro era del 1990, tra l’onorevole Salvo Lima e Cataldo Farinella, che era, non so se sia vivo ancora, un imputato notoriamente condannato poi per appartenenza a cosa nostra, viene rappresentata alla procura di Palermo in un secondo momento, cioè nel cosiddetto «rapporto Sirap», che viene presentato il 5 settembre 1992. Tenete presente che di questi contatti non si era fatto cenno neppure nell’immediatezza dell’assassinio dell’onorevole Salvo Lima, cioè a marzo 1992.
Viene fuori quasi casualmente nel rapporto Sirap, che era quel rapporto per il quale lo stralcio e le consequenziali indagini di approfondimento erano state chieste al ROS dei Carabinieri, se non ricordo male, a fine luglio 1991.
Il rapporto viene presentato quattordici mesi dopo, quando c’è stato già l’omicidio dell’onorevole Lima. Questo è di una particolare pregnanza.
Ricordo ancora, ma, ripeto, sto riferendo fatti che ho letto, non fatti che ho vissuto, che c’erano delle intercettazioni che riguardavano l’allora onorevole De Michelis con altri personaggi o altre personalità delle quali non faccio i nomi – lo ripeto – perché non vorrei citare impropriamente alcuno, che viene mandato per competenza territoriale a Roma. Eppure, si parlava già in articoli di stampa del coinvolgimento di personalità politiche con incarichi ministeriali e l’unico con incarichi ministeriali, mi pare di ricordare, in quel turno di tempo, potesse
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essere l’allora onorevole De Michelis, che era forse Ministro degli esteri o era stato Ministro degli esteri. Quindi, c’è questa divaricazione tra le carte consegnate a Palermo e, ad esempio, le carte mandate a partire da maggio 1992 – sto sempre riferendo fatti che ho letto, quindi attenzione a questa precisazione, alla quale tengo e che voglio sottolineare – a Catania al pubblico ministero Felice Lima. Ad esempio, anche lì, abbiamo – l’avevo accennato l’altra volta – un procedimento disciplinare, perché sente come persona informata sui fatti il geometra Li Pera, che si trovava in stato di custodia cautelare e gli era stato portato in vinculis per essere sentito. Era in custodia cautelare per i fatti dell’ordinanza di custodia cautelare richiesti e ottenuti dalla procura di Palermo a fine giugno 1991. A maggio o giugno 1992 Li Pera viene sentito come persona informata sui fatti. Alla presenza di chi? Lasciamo stare l’allora PM Felice Lima, alla presenza del capitano, allora forse ancora tenente, Giuseppe De Donno, il quale ben conosceva qual era lo status, se di uomo libero o di detenuto, sia pure in custodia cautelare, del geometra Li Pera. Per arrivare ad avere Li Pera con un avvocato, quindi ritenuto quantomeno indagato di reato connesso, se non ricordo male, dobbiamo arrivare a ottobre 1992, quando il 19 ottobre 1992 a Palermo sarebbe iniziato, davanti alla Sezione V del tribunale, il processo a carico di Siino, di Li Pera, di Cataldo Farinella e degli altri. Quindi, lo stesso dottor Lima – credo di ricordare – ha modo di notare che le carte sulle quali lui sta facendo le sue valutazioni sono diverse e maggiori rispetto a quelle che erano state presentate a Palermo fino a giugno 1991.
Quindi, per ritornare al focus della sua domanda, cioè qual è il clima che io trovo nella procura di Palermo quando arrivo, il 9 giugno 1991, il clima è questo: i colleghi tutti coralmente, colleghi della cui autorevolezza credo non si possa discutere, a
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cominciare, se vogliamo fare un ordine di grandezza, da Alfredo Morvillo, cognato di Giovanni Falcone, fratello di Francesca Morvillo, il quale dice «non c’è nulla». Perdonatemi, ma questa può essere forse l’occasione, c’è una relazione di 108 pagine. No, non ve la leggo, anche perché la trovate agli atti della Commissione antimafia presieduta dall’onorevole Ottaviano Del Turco, consegnata dall’allora procuratore Caselli il 4 febbraio 1999. Quindi, la trovate negli archivi della vostra Commissione.
Ebbene, Caselli chiede a tutti coloro che si sono occupati nel decennio precedente circa della vicenda mafia e appalti di riferire quello che hanno trovato e di fornire la documentazione. Qua ci sono fior fiori di magistrati, che per fortuna sono ancora vivi, vegeti e disponibili, per quello che io so, ad essere sentiti, invece di ascoltare le mie valutazioni poiché, come ho detto, sono casualmente tra i pochi che non si è occupato di mafia e appalti. Mi sono occupato di tantissime cose alla procura di Palermo, ma di mafia e appalti non mi sono occupato.
Qui ci sono magistrati, avete l’attuale procuratore di Palermo, che peraltro è stato il pubblico ministero che più e meglio degli altri si è occupato in dibattimento di questa vicenda. È colui, onorevole De Corato, che ritiene di non poter utilizzare la frase «la Calcestruzzi è nelle mani di Riina» perché – per carità, vera, verissima – purtroppo non riscontrata, perlomeno secondo la valutazione, dicevo, di una persona della cui bravura credo che tutti siamo assolutamente consapevoli. Sono qua Luigi Croce, che ho incontrato sabato scorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario, che era il procuratore della Repubblica aggiunto anziano; Guido Lo Forte; lasciamo stare Roberto Scarpinato, perché potrebbe essere interessato; Biagio Insacco, Antonio Ingroia, Maurizio De Lucia, Gaspare Sturzo, che attualmente credo lavori ancora al tribunale di
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Roma, quindi potrebbe venire. Loro hanno sottoscritto queste 108 pagine; chiedete loro che cosa c’era nel rapporto e forse si potrebbe trovare una risposta alla sua domanda, ma una risposta da parte di chi è a conoscenza di queste cose, cioè cosa è intervenuto tra il 1992 e il 1997, qual è stato l’apporto di Siino e di coloro che sono venuti dopo Siino. Questa era stata presentata il 7 dicembre 1992 al CSM. No, era stata presentata al CSM non nel 1992, ma successivamente, nel 1998. Ecco, infatti, il 5 giugno 1998 è stata preparata per il CSM e poi successivamente il procuratore Caselli, nel corso di un’audizione che la Commissione antimafia del tempo fa a Palermo, la consegna il 3 febbraio 1999.
GIUSEPPE PROVENZANO. Scusi, e Falcone, malgrado poi a distanza, come viveva quel clima, come ha vissuto quel clima? E Borsellino aveva una posizione peculiare rispetto al clima che lei ha trovato? In particolare, poi, quali erano i suoi rapporti con l’Arma, con il generale Subranni?
