Il generale FRANCESCO DELFINO

 

Morto Delfino, il generale dei segreti

 

Il 27 settembre avrebbe compiuto 78 anni ma gli ultimi due li aveva trascorsi, per via di una grave malattia, tra ospedali e case di cura specializzate in cure palliative. In una di queste, a Santa…

Il 27 settembre avrebbe compiuto 78 anni ma gli ultimi due li aveva trascorsi, per via di una grave malattia, tra ospedali e case di cura specializzate in cure palliative. In una di queste, a Santa Marinella in provincia di Roma, ieri è deceduto l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. Era nato a Platì nel 1936, suo padre era il mitico “Massaru Peppe”, immortalato in diversi romanzi da Corrado Alvaro. Dava la caccia a briganti e uomini delle ‘ndrine, quando la battaglia era dura, sanguigna, adattata a codici personali più che a norme e leggi. Se ne va, con il generale Delfino, uno dei più controversi protagonisti della nostra “Prima Repubblica” che forse più di tutti ha incarnato il motto della “Benemerita” che recita “Usi ubbidir dacendo e tacendo morir”. Se ne va e porta con sè nella tomba molti dei maggiori misteri di questo Paese dal caso Calvi alla strage di piazza della Loggia, dalla cattura di Totò Riina alla stagione dei sequestri di ndrangheta in Lombardia.

LE ACCUSE DEI PENTITI E I SILENZI DI DELFINO
Nonostante la lunga malattia che lo ha costretto a letto per 14 mesi, il controverso militare calabrese non ha mai voluto dissipare le pesanti ombre che si sono allungate sul suo operato a partire dalle rivelazioni di importanti pentiti di ‘ndrangheta come Saverio Morabito o Giacomo Ubaldo Lauro. Per loro, come per i tanti che negli anni sono stati chiamati a chiarire aspetti della lunga, ambigua storia del generale, Delfino era uno dei personaggi chiave di quella strategia della tensione cucinata fra destra eversiva, massoneria, ‘ndrangheta e pezzi di Stato destinata – almeno nelle intenzioni – a far saltare il banco con un golpe nell’Italia degli anni Settanta, quindi a stravolgere l’assetto del Paese nei decenni successivi.

UOMO CHIAVE NELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Accuse che ha sempre respinto al mittente, ma senza mai fornire una versione alternativa plausibile al suo operato in quegli anni che vanno dalla Guerra fredda al disgelo, se non l’esistenza – teorizzata nella sua autobiografia “La verità di un generale scomodo” – di “Grande vecchio”, unico reale tessitore delle trame italiane, e delle alleanze nazionali e internazionali che hanno inibito forse l’evoluzione democratica del Paese. E se del grande burattinaio Delfino non ha mai svelato il nome o l’identità, di certo ha dimostrato di conoscere tante di quelle trame che negli anni sono state tessute cucendo insieme omicidi eccellenti, stragi e inconfessabili legami benedetti da quella ragione di Stato che ha spesso giustificato crimini orrendi. Più volte indagato, rinviato a giudizio ma assolto per la strage di piazza della Loggia, condannato invece a tre anni e quattro mesi di reclusione per truffa aggravata per aver estorto 800 milioni di lire alla famiglia del sequestrato Soffiantini, Delfino non ha mai ammesso nulla, trincerandosi dietro silenzi impenetrabili o ricostruzioni che agli inquirenti sono sempre sembrate troppo parziali.

DAL CASO CALVI ALLA STAGIONE DELLE STRAGI
Nonostante sia ad oggi impossibile ricostruire con precisione il reale ruolo giocato dal generale nella storia occulta d’Italia, di certo Francesco Delfino sembra essere stato un personaggio chiave. Nato a Platì, è a nord che inizia a costruire la sua carriera in divisa, mentre per il Sismi è capocentro a Bruxelles. In questa veste, sarà l’unico agente italiano chiamato a Londra nel giugno dell”82, quando il corpo del banchiere Roberto Calvi viene ritrovato impiccato sotto il ponte dei Frati neri, come anche l’unico – a suo dire – a continuare a indagare su quello stranissimo episodio rapidamente archiviato come suicidio dalle autorità britanniche. Ma l’ascesa di quel carabiniere che nonostante lavorasse lontano dalla Calabria mai – a detta dei pentiti – avrebbe reciso i propri legami con Platì e con le sue ingombranti famiglie, inizia a Brescia. Ci è arrivato dalla Sardegna, dove si è distinto negli anni in cui l’”Anonima” ha trasformato i sequestri in un’industria, e non appena arrivato inizia a mettere a segno alcuni colpi importanti. Incastra Carlo Fumagalli, partigiano “bianco”, negli anni Sessanta agente Cia nello Yemen e leader del Mar (Movimento di azione rivoluzionaria), formazione armata anticomunista, golpista, responsabile di una serie di misteriosi attentati alle linee ferroviarie in Valtellina. Due mesi prima, grazie a una delle provvidenziali soffiate di cui la sua carriera sembra costellata, riesce a bloccare Kim Borromeo e Giorgio Spedini, due neofascisti delle Sam (Squadre di azione Mussolini) mentre erano a bordo di un’auto imbottita d’esplosivi. Allo stesso modo, è con una celerità rivelatasi poi sospetta, che dopo la bomba che il 28 maggio ’74 a Brescia uccide otto persone e ne ferisce più di settanta, presenta agli inquirenti che battono la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ugo Bonati, che sparirà senza lasciare traccia. Il suo grande accusatore, il fascista bresciano Ermanno Buzzi, morirà invece in carcere, strangolato con le stringhe delle scarpe, mentre i militanti milanesi di Ordine Nuovo che – come si scoprirà dopo – hanno firmato quella strage, possono far perdere le proprie tracce mentre le indagini si arenano.

LA PASSIONE DI DELFINO PER IL NERO

Operazioni condotte a colpo forse troppo sicuro, senza sbavature e quasi senza indagini previe, su cui molti nel corso del tempo hanno avanzato quei sospetti che il senatore Giovanni Pellegrino ha messo nero su bianco nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita». Coincidenze che Carmine Dominici, uomo di ndrangheta e storico militante di Ordine Nuovo, avrà modo di spiegare quando inizierà la sua collaborazione con i magistrati «So – dice al giudice di Milano Guido Salvini – che esisteva un ufficiale dei carabinieri che curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative». E sul perché un soggetto come Delfino, fosse in contatto con i neofascisti che si riproponevano di sovvertire quello Stato che da militare avrebbe dovuto servire, Dominici risponde senza tentennamenti: «Non so come e quando Zerbi abbia conosciuto Delfino, tuttavia quando si erano decisi i tre fronti di azione sui quali doveva dispiegarsi l’azione di Avanguardia si era posto il problema di assicurarsi, se non l’appoggio, il non intervento della delinquenza. È quindi probabile che in questa azione di mediazione, che so per certo essere stata effettuata, il Delfno e lo Zerbi si siano conosciuti. Con ciò intendo dire che erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e che quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello».

PARLANO I PENTITI
Rivelazioni che si incastrano non solo con quelle di Saverio Morabito, primo pentito di ‘ndrangheta al nord che in tempi non sospetti metteva a verbale che «a Luino all’epoca c’era il tenente Francesco Delfino. Mio padre gli telefonava, andava a trovarlo, passavano la giornata insieme, poi mio padre andava dall
‘altra parte del confine, faceva rifornimento di sigarette, zucchero, caffè, cioccolato, caricava, caricava», ma soprattutto con quelle di Giacomo Ubaldo Lauro, fra i primi collaboratori di giustizia a fare luce sull’intreccio fra ‘ndrangheta, massoneria e destra eversiva che ha firmato il tentato golpe borghese e la cui ombra emerge dietro ancora troppi sanguinosi misteri italiani. Misteri come quello di piazza della Loggia, saltata in aria anche grazie a quell’esplosivo che proprio i calabresi avevano fornito. «Era tritolo. In tutti gli attentati è stato usato il tritolo, l’unico esplosivo che si può bruciare anche senza innesco» arrivato da quella Laura C affondata di fronte alle coste di Saline Joniche e che per anni è servita da personale arsenale della ndrangheta. «La colpa della strage di piazza Loggia doveva ricadere sulla sinistra anarchica. La strategia era quella», dice Lauro in pubblica udienza, sottolineando che proprio «Delfino sarebbe dovuto intervenire in caso di possibili disguidi». Accuse cui si aggiungeranno le risultanze investigative messe insieme dai magistrati bresciani quando il generale Delfino verrà prima indagato, poi rinviato a giudizio per i morti di piazza della Loggia.

