22 giugno 2022 ARCHIVIO 🟧 FIAMMETTA BORSELLINO: “Mio padre fu lasciato solo e tradito»

 

Di PIERO MELATI

 

Il trentennale della strage di via D’Amelio per Fiammetta Borsellino è cominciato così. Una mattina si è affacciata al balcone della sua abitazione, nel quartiere palermitano della Kalsa, lo stesso dove suo padre è nato e cresciuto. Sul muro di fronte, come una apparizione, ha visto un murales a colori che ritraeva il giudice Paolo Borsellino, in giacca e cravatta, con la mano sinistra in tasca e con la destra a reggere quella borsa che è stata sottratta il 19 luglio del 1992 dalla sua auto blindata ancora in fiamme, dopo l’esplosione dell’autobomba. È la stessa borsa dove c’era la famosa “agenda rossa”, nella quale il giudice annotava le cose più segrete.
Quella borsa verrà poi restituita alla famiglia, ma priva dell’agenda, scomparsa per sempre nel gorgo dei misteri d’Italia. Quel murales, il giorno prima non c’era.

 

 

«Mi è venuto un colpo, nel vedermelo davanti all’improvviso», racconta Fiammetta. Cosa era accaduto? Per una coincidenza, oppure per uno strano incrocio del destino, il writer TvBoy lo aveva realizzato la notte precedente, ignorando di farlo proprio sotto la casa della figlia del giudice. Fiammetta si è poi messa sulle sue tracce e i due si sono infine conosciuti.
Il murales è ben riuscito: Paolo Borsellino, con una espressione seria ma serena, sembra osservare tutto quello che è accaduto nei tre decenni successivi al suo sacrificio.

Le cerimonie legate al trentennale delle stragi siciliane sono in pieno svolgimento.

«La verità? Provo un grande disagio. Penso che una parte si sia appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Cinque anni fa avevo parlato per la prima volta pubblicamente, in occasione della diretta Rai sul venticinquennale. Avevamo deciso, con i miei fratelli Lucia e Manfredi, di riprenderci il diritto alla parola. Denunciai, sempre per la prima volta pubblicamente, la solitudine di mio padre, il tradimento da parte dei suoi colleghi magistrati.
Avevo espresso un altro punto di vista. Ho sentito il gelo intorno a me. Nei giorni successivi mi si rispose che i familiari delle vittime sono privi di qualsiasi forma di prudenza verbale. Invece del dialogo, ci fu immediatamente una chiusura».

Da allora sei considerata «verbalmente imprudente»?
«Ho deciso di andare avanti per la mia strada, altrimenti si rischia di farsene una malattia».

In questi anni ci siamo incontrati tante volte. Mi hai sempre detto che alla tv e alle interviste sui giornali preferisci parlare nelle scuole.
«È l’unico posto dove mi trovo a mio agio a raccontare di papà. Solo il contatto con menti pure, disinteressate, senza secondi fini, mi dà serenità».

Quest’anno non parteciperai a nessuna cerimonia ufficiale?
«Mi impegno ogni giorno dell’anno. Non mi sento obbligata dagli anniversari. L’enormità delle richieste di partecipazione… alla fine provo quasi un senso di violenza…
È giusto che le cerimonie vengano fatte, ma è più giusto per gli altri. Per noi familiari non può essere che si prema un bottone e si facciano partire i ricordi.
Molti non capiscono quanto per noi si tratti ancora di una cosa molto seria e dolorosa. Il bisogno che abbiamo è quello del raccoglimento, del silenzio, dell’evitare le apparizioni».

Tranne che nelle scuole. Quanti incontri hai fatto?
«Fino a tre in una settimana. Lontana dai riflettori. Al massimo finisco nelle pagine Facebook dell’istituto o nei giornalini scolastici. Ci credi? Non mi sono mai rivista in uno schermo, quando sono apparsa in tv. Non mi sono mai riletta sui giornali quando ho rilasciato interviste».