Sono cose che sono state oggetto, in questa audizione, di interpretazioni del tutto opposte.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Ha perfettamente ragione.
Di Falcone non le so dire nulla, perché in quel lasso di tempo in cui Falcone se ne va da Palermo e viene a lavorare qui a Roma non ho modo, pur avendolo incontrato tante volte, di parlare di mafia e appalti. Quindi, di Falcone non so dirle nulla.
Vengo a Paolo Borsellino. Paolo Borsellino mi chiede – questo l’ho pure detto in testimonianze dibattimentali – ad un certo punto, probabilmente siamo a metà di giugno, ma comunque non voglio azzardare date, sicuramente dopo la strage di Capaci, quindi dopo il 23 maggio, se io avessi una copia del rapporto mafia e appalti, perché, anche se abbiamo visto, ho
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visto io che Paolo l’aveva avuto a Marsala, ne aveva avuto un’altra copia che gli porta De Donno, però non so per quale motivo me la chiede.
Credo di ricordare che quando me la chiede non sono solo, ma c’è insieme a me Franco Lo Voi, attuale procuratore di Roma. Mi dice: «Hai una copia del rapporto mafia e appalti? Perché lo voglio leggere». Io gli dico: «Paolo, non ce l’ho, perché non l’ho mai avuto». Banalmente gli dico: «Scusami, ma è qua in ufficio, quindi prendilo». Lui mi dice: «No, perché non voglio dare l’impressione che mi sto occupando di questa cosa».
Questo è stato il dialogo testuale. Questo potrebbe derivare anche dal fatto che Paolo Borsellino faceva indagini sulle possibili causali di Capaci senza averne la competenza, perché sappiamo tutti che la competenza era di Caltanissetta. Comunque, si dava da fare per cercare di capire e poi, come avrebbe detto nel famoso incontro del 25 giugno, quello di Casa Professa, perché voleva testimoniare all’autorità giudiziaria di Caltanissetta quello che lui sapeva sulle cause dell’uccisione, della strage di Capaci, da testimone e, comunque, per dare tutto l’aiuto possibile.
A proposito del 25 giugno, ho letto che, ad esempio, si è scoperto soltanto negli ultimi anni – non saprei dire quando, ma certamente pochi – che Paolo Borsellino aveva avuto quel famoso incontro alla caserma Carini con il generale Mori, forse allora colonnello, e il capitano De Donno. Non me l’ha chiesto mai nessuno, ma – lo ripeto anche qua – certamente o quasi sicuramente era presente pure Franco Lo Voi. E c’era pure il maresciallo Canale. Sono nella stanza di Borsellino. Siamo, evidentemente, al 25. Questo, poi, lo ricavo da cose che apprenderò successivamente. Stiamo parlando – come dicevo l’altra volta – dei riesami che si stavano facendo al tribunale della libertà per gli indagati del mandato di cattura Vaccarino
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e altri. A un certo punto, il maresciallo Canale dice al procuratore Borsellino: «Procuratore, si ricordi che ha quell’impegno alla caserma Carini». Borsellino dice: «Scusatemi. In effetti, devo andare alla caserma Carini per incontrare il generale Mori e il capitano De Donno». Io so di questo incontro. Poi non so se l’incontro effettivamente ci fu. Avrei, poi, letto che effettivamente c’è stato. Comunque, so di questo incontro quella stessa mattina. Pare che questa cosa sia emersa dalle indagini soltanto negli ultimi anni. Ma siamo sempre lì: se non siamo stati interrogati… Credo di non aver avuto un esame da parte di alcuno. L’unico che ho ricordato è quello del novembre 1992 che mi fece Fausto Cardella, però parliamo veramente di epoche risalenti.
Poi ho cominciato a rendere dichiarazioni, ora ho appreso forse nel 2012 o nel 2014, al dibattimento. In indagini preliminari, io, Franco Lo Voi, ma anche altri colleghi, Vittorio Teresi, Teresa Principato, ciascuno per le indagini che stavamo conducendo in quelle settimane tra Capaci e via D’Amelio, con Paolo Borsellino, eravamo tra i colleghi che maggiormente avevano avuto occasione di incontro con Paolo Borsellino.
Io posso parlare per la mia esperienza. Sono stato sentito soltanto a distanza di mesi, forse il 21 novembre 1992, l’ho letto da qualche parte, da Fausto Cardella, che viene a Palermo e mi chiede di parlare. Infatti, in quella dichiarazione, io che ho i verbali di Mutolo, sono in condizione di dire il giorno, l’orario in cui erano accadute certe cose perché ho dei punti di riferimento.
Dopodiché, non vengo più sentito se non al dibattimento e, peraltro, se non ricordo male, citato la prima volta dalla difesa del generale Mori. Se non ricordo male.
PRESIDENTE. Grazie mille. Sono le ore 16.25. Ho ancora tre iscritti a parlare, quindi richiamo me stessa all’ordine dei
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lavori. La prima iscritta, che so che potrebbe avere un problema con il telefono, è l’onorevole Ascari. Poi ho l’onorevole Pittalis e il senatore Sisler.
STEFANIA ASCARI(intervento da remoto). Purtroppo ho la batteria scarica. Ringrazio veramente il dottore per il contributo fondamentale che ha dato oggi, di arricchimento. Le volevo porre una domanda. Purtroppo ho avuto un momento in cui sul treno la linea non andava, però io gliela voglio porre lo stesso perché non l’ho sentita. Le vorrei chiedere, a più di trent’anni dalle stragi del 1992, sono emerse alcune chiare evidenze su possibili mandanti e concorrenti esterni. Si parla comunque di presenze inquietanti, penso a personaggi dell’estrema destra per la strage di Capaci. Vorrei capire questo. Falcone non ha avuto modo di confrontarsi con lei su mafia e appalti, però, per quanto riguarda, invece, Gladio, e su questo vorrei anche una sua valutazione, dottore, gentilmente, per quanto riguarda il fascicolo «Gladio» che tra l’altro Falcone aveva portato con sé a Roma, vorrei sapere che idea si è fatto.
