Fiammetta, la figlia più giovane del giudice Borsellino, non sa ancora che il padre è stato assassinato.
La ragazza è in vacanza in Indonesia e ogni mezz’ora le radio e le tv lanciano un appello perché chiami l’Italia. Appena giunta in Indonesia, aveva chiamato casa e parlato con il padre. A lui aveva detto che stava partendo per un’escursione in una zona vulcanica dall’isola di Bali. Per trovarla si è mobilitata l’ambasciata e il console onorario.
Finora senza esito. La cosa ha aggiunto una ragione di dolore in più per la famiglia Borsellino. Ha detto la vedova: «Anche da questo si vede l’efficienza dello Stato, non riescono nemmeno a trovare la mia Fiammetta».
Finché non tornerà, non si faranno i funerali del giudice. Lo hanno deciso la madre con gli altri due figli, Manfredi e Lucia.
Una famiglia molto unita, non soltanto nell’orgoglioso rifiuto ai funerali di Stato.
D’altra parte la famiglia del giudice Bosellino aveva accompagnato ed assecondato il magistrato in tutti i momenti della sua vita, patendo le sue stesse ansie e le sue stesse paure.
Il figlio di Borsellino, Manfredi, studente di Giurisprudenza, ha scelto di intraprendere la carriera di magistrato, come il padre e come il nonno.
Angelo Piraino Leto, padre della mamma.
L’altra figlia del giudice assassinato, Lucia, laureanda in farmacia, per lunghi anni ha sofferto di una gravissima forma di anoressia che si era manifestata per la prima volta nell’estate dell’85 quando Borsellino e Giovanni Falcone furono costretti a rifugiarsi insieme alle famiglie nell isola-carcere dell’Asinara per scrivere la sentenza-ordinanza del maxiprocesso, il primo grande atto di accusa contro i capi di Cosa Nostra.
Borsellino aveva confidato di sperare di non dover fare il super-procuratore: «Sono sicuro, Lucia ne morirebbe».
Segue dalla prima pagina FIAMMETTA ancora non lo sa. E’ l’ultima figlia di Paolo Borsellino, la più giovane. In Indonesia ogni mezz’ora radio e televisione ripetono l’appello, in inglese e in italiano, perché telefoni all’ambasciata italiana di Giakarta, o al console onorario di Bali. Ma lei non s’è ancora fatta viva.
Povera Fiammetta, due giorni fa è arrivata in Indonesia con il volo 336 della Garuda, ha subito telefonato a casa, ha parlato con il padre. Era notte, le quattro del mattino di sabato.
Ha detto che il viaggio era andato bene, che l’indomani sarebbe partita per un’escursione in una zona vulcanica dell’isola di Bali.
«Ci sentiamo tra qualche giorno». Non si sentiranno più.
Agnese Borsellino, vedova del giudice assassinato, ieri mattina, anche per questo piangeva: «La cercano da diciotto ore e ancora non l’hanno trovata. Anche da questo si nota l’efficienza dello Stato: non riescono nemmeno a trovare la mia Fiammetta».
Insieme agli altri due figli, Lucia e Manfredi, in un consulto di famiglia, la vedova di Paolo Borsellino aveva deciso che non si sarebbe fatto il funerale finché non tornava Fiammetta.
Molto unita, la famiglia Borsellino, non solo nell’orgoglioso rifiuto ai funerali di Stato.
Moglie e i tre figli hanno accompagnato il giudice, assecondato i suoi passi, gioito e sofferto insieme con lui. Dalle sue paure e dal suo lavoro sono rimasti marchiati. Manfredi sta studiando legge e – fino a ieri • diceva di voler tare il magistrato.
Lucia studia farmacia, ma per lunghi anni ha sofferto di una terribile malattia nervosa. Borsellino lo aveva dichiarato agli amici più intimi in questa ultime settimane, dopo la morte di Falcone, quando si pensava a lui proprio per il ruolo di super-procuratore cui era destinato l’amico ucciso: «Sono combattuto.
Da una parte so che quel posto è l’unico che possa assicurarmi di poter svolgere indagini sull’assassinio di Giovanni e Francesca; dall’altra parte sono sicuro che mia figlia ne morirebbe».
Il dramma di Lucia comincia all’Asinara, in quei terribili cinquanta giorni dell’estate 1985, quando Paolo Borsellino e Giovanni Falcone devono trasferire carte, bagagli, ricordi, memoria, paure e persino le famiglie.
