24 maggio 1995 Scarantino compare per la prima volta in corte d’Assise al primo processo per la strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta. Dice Scarantino: “Mi sono pentito un mese e mezzo dopo essere stato arrestato, nel settembre ’92, ma ho cominciato a collaborare solo nel giugno ’94. Avevo paura delle minacce di Profeta, e mi vergognavo anche del fatto che avrei dovuto dire a quei magistrati che avevo ucciso un loro collega. Di tutti gli omicidi che ho fatto quello di Borsellino è stato quello più brutto. Non sapevo però come fare, ho pure tentato il suicidio in carcere, prima cercando di impiccarmi e poi tagliandomi le vene. Ma dopo un colloquio con mia moglie mi decisi a parlare”. E così continua: “Ero il guardaspalle di Salvatore Profeta e un giorno, tra la fine di giugno e inizio luglio del ’92, lo accompagnai ad una riunione in una villa ai Chiarelli, a Palermo. Io mi fermai fuori, insieme ad altre sei persone, ma dentro si tenne una riunione”. Scarantino, su invito del pubblico ministero, omette di dire i nomi dei partecipanti a questa riunione, come anche di altre persone con le quali era entrato in contatto nel corso della preparazione della strage. Poi aggiunge: “Non sentivamo di cosa si discutesse dentro, ma ad un certo punto parlarono di Borsellino, di Falcone e di esplosivo”. Al termine della riunione Profeta gli chiede di procurargli una macchina di piccola cilindrata. “A mia volta chiesi a Salvatore Candura di procurarmi la macchina, ed una decina di giorni prima del 19 luglio il Caldura mi portò una Fiat 126”. Il 17 luglio del ‘92, il venerdì precedente la strage, “insieme ad altre persone portai la 126 davanti alla carrozzeria di Giuseppe Orofino, in via Messina Marina. L’indomani, mentre stavo nel bar Badalamenti, alla Guadagna, insieme ad altre persone, arrivarono Gaetano e Pietro Scotto, e ‘Tanuzzu’ parlando ai presenti disse che erano riusciti a intercettare il telefono: ‘stavolta a chistu l’incucciammu (questo stavolta l’abbiamo in pugno. Ndr), è stata la risposta dei presenti. Nel pomeriggio, insieme ad altre persone, in tutto otto, abbiamo portato la macchina nella carrozzeria di Orofino. Qualcuno portò dentro la carrozzeria la 126, e dopo un po’ arrivò una Suzuki jeep che, secondo me, portava l’esplosivo. Io non entrai nella carrozzeria, ma, insieme ad altri due, giravamo con le moto intorno l’edificio”. Il compito di Scarantino e delle altre persone era quello di intercettare eventuali pattuglie della polizia o dei carabinieri, sparargli e farsi eventualmente arrestare pur di salvare le persone dentro la carrozzeria. “Dopo circa quattro ore – continua Scarantino – uscirono dalla carrozzeria e tornammo tutti a casa. L’appuntamento era per l’indomani, domenica 19 luglio, alle 5,30 di mattina. All’alba, insieme ad altre persone, siamo andati a prendere la macchina, quindi, con un corteo di tre automobili e la 126 in mezzo siamo andati in piazza Leone, dove ci aspettavano altre tre persone. Lì ci siamo fermati, gli abbiamo consegnato l’auto e ce ne siamo andati. Io sono tornato a casa, ho parlato al telefono con la mia ragazza, ho pranzato, ho chiamato al telefono la mia amante, poi, nel pomeriggio, alle 17,30, ho sentito persone in mezzo alla strada che gridavano ‘hanno ucciso Borsellino, hanno ucciso Borsellino’. Sono subito andato da Salvatore Profeta per dargli la notizia, a casa sua, e l’ho trovato sdraiato sul divano che guardava alla televisione le immagini della strage di via D’Amelio. In seguito mi dissero che a compiere la strage erano stati quei tre che ci aspettavano a piazza Leone, quei tre ‘dalle corna d’acciaio’”.