Chiudo, ovviamente, dicendo che comunque lei ha avuto modo di ricevere una confessione importantissima da parte del dottor Borsellino, quando le disse: «Ora che mi è venuto meno il paravento di Giovanni, è chiaro che il prossimo sono io». Questa è sicuramente una frase veramente forte. Grazie mille.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Relativamente a «Gladio», la mia conoscenza di questo problema risale a quando io sono ancora giudice istruttore dei cosiddetti «omicidi politici», quindi Reina, Mattarella e La Torre. Sul finire dell’istruttoria formale, che – come ricordavo – doveva concludersi entro il 31 dicembre 1990, arriva una richiesta dalla parte civile, allora PDS, se non ricordo male l’avvocato Zupo, di fare degli accertamenti sulle liste di «Gladio
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» che erano apparse, delle quali si era avuta conoscenza da qualche mese e che erano in corso di accertamento. Tutto questo viene mandato dalla parte civile non già a me, giudice istruttore, ma viene mandato in procura. Quindi, c’è un interlocutore che viene ritenuto essere quello delle indagini preliminari e non già dell’istruttoria formale. Questo, lo confesso subito, lo ricordo perché ho letto le audizioni alle quali ho fatto più volte riferimento in queste ultime settimane, provoca in particolare una riunione, alla quale ho preso parte io, ma era presente anche l’altro giudice istruttore in proroga, cioè Leonardo Guarnotta. Fino a quel momento, per quello che poi diventerà un processo unico degli omicidi politici, Leonardo Guarnotta si interessava di Pio La Torre e io avevo Mattarella e Reina, e partecipiamo. Ma partecipiamo perché? Perché la procura ritiene di fare una riunione interna del gruppo, del cosiddetto pool antimafia della procura di allora, con la presenza dei giudici istruttori. Anche se la cosa può sembrare non ortodossa, cioè una partecipazione del giudice istruttore ad una riunione della procura, nell’istruttoria formale il pubblico ministero poteva intervenire e poteva fare delle richieste tutte le volte che lo avesse voluto. Era soltanto la sede impropria, perché se l’avessimo fatta all’Ufficio Istruzione forse sarebbe sembrata ancora più lineare. Ma viene fatta, per comodità, in procura. Questo per decidere sulla tempistica. D’altronde, fare un’indagine su Gladio che fosse un’indagine di tipo classico, cioè parti dalla notizia e vai avanti fino a quando hai necessità di andare avanti, contrastava con i termini veramente ristretti e giugulatori che noi avevamo in base alle norme transitorie del codice del ’30. Quindi, bisognava cercare di coniugare l’efficacia delle indagini con la tempistica.
Le opinioni in procura sono diversificate, nel senso che Falcone era per un’indagine a tutto campo, mentre altri, se
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ricordo bene, il procuratore Giammanco, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, erano per fare delle indagini che tenessero conto dell’istruttoria che si andava a chiudere, cioè dell’istruttoria formale che avevamo io e Guarnotta. Poi, invece, si decide di riunire i due tronconi, quindi Reina e Mattarella con La Torre, ed ecco perché me ne occupo per tutti quanti io. Tra l’altro, Guarnotta aveva da concludere il Maxiprocesso quater e altri pezzi di processi importanti che venivano dal vecchio Ufficio Istruzione, ed eravamo gli ultimi due giudici istruttori ancora in proroga. Nel corso di questa riunione – io ne ricordo una, ma non escluderei che possano essere state due – si decide di mandare l’istanza del PDS e, quindi, dell’avvocato nell’interesse del PDS, l’avvocato Zupo, a me giudice istruttore, perché io ne facessi quello che ritenevo opportuno fare, nei limiti di tempo che avevo a disposizione, all’interno dell’istruttoria formale, che si doveva chiudere, i cui atti si dovevano chiudere, perché tutti gli atti fatti a partire dal 1991 sarebbero stati degli atti inutilizzabili. Mentre, sfruttando il fatto che in indagine preliminare presso la procura della Repubblica c’erano le indagini per l’omicidio dell’ex sindaco Insalaco, la procura di Palermo si sarebbe occupata delle indagini su Gladio all’interno di quelle indagini. L’aggancio era dato dal fatto che – se ricordo bene – c’era qualche passaggio di polizia giudiziaria che attribuiva all’ex sindaco Insalaco dei rapporti non ben precisati con una delle agenzie di informazione.
Questa è la ripartizione del piano di lavoro. All’interno di questa ripartizione del piano di lavoro io vado presso il Sismi, prendo contatti con l’allora ammiraglio Martini, per andare a verificare che cosa potesse legare i nomi che nel frattempo eravamo riusciti ad ottenere dei presunti gladiatori con quello che mi emergeva dall’istruttoria formale, che era stata portata
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avanti per circa dieci anni, per i tre omicidi a cui ho fatto cenno, Reina, Mattarella e La Torre.
Per quella che è stata la mia valutazione, consegnata nell’ordinanza di rinvio a giudizio, che si compone di ben dodici volumi, non emerse nulla e per quello che poi ho saputo ab externo relativamente alle indagini su Insalaco la stessa identica cosa. Comunque, c’è Giovanni Falcone che su Gladio vuole fare un’indagine a tutto campo, com’era abituato a farle lui, cioè con una visione a 360 gradi della questione, e, viceversa, il procuratore Giammanco che aveva una visione assolutamente minimalista della questione. Dico minimalista nell’ottica di un’indagine a tutto campo, perché io, relativamente a quello che era il mio compito istituzionale, cioè nell’istruttoria formale, quello che dovevo fare l’ho fatto e, purtroppo o per fortuna, non è emerso nulla.
Credo di aver risposto alla domanda dell’onorevole Ascari.
PRESIDENTE. L’onorevole Pittalis è collegato da remoto. Mi sente, onorevole?
PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Sì, la sento.
PRESIDENTE. Prego, onorevole.
PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Grazie, presidente. Risulta pacificamente, dottor Natoli, che lei ha provveduto a disporre la distruzione dei nastri riguardanti le intercettazioni che aveva effettuato a seguito della richiesta di collegamento investigativo, così come è pacifico che nel corso di precedenti audizioni erroneamente è stato affermato che quel provvedimento si riferiva alle bobine delle intercettazioni svolte a Massa-Carrara e non a quelle da lei stesso disposte a Palermo.
Lei ha chiarito come l’origine dell’errore sia da ricercare in quanto scritto nel decreto di archiviazione del procedimento
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«mandanti occulti bis», nel quale si afferma che il procedimento iniziato a Massa-Carrara a carico di Buscemi Antonino fu archiviato a Palermo il 1° giugno 1992, subito dopo la strage di Capaci, e le relative intercettazioni furono smagnetizzate.
Lei, inoltre, ha precisato che la sua decisione di disporre la smagnetizzazione rispondeva ad una prassi dell’ufficio e che il suo provvedimento è stato predisposto da altri e le è stato sottoposto per la sola firma.