IL CAPITANO PALINURO?
Per i pm, l’ufficiale è quel “capitano Palinuro” che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del golpe Borghese, ma anche quello che forniva alle Sam armi ed esplosivi necessari a mettere a segno quegli attentati per cui poi li avrebbe arrestati. Accuse pesantissime, documentate da testimonianze, rivelazioni, contatti, ma che non si trasformeranno mai in sentenze di condanna. Per archiviazione, proscioglimento o assoluzione, il generale riuscirà a dribblare tutte le indagini che sono state aperte sul suo conto. Uomo dai mille contatti, per il neofascista Biagio Pitarresi, Delfino sarebbe stato anche un uomo della Cia «Rocchi (uomo dell’intelligence statunitense in Italia ndr) mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». L’attentato in questione era quello che avrebbe dovuto mettere fine alla vita del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, negli anni in cui era coordinatore del pool Mani pulite, ma fu sventato grazie alla prontezza di un uomo della scorta quasi vent’anni dopo la strage di Brescia, il 14 aprile 1995. E in quei vent’anni sono innumerevoli gli episodi ancora oscuri che hanno costellato la carriera all’epoca ancora luminosa del generale Delfino, a partire dalla stagione dei sequestri con cui la ndrangheta ha terrorizzato la Lombardia alla fine degli anni Settanta.

LA STAGIONE DEI SEQUESTRI
Curiosamente, quando delle indagini se ne occupa Delfino, i covi individuati e i sequestrati liberati grazie a – dice il militare a chi in tempi non sospetti lo chiede «a sei confidenti negli ambienti dei calabresi di Corsico e di Buccinasco». Confidenti che però stranamente non gli consentono di evitare i sequestri, ma solo di intervenire dopo, con brillanti operazioni che gli valgono encomi, fama e avanzamento di carriera. Per Mario Inzaghi, killer dei calabresi di Corsico: «Come poi abbiamo potuto capire tutti chiaramente, siamo stati lasciati eseguire il sequestro Galli e soprattutto il sequestro Scalari». Per gli inquirenti – che per questo iscriveranno il suo nome sul registro degli indagati di un’inchiesta poi archiviata – il generale può contare sull’appoggio e la collaborazione di un uomo di peso delle ‘ndrine al nord, Antonio Nirta, detto “u du nasi” per l’abilità con cui usa il fucile a canne mozze. Secondo il pentito Morabito, è proprio lui, per conto del generale Delfino «a essere presente in via Fani al momento del rapimento di Aldo Moro». Un rapimento di cui, stando a quanto rivelato al pm Antonio Marini da Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino, il generale era a conoscenza quando il piano era ancora in preparazione, ma che avrebbe comunicato solo al Sismi, il servizio segreto militare. Esattamente dove negli mesi successivi proprio Delfino sarebbe approdato, per aprire una lunga parentesi di incarichi all’estero. In Italia, il generale torna a lavorare pubblicamente solo quasi dieci anni dopo.

IL MISTERO DELLA CATTURA DI RIINA
Torna a vestire la divisa da carabiniere e in qualità di vicecomandante della Legione viene spedito a Palermo con un incarico – almeno formalmente – amministrativo, per esserne allontanato nel giro di poco e spedito ad Alessandria. È lì che gli cade in mano Balduccio Di Maggio, uomo di Totò Riina, arrestato dai carabinieri di Borgomanero per porto abusivo di pistola. Di Maggio è in fuga, sa che l’avvicinamento fra Riina e il suo storico nemico Giovanni Brusca gli costerà la vita. Per questo decide di pentirsi, ma a una strana condizione che mette a verbale: «Sono disposto a rivelare quanto so su Cosa nostra. A instaurare un rapporto di collaborazione solo ed esclusivamente con il generale Delfino, con il colonnello Tassi, il tenente colonnello Giuliani e magistrati solo se accompagnati da uno dei predetti ufficiali». Sulla base di quelle rivelazioni, ottenute – dicono alcune indiscrezioni – dietro la promessa di un miliardo di lire, sarebbe stata realizzata nei mesi successivi la cattura di Totò Riina. O almeno questa è la versione che lo stesso Delfino farà filtrare, ma che in seguito verrà smentita dal mafioso pentito Tullio Canella, che addebiterà la cattura del boss dei boss a una soffiata di Bernardo Provenzano. Un altro dei tasselli della vita del generale che rimane avvolto nel mistero, alimentato dalle inquietanti rivelazioni di chi con lui ha direttamente o indirettamente avuto a che fare, come il killer Saverio Morabito che al procuratore di Milano, Alberto Nobili ha confessato, «guardi, dottore, i Sergi, i Papalia ci odieranno. Ma io di loro non ho paura. Ho paura solo del generale Delfino». Il generale dei segreti, rimasto fedele alla missione di condurli con lui nella tomba.

Alessia Candito

a.candito@corrierecal.it


 

Francesco Delfino (Platì, 27 settembre 1936 – Santa Marinella, 2 settembre2014) è stato un generale italiano, generale di divisione dei Carabinieri e dirigente del Sismi[1].

Ha avuto un ruolo di primo piano nel quadro di indagini e fatti relativi a vicende delittuose di grande rilevanza, legate a mafia, criminalità comune, politica e stragi terroristiche, tra cui gli arresti di Flavio Carboni e Totò Riina.

Figlio di un maresciallo dei carabinieri, nasce in provincia di Reggio Calabria e frequenta il liceo classico a Locri. S’iscrive poi alla facoltà di giurisprudenzadell’università di Messina ed accede alla Scuola allievi sottufficiali dei carabinieri. Nel 1957, uscito dalla scuola di Firenze con il grado di vicebrigadiere, viene destinato per il primo incarico a Rho (Milano), ove conosce Carla Valsesia, una professoressa di lettere che diverrà poi sua moglie.

Nel 1961 accede all’Accademia militare di Modena, dalla quale, alla fine di un biennio di corsi, nel 1963, passa alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma che frequenta come sottotenente. Al termine dei corsi, e ottenuto il grado di tenente, viene destinato al comando della tenenza dei carabinieri di Verolanuova (Brescia). Da qui passa a Luino, una cittadina sul lago Maggiore in prossimità del confine svizzero, ove presta servizio per tre anni. Nel frattempo si iscrive alla facoltà di scienze politiche dell’Università di Pavia.

Nel 1969 viene destinato in Sardegna, ove presta servizio prima presso la tenenza di Sorgono e poi presso il nucleo investigativo di Nuoro. Impegnato sul fronte dei sequestri di persona, durante la rinascita del banditismo sardo, mette a frutto l’esperienza acquisita e si laurea in giurisprudenza all’università degli studi di Cagliari con una tesi sviluppata proprio su questo tipo di delitto. Ormai promosso capitano, ebbe un ruolo centrale nella cattura del latitante Giuseppino Càmpana[2][3].

All’inizio degli anni settanta torna in continente, destinato a Brescia al Nucleo investigativo. Dall’ottobre del 1972 si occupa per la prima volta di eversione, in relazione ad una misteriosa serie di attentati dinamitardi ai danni di convogli ferroviari in Valtellina[2].

A Brescia resta in servizio sino al 1977, indi passa al comando del Nucleo investigativo dei carabinieri di Milano, occupandosi di malavita, mafia, terrorismo. Dal giugno del 1978 passa al SISMI, presso il quale presta servizio sino al 1987. Durante questi anni è impegnato prevalentemente in missioni all’estero, in Turchia, Brasile, Belgio, New York e il Cairo, dove resta negli ultimi tre anni. Lasciate le funzioni presso l’intelligence militare presta servizio brevemente a Roma, quindi è trasferito a Palermo come vicecomandante della Legione, poi al comando della Legione carabinieri di Alessandria.