A quante cerimonie ufficiali sei andata in questi trent’anni?
«L’unica cerimonia ufficiale è stata quella promossa da Claudia Loi, la sorella di Emanuela, la prima agente della polizia italiana morta in servizio proprio in via D’Amelio, scortando mio padre. E un’altra volta sono andata a Marsala, dove mio padre è stato procuratore, quando hanno dedicato una piazza proprio a Emanuela».

Eppure si dice che cerimonie e anniversari servano a coltivare la memoria…
«Ho deciso che è inutile andare allorquando ho avuto chiara certezza che personaggi di primo piano delle istituzioni non avevano fatto il loro dovere.
La piena consapevolezza di questo l’ho avuta quando le prime sentenze hanno documentato l’esistenza del più grande depistaggio nella storia della Repubblica italiana oggi noto a tutti, quello relativo alle indagini sulla strage di via D’Amelio, per la quale era stato costruito un finto pentito ed erano stati condannati degli innocenti.
Mio padre diceva sempre che molte cose non si possono provare, tuttavia se ne possono trarre conseguenze.
All’indomani di via D’Amelio, mia madre aveva rifiutato i funerali di Stato. Allo stesso modo, noi figli abbiamo deciso di non partecipare mai più a cerimonie e celebrazioni di Stato finché non sarà chiarito, anche fuori dai processi penali, tutto quello che è accaduto.
Per me fare memoria è avere risposte in termini di cose concrete, che ci avvicinino alla verità. Fare memoria non è dire vuote parole».

 


Insisti sempre sul tradimento nei confronti di tuo padre e di Giovanni Falcone…

«Dopo trent’anni resta chiarissima la percezione della grande solitudine in cui sono stati lasciati. Una solitudine che è rimasta anche dopo le stragi, sempre da parte dei colleghi.
Le inchieste che sono state svolte hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto da magistrati e inquirenti.
Il percorso verso la verità è stato precluso dai colleghi di mio padre e di Falcone.
Hanno remato contro. Per questo parlo non solo di solitudine, ma anche di tradimento».

Nei vari processi avete insistito sul dossier mafia-appalti, su cui tuo padre e Falcone volevano lavorare e che invece è stato archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via D’Amelio.
«Quel dossier avrà avuto molti limiti, ma oggi risulta che mio padre era ben intenzionato a lavorarci. E per quanti limiti potesse avere, se fosse finito nelle mani di mio padre, come lui avrebbe voluto e come gli è stato impedito, non ho dubbi che avrebbe dato risultati».

Attorno a quel dossier lo stesso Falcone, in due convegni pubblici e in un intervento relativo ai “paradisi fiscali”, aveva fatto riferimento alla “mafia che si è quotata in Borsa”. Il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro ha poi detto che Tangentopoli a Milano era partita perché Falcone e Borsellino gli avevano riferito quanto detto dal superpentito Tommaso Buscetta: i miliardi del traffico internazionale di droga dalla Sicilia erano stati riciclati e investiti al Nord. E aveva parlato a questo proposito della holding di Raul Gardini, l’imprenditore suicidatosi nel 1993…
«La pista dei soldi. Non risulta che nei tre decenni successivi alle stragi qualcuno se ne sia mai occupato».

Chissà dove saranno finiti tutti quei narco-miliardi del traffico di droga…

«Dalla mafia il tradimento te lo aspetti. Ma non te lo aspetti dalle istituzioni. Per noi figli di Borsellino questo è stato motivo di una grande rottura. Ci sono magistrati che stanno lavorando e che lo fanno bene, ma per vederlo si è dovuti arrivare al processo Borsellino quater, che doveva essere un punto di arrivo e non di partenza, come invece è stato, e dopo un iter tortuosissimo costato anni e anni. Se tocchi certi poteri, si arena tutto quanto.
Neppure le procure più volenterose possono fare qualcosa, se poi anche i testimoni pensano solo a difendere il loro operato, ma non danno nessun contributo per farci comprendere cosa davvero non ha funzionato nel sistema».

All’indomani del venticinquennale delle stragi, tu hai formulato tredici domande per avere verità su via D’Amelio. Hai avuto risposte?
«Nessuna».