Lei, poi, ha aggiunto una circostanza, alla quale lei non sembra, almeno dal mio punto di vista, aver dato particolare importanza, che invece a me è sembrata di estrema gravità, e cioè che quel documento fu all’epoca falsificato con l’aggiunta a penna dell’ordine di distruzione dei brogliacci. Io ho letto questa circostanza, il fatto che quel provvedimento fu predisposto e le si chiese di firmarlo a distanza di pochi giorni dall’archiviazione e dalle intercettazioni stesse alla luce di quanto emerso nel corso di quasi tutti i procedimenti che si sono occupati delle stragi di Capaci e di via d’Amelio in ordine alla centralità degli interessi di cosa nostra nel settore degli appalti e al fatto che uno dei motivi dell’uccisione del dottor Falcone e del dottor Borsellino è senza dubbio da ricondurre alla necessità di evitare – questo è il contributo di molti collaboratori da voi stessi ritenuti del tutto attendibili – che gli enormi introiti e soprattutto l’enorme potere che l’infiltrazione nel mondo politico, economico e imprenditoriale consentiva alla mafia potessero essere interrotti dalle capacità, dalle conoscenze e dal coraggio che solo a costoro tra i magistrati della procura di Palermo venivano riconosciuti.
Ebbene, io davvero non riesco a comprendere come mai lei si sia tanto preoccupato dell’erronea individuazione, nel corso di precedenti audizioni, della provenienza delle bobine di cui è stata disposta la distruzione, se dalla procura di Massa-Carrara
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o da quella di Palermo, e non della falsificazione di quel provvedimento.
Grazie, presidente.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Grazie, onorevole, per la domanda. Mi sono soffermato, nell’audizione precedente, sull’erronea attribuzione della smagnetizzazione delle bobine provenienti da Massa-Carrara, perché si è detto che in quelle conversazioni intercettate ci potessero essere le ragioni importantissime, fondamentali per capire i motivi della strage di via D’Amelio che, a causa della smagnetizzazione, sarebbero state impedite per sempre. Siccome, lo ripeto, questa era l’accusa – permettetemi di chiamare le cose con il loro nome – che mi veniva mossa, ovviamente ho ritenuto di provare documentalmente che quelle bobine non sono mai arrivate a Palermo. Ribadisco che questo lo ricavo documentalmente, come ho provato con uno degli allegati depositati la volta scorsa, dalla nota del maggiore Roberto Rossetto del 17 settembre 1991, in cui si dà atto in maniera analitica delle cose che venivano consegnate all’ufficio di Palermo e non si parla assolutamente di bobine.
A questo proposito, anche raccogliendo una giusta sollecitazione della presidente Colosimo, che ringrazio, mentre ella parlava, segnalo che, ad esempio, sempre tra le carte provenienti da Massa-Carrara, che sono queste delle quali ho avuto copia, in una nota della Sezione di polizia giudiziaria della Polizia di Stato della procura di Massa del 13 luglio 1991 trovo, dopo un riepilogo sulla possibile infiltrazione mafiosa attraverso l’acquisto della Calcestruzzi e delle società SAM e IMEG, il seguente oggetto: «Servizio di ascolto telefonico relativo alla seguente utenza – ometto i numeri – intestata all’ingegnere Volpe, ma in uso a Cimino Girolamo». Si fa riferimento a queste intercettazioni, iniziate il 16 aprile 1991 e terminate il 2
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luglio 1991, con l’esito delle indagini che fanno riferimento a intercettazioni telefoniche preventive richieste dall’Alto Commissario. Quelle intercettazioni, ex articolo 226-sexies del codice di procedura penale 1930, abrogato, delle quali ho parlato l’altra volta per ribadirne l’utilità ai fini di spunti di indagine, ma l’inutilizzabilità a qualsiasi altro fine di tipo giudiziario. Alla fine di questa nota si dice: «Per la Cancelleria della locale procura» che è la procura di Massa «si allegano numero quaranta copie del brogliaccio di ascolto, un traslatore, una scheda delle operazioni svolte e, infine, numero ventiquattro nastri magnetici usati per l’ascolto di tutte le conversazioni in narrativa». Quindi, abbiamo comunque l’individuazione quantitativa del fatto che queste intercettazioni sollecitate dall’Alto Commissario, quindi inutilizzabili dal punto di vista procedurale, erano contenute in questi ventiquattro nastri magnetici, che – sottolineo – non sono mai arrivati a Palermo. Comunque, era per un’utilità ai fini dei lavori della Commissione. C’è questa nota del 13 luglio 1991, in cui si fa riferimento al fatto che quantomeno le intercettazioni di provenienza Alto Commissario, quindi inutilizzabili dal punto di vista processuale, erano contenute in ventiquattro nastri. Poi, quali fossero quelle, invece, che pure dovrebbero esserci state, perché da qualche parte ce n’è traccia, di natura giudiziaria, quindi richieste al GIP di Massa-Carrara, non lo so dire. Ripeto: non c’è un riferimento così puntuale come questo.
Queste ragionevolmente – verosimilmente, più che ragionevolmente – saranno state mandate alla procura di Lucca, quando ci si accorge che non c’è la competenza territoriale, quindi che il fascicolo originario del dottor Lama deve andare a Lucca. Oppure, dopo che sono andate a Lucca e Lucca, il 22 gennaio 1993, si accorge che la competenza territoriale appartiene alla procura di Roma, probabilmente potrebbero essere
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state trasmesse da Lucca a Roma. A Palermo certamente non sono mai arrivate. Ecco il motivo per il quale io mi sono occupato di questa parte delle intercettazioni. Queste ho motivo di ritenere che siano quelle intercettazioni alle quali fa riferimento il maresciallo Angeloni, ritenendole di importanza fondamentale, ma probabilmente omettendo di dire che si trattava di intercettazioni chieste dall’Alto Commissario, quindi non utilizzabili giudiziariamente. Comunque, ripeto, non è un problema che mi riguarda, al di là del fatto che anche il maresciallo Angeloni mi gratifica dell’ipotesi che io abbia contribuito a sopprimere degli elementi fondamentali per scoprire le reali cause della strage di via d’Amelio. Perché di questo si tratta. Se sgombriamo il campo dalle parole che possono paludare le reali intenzioni, la lettura che viene data di tutta questa storia è che la smagnetizzazione sia stata fatta per sopprimere degli elementi di prova ritenuti fondamentali per l’accertamento delle cause della strage di via d’Amelio.
Questo mi sento di dire, purtroppo. Dico «purtroppo» perché, come ho detto in premessa del mio intervento, tutto mi sarei immaginato all’inizio della mia carriera di magistrato, tranne che di sentirmi gratificato della sola ipotesi, del solo sospetto che possa aver contribuito, in tutto o in parte, all’uccisione di un carissimo amico.