Promosso generale di brigata assume nel 1992 il comando della Regione carabinieri Piemonte-Valle d’Aosta, con sede a Torino: il suo Vice era l’allora colonnello Leonardo Gallitelli, poi comandante generale dell’Arma. Nel 1994 passa al comando del secondo servizio della direzione centrale antidroga e di qui quindi al Centro Alti Studi per la Difesa. Infine, divenuto generale di divisione, dopo aver ricoperto per qualche mese la carica di vice ispettore delle scuole dell’Arma dei carabinieri, dal 14 settembre 1996 ne diviene ispettore[4].

Il coinvolgimento nel caso Calvi

A seguito del passaggio organico di Delfino alle dipendenze del SISMI, nel quale a suo dire operò dal 1978 al 1987[5], egli ricopriva l’incarico di capo centro per il centro Europa, con sede a Bruxelles, quando nel giugno 1982 il corpo senza vita del banchiere Roberto Calvi fu rinvenuto sotto il ponte dei Frati neri a Londra.

Missione a Londra

Secondo le deposizioni rilasciate da Delfino, prima davanti alla Commissione Parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, inchiesta su stragi e depistaggi, il 25 giugno 1997 e, successivamente, il 1º febbraio 2006, in qualità di teste al processo per la morte di Calvi, egli fu l’unico agente italiano inviato a Londra in occasione del rinvenimento del cadavere del banchiere.

Secondo il suo racconto, nella nottata di venerdì 18 giugno 1982 Delfino fu avvertito telefonicamente dal suo Direttore di Divisione, il colonnello Vincenzo Sportelli, del ritrovamento del cadavere impiccato di Calvi, e incaricato di recarsi a Londra al più presto per prendere contatto con le autorità britanniche in merito al caso. Partì quindi il mattino successivo per Roma, da dove, ricevute altre istruzioni, raggiunse un aeroporto della capitale inglese, ove fu prelevato da agenti del MI5 (il servizio segreto militare britannico) che lo accompagnarono presso l’hotel “Hyde Park”.

Il giorno dopo, domenica 20 giugno, Delfino fu accompagnato presso la sede del MI5, ove fu ricevuto dal Direttore del Servizio. Con questi avrebbe partecipato ad una riunione sul ritrovamento di Calvi, presente il consulente legale del MI5. Appreso che il magistrato inglese sarebbe stato orientato a chiudere rapidamente il caso come suicidio, Delfino afferma di essere intervenuto con energia al fine di bloccare tale iniziativa dell’attorney, in quanto, a suo dire, il SISMI desiderava invece fossero effettuate approfondite indagini. Tuttavia, il consulente legale del Servizio avrebbe replicato a Delfino che la competenza sul caso sfuggiva alla giurisdizione del MI5, e che spettava invece alla City of London Police. Terminata la riunione – secondo Delfino – egli sarebbe stato condotto da un autista del MI5 a visionare solo esternamente l’ultima residenza di Calvi a Londra, quindi al ponte dei Frati Neri.

A causa della pioggia che cadeva copiosissima in quei giorni, il Tamigi era gonfio ed aveva invaso del tutto il proprio greto, sicché la banchina che lo delimita era, sotto il ponte, completamente sommersa. Osservata la scena del ritrovamento, Delfino afferma d’essersi subito persuaso che la dinamica di un presunto suicidio non fosse assolutamente credibile. Inoltre, l’autista gli avrebbe rivelato il particolare relativo alla presenza di pesanti mattoni rinvenuti nelle tasche di Calvi, non reperibili in alcun modo nelle vicinanze, ed avrebbe, di seguito, accompagnato Delfino presso un cantiere, distante circa 3 km dal ponte, dal quale – a suo dire – i mattoni sarebbero stati prelevati. Ancora, secondo Delfino, sarebbe stato lo stesso autista a rivelargli che l’ultima persona a incontrare Calvi vivo a Londra sarebbe stato Flavio Carboni, e a far notare che Calvi era finito sotto il ponte durante l’alta marea, diversamente il suo sopraggiungere avrebbe probabilmente trascinato via il cadavere, rendendolo introvabile.

Sempre secondo le sue deposizioni, Delfino, a seguito di tali sopralluoghi (che egli definisce comunque sommari e non comparabili neanche metodologicamente ad atti di Polizia giudiziaria) si sarebbe convinto pienamente che Calvi fosse stato ucciso. Tale convinzione, egli afferma, riporta al rientro a Roma, lunedì 21 giugno, quando incontra il Direttore del SISMI generale Ninetto Lugaresi, che lo conduce a colloquio con l’allora Presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Spadolini (in “un ufficio dietro il Pantheon”, secondo quanto riferito da Delfino). A Spadolini, a dire di Delfino impaziente di ottenere ragguagli circa il caso, già indicato dai media e dalla magistratura britannica come dovuto a suicidio, Delfino afferma di aver detto che, a suo parere, Calvi “si ha [sic] suicidato”, a suo dire intendendo in tal modo sostenere che era stato ucciso[2][6].

La cattura di Flavio Carboni

Subito dopo il rientro da Londra, secondo Delfino, egli sarebbe stato incaricato dai suoi superiori della missione di rintracciare e di assicurare alla giustizia Flavio Carboni. Allo scopo Delfino contatta subito il suo informatore “Franz”, nome di copertura di Walter Beneforti, un ex funzionario di polizia poi attivo come investigatore privato e impegnato nell’area dei servizi, con il quale collaborava da tempo, e che aveva fornito informazioni puntuali ed utili nell’ambito delle indagini sulla P2.

Beneforti, secondo quanto riferisce Delfino, gli avrebbe fornito a stretto giro un numero telefonico del Canton Ticino, ottenuto il quale egli si sarebbe immediatamente recato a Lugano, prendendo contatto con Gualtiero Medici, delegato della polizia locale, con il quale era in stretti rapporti d’amicizia, forse sin dai tempi del comando esercitato nella vicina Luino, sottoponendogli il numero telefonico ottenuto.

Gualtieri avrebbe replicato che il numero era già sotto controllo e che corrispondeva ad una villa sulla strada tra Bellinzona e Locarno, probabilmente occupata da personaggi legati alla P2. Ulteriori indagini avrebbero condotto alla scoperta presso la villa di una seconda utenza telefonica, usata dagli occupanti per effettuare chiamate a seguito di tre squilli ricevuti sulla prima, cui nessuno rispondeva mai. La villa era frattanto discretamente sorvegliata all’esterno dalla polizia elvetica.

Dopo giorni di appostamenti, la mattina del 30 giugno 1982 finalmente tre persone uscirono dalla villa, e furono fermate: si trattava di Flavio Carboni, Andrea Carboni, fratello di Flavio, e della fidanzata del primo, Manuela Kleinszig, cittadina austriaca. Flavio Carboni, al momento del fermo, recava con sé, tra l’altro, tabulati relativi a depositi bancari il cui ammontare complessivo si aggirava tra i 40 e i 50 milioni di dollari. La documentazione sequestrata, secondo Delfino, fu da lui prontamente fotocopiata e inviata a Roma. Qualche giorno dopo il fermo la gestione del caso fu presa in carico direttamente dal Procuratore della Repubblica italiano Pierluigi Dell’Osso, che indagava sul cracdel Banco Ambrosiano[6].

L’individuazione di Francesco Pazienza

Terminata così la missione svizzera, Delfino riferisce di essere stato subito inviato dai suoi superiori del SISMI a New York, dove sarebbe giunto il 3 settembre 1982, di fatto perseguendo attività informative legate alla vicenda appena conclusa in Svizzera. Nel suo procedere, Delfino si avvale di nuovo delle informazioni – che definisce molto precise – che gli fornisce Beneforti (che morirà nei primi anni 2000, poco prima di essere escusso nel quadro del processo Calvi) al fine di localizzare Francesco Pazienza, nel quadro di indagini relative agli intrecci tra mafia e loggia massonica P2.