Via da Palermo, via dai veleni, dall’aria inquinata, dai sorrìsi, dagli ammicchi. Via dai sospetti, da occhi e orecchie indiscrete per l’ultimo atto del maxi processo.
E’ all’Asinara, nell’isola-carcere (dove con una battuta che non è mai diventata proposta Giulio Andreotti voleva «confinare» i boss) che Borsellino e Falcone, si auto-recludono per scrivere testo-finale del maxi-processo, il primo grande rinvio a giudizio per i vertici di Cosa Nostra.
E’ all’Asinara che Lucia comincia a stare male. Paolo Borsellino lo aveva raccontato anche in qualche intervista, non solo agli amici. «Proprio in quel perìodo Lucia era diventata donna.
Per lei quelli furono giorni difficilissimi, un’estate senza amici, solo noi della famiglia, Giovanni Falcone, sua moglie, il direttore del carcere e qualche detenuto peraltro libero di circolare all’interno dell’isola».
Quando gli chiedevano cosa gli avesse pesato di più nella vita, Borsellino rispondeva l’altissimo prezzo pagato dalla famiglia più che la paura personale. Lucia è diventata donna in un clima tremendo, lontano dalla sua città dai suoi amici, dalle sue cose, proprio nel perìodo in cui la paura per papà si era materializzata nella paura di tutti: la famiglia era isolata perché tutti erano minacciati.
E Borsellino ricordava che solo Falcone rimase ininterrottamente cinquanta giorni sull’Asinara: «Giovanni non aveva figli, e quando io non c’ero faceva da papà ai miei ragazzi».
A Falcone si affezionò Lucia, ma soprattutto Manfredi, il ragazzo che anche per scelta, non solo per destino di successione, sapeva di dover fare il magistrato. Giudice il nonno, Angelo Piraino Leto, il padre della mamma, per lunghi anni presidente del tribunale di Palermo; giudice il padre; giudice quella specie di zio che era Giovanni Falcone.
Il giorno dopo la strage di Capaci, Manfredi era vicino al padre. Li hanno visti, i due Borsellino, con le mani appoggiate sulla bara. Sono passati appena due mesi e domenica pomerìggio, in via D’Amelio, Manfredi Borsellino è stato uno dei primi ad arrivare.
Lo hanno visto barcollare, con le braccia larghe, come se cercasse qualcuno da abbracciare.
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 21.7.1992
Fiammetta Borsellino, in vacanza a Bali, ha saputo della morte del padre nel peggiore dei modi. Telefonando casualmente a casa, ignara di tutto, ieri pomeriggio. «Bali è un posto meraviglioso, ci divertiamo moltissimo.
Papà e mamma come stanno?», ha chiesto alla persona che ha risposto per prima al telefono, non si sa se il fratello Manfredi, o la sorella Lucia. Dall’altro capo un silenzio agghiacciante. Poi la voce commossa, rotta dal pianto, ha raccontato alla figlia allibita cos’era successo.
L’attentato al padre e alla scorta, la morte tragica due giorni fa, domenica sera. Le ha detto che da quel momento lo stavano cercando disperatamente su tutta l’isola, con l’aiuto della polizia e dei mass media indonesiani.
Le ha consigliato di mettersi subito in contatto con l’ambasciata italiana a Giacarta, o con il console onorario a Bali.
Il funerale del giudice ucciso si sarebbe fatto solo con lei. Si sa che invece che Fiammetta, la figlia più piccola, diciannovenne, del dramma che si era abbattuto sui suoi cari non sapeva niente.
Tutto immaginava tranne che una cosa del genere. Era tranquilla Proprio domenica mattina, le quattro di mattina, per i sette fusi orari che separano l’Italia dall’Indonesia, aveva chiamato casa per dire che era arrivata bene.
Era andata a divertirsi, per la prima volta da sola, cosi lontano, e non aveva letto i giornali stranieri, né visto la tv. Tanto meno aveva ascoltato i notiziari radiofonici locali che hanno trasmesso la notizia dell’attentato di Palermo e poi gli appelli, lanciati in continuazione dall’ambasciata d’Italia.
Dopo quasi quarantott’ore si è fatta viva lei, per caso. A dire il vero ci avevano provato. Lo stesso presidente della Repubblica Scalfaro aveva sollecitato le autorità.
La Farnesina si era mobilitata. Due funzionari dell’ambasciata italiana a Giacarta erano subito volati a Bau’ e si erano messi in contatto col console onorario sull’isola.