SANDRO SISLER. Grazie, dottore, anche per la disponibilità. Complimenti per la memoria, perché immagino non sia semplice.
La mia è una domanda con una breve premessa. Tenendo in considerazione, dottore, che abbiamo ben compreso sia il fatto che è necessario mettere nella giusta consecutio gli elementi per addivenire, ovviamente, a comprendere quella che era la situazione, sia che non è semplice nei ricordi mettere giustamente in relazione temporale ciò che si è appreso oggi, ciò che si conosce
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ora. Questo lo abbiamo perfettamente compreso. Tento, quindi, di far comprendere la domanda. Probabilmente lei ha già risposto, ma ci tengo a comprendere in modo chiaro.
Ho tentato di tenere in considerazione alcune sue affermazioni che ha fatto oggi e la scorsa volta. Ad esempio, lei, nel rispondere a Provenzano, ci ha detto che Borsellino le ha chiesto copia del dossier mafia e appalti, a dimostrazione dell’interesse forte che aveva il giudice Borsellino sul tema. Così come Falcone, intervenendo pubblicamente in più occasioni sul tema mafia e appalti, ha fatto esplicito riferimento – l’abbiamo scoperto in questa Commissione in passato – ad indagini di cui si era occupato come procuratore della procura di Palermo, dimostrando chiaramente di sapere, per ciò che lo riguardava, che non c’era grande differenza tra le imprese meridionali e le imprese del resto d’Italia per ciò che riguarda il loro condizionamento e, anzi, il loro inserimento in certe tematiche di chiara matrice mafiosa. Anni dopo, a dimostrazione di questo, come ha detto anche lei prima, il collaboratore di giustizia Siino spiega che i mafiosi avevano perfettamente compreso a chi si riferisse il giudice Falcone nei suoi interventi, anche se non l’aveva mai esplicitato, e cioè al gruppo Ferruzzi. Lo dice Siino nel processo – se non sbaglio, ho preso nota – Borsellino quater.
Questo va collegato al fatto che, come lei ha detto e come hanno detto i suoi colleghi che sono venuti in questa Commissione, avete sempre riferito di una sorta di circolarità delle informazioni all’interno della procura, «tale da costituire» – lo riporto letteralmente – «patrimonio di conoscenza comune di ogni fatto che proveniva dalle esperienze degli altri». Questa, ovviamente, è una cosa virtuosa e giusta, cioè la circolarità delle informazioni.
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In tale contesto – questa è la mia domanda – di comune conoscenza, come avete tutti affermato, quando ha ricevuto i documenti di Massa-Carrara, magari non del tutto completi, considerato, quindi, ciò che lei conosceva in quel momento, non quello di cui è venuto a conoscenza dopo, come mai lei e i suoi colleghi – questa è la domanda fulcro, per quel che mi riguarda – non avete pensato di collegare quello scenario che emergeva dai documenti di Massa-Carrara con le preoccupazioni di Falcone? Questo, considerate quelle che erano le conoscenze del momento, ovviamente, quindi i documenti di Massa-Carrara, le dichiarazioni di Falcone e la richiesta di Borsellino che rendevano evidente un loro interesse e una loro idea sul rapporto mafia e appalti. Come mai lei e i suoi colleghi in quel momento non avete pensato di seguire questa linea?
Grazie.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Grazie a lei per la domanda e per l’opportunità di chiarire, se ci riesco, qualche passaggio.
Falcone, per quello che io so, di mafia e appalti non se n’è occupato, perché di mafia e appalti, qualora se ne sia occupato nella fase originaria delle indagini, quindi prima che venga depositato il fascicolo il 16 febbraio 1991, io non so nulla perché non sono in procura. Giovanni se ne poteva essere occupato, ed era la cosa che, ad esempio, io avevo sentito così, da giudice istruttore, quando lui era ancora giudice istruttore, per l’omicidio Taibbi, per la collaborazione del professore Giaccone, quindi di due fascicoli che c’erano all’Ufficio Istruzione quando eravamo ancora giudici istruttori. Ma siamo giudici istruttori di fascicoli separati. Perché? Perché siamo nella gestione del consigliere Meli, che – come tutti ricorderete e, devo dire, purtroppo ricordo anch’io – aveva provveduto allo smantellamento del pool. Infatti, a partire dall’ottobre del 1988,
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i fascicoli che erano confluiti all’interno del cosiddetto «maxi processo» vengono assegnati uti singuli ai giudici istruttori.
SANDRO SISLER. Giusto per capire, mi perdoni. Quindi, fino al 1991 voi non potevate conoscere il pensiero di Falcone sul rapporto mafia e appalti, fino al deposito del fascicolo.
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Mi perdoni. Io sto con Giovanni Falcone all’Ufficio Istruzione fino all’entrata in vigore del Codice, quindi fino al 23 ottobre 1989. Dopodiché, Giovanni Falcone va a fare il procuratore aggiunto. Io resto come giudice istruttore in proroga fino a giugno 1991. Quindi, già dal 1989 io non ho più rapporti. Ho rapporti amicali, per carità…
SANDRO SISLER. Mi interessava questo dato temporale. Lei ha lavorato con Falcone fino al 1989. Nel 1991 viene depositato…
GIOACCHINO NATOLI, già presidente della corte di appello di Palermo. Io sono ancora all’Ufficio Istruzione. Giovanni se ne va ai primi di marzo, come dicevo, del 1991. Io in procura non ho fatto neppure un minuto con Giovanni Falcone. Giovanni Falcone mi aveva chiesto di passare dall’Ufficio Istruzione alla procura, pensando evidentemente che lui sarebbe rimasto per più tempo e voleva comunque un certo gruppo, segnatamente io e Ignazio De Francisci, perché Leonardo Guarnotta non accettò questo suggerimento e infatti rimase a fare il giudice, il presidente di sezione. Io e Ignazio De Francisci, viceversa, facemmo domanda per andare in procura. Ignazio ci è arrivato prima, io ci sono arrivato dopo. Quindi, per un periodo breve credo che abbia lavorato con Giovanni in procura, mentre io non ci sono arrivato, perché Giovanni se ne va a marzo e io arrivo a giugno. Comunque, con Falcone io non lavoro più in nessun modo dal
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1989. Per un periodo, come ricordavo, Giovanni Falcone, da procuratore aggiunto, mi fa da PM nei processi politici che io stavo seguendo come giudice istruttore. Quindi, relativamente a come nasce mafia e appalti e a che cosa fa Giovanni Falcone su mafia e appalti non so nulla. In questo caso veramente neppure de relato, perché queste cose non sono emerse o, almeno, a mio ricordo non sono emerse.