Qualche istituzione dello Stato ha chiesto scusa alla famiglia Borsellino per il depistaggio?
«No, solo io ho chiesto scusa agli innocenti condannati ingiustamente. Non sono mai stata avvicinata da nessun addetto ai lavori per un qualsivoglia chiarimento, neppure sul piano personale e umano.
In questo c’è stata molta disumanità.
Anche quando ho espresso la mia necessità di compiere un percorso di giustizia compensativa o riparativa, sono stata isolata».

Intendi quando hai deciso di incontrate in carcere i fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via D’Amelio?
«Sì, l’avevo fatto sull’onda di una urgenza emotiva, che credo sia stata la stessa che mi aveva spinto a parlare per la prima volta».

Oggi c’è una riforma della giustizia all’ordine del giorno.
«Non sono una tecnica, ma penso che quando si varano delle belle e nuove prescrizioni normative, poi resta sempre un altro modo in cui vengono date le risposte concrete.
Io avevo deciso di intraprendere quel percorso che mi ha portato a incontrare in carcere i fratelli Graviano. Ma mi sono stati posti ostacoli non motivati di ogni tipo. Tutte le procure competenti avevano dato parere negativo. Nessun addetto ai lavori mi ha mai spiegato il perché».

Però, alla fine, sei riuscita a incontrarli.
«Sì, ma dopo che l’allora procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha voluto incontrarmi riservatamente, per convincermi a rinunciare. L’ho ritenuta una intromissionenell’ambito di un percorso dentro il proprio dolore che non compete a quel tipo di istituzioni».

Che percorso avevi voluto intraprendere?
«Ci si deve fare carico di qualcosa e poi gestirla anche con degli aiuti. Questo è previsto dalla giustizia compensativa.

Ma dalle istituzioni ho avuto solo disprezzo. Così ho cercato aiuto da sola presso quelle persone che avevano fatto un analogo cammino, anche se in altri ambiti, come quello del terrorismo. Tra gli altri, la figlia di Aldo Moro».

Ma cosa ti ha spinto a incontrare i carnefici di tuo padre?
«A volte l’opinione pubblica considera noi figli di Borsellino quelli forti, quasi dovessimo avere nelle cellule il coraggio di papà.
Tante volte siamo noi a dover consolare gli altri. In realtà, la nostra vicenda è stata estremamente triste e circondata da una grande miseria umana.
A un certo punto abbiamo reagito, spinti da una esigenza di verità. Personalmente ho avuto una urgenza emotiva di denunciare l’ingiustizia, altrimenti non avrei trovato la forza di raccontare la storia di mio padre.
Senza questa spinta non avrei avuto neppure la percezione della verità e delle dinamiche per insabbiarla. E non mi sarei accorta che quelle dinamiche avevano dei volti e dei nomi.
La mia sarebbe stata la generica denuncia di un depistaggio, e in quanto generica sarebbe stata meno efficace. Una parte di questo percorso ha comportato anche incontrare chi ci aveva fatto del male».

Cosa ti è rimasto di questa esperienza?
«Il sistema carcerario è incapace di generare percorsi di cambiamento. Gli incontri tra detenuti e vittime, invece, possono innescare tentativi nuovi.
Altrimenti il malessere collettivo nelle carceri diventa una bomba a orologeria, generando solo suicidi e recidività.
Lo stesso carcere duro per i mafiosi non è più adeguato, se non favorisce percorsi di cambiamento, che non devono passare necessariamente per una collaborazione. È un’altra idea di giustizia, che ho imparato da mio padre».

