Piero Di Natale, quarantunenne di Castelvetrano, considerato dagli investigatori uno dei principali affiliati del clan guidato Franco Luppino (solo omonimo di Giovanni, l’autista di Messina Denaro arrestato insieme a lui), ne parlava conMarco Buffa, cinquant’anni, inquisito per traffico di droga, concorso in associazione mafiosa e porto illegale di armi. Accusandolo di aver messo in giro quella voce sulla fine del padrino; una bugia e un pericolo per lui, giacché al boss — chiamato Ignazieddu — non faceva piacere. E Buffa negava.
Di Natale: «Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso… Non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto… Perché già la notizia gli è arrivata… Che c’è stato qualcuno sta dicendo che Ignazzieddu è morto…Vedi che a quello quando pare che non gli arriva… Perché ha sempre sette-otto persone che lo informano…».
Buffa: «Non accusate a me perché vi vengo ad ammazzare tutti e due là… Io non l’ho detto mai questa cosa… Io a te l’ho detto… Ti ho detto: “Secondo me è così”… Finisce a coltellate… Non diciamo minchiate…». Di Natale rivelava a Buffa di aver parlato di questo incidente con Franco Luppino, consigliandogli di «chiedere scusa», e confermava che Ignazieddu era «vivo e vegeto». Con Buffa che si raccomandava: «Appena ci vai… Glielo dico a lui personalmente… Io non le ho mai dette queste cose… Io ho detto solo “secondo me, per me”, gli ho detto “per me non c’è… È morto… Per me…”».
Il capomafia, insomma, impartiva ordini e distribuiva incarichi sul territorio «a questo e questo». Rassicurava gli affiliati sulla sua presenza — anche fisica, si scopre adesso — avvertendo che «io sono qua come prima, più di prima». E aveva disegnato una sorta di organigramma del clan indicando i nomi al suo luogotenente Luppino. Di cui Di Natale riferiva: «La stima che c’è e la fede che fanno sopra di questo io non me l’aspettavo… Sino a oggi». Franco Luppino era stato scarcerato da qualche tempo, aveva ripreso in mano le redini di Campobello sotto l’egida di Messina Denaro e a settembre scorso è tornato in carcere nel blitz dei carabinieri che con microspie e telecamere avevano stretto d’assedio il paese. Senza però intercettare né riprendere il superlatitante che viveva a poche centinaia di metri dagli altri indagati. Dopo il suo arresto gli investigatori hanno cominciato a riguardare tutte le immagini registrate per verificare se in qualche fotogramma sia individuabile un volto o una figura che possa riconoscersi in Matteo Messina Denaro. Al quale si fa riferimento, sempre per invocarne un intervento, in un altro dialogo fra due sospetti mafiosi. Il 15 marzo 2021 il settantaduenne Antonino Pace, inquisito per l’affiliazione al clan ed estorsione, parlava con un altro indagato degli equilibri interni a Cosa nostra nella zona di Mazara. Solo una parola del padrino latitante, spiegava, poteva mettere fine ai contrasti: «Tutt’al più può succedere questo… Affinché affacciare quello là, lu siccu, affaccia iddro…». Mentre ascoltavano e trascrivevano, gli investigatori pensavano a contatti diretti con l’inafferrabile che si nascondeva chissà dove, senza riuscire — in quell’operazione antimafia — ad afferrare il filo giusto per arrivarci. Poi a settembre, su ordine della Procura, hanno tirato su la rete togliendogli altri riferimenti sul territorio, a cominciare proprio da Luppino. Il latitante era lì, e con ogni probabilità non s’è mosso nemmeno dopo il blitz. Restando invisibile sebbene visibilissimo sotto le mentite spoglie del suo alias. Fino a una settimana fa.