Con riferimento alla questione della circolarità delle informazioni, ancorché non prevista per legge, nel pool dell’Ufficio Istruzione volontariamente noi rispettavamo questo obbligo reciproco di una tempestiva e completa circolarità delle informazioni. Quando, grazie a Giovanni Falcone, diventerà un obbligo all’interno delle DDA, con Giovanni Falcone non ho più modo di lavorarci, perché Giovanni Falcone è al ministero e le DDA entrano a fine novembre 1991.
In procura della Repubblica, che non aveva vissuto questa fase che io e gli altri quattro avevamo vissuto nel pool dell’Ufficio Istruzione, la circolarità delle informazioni era qualcosa che si sarebbe acquisita. Io, poi, che sono rimasto fino al 2005 in procura, scopro che riusciamo a farla funzionare e a farla funzionare bene soprattutto quando arriva Gian Carlo Caselli. Quindi, siamo già a gennaio 1993.
Tornando, però – perché non voglio minimamente venir meno al focus della sua domanda – al procedimento 3589/91 e alle ragioni per cui non rientra nella circolarità delle informazioni che comunque non c’era o era un po’ zoppicante all’interno della procura, è perché – lo ripeto, spero per l’ultima volta – il procedimento 3589/91 non viene mai ritenuto, dal nostro punto di vista, facente parte del problema mafia e appalti. La dimostrazione è in quella annotazione del compianto Paolo Borsellino che il 10 aprile 1992, quando riceve per conoscenza la nota del procuratore Ceschi da Massa – che è per
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conoscenza, perché il procuratore Ceschi la manda a Palermo e a Firenze, dicendo «per quanto di vostra eventuale competenza» – Paolo Borsellino, non so per quale motivo, evidentemente in quella settimana distribuisce la posta, vede questa cosa e la dà a Pignatone e Lo Forte, i quali, subito dopo, ed erano incaricati di mafia e appalti, a distanza di dieci giorni me la mandano, per competenza, per unione agli atti del mio fascicolo 3589/91 RGNR. Ho prodotto la fotocopia del frontespizio del fascicolo, che credo fosse il 2289/92 e non so come, comunque l’ho prodotto. Mi mandano questa nota, che è quella che vi facevo vedere poc’anzi, alla quale era allegata una sorta di resoconto di Augusto Lama, che è quasi completamente uguale a quello che Augusto Lama aveva mandato nel mese di settembre 1991 richiedendo le intercettazioni a carico di Buscemi.
Spero di essere riuscito a darle una risposta non dico soddisfacente, ma quantomeno congrua. Grazie.
PRESIDENTE. Grazie mille. Intanto grazie per questa audizione fiume. Credo che ci siano stati dati altri spunti e altre possibilità per continuare il lavoro che abbiamo iniziato, fermo restando, da quello che capisco, che abbiamo le 242 pagine anche agli atti, ma non le bobine. Parlo, chiaramente, delle ventiquattro bobine a cui ha fatto prima riferimento. Non lo dico a lei, presidente Natoli, è riferito a noi Commissione antimafia, per capire che cosa dobbiamo andare a cercare nei nostri documenti.
Ringrazio il presidente Natoli per il tempo che ci ha dedicato.
Comunicazioni del presidente.
PRESIDENTE. Comunico che l’ufficio di presidenza, integrato dai presidenti dei gruppi, nella seduta del 31 gennaio ha
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convenuto che la Commissione si avvalga delle seguenti collaborazioni a tempo parziale: Stefano Bernardini, Salvatore Calleri, Simone Ciccotti, Alberto Michele Cisterna, Nando Dalla Chiesa, Giuseppe Del Vecchio, Roberto Guido, Manolo Iengo, Dario Marano, Paolo Masini, Paride Minervini, Luca Rodolfo Paolini, Stefania Pellegrini, Italo Radoccia, Guido Salvini, Roberto Saulino, Attilio Pietro Spizzirri, Fabio Massimo Ventura e Carlo Villani.
La presidenza ha avviato, laddove è necessario, le procedure previste per l’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza, ai sensi dell’articolo 7 della legge istitutiva.
Formulo, quindi, l’augurio di buon lavoro a tutti, ringraziandoli sin d’ora per il contributo che sapranno dare alla Commissione.
Comunico, inoltre, che il senatore Della Porta entra a far parte del Comitato X «Mafia e nuove tecnologie», mentre l’onorevole Antoniozzi entra a far parte del Comitato VI «Cultura della legalità e protezione dei minori».
Mi corre l’obbligo, in conclusione di queste comunicazioni, perché l’ho promesso al professor dalla Chiesa, di fare una specifica. Il professor dalla Chiesa sarà consulente di questa Commissione in questa prima fase per poter lavorare, vista la sua esperienza e vista la sua storia familiare, a tutti gli atti che sono ancora segretati che riguardano il generale dalla Chiesa.
Grazie a tutti. Dichiaro conclusa l’audizione.
La seduta termina alle 17.05.
Cosa Nostra e le cave. AUGUSTO LAMA: “L’indagine meritava più attenzione dai colleghi di Palermo”
Strage Borsellino: Natoli, ‘sui Buscemi narrati come fatti veri mere ipotesi’
Strage Borsellino: Natoli, ‘Trizzino improvvido, non era inusuale smagnetizzare le bobine’
Palermo, 23 gen. “In relazione a quanto inopinatamente, e forse improvvidamente, sostenuto dall’avvocato Trizzino, va spiegato con cura che il provvedimento di smagnetizzazione era tutt’altro che eccezionale (o “mai visto né prima né dopo”, secondo l’avvocato Trizzino) all’epoca dei fatti nella Procura di Palermo, ovviamente nell’ipotesi di intercettazioni contenute in procedimenti archiviati o relative a processi definiti con sentenze passate in giudicato”. A dirlo proseguendo la sua audizione davanti alla Commissione nazionale antimafia è l’ex pm di Palermo Gioacchino Natoli, replicando così alle dichiarazioni rese, sempre davanti all’Antimafia, dall’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice Paolo Borsellino nonché marito di Lucia Borsellino.
“Questi provvedimenti di “smagnetizzazione a fini di riuso dei nastri” si inserivano, infatti, in una costante prassi adottata dal Procuratore di Palermo in base alle nuove disposizioni del codice di procedura penale del 1989 dettata sia dalla necessità di riutilizzare le bobine smagnetizzate per la nota carenza di fondi ministeriali fortemente presente in quel periodo, sia per la mancanza di spazi fisici (stanze o corridoi) per la conservazione dei nastri, che erano aumentati di molto dopo la istituzione della DDA di Palermo nel novembre 1991, che aveva incorporato l’attività di ben cinque Procure del distretto (Agrigento, Trapani, Termini Imerese, Marsala e Sciacca)”, prosegue Natoli.