L’Espresso 24 giugno 2022

 

 

 

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone nei murales di TvBoy

Lo scrittore catanese Alfio Caruso nel suo libro “I Siciliani” annovera Paolo Borsellino nella sezione “I devoti di un dio minore” asserendo che:«sulla sponda del diritto e sulla sponda del sopruso si sono spesso fronteggiati appartenenti a una storia comune. Volti conosciuti, volti amati, volti di ragazzi assieme ai quali si sono condivisi gli sbadigli in classe, le gite dell’oratorio, le partite di pallone sulla spiaggia vicino al mare dell’innocenza. Tutti proiettati verso un immancabile destino di gioia. Molti sono andati a morire per l’ansia di mostrarlo. Ci si fa ammazzare dalla mafia per gli stessi motivi per cui la mafia ammazza. I camposanti sono pieni di siciliani uccisi per non essersi lasciati incantare dal clima, dal mare, dal sole, dagli amori, dagli odori, dagli “uomini di rispetto”, dagli “sperti e malandrini”, dai gattopardi, dai galantuomini, dai compari. I  migliori della generazione che pensava di sconfiggere la mafia, sono finiti sotto una croce per testimoniare che esiste un’altra Sicilia, che questa Sicilia non si arrende e mai si arrenderà, che ci sarà sempre una voce libera pronta ad alzarsi contro l’assuefazione al peggio, contro il ributtante imbroglio dell’ “onorata società”»

 


“Mio padre fu tradito e lasciato solo”. J’accuse di F. Borsellino

Alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di via DAmelio Fiammetta Borselino, figlia del magistrato ucciso, rilascia una importante intervista al settimanale LEspresso”.  In questa intervista dice la sua su magistrati e depistaggi. «Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me» . Sono dichiarazioni forti e dure. Ne discutiamo, in questa intervista, con il criminologo Vincenzo Musacchio .

Alla vigilia dei trentanni dalla strage di via DAmelio, qual è il lascito più prezioso di Paolo Borsellino?

A me piace ricordarlo non solo per le gradi doti di magistrato ma soprattutto per il contributo di educazione alla legalità dei più giovani. Resterà traccia della sua onestà, della sua dedizione al lavoro e del suo alto senso dello Stato. Restano poche persone che cercano di portare il suo esempio e quello di tantissime altre vittime di mafia nelle scuole e nella società civile, evitando che si parli di loro solo nelle ricorrenze e poi ritorni l’oblio. Io lo ricordo spesso ai ragazzi per una frase che lui rivolge proprio a loro: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”

Fiammetta Borsellino ha dichiarato allEspresso (in edicola) che diserterà le cerimonie che ricorderanno il padre, lei che ne pensa? Condivide la sua scelta?

Condivido la sua scelta e aggiungo che ha tutto il diritto di farlo. Dice bene quando afferma che in tanti si sono appropriati indebitamente della memoria del padre. In tanti l’hanno anche usata per tornaconti personali. Fiammetta conosce la solitudine del padre perché l’ha vissuta in prima persona e conosce anche i tradimenti dei tanti pseudo amici di Borsellino. Da parte mia massima stima e condivisione poiché so cosa significa perdere il padre nell’adempimento del suo lavoro.

A prescindere al pensiero di Fiammetta, lei cosa pensa delle cerimonie che ogni anno ricordano le tante vittime di mafia?

A quelle ufficiali non ho mai partecipato. Io vado nelle scuole con i ragazzi e negli ultimi anni vado in quelle elementari, dove trovo tanta spontaneità e innocenza. Queste cerimonie spesso sono passerelle dove si recita un copione e dove la verità e la sua ricerca sovente latitano. Per questo ammiro la spontaneità e la denuncia di Fiammetta. Mi lascia sgomento quando ho sentito dirle che dopo aver denunciato per la prima volta pubblicamente, la solitudine di suo padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi, ha sentito il gelo intorno a lei. In fondo ha affermato la verità. Non solo per via D’Amelio ma anche per la strage di Capaci e per quella di via Pipitone dove fu ucciso Chinnici e per tante altre ancora. Francamente il solo fatto che per accertare la verità su via D’Amelio siamo al Borsellino quater indica un totale fallimento dello Stato e di tutte le sue componenti coinvolte nell’accertamento della verità. Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo.

Continuiamo sulle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Insiste spesso sul tradimento nei confronti di suo padre e di Giovanni Falcone, cosa pensa in merito?