Delfino riferirà di aver avuto a disposizione tre linee telefoniche che facevano capo al proprio ufficio a New York, sito nella sede della Rappresentanza diplomatica italiana presso l’ONU: una per telefonate interne, una per telefonate entro gli USA, una esclusiva e segreta per contatti intercontinentali con i propri superiori a Roma. Appena pochi giorni dopo aver preso possesso dell’ufficio, tuttavia, Delfino, rientrandovi, si sarebbe visto riferire dal suo segretario piuttosto allibito di aver ricevuto proprio sulla linea segreta, in sua assenza, una chiamata dall’avvocato Domenico Lombino, che sollecitava un urgente colloquio.

Delfino aveva in precedenza avuto contatti con Lombino, quando comandava il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Milano, nel quadro di attività d’indagine svolte su intrecci tra criminalità locale e mafia. In quel periodo sarebbe stata attiva nel capoluogo lombardo una sorta di lega tra cinque famiglie mafiose estensione delle corrispondenti a New York, che controllava una serie di locali notturni trasformati in casinò clandestini. Lombino sarebbe stato, in tale quadro, incaricato di riscuotere quanto dovuto in seguito a perdite al gioco altissime, rilevando immobili di valore, auto e moto e di grossa cilindrata quale saldo dei debiti contratti da giocatori d’azzardo che agivano nelle case da gioco controllate dalla malavita. Lombino fu arrestato ma, ottenuta la libertà provvisoria, fece perdere le proprie tracce e fuggì dall’Italia.

Tornato a contattare Delfino, Lombino – pur di ottenere un colloquio – lo avrebbe minacciato di presentarsi ad incontrarlo presso l’ambasciata italiana, creandogli evidente imbarazzo. Delfino avrebbe dunque accettato un incontro informale con il ricercato altrove, premunendosi di avvertire la DEA e la FBI dell’appuntamento, al fine di trasformarlo in una trappola atta alla cattura del Lombino. Tuttavia, le agenzie statunitensi si sarebbero dette non in grado di intervenire in tal senso, rivelando inoltre a Delfino che Lombino era titolare di una regolare “green card”, documento che attesta la legale residenza di un cittadino straniero sul suolo degli Stati Uniti.

Delfino riuscì comunque ad organizzare un servizio di intercettazione a distanza quando effettivamente incontrò Lombino in una caffetteria newyorkese. Durante il colloqui Lombino avrebbe rivelato di esser al servizio di una famiglia mafiosa di Brooklyn e di essere il “segretario” di Francesco Pazienza, e di essere al corrente della natura della missione di Delfino negli Stati Uniti, dedicata alla individuazione e cattura di quest’ultimo. Lombino avrebbe mostrato a Delfino un mazzo di chiavi, asseritamente quelle dell’ufficio del Pazienza, offrendosi di farvi penetrare Delfino, il quale, subodorando una possibile trappola, avrebbe negato persino di sapere chi fosse questo tal Pazienza, e di esser a New York sulle tracce di traffici di armi e droga, non interessato a tale personaggio.

Dopo l’incontro, Delfino avrebbe cambiato tutti i propri numeri telefonici e si sarebbe poi recato in missione ad Haiti e Santo Domingo nel quadro delle attività di prevenzione volte a proteggere il papa Giovanni Paolo II durante la sua visita pastorale nelle Antille, essendovi stati segnali di possibili attentati alla sua vita, soprattutto a Port au Prince. Durante tale attività, Delfino avrebbe ricevuto una telefonata dal suo segretario a New York che riferiva egli fosse cercato con urgenza da un giornalista della rivista Panorama, Sandro Ottolenghi. Delfino avrebbe quindi contattato il giornalista, che gli riferì di aver incontrato Pazienza assieme a Lombino e ad un terzo personaggio, capo mafia, autodefinitosi il “notaio di Brooklyn”, i quali gli avevano mostrato una foto di Delfino presa mentre questi lasciava l’ambasciata per recarsi all’appuntamento con Lombino. Nella medesima conversazione i tre avrebbero rivendicato – come mafia di Brooklyn – di aver avuto un ruolo chiave nella liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse, avendo, a loro dire, fornito proprio loro al predecessore di Delfino nel proprio incarico quale ufficiale del SISMI a New York, l’indicazione – decisiva per la liberazione dell’ufficiale – circa la località ove Dozier era tenuto prigioniero. In cambio di tale informazione avevano richiesto la somma di due miliardi di lire, somma che non era stata loro consegnata e che ora reclamavano da Delfino. Tali notizie furono poi incluse in un articolo a firma di Ottolenghi apparso su “Panorama” nei primi mesi del 1983.

Conclusa la missione di protezione al pontefice, Delfino rientrò a New York, ma poco dopo, anche, secondo quanto riferisce, in seguito a frequenti minacce notturne ricevute presso la propria abitazione privata, fu trasferito in Egitto, sempre operando come responsabile del SISMI[6].

Per Pazienza, ormai individuato negli USA ed anch’egli ex agente del SISMI, una prima richiesta di estradizione fu avanzata dall’Italia al governo statunitense nel 1984, ma il suo arresto venne eseguito solo il 4 marzo 1985[7]. Dopo numerose schermaglie legali Pazienza fu consegnato alle autorità italiane nel giugno del 1986[8]. Condannato per lo scandalo del Banco Ambrosiano nel 1993 (e per la sua gestione di segreti di Stato nel 1982), nel 2007 è stato posto in libertà vigilata nel comune di Lerici[9].

Le indagini di mafia e l’arresto di Riina

Nominato – come generale di brigata – comandante della Regione Carabinieri Piemonte, Delfino si approcciò ad indagini sulla mafia in occasione dell’arresto di Balduccio Di Maggio, costituitosi a Novara; Di Maggio, per accedere al trattamento riservato ai collaboratori di giustizia, richiese di collaborare con il generale[10].

Interrogato in seguito a Caltanissetta come teste durante il processo per la strage di Capaci il 21 febbraio 1997, il generale Delfino riferisce che il Di Maggio, durante i primi interrogatori, gli avrebbe confidato di non conoscere Giulio Andreotti e Salvo Lima[11].

A seguito della cattura di Totò Riina, Delfino fu alla ribalta delle cronache che facevano risalire alle confessioni rese da Balduccio Di Maggio all’alto ufficiale dei carabinieri l’arresto del boss mafioso. Un ruolo chiave di Delfino – che egli ha rivendicato[12] – nelle indagini che condussero a Riina è stato contestato dal collaboratore di giustizia Tullio Cannella, che affermò che il capo mafia sarebbe in realtà caduto nelle mani della giustizia tramite un’imbeccata ai Carabinieri proveniente da Bernardo Provenzano, non grazie alle indicazioni che Balduccio Di Maggio avrebbe passato a Delfino[13].

Il caso Soffiantini e la condanna per truffa aggravata

Il 10 aprile 1998, indagato per illeciti legati al rapimento di Giuseppe Soffiantini, il generale viene sospeso dall’Arma, in «attesa che la magistratura completi gli accertamenti»[14].

Il successivo 11 aprile, durante una perquisizione, vengono rinvenute presso l’abitazione di Delfino due borse non in commercio prodotte in esclusiva per un’azienda legata ai Soffiantini; queste borse sono ritenute dagli inquirenti quelle impiegate dalla famiglia per la consegna ad ignoti di un miliardo di lire, che essi ritenevano destinato ai rapitori del loro congiunto, al fine di ottenerne la liberazione. Viene inoltre rinvenuta una banconota facente parte di tale somma (le banconote erano state tutte fotocopiate prima della loro consegna). Delfino, ancora a piede libero, replica animosamente, dicendosi vittima di una macchinazione e dichiarando che «non perdona»[14].