“A dimostrazione documentale di quanto appena detto, si è rinvenuta da parte mia una pubblicazione specializzata in cui si descrive in dettaglio la procedura corretta per “il carico e lo scarico” nel Registro del materiale di consumo dei nastri nuovi e di quelli smagnetizzati e riusati, come previsto dalle norme sulla Contabilità di Stato – dice – La necessità di riportare “in carico” nel Registro i nastri smagnetizzati e da riutilizzare, peraltro, era stata più volte affermata dal Ministero di grazia e giustizia con Circolari della Direzione Generale Affari civili del 1979”. LASICILIA.IT ©
Strage Borsellino: Natoli, ‘Trizzino improvvido, non era inusuale smagnetizzare le bobine’
Palermo, 23 gen. (Adnkronos) – “In relazione a quanto inopinatamente, e forse improvvidamente, sostenuto dall’avvocato Trizzino, va spiegato con cura che il provvedimento di smagnetizzazione era tutt’altro che eccezionale (o “mai visto né prima né dopo”, secondo l’avvocato Trizzino) all’epoca dei fatti nella Procura di Palermo, ovviamente nell’ipotesi di intercettazioni contenute in procedimenti archiviati o relative a processi definiti con sentenze passate in giudicato”. A dirlo proseguendo la sua audizione davanti alla Commissione nazionale antimafia è l’ex pm di Palermo Gioacchino Natoli, replicando così alle dichiarazioni rese, sempre davanti all’Antimafia, dall’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice Paolo Borsellino nonché marito di Lucia Borsellino.
Antimafia, l’ex pm Natoli smentisce Trizzino: “Da lui accuse false, ecco le carte. Mafia e appalti? Non è la causa esclusiva delle stragi”
“Sono venuto a conoscenza delle gravissime insinuazioni e delle accusemosse nei miei confronti solo a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di stampa che richiamavano le dichiarazioni rese dell’avvocato Fabio Trizzino dal 27 settembre al 24 ottobre scorsi“. È questo l’incipit scelto da Gioacchino Natoli per cominciare la sua audizione davanti alla commissione Antimafia. Dopo l’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, l’ex magistrato ha ricostruito la storia delle intercettazioni dei fratelli Ninoe Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini a Totò Riina poi divenuti soci del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, anche davanti ai parlamentari di Palazzo San Macuto.
L’indagine sui Buscemi – Una vicenda che risale al giugno del 1992, quando Natoli chiese e ottenne per i Buscemi l’archiviazione in un’inchiesta per riciclaggio, nata su input della Procura di Massa Carrara, che indagava sulle infiltrazioni di Cosa Nostra nelle cave di marmo in Toscana. Nei mesi scorsi questa vicenda era stata raccontata, sempre davanti alla commissione presieduta da Chiara Colosimo, da Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale dei figli del giudice ucciso in via D’Amelio. L’avvocato ha collegato l’indagine sui Buscemi a quelle del Ros di Mario Mori su Mafia e appalti, indicandole come il movente segreto della strage di via d’Amelio. E sottolineando che Natoli, oltre all’archiviazione, chiese “inspiegabilmente” pure di smagnetizzare le intercettazioni dei fratelli mafiosi e distruggere i brogliacci. “Chi ha disposto la distruzione avrebbe dovuto giustificarsi di fronte a Borsellino, se Borsellino fosse sopravvissuto”, ha sostenuto l’avvocato. “Queste affermazioni denigratorie, tutte clamorosamente destituite di fondamento, attengono a fatti il cui accertamento ritengo risulti indispensabile per il lavoro di questo commissione”, ha detto invece oggi Natoli, che ha passato gli ultimi mesi a ricostruire ogni dettaglio di quella vecchia indagine.
La relazione dell’ex pm – In pensione dal 2018, giudice istruttore del pool Antimafia di Palermo e poi sostituto procuratore, Natoli ha lavorato per anni al fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Tutte le sentenze rese dall’autorità giudiziaria di Caltanissetta convengono su un punto: purtroppo la strage di via D’Amelio, come quella di Capaci, hanno una molteplicità di concause all’interno delle quali si ascrivono quelle riconducibili al rapporto di mafia e appalti, ma solo come concausa e non come causa esclusiva o causa acceleratrice”, ha spiegato oggi alla fine della sua audizione. Per quasi due ore l’ex magistrato ha smontato punto su punto le affermazioni di Trizzino, mostrando carte e documenti, che ha depositato insieme a una dettagliata relazione: “Fornirò un resoconto ordinato degli accadimenti come risultano dai documenti ufficiali dell’epoca e non da ricostruzioni inesatte, se non oggettivamente false in alcuni passaggi, che sono state proposte in precedenza rispetto alla mia audizione”.
“Falso che quelle bobine vennero distrutte” – Punto primo: non è vero che le intercettazioni dei fratelli Buscemi furono smagnetizzate visto fino a poco tempo fa erano negli archivi della procura di Palermo mentre adesso sono a Caltanissetta. “A seguito di specifica richiesta la Procura ha fatto pervenire una nota per spiegare che i nastri erano conservati negli archivi dell’ufficio ma che non è stato possibile reperire tre dei 4 brogliacci riferiti a quelle intercettazioni”, ha spiegato la presidente Colosimo in apertura dei lavori. Quelle intercettazioni, però, non sono quelle inviate dalla procura di Massa Carrara a Palermo, visto che nel capoluogo siciliano i magistrati toscani non spedirono alcuna bobina. “L’avvocato Trizzino ha riferito a questa commissione che in data 25 giugno 1992 avrei disposto la smagnetizzazione delle bobine relative alle intercettazioni telefoniche disposte dalla procura di Massa Carrara, tanto che lo stesso ha rimarcato la gravità di tale iniziativa, ricordando che il dottor Augusto Lama (il sostituto procuratore di Massa ndr) aveva chiaramente evidenziato l’importanza di quegli atti investigativi ormai divenuti non più conoscibili e dunque inutilizzabili in futuro per le indagini sulle stesse stragi”, ha ripercorso Natoli. “Come documentato, si tratta di una affermazione clamorosamente falsa, perché le bobine delle intercettazioni telefoniche eseguite su indicazione della procura di Massa Carrara non furono mai consegnate a Palermo, e perché l’ordine di smagnetizzazione atteneva esclusivamente ai decreti emessi dal gip di Palermo”, ha proseguito l’ex magistrato, mostrando ai commissari i documenti che facevano parte del fascicolo di quell’indagine collegata, aperta nel capoluogo siciliano su richiesta dei pm toscani.