Abbiamo parlato con gli amici di famiglia con cui la ragazza viaggiava. Tra mezz’ora andremo a incontrarli». «So che hanno chiamato subito Palermo», ha aggiunto. Ma poi ha spiegato: «Ho parlato con il capofamiglia e no confermato la cosa. Meno male che non viaggiava sola ma con amici di famiglia. Rientrano domani (oggi, ndr) e arriveranno probabilmente dopodomani.
Alla ragazza sono stati dati dei tranquillanti ed è stata mandata a letto».
La vacanza di Fiammetta si interrompe qui. Avrebbe dovuto tornare il 31 luglio. Invece sarà di nuovo a Palermo stanotte, al più tardi domani. Potrà abbracciare per l’ultima volta il padre dilaniato dalla bomba. E il giudice assassinato potrà finalmente trovare riposo. La famiglia aveva detto subito che per le esequie si sarebbe dovuto aspettare l’arrivo della seconda figlia, quella che non si trovava.
Adesso, ha fatto sapere che i funerali si celebreranno nella chiesa di Santa Maria Marillac dove Paolo Borsellino andava ogni domenica.
In forma strettamente privata, ha confermato.
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 22.7.1992
Con lei c’era Caponnetto: «Questa adesso è la mia casa»
Una chiave. Una piccola semplice chiave che passa di mano in mano, apre la stanza della chiesa in cui nella torrida calura della polvere e del cemento sta la bara del magistrato Paolo Borsellino. E’ una stanza piccola, di penombra. E non è una stanza qualsiasi, non è la sagrestia. E’ la stanza in cui il magistrato della Repubblica Paolo Borsellino andava a confessarsi.
Era un uomo religioso, e non per banale tradizionalismo. Era religioso perché era un credente cattolico, ma ci sembra che i ragazzi, figli e loro amici, abbiano sempre goduto di libertà di pensiero.
Paolo Borsellino era un uomo all’antica, ma nel senso che non ammetteva deroghe, disordini insensati, spese pazze. E per lui la giustizia era il compito che Iddio gli aveva dato: lo ha svolto come un soldato, anche se i magistrati dovrebbero fare i magistrati, e non i soldati.
Ma visto che gli era stato chiesto anche, per soprammercato, indebitamente, anzi criminalmente, di vivere anche da soldato oltre che da giudice, lui aveva fatto un breve inchino, da servitore dello Stato, e quando gli hanno chiesto, per cortesia, di morire senza fare troppe storie, di morire senza tanti cavilli sulle auto in sosta, sui modi nuovi che la mafia usa per uccidere, be’: lui è morto, anche se non ha fatte in tempo a vedere per l’ultima volta la mamma e a salutare Fiammetta una volta in più.
Con lui, non dimentichiamolo, sono morti cinque poliziotti – una donna per la prima e speriamo ultima volta che invece erano chiamati proprio a fare un mestiere soldatesco: nel loro contratto di lavoro, diversamente da quello dei magistrati, è inclusa, prevista, sicuramente malpagata e tuttavia accettata e sottoscrìtta la clausola della morto possibile e prevedibile in servizio.
Certo, morire in modo idiota, inutile, mostruoso, beffardo, è molto più che morire: è essere espropriati della dignità.
Ma che dire del fatto che anche i vigili urbani, chiamati per istituto a multare e far rimuovere le macchine in sosta vietata persino quando non sono stare rubate, caricate di trìtolo e sistemate sotto la casa in cui abita la mamma di un uomo da difendere, non hanno fatto, né detto nulla? Nulla di nuovo sul fronte palermitano.
Immondizie a tonnellate sui marciapiedi, la gente nauseata, zone crescenti di scortesia, – tanto noi meridionali siamo fatti così -, disservizi e al tempo stesso una infinita gentilezza umana, una delicatezza di sentimenti che non può non commuoverti, distruggerti.
Palermo è una città che ti afferra alla gola e non sai mai se è per amarti o strozzarti, ma la sua fisicità, insieme alla sua impassibile compostezza, sono devastanti e meravigliose. E in questa città, non dimentichiamolo, vivono protetti dalle loro vaste famiglie, nelle loro nicchie ecologi- che, i capi mafia, gli assassini. E in questa città, ci ha detto un finanziere, nessuno della guardia di finanza osa tentare di aprire un container che arriva nel porto, perché questo compito è geloso privilegio della dogana, dunque ognuno si faccia 1 fatti suoi, non s impicci.