Nel quadro delle conseguenti indagini, il 14 aprile Delfino viene tratto in arrestoassieme all’imprenditore Giordano Alghisi. Viene inoltre indagato il capitano dei carabinieri Arnaldo Acerbi, allora comandante del nucleo operativo dei carabinieri di Brescia, al quale viene contestato di non aver riferito all’autorità giudiziaria – com’era suo dovere – le confidenze da lui raccolte da Carlo Soffiantini sul ruolo svolto da Delfino nella vicenda per la quale quest’ultimo veniva tratto in arresto[14]. In un primo tempo, Delfino tenta di sottrarsi al carcere ottenendo il ricovero presso l’ospedale militare del Celio (a Roma), ma una consulenza tecnica medica stabilisce in breve che la sua salute è compatibile con il regime carcerario[15]. Difeso dall’avvocato Pierfrancesco Bruno, interrogato il 17 aprile, Delfino respinge le accuse che gli vengono mosse, ma successivamente viene reso noto che il generale avrebbe ammesso che, a suo dire, Giordano Alghisi, amico di famiglia dei Soffiantini, gli avrebbe consegnato 800 milioni a titolo di “acconto” per la vendita della sua villa a Meina; pochi giorni dopo, il 22 aprile, il generale, rinchiuso presso il carceremilitare di Peschiera del Garda, tenta il suicidio[14] battendo violentemente il capo nella cella. Ricoverato a Verona, viene rapidamente dichiarato fuori pericolo[16]. Nel libro scritto nel 1998[17], Delfino nega decisamente ogni addebito, evocando peraltro la figura di Giovanni Prandini, notabile democristiano ed amico di Soffiantini, del quale i rapitori avrebbero, sostiene, affannosamente cercato libretti al portatore in casa del rapito (Soffiantini smentì altrettanto decisamente)[18].

Emerge peraltro la coincidenza che la moglie di Carlo Soffiantini, Ombretta Giacomazzi, nuora del rapito, era stata tempo prima arrestata dallo stesso Delfino nel quadro di indagini sull’eversione di destra a Milano ed era poi divenuta testimone-chiave per le indagini sulla strage di Brescia. L’arresto era stato eseguito con l’accusa di reticenza dopo che un buon amico della Giacomazzi, Silvio Ferrari, era saltato in aria mentre guidava una Vespa che trasportava tritolo poco tempo prima della strage di piazza della Loggia; era con l’occasione venuta alla ribalta l’attività di alcuni gruppi neofascisti che frequentavano il locale di proprietà della famiglia della Giacomazzi. Dopo la strage, la ragazza dichiarò che Ermanno Buzzi, su cui poi si appuntarono le indagini del Delfino, le avrebbe confidato, vantandosene, di esserne l’autore[19].

Il 4 maggio emerge che il GICO della Guardia di Finanza ha accertato scoperti bancari presso i conti del generale ammontanti a circa un miliardo e mezzo di lire, risalenti a poco prima l’inizio della trattativa per la liberazione dell’ostaggio. Il 28 maggio Delfino viene rinviato a giudizio dal Gip di Brescia con l’ipotesi di concussione per il miliardo carpito ai Soffiantini[20], del quale Delfino avrebbe trattenuto per sé larga parte, non essendo chiarito chi abbia ottenuto il resto, e a che titolo.

Il 6 ottobre 1998 Delfino, avendo optato per il rito abbreviato, è condannato a tre anni e quattro mesi di reclusione, non per concussione verso la famiglia di Giuseppe Soffiantini, come proposto dall’accusa, ma per truffa aggravata; il generale viene inoltre condannato a restituire il miliardo di lire sottratto con l’inganno alla famiglia del rapito[21].

Dopo la condanna in primo grado Delfino si rivolse anche al giornalista calabrese Paolo Pollichieni (capo-redattore del quotidiano “La Gazzetta del Sud”, già intermediario tra sequestratori e Polizia nel sequetro di Roberta Ghedini) perché l’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministridel governo D’Alema Marco Minniti si interessasse alla sua vicenda processuale.[22]

Il 23 gennaio 2001 la Corte di cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza di condanna del Tribunale di Brescia[23]; secondo la sentenza, così confermata, il generale avrebbe approfittato del rapimento dell’amico Soffiantini al fine di truffare alla famiglia la somma di circa 800 milioni di lire, prospettando falsamente che tale somma fosse utile ad ottenere la liberazione del loro congiunto sequestrato[24].

Delfino è andato in congedo con il grado di generale di divisione. Successivamente, al termine della vicenda giudiziaria che lo ha visto condannato, è stato rimosso dal grado in sede disciplinare ed è divenuto soldato semplice.

Eversione di destra e la strage di piazza della Loggia

Delfino, all’epoca capitano presso il Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia, si occupò della strage di piazza della Loggia e delle attività della destra eversiva del bresciano. Le sue indagini sulla strage condussero all’imputazionea carico di Ermanno Buzzi quale responsabile del delitto, sulla base delle dichiarazioni rilasciate da Ombretta Giacomazzi, anni dopo divenuta nuora di Soffiantini, la quale affermò che il Buzzi si sarebbe vantato con lei di esserne l’autore[25]. Nel 1979 il Buzzi fu condannato, insieme ad altri neofascisti, e nel 1981 fu ucciso in carcere[26]; nel 1985 la Cassazione assolse tutti gli imputati.

L’attività investigativa di Delfino, lo mise in contatto in particolare con il giudice Giovanni Arcai. Nel 1993 Giuseppe Rosina, un ex detenuto che condivise la cella con neofascisti a vario titolo coinvolti in questa ed altre vicende del periodo, dichiarò che il Delfino ed il giudice Arcai, che indagava sulla strage, “erano due corpi e una sola anima” e che ad essi avrebbe dichiarato nel giugno del 1975 che fra la vicenda della strage di piazza della Loggia e la sparatoria di Pian del Rascino, avvenuta in un campo paramilitare in cui era morto il neofascista Giancarlo Esposti, o almeno fra i gruppi eversivi responsabili della strage e quelli che avevano attrezzato il campo paramilitare, potevano esservi collegamenti, dato che esponenti di questi ultimi[27] avevano dichiarato di sapere chi avesse perpetrato la strage: “l’avevano messa i camerati di Milano appoggiandosi a quelli di Brescia[28]. Il giudice Arcai fu sollevato dall’inchiesta quando nel successivo novembre suo figlio Andrea fu sospettato di partecipazione alle cosiddette trame nere.

Nel 1998 Carlo Fumagalli affermò che Delfino sarebbe stato l’organizzatore ed il mandante della strage, mentre a collocare materialmente l’esplosivo sarebbe stato Maifredi; contemporaneamente dichiarò che nel periodo della strage il MAR aveva in progetto un tentativo di colpo di stato con l’appoggio dei carabinieri, ma che il piano si sarebbe rivelato una trappola[29]. Fumagalli era stato arrestato da Delfino il 9 maggio 1974[30], poche ore dopo aver diramato un comunicato stampa nel quale congiuntamente il MAR, le SAM, Avanguardia nazionale e Potere nero dichiaravano guerra allo Stato[31]. Pochi giorni dopo la strage (perpetrata il 28 maggio), il MAR e l’Arma erano poi stati oggetto di pesantissime allusioni da parte di Giorgio Zicari, giornalista che indagava sull’eversione di destra e informatore dei carabinieri e del Sid[32], che lasciavano supporre coperture istituzionali[33].

A seguito di alcune dichiarazioni rilasciate da Donatella Di Rosa (detta dalla stampa Lady Golpe), un nuovo filone d’indagine aveva preso l’avvio nel 1993. Il ruolo ricoperto dal Delfino nelle investigazioni successive all’attentato cominciò ad essere oggetto di interesse; ad esempio, la Commissione Stragi più volte, in diverse audizioni, richiese a diversi soggetti notizie circa il generale Delfino ed il suo operato nella circostanza e riguardo ad indagini effettuate sull’eversione di destra.