“La smagnetizzazione dei nastri era una prassi” – Natoli è anche tornato sulla questione della distruzione delle bobine, cioè su quell’ordine di smagnetizzazione delle intercettazioni che porta la sua firma (mentre il resto non è la sua calligrafia), ma che non venne mai eseguito. “Mancata esecuzione – ha spiegato – che dimostra, ove ve ne fosse bisogno, che non vi era certamente alcun mio illecito interesse a distruggere una fonte di prova rilevante, come pure sembrerebbe essere stato adombrato, giacché in tale evenienza avrei ovviamente curato che la smagnetizzazione fosse portata a compimento in tempi celeri”. L’ex giudice ci ha tenuto a sottolineare che “in relazione a quanto inopinatamente, e forse improvvidamente, sostenuto dall’avvocato Trizzino, va spiegato con cura come il provvedimento di smagnetizzazione fosse tutt’altro che eccezionale – o “mai visto né prima né dopo”, come ha detto l’avvocato Trizzino – all’epoca dei fatti nella Procura di Palermo, ovviamente nell’ipotesi di intercettazioni contenute in procedimenti archiviati o relative a processi definiti con sentenze passate in giudicato”. Negli ultimi mesi, infatti, l’ex giudice istruttore ha ricostruito come venivano gestite le registrazioni degli ascolti telefonici nell’ufficio inquirente siciliano negli anni ’90: “Questi provvedimenti di smagnetizzazione a fini di riuso dei nastri si inserivano, infatti, in una costante prassi adottata dal Procuratore di Palermo in base alle nuove disposizioni del codice di procedura penale del 1989 dettata sia dalla necessità di riutilizzare le bobine smagnetizzateper la nota carenza di fondi ministeriali fortemente presente in quel periodo, sia per la mancanza di spazi fisici (stanze o corridoi) per la conservazione dei nastri, che erano aumentati di molto dopo la istituzione della Dda di Palermo nel novembre 1991, che aveva incorporato l’attività di ben cinque Procure del distretto”.
Lo schiacciamento di conoscenze – Durante la sua audizione, Natoli ha insistito più volte su un concetto che lui definisce “lo schiacciamento delle conoscenze“: “È cosa non dubbia – ha spiegato – che durante alcune audizioni che hanno preceduto la mia sia stato adoperato ripetutamente un metodo di schiacciamento delle conoscenze, senza rispettare lacronologia dei fatti processuali e degli avvenimenti storici”. Cosa intende dire? “Secondo la ricostruzione proposta dall’avvocato Trizzino, tutte le preziose conoscenze sul sistema mafia-appalti avutesi esclusivamente a partire dalla fondamentale collaborazione di Angelo Siino (il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra ndr) del luglio 1997 e dopo le dichiarazioni di Giovanni Brusca del periodo 1998/99 avrebbero dovuto essere conosciute e valorizzate dai pm Lo Forte e Scarpinato in anticipo rispetto alla storia, cioè al momento della richiesta di archiviazionedepositata il 13 luglio 1992″. Nel caso delle indagini di Massa Carrara sui Buscemi, invece, “sono stati narrati come fatti veri quelle che erano mere ipotesi investigative se non addirittura semplici sospetti”.
Le presunte ritorsioni su Massa e il ruolo di Falcone – E a proposito delle indagini toscane, Natoli ha confutato anche un’altra parte delle dichiarazioni di Trizzino: quella relative alle presunte ritorsioni ordinate da Gardini nei confronti del pm Lama, grazie all’intercessione dell’allora guardasigilli Claudio Martelli. In realtà, Natoli ha ricostruito che “il 10 febbraio 1992 il pm Lama rilasciava delle dichiarazioni sulle indagini che stava svolgendo ai giornalisti de La Nazione e de Il Tirreno. A seguito della pubblicazione di tali articoli, avvenuta l’11 febbraio 1992, nonché del clamore che avevano suscitato, sempre Lama ritenne opportuno astenersi immediatamente dalle indagini in corso, restituendo gli atti al procuratore della Repubblica, dottor Duino Ceschi“. Quindi, ha proseguito l’ex giudice istruttore, “è clamorosamente destituita di fondamento la narrazioneripetutamente fatta in questi ultimi trent’anni, ma anche recentemente, secondo cui il fascicolo fu sottratto a Lama dal ministro Martelli, nell’interesse di Raul Gardini, suo amico e sodale politico, giacché tale fascicolo fu volontariamente restituito al procuratore Ceschi per astensione del Pm che aveva rilasciato delle imprudenti dichiarazioni alla stampa“. Su questa vicenda Natoli ha poi voluto sottolineare “come elemento logico “che nel febbraio del 1992, cioè quando “sarebbe stata ordita la macchinazione dall’alto ai danni del dottor Lama” al Ministero di giustizia lavorava già da un anno come direttore generale degli Affari Penali Giovanni Falcone: “Appare assai sorprendente, se non arduo, sostenere che avrebbe potuto consentire una simile manovra impeditiva a quel Ministro del quale è stato sempre ritenuto un fidato consigliere”. D’altra parte, secondo lo stesso Trizzino, Falcone avrebbe voluto approfondire le indagini su Mafia e appalti da procuratore aggiunto di Palermo: possibile che da dirigente del ministero della Giustizia abbia lasciato bloccare l’inchiesta di Massa Carrara, che si muoveva sulla stessa pista investigativa. “Pertanto – ha concluso Natoli – nessun intervento del ministro Martelli ebbe a bloccare le indagini che il pm Lama stava conducendo: la ricostruzione fatta dall’avvocato Trizzino è destituita documentalmente di ogni fondamento storico“. L’ex magistrato tornerà in Antimafia nelle prossime settimane, per rispondere alle domande dei commissari.
Strage Borsellino: Natoli, ‘rapporto mafia e appalti concausa ma non accelerò attentato
Palermo, 23 gen. “Tutte le sentenze rese dall’autorità giudiziaria di Caltanissetta convengono su un punto: purtroppo la strage di via D’Amelio, come quella di Capaci, hanno una molteplicità di concause all’interno delle quali si ascrivono quelle riconducibili al rapporto di mafia e appalti, ma solo come concausa e non come causa esclusiva o causa acceleratrice”. Lo ha detto l’ex giudice Gioacchino Natoli, durante l’audizione davanti alla Commissione nazionale antimafia. Natoli è stato per molti anni pm alla Procura antimafia di Palermo e rappresentò l’accusa nel processo Andreotti.
Rinvenuti i nastri con le intercettazioni dei fratelli Buscemi e NATOLI chiede di essere audito..