Mi sembra che lei lo abbia chiarito molto bene. Il suo parere, che io reputo legittimo, è che le inchieste che hanno riguardato suo padre hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto dagli organi inquirenti. Secondo lei il percorso verso la verità è stato precluso anche da alcuni colleghi di suo padre e di Giovanni Falcone. Per questo parla non a caso di solitudine e di tradimento. La mia opinione, che ovviamente resta tale, è che entrambi stavano per scoprire verità sconvolgenti che andavano ben oltre la mafia. Pronto allora il colpevole dopo pochi mesi dall’attentato: Vincenzo Scarantino. Un analfabeta che sembra non sapesse leggere e che vivesse di furti d’auto. Da quel momento le indagini entrano nel più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Sedici anni, contrassegnati dalla complicità di molti, dall’incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria per ben nove gradi di giudizio e dall’incostanza di tanti giudici.

Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo stavano lavorando sul cd. dossier mafia-appalti, che fu archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via DAmelio, lei cosa pensa di quel dossier?

Non era un’indagine di poco conto poiché emerse per la prima volta l’esistenza di un “comitato d’affari”, gestito da mafia, alcuni esponenti della politica e una parte dell’imprenditoria, di rilievo nazionale, finalizzato alla spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Fu proprio Falcone a confermare che quell’indagine fosse molto importante e che non avesse soltanto valenza “regionale” ma anche un rilievo “nazionale” (Fonte: Alto Commissariato per il Coordinamento della Lotta contro la Delinquenza Mafiosa . “Le infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti pubblici: Atti del convegno-seminario, Palermo, 14-15 marzo 1991. Castello Utveggio, sede del Centro di Ricerche e Studi Direzionali della Regione, Edizioni Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, p. 208.). Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma altresì dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile anche alla questione degli appalti in odore di mafia in Sicilia e al giro miliardario che ruotava intorno. Confermò le sue convinzioni al giornalista Luca Rossi durante un’intervista pubblicata il 2 luglio del 1992 sul Corriere della Sera. Il nome di Salvo Lima lo aveva già evocato anche Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. L’ex magistrato molisano illustrò come ebbe la conferma del collegamento “mafia-affari”.

I fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via DAmelio potrebbero uscire dal 41-bis, cosa pensa di questa eventualità?

Sul 41-bis mi sono espresso più volte e so che il mio pensiero è minoritario ma sono fermamente convinto che questo strumento, voluto fortemente da Falcone, non sull’onda di un’emergenza emotiva ma dopo attento studio sulle strategie di lotta alla mafia, sia uno degli strumenti antimafia più indispensabili. Senza il 41-bis e le confische dei beni, le mafie avrebbero vita facile. Non vi è alcuna forma di violazione dello Stato di diritto poiché da un lato offre la possibilità al condannato di uscire da quel regime iniziando a collaborare con la giustizia e dall’altro ogni singola applicazione del 41-bis è sottoposta all’esame di un giudice in ossequio al principio di legalità e di giurisdizione.

Con chi ha passato lanniversario di Capaci e con chi passerà quello di via DAmelio?

Per me non esistono anniversari poiché ogni anno da trent’anni giro le scuole d’Italia e d’Europa. Ho cominciato nel 1992 con Antonino Caponnetto e da allora non ho più smesso.  Per l’anniversario di Capaci ero in una scuola elementare di Termoli e poi in videoconferenza con alcune associazioni antimafia dell’Olanda. Ricorderò Paolo Borsellino e la sua scorta in spiaggia con i ragazzi del Liceo umanistico di Guglionesi al termine di un progetto che si intitola “Legalità Bene Comune”.

Dal sito: https://www.rainews.it/articoli/2022/06/borsellino-fiammetta-mio-padre-tradito-lasciato-solo-intervista-vincenzo-musacchio-e34a1ad4-094b-428f-86c9-ec8d602d6371.html 

 

 

La denuncia di Fiammetta Borsellino

 

PAOLO BORSELLINO PER AMORE DELLA VERITÀ presentato a Palermo con Fiammetta Borsellino

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