Le audizioni della Commissione Stragi

In occasione dell’audizione del giudice Guido Salvini, la domanda circa eventuali risultanze in sede inquirente di responsabilità del Delfino (domanda, in verità, accorpata ad un’altra domanda sull’estremismo di destra a Brescia), provocò l’interruzione della seduta pubblica, il Salvini presumibilmente rispose in seduta segreta e nel solo tempo di 4 minuti si riprese in seduta pubblica[34]. Fu richiesta l’audizione di Delfino e del giudice Arcai, che furono sentiti separatamente, iniziando da quest’ultimo; l’insieme delle due audizioni costituisce una sorta di contraddittorio a distanza dal quale si assumono numerosi dettagli, sia pure con notevoli divergenze, circa l’attività dell’ufficiale. Prima di iniziare quella del magistrato, il presidente della commissione, senatore Pellegrino, informò che ad entrambi era stata sottoposta la proposta di relazione della Commissione per la parte relativa alla strage di Brescia, ricevendo in risposta una lettera dissenziente ma cortese dell’Arcai ed “una lettera del generale Delfino, che è sostanzialmente una lettera di insulti[35]. Il presidente Pellegrino esplicitò quindi il senso delle critiche contenute nella relazione che aveva offeso il Delfino: «A me cioè è sembrato che l’aver indirizzato le indagini non tanto sulla persona di Buzzi, quanto piuttosto sul contorno, sul gruppo intorno a Buzzi, abbia indubbiamente impresso un ritmo ed una direzione alle indagini che probabilmente ha impedito che una serie di elementi, che poi invece furono valorizzati nella seconda parte delle vicende processuali, nel secondo processo, in particolare nel processo contro Cesare Ferri ed altri, avrebbero meritato ben altra valorizzazione».

Subito dopo la premessa del presidente, Arcai spiegò come il Delfino fosse giunto ad occuparsi del MAR di Carlo Fumagalli, un’organizzazione di estrema destra coinvolta in diverse vicende oscure; il primo episodio narrato riguardò l’arresto di due ragazzi fermati “casualmente” mentre giravano su un’auto con a bordo mezzo quintale di esplosivo di una certa natura, più cinque chili di esplosivo di altra natura. Dopo che il Delfino, che aveva avuto precedenti contatti con un magistrato della Procura di Brescia, ebbe denunciato i giovani ad un magistrato diverso[36], Arcai, nella funzione di giudice istruttore, presto si rese conto che la relazione di servizio presentata dal Delfino era falsa e che dietro il fermo “casuale” c’era in realtà un’operazione studiata a tavolino da tempo e orientata dal generale Palumbo[37], incardinata sull’infiltrazione nel MAR di un certo Gianni Malfredi. Comunque Delfino presentò una nuova relazione che sconfessava la precedente e secondo Arcai Dal rapporto vero risulta – per le dichiarazioni del capitano Delfino e per l’esistenza del rapporto stesso – che in un processo incredibilmente ci sono due rapporti, uno dichiarato ufficialmente falso (con il capitano Delfino che ammette che è falso, però – secondo la sua opinione – per ragioni superiori di giustizia) e un rapporto vero o quasi – a mio avviso -, perché anche quello non è del tutto vero; ma è vera l’ossatura.

Arcai quindi dichiarò alla Commissione che alcune circostanze lasciavano dedurre che Delfino ricattasse il Maifredi, inizialmente infiltrato in un gruppo diverso dal MAR[38]; lo scopo dell’infiltrazione era il contatto con Fumagalli, che al tempo era alla ricerca di armi pesanti da guerra, a lunga gittata, e disponibile a pagarle bene. Delfino era assai bene informato su Fumagalli per aver svolto su di lui approfondite indagini non appena trasferito a Brescia[39].

Del suo incontro con Maifredi, Delfino nel corso della sua audizione disse che il soggetto gli si era proposto, dichiarandosi addestratore in campi paramilitari[40]. Arcai però aveva già accennato di sapere bene che ufficialmente Delfino diceva che il loro incontro sarebbe risalito alla fine del 1973, ma si era fatto convinto che il loro accostamento dovrebbe essere avvenuto molto prima, almeno un anno prima.

Contattato Fumagalli, il Maifredi gli propose uno scambio: avrebbe procurato le armi presso un fantomatico gruppo arabo che sarebbe stato invece interessato ad acquistare esplosivi. I due ragazzi arrestati con l’esplosivo in macchina dagli uomini di Delfino[41], perciò, lo avevano appena ritirato da Fumagalli. La relazione falsa attribuiva la “fornitura” a pittoreschi soggetti di facciata che in realtà sarebbero stati carabinieri dipendenti da Delfino, e sui quali si giunse ad investigare pur essendosi già scoperta la falsità del rapporto[42]. Delfino ammise e giustificò la falsità della relazione: Questo è vero. Io non avevo l’obbligo – d’accordo con il magistrato – di portare a conoscenza di tutti gli avvocati ciò che bolliva in pentola. Si trattava di un’esigenza processuale.Questa esigenza, notò, si nutriva anche della probabilità che il processo a Spedini e Borromeo fosse celebrato per direttissima.

Altri uomini di Delfino, come il maresciallo Siddi, suo braccio destro, e l’appuntato Farci, furono assegnati alla scorta del giudice Arcai, nel frattempo fatto oggetto di minacce; il giorno della strage di piazza della Loggia, essi accompagnarono a scuola il figlio del giudice, successivamente indagato (ma in seguito prosciolto) per la morte di Silvio Ferrari e per la strage. Gli uomini di Delfino, riferì il giudice alla Commissione, tennero un atteggiamento vago quando chiamati a confermare le circostanze che avrebbero accelerato il riconoscimento dell’innocenza del figlio del giudice, ammettendo solo dopo insistenze del Tribunale la veridicità dell’alibi. Il fatto perciò consentì di sospettare, come riassunto da Pellegrino, che il coinvolgimento di suo figlio nella strage di piazza della Loggia aveva un unico fine: bloccare la sua inchiesta su Fumagalli. Nell’inchiesta, peraltro, era emersa un’ulteriore stranezza riguardante gli uomini di Delfino: il 29 aprile 1974, a Milano, era stata inaugurata un’enoteca appartenente al boss mafioso Luciano Liggio, ed Arcai era venuto in possesso di una fotografia ritraente insieme Carlo Fumagalli ed il brigadiere Tosolini, collaboratore di Delfino.

Comunque, il sequestro dell’esplosivo e l’arresto dei due ragazzi miravano al coinvolgimento di Fumagalli per traffico d’armi, ed a precisa domanda di Pellegrino, Arcai confermò che il Fumagalli veniva con questa operazione “bruciato”. Sempre secondo Arcai, Delfino ebbe un ruolo decisivo nello stabilire i percorsi che l’esplosivo trovato nell’auto dei due ragazzi arrestati avrebbe percorso: dalla supposta origine a Rovereto, sarebbe stato trasportato a Brescia, dove sarebbe rimasto una notte, poi sarebbe stato trasportato a Milano e infine di nuovo spostato nelle vicinanze di Brescia. Per di più, passando dalla Valcamonica anziché per la strada più diretta, via Lecco. Da questi spostamenti Arcai suppose che chi aveva deciso questi spostamenti, intendesse spostare la competenza giudiziaria del conseguente processo a Fumagalli da Milano a Brescia, e questa tesi sottintendeva che i Carabinieri avessero seguito per anni, senza mai intervenire, le attività di Fumagalli, poi ad un certo punto avessero deciso di metterlo fuori gioco e che quest’ultimo fosse stato il ruolo di Delfino. La tesi fu oggetto di approfondimento da parte della Commissione[43]; Delfino rispose di non aver mai ricevuto condizionamenti di sorta e che l’operazione era nata con la comparsa di Maifredi, del quale ci si chiedeva chi l’ha mandato; e sul percorso imposto agli esplosivi, disse che la destinazione doveva essere nelle vicinanze di Sondrio, poiché lo scambio avvenne in prossimità del Lago d’Iseoper ragioni logistiche, dovendosi scegliere un luogo in cui eventuali presenze estranee sarebbero state notate, negando perciò che vi potessero essere in ballo opportunità di giurisdizione[44].

Sul punto di “chi mandò Maifredi” a “bruciare” Fumagalli, nel presupposto appunto che vi fossero legami oscuri da dover recidere, prima di chiedere la secretazione di una parte dell’audizione, Delfino riunì degli accenni già abbozzati poco prima per dichiarare di credere all’ipotesi che vi fossero interessi piduisti in gioco. Se, come detto anche da Arcai, Maifredi si vantava di essere in eccellenti rapporti con Paolo Emilio Taviani, al quale diceva di aver salvato la vita in un attentato omicidiario del quale non c’erano tuttavia riscontri, Delfino aveva già riferito a Pellegrino, nella “lettera degli insulti”, che Arcai, in uno strano giro di “consultazioni” straordinarie compiute a Roma, si era incontrato anche con Taviani[45]. Taviani, invece, audito anch’egli dalla stessa commissione tempo dopo, smentì la conoscenza e ricordò che in sede processuale lo stesso Maifredi aveva confessato trattarsi di una millantazione[46]. Inoltre Delfino riferì di aver appreso, al termine dell’operazione riguardante Fumagalli, di un commento dell’ufficiale del Sid Antonio Labruna, per il quale i carabinieri, con tale operazione, avrebbero “rotto le uova nel paniere” e di non essersi spiegato il senso del commento se non nel 1981, con la pubblicazione degli elenchi degli appartenenti alla P2.

Delfino ricordò infatti che l’allora comandante generale dell’Arma, generale Mino, all’epoca dell’inchiesta su Fumagalli si recava spesso a Brescia ed alla presenza del generale Palumbo e di altri ufficiali, gli richiese, sempre a dire del Delfino, di telefonargli tutte le mattine alle 6 per informarlo degli sviluppi. Richiesto dalla Commissione se si fosse domandato la ragione di un interessamento così alto, Delfino rispose di nuovo di essersi convinto dell’ingerenza di forti interessi dopo la pubblicazione delle liste della P2[47].

Il rinvio a giudizio per concorso in strage e l’assoluzione definitiva

Il 14 maggio 2008, si è giunti – a 34 anni dalla strage – al rinvio a giudizio, con l’accusa di concorso nella strage di Piazza della Loggia di Francesco Delfino assieme a Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte, Carlo Maria Maggi, Pino Rauti e Giovanni Maifredi. Il processo ha avuto inizio il 25 novembre 2008[48][49] Con sentenza emessa il 14 aprile 2012, a conferma della sentenza di primo grado, la Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha assolto – ai sensi dell’art. 530, comma 2 Cpp – Francesco Delfino per non aver commesso il fatto. Tale sentenza, con riguardo a Francesco Delfino, è divenuta definitiva.

Grandi Vecchi e vecchie glorie

Delfino, nel suo libro “La verità di un generale scomodo” (1998), riprese le supposizioni sulla eventuale regia di un Grande Vecchio dietro certe trame, e scrisse:

«… c’è o non c’è il Grande vecchio in grado di muovere i fili del burattino Italia? La mia idea guida è il caso Moro del quale non mi sono mai occupato: mi si sono aperti nella mente in modo casuale, ripescati nel cestino della memoria, quattro file. Primo File: una foto di Henry Kissinger; secondo file un vocabolario russo-italiano; terzo file l’attentato alla questura di Milano di Gianfranco Bertoli, un individuo che si professa anarchico. Ma non proviene da Israele? Quarto file il corpo dilaniato di Feltrinelli a trecento metri da uno dei covi di Carlo Fumagalli.»

(Francesco Delfino, La verità di un generale scomodo[17])

Circa il riferimento al caso Moro però, il pentito di ‘ndrangheta Saverio Morabitosostenne che il boss Antonio Nirta detto “Due Nasi”, nipote dell’omonimo boss, presente in via Mario Fani a Roma il giorno dell’eccidio della scorta e del rapimento del presidente democristiano, non si trovasse in quel luogo per conto delle Brigate Rosse, bensì perché richiesto dal generale Delfino. Delfino rispose: “C’è senz’altro un errore. Non ero io quello che aveva infiltrati nelle Brigate Rosse[50][51].

Procedimenti giudiziari

Nel 1993 il collaboratore di giustizia Saverio Morabito, anch’egli nativo di Platì, tra le altre cose, raccontò anche circostanze relative al rapimento di Aldo Morodel 16 marzo 1978 dicendo che nel commando delle Brigate Rosse entrato in azione c’era un esponente della ‘ndrangheta, Antonio Nirta, che a suo dire sarebbe stato infiltrato dal generale dei Carabinieri Francesco Delfino avendo “appreso da Domenico Papalia e da Paolo Sergi che fu uno degli esecutori materiali del sequestro dell’onorevole Moro”. Nirta però negò di aver mai partecipato alla strage di via Fani e il PM Nobili incriminò Delfino salvo poi chiederne il proscioglimento non avendo trovato riscontri a quanto riferito da Morabito.[52]

Nel 2001 è stato condannato per truffa aggravata nel 2007 è stato rinviato a giudizio, e poi assolto in via definitiva, in relazione alla strage di Piazza della Loggia.

Onorificenze e riconoscimenti

  Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana
  «Per speciali benemerenze verso la Nazione, su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri[53]»
— Roma – 2 giugno 1996
  Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana
  «Per speciali benemerenze verso la Nazione, su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri[54]»
— Roma – 27 dicembre 1995

Decorazioni e riconoscimenti secondo le dichiarazioni dello stesso Delfino[4]:

  Medaglia d’Argento al Valor Civile
  «per la cattura di Giorgio Semeria e di altri componenti del nucleo storico delle Brigate Rosse[4]»
— Roma – 22 marzo 1976
  • 19 “Encomi Solenni” per ricompense per meriti straordinari e speciali[4].
  • 6 “Citazioni” su Fogli d’Ordine[55].

Note

  1. ^ È morto Francesco Delfino
  2. ^ a Audizione del generale Francesco Delfino presso la Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi: Inchiesta su stragi e depistaggi, 25 giugno 1997, registrazione audio
  3. ^ Societacivile.it “Francesco Delfino – Le imprese del «capitano Palinuro»
  4. ^ a Fonte
  5. ^ Audizione Commissione Stragi
  6. ^ a Radio Radicale, registrazione audio originale del processo Calvi, Roma, udienza del 1º febbraio 2006
  7. ^ Tale of Intrigue: How an Italian Ex-Spy Who Also Helped U.S. Landed in Prison Here, Wall Street Journal, 7 agosto 1985, p. 1.none
  8. ^ Pazienza Extradited, Financial Times, 20 giugno 1986, p. 1.none
  9. ^ Faccenderie Pazienza Volontario Pubblica Assistenza Lerici, ANSA, 17 aprile 2007.none
  10. ^ Fonte
  11. ^ Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, Cronologia da ‘Giornale di Sicilia’, ‘la Repubblica’, ‘Corriere della Sera’, ‘La Stampa’, febbraio 1997 Archiviato il 9 ottobre 2008 in Internet Archive.
  12. ^ Cfr. per esempio le dichiarazioni rese da Delfino durante un’audizione di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, il 25 giugno 1997, durante la quale afferma tra l’altro di avere ottenuto “un compiacimento a livello di Ministro e Comandante generale per la cattura di Riina”, Fonte
  13. ^ Repubblica, “Il generale Delfino – carriera tra le polemiche”, 14 aprile 1998
  14. ^ a Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, Cronologia da ‘Giornale di Sicilia’, ‘la Repubblica’, ‘Corriere della Sera’, ‘La Stampa’, aprile 1998 Archiviato il 9 ottobre 2008 in Internet Archive.
  15. ^ “I medici: “Delfino deve andare in carcere”, 16 aprile 1998
  16. ^ La Repubblica, “Delfino: “Non so cosa mi è successo”, 23 aprile, 1998
  17. ^ a Francesco Delfino, La verità di un generale scomodo, Verona, IET, 1998
  18. ^ Si veda anche l’intervista rilasciata ad Alberto Chiara e Luciano Scalettari
  19. ^ Si veda, per esempio l’Archivio Corriere della Sera
  20. ^ Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, Cronologia da ‘Giornale di Sicilia’, ‘la Repubblica’, ‘Corriere della Sera’, ‘La Stampa’, maggio 1998 Archiviato il 9 ottobre 2008 in Internet Archive.
  21. ^ Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, Cronologia da ‘Giornale di Sicilia’, ‘la Repubblica’, ‘Corriere della Sera’, ‘La Stampa’, ottobre 1998 Archiviato il 4 marzo 2012 in Internet Archive.
  22. ^ “Minniti e quel favore molto Stretto”
  23. ^https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/01/24/generale-delfino-pena-confermata.html?ref=search
  24. ^ Corriere della Sera, “Sequestro Soffiantini: confermata la condanna del generale Delfino
  25. ^ Archivio Corriere della Sera
  26. ^ Strangolato il 13 aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti.
  27. ^ Salvatore Vivirito e ad Alessandro Danieletti, con cui era in cella a Lodi
  28. ^ Archivio Corriere delle Sera
  29. ^ Fonte
  30. ^ 19 giorni prima della strage
  31. ^ Nella stessa notte Giancarlo Esposti partiva da Milano verso Pian del Rascino.
  32. ^ Fonte
  33. ^ Giorgio Zicari sul Corriere della Sera, 31 maggio 1974: ““Certi corpi istituzionali dello Stato dovranno ora spiegare perché Fumagalli non è stato fermato in tempo. Qualcuno dovrà dire chi lo ha aiutato, su quali appoggi ha potuto contare e, soprattutto, perché. Si sapeva tutto sin dall’estate del 1970. Siamo in grado di provarlo nella sede competente”
  34. ^ Resoconto stenografico Commissione Stragi, 20 marzo 1997
  35. ^ Resoconto stenografico Commissione Stragi, 4 giugno 1997
  36. ^ Arcai precisò: Ripeto, sembrò strano che Delfino avesse presentato il rapporto al dottor Trovato, che non era titolare dell’inchiesta. Ma poteva capitare che ufficiali di polizia giudiziaria accorti scegliessero i sostituti della procura che facevano loro comodo.
  37. ^ Relato di Arcai; il generale Giovambattista Palumbo era al tempo comandante della divisione di Milano.
  38. ^ Si tratta di un gruppo afferente ad un certo ingegner Tartaglia. Il ricatto era desunto da alcune affermazioni riportate dalla moglie del Maifredi che, pregato il Delfino di “lasciar stare” il marito (che nel frattempo era ufficialmente un operaio ma aveva in casa una telescrivente, diverse armi e numerose radio ricetrasmittenti), ne sentì dirsi che, o “suo marito fa quello che sta facendo o altrimenti va in galera” (relato di Arcai). Delfino disse invece nella sua audizione di non aver mai visto Maifredi se non nel suo ufficio e di quanto affermato sulla minaccia dichiarò Un episodio del genere non lo ricordo e poi non capisco quale influenza possa avere in una indagine.
  39. ^ Arcai dettagliò: Prima che lo dimentichi, vi voglio dire che appena venne a Brescia, alla fine del 1972, il capitano Delfino venne mandato in missione in Valtellina con il maresciallo Cenzon per tampinare Carlo Fumagalli, del quale lui poi farà rapporto parlando di un certo ingegner Jordan. Era stato in Valtellina a tampinarlo e a fare accertamenti: sapeva già tutto di Carlo Fumagalli.. Delfino sostiene invece, sempre nella sua audizione, che “giunto a Brescia per la prima volta, incomincio ad interessarmi di attività eversiva, che non avevo mai trattato prima, quando vengo inviato, a seguito dei risultati che avevo ottenuto in Sardegna, in Valtellina per una serie di attentati ai treni tra l’agosto e l’ottobre del 1972. Il mio primo contatto con l’eversione fu in quella occasione quando riuscii ad identificare i due fratelli responsabili del furto dell’esplosivo.” (il riferimento è ai fratelli Romeri che poi compariranno nelle indagini sul Mar Fumagalli). Circa il nome “Jordan”, va ricordato che il MAR ricevette finanziamenti, per il tramite di un servizio segreto, da Jordan Vesselinov (o Wessilinov), un agente segreto bulgaro di nascita che aveva prestato i suoi servigi ad entità di intelligence di molti paesi, anche fra loro antagonisti. Il servizio usato da tramite per il finanziamento sarebbe stato il “Noto servizio” creato da Mario Roatta (Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi, 2005 – ISBN 88-8112-633-8, 9788881126330).
  40. ^ Dal verbale dell’audizione di Delfino dinanzi alla Commissione Stragi: «Il 23 novembre 1973 si presenta spontaneamente a me tale Maifredi, mai conosciuto prima, il quale mi chiede se effettivamente ero alla ricerca di traffici di armi o di campi paramilitari. Egli inizia a collaborare, o meglio verbalizzare pagine relative ad un’attività paramilitare, con addestramento alle armi, della quale lui si denunciava essere l’istruttore.» (v.)
  41. ^ Kim Borromeo e Giorgio Spedini
  42. ^ Chiosò Arcai: Il problema in realtà è un altro: una quantità di denaro pubblico speso per inventare, redigere falsi verbali, mandare sottufficiali a destra e a sinistra, interrogare persone che non potevano sapere niente di questa operazione. Appurato che il rapporto era falso, sorgeva comunque l’altro problema: è un rapporto falso consegnato a un pubblico ministero, cioè ad un magistrato.
  43. ^ Disse infatti Pellegrino nell’audizione di Delfino: L’ipotesi che viene fatta, e che ci è stata ripetuta recentemente, è che in realtà tutta l’organizzazione del Mar fosse nota negli ambienti dell’Arma, in particolare negli ambienti milanesi, già dagli anni settanta, che fosse stata sempre monitorata e seguita e poi, attraverso l’infiltrazione di Maifredi, venne seguito quel percorso di armi che si ferma nel bresciano perché si voleva spostare la competenza giudiziaria da Milano a Brescia. A Milano infatti non sarebbe stata tollerata “ambientalmente” una vicenda giudiziaria che coinvolgesse Fumagalli, visto che questi era il latitante d’oro e aveva i rapporti di cui accennavo prima con il generale Palumbo e con il commissario Calabresi.
  44. ^ Sulle tesi di Arcai Delfino aggiunse: Quindi, l’operazione Fumagalli nasce senza alcun preconcetto, contrariamente a ciò che oggi sostiene il dottor Arcai, giudice istruttore al quale ho consegnato su un vassoio d’argento un’organizzazione, l’unica organizzazione eversiva che è stata condannata dal vertice alla base.
  45. ^ Pellegrino riassunse: “il giudice Arcai, nei giorni 20-22 ottobre 1974, senza dare avviso a nessuno e senza essere accompagnato da un cancelliere, si reca a Roma e ha incontri col Ministro della difesa, una conversazione di un’ora e mezzo, con il Ministro dell’interno, conversazione di un’ora e tre quarti, con il generale Maletti del Sid, conversazione di due ore, e con l’ammiraglio Casardi, capo del Sid, conversazione di un’ora.
  46. ^ Resoconto audizione Taviani: Maifredi non era mai stato mia scorta; non mi aveva mai salvato la vita che era già stata minacciata dall’Oas, dalle Brigate rosse e nere; ma non avevo subìto alcun attentato sull’Appennino ligure-emiliano. Lo stesso Maifredi nel prosieguo del processo ha confermato il 21 settembre 1977, di avermi incontrato solo casualmente e di aver – cito testualmente -: “detto tutte quelle cose per strappare la loro fiducia e per indurli a confidare i loro piani di azione”.
  47. ^ Il generale Palumbo era negli elenchi di iscritti alla loggia, mentre la Commissione P2 portò il generale Mino ad esempio delle “persone formalmente non iscritte negli elenchi, ma indicate come appartenenti alla P2“.(v.)
  48. ^ Corriere della Sera, “Piazza della Loggia, rinvio a giudizio per tutti gli imputati”, 15 maggio 2008
  49. ^ Corriere della Sera, In aula per la strage di piazza della Loggia, 25 novembre 2008.
  50. ^ https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/10/15/il-generale-si-difende-sono-perseguitato.html?ref=search
  51. ^ Rita Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica
  52. ^ Bruno De Stefano, Massone mancato, in I boss che hanno cambiato la storia della malavita, 1ª ed., Roma, Newton & Compton, 2018, pp. 342-347, ISBN 9788822720573.none
  53. ^ 2-6-1996, su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri, da generale di divisione
  54. ^ 27-12-1995, su proposta della Presidenza del Consiglio dei ministri, da generale di brigata
  55. ^ name=onorificenze