La gente scherza alla maniera mafiosa: «Ti vedo pallido, non stai bene, vedi che occhiaie. Secondo me tu sei malato: perché non ti fai una bella vacanza, eh?». Questa è Palermo, anche. Oltre alla Palermo dei salotti buonissimi, raffinatissimi, estenuati dalla sapienza, dove tutto si sperde, si smemorizza, si disfa, ma poi si ricompone nei forti interessi superiori, supremi.
Anche questa è Palermo. E oggi Palermo, tutte le Palermo buone (ma certamente anche qualche emissario degli assassini andrà a godersi lo spettacolo, e piangerà magari, e farà la comunione, meschino), andrà ai funerali in forma privata di Paolo Borsellino.
La chiesa, Santa Luisa di Marillac, è una bruttissima chiesa moderna delle periferìe degli Anni Sessanta, quando si immaginava «il moderno» come una squilibratura di piani di cemento, e le chiese moderne dei luoghi di tortura diafani e inutilmente spaziosi.
La chiesa è al di là di un piazzale di polvere che sta davanti all’ingresso della palazzina: otto piani per quattro condominii, balconate con sbarre bianche, caseggiati anonimi, torridi d’estate, gelidi d’inverno.
La chiave. La piccola chiave è Sella che apre la stanza in cui tre giorni è depositata la bara. Il consigliere Antonino Caponnetto mi ha chiesto se desideravo vedere questo luogo d’angoscia. E’ un luogo di terribile spartana freddezza, sia pure nella temperatura desertica. Lì, con quella chiave in mano, poco dopo l’alba si è presentata Fiammetta, la figlia che è tornata dall’Oriente, la figlia amata alla quale papà Borsellino diceva: «Ricordati, Fiammetta: sempre il numero di telefono, mi devi lasciare. Così, se mi ammazzano, almeno ti telefono per dirti che sono morto».
Era questo lo scherzo. Atroce e profetico, anzi consapevole. Ieri sono tornato sotto quella casa, mentre un ghibli libico sollevava polveri e fumi, e caligini. Oltre quelle polveri la chiesa delle esequie. Là, con la sua chiave, la mano ferma, l’occhio serrato per un attimo, è stata per un attimo immobile Fiammetta. Poi ha aperto.
Quel che è accaduto poi non è materia di racconto. Nessuno può narrare, o interpretare o riferire il suo orrore, la sua paralisi, il suo pianto liberatorio, irrefrenabile, e poi trattenuto, e poi ancora stremato, infinito. Ci tornava alla mente, in questo deserto di Saragoza che è la periferìa palermitana, la triste cantilena di Ombretta sdegnosa del Mississippi. Lì era Ombretta che moriva annegata.
Qui è Fiammetta che soffoca nelle sue lacrime, trafitta dagli ingiusti ma inevitabili sensi di colpa per essere stata lontana mentre papà moriva, di aver seguitato a godere la vacanza quando già tutta l’Italia era travolta e sconvolta, di aver saputo per ultima, e di trovarsi adesso davanti a papà: muto, chiuso in quella scatola orrìbile, offeso nel suo corpo, che dall’interno di quella sua condizione di morto certamente le parlava, le parlava attraverso il dialogo deliamente, quando la voce di chi ci è morto seguita a nascere nuova e spontanea: «Fiammetta, amore mio, figlia mia diletta: tu lo sai che io ti volevo chiamare, quando mi hanno fatto saltare in aria con tutta la scorta, sotto la casa della nonna, sai, avrei voluto.
Ma tu non mi avevi lasciato il numero, e così ho dovuto fare tutto da solo. Ma tu sapevi come Lucia e Manfredi che papà inseguiva la verità, inseguito dalla morte. E adesso hanno vinto loro». Fiammetta ha riattraversato la strada composta, silenziosa, la mano per un attimo sulla fronte, con quella terribile, sconcertante compostezza di questa gente, ha varcato la linea degli agenti e dei carabinieri, ha salito i quattro ?redini, ha superato il libro delle iirne, ed è salita al quarto piano, con quell’ascensore piccino, su cui già si va stretti in tre.
Cari ragazzi Borsellino, credo che neanche voi, come il vostro papà, sarete mai dimenticati. Non sarete dimenticati per quel che siete oggi, con la vostra mamma che e così fiera, nel suo matriarcalismo patriarcale, del fatto che il vostro papà vi abbia «graffiati nella sua roccia»: è l’espressione più sconvolgente e bella che abbia mai udito da un genitore per dire che quel figlio è suo figlio, anzi, figlio del suo sposo.
La grandezza di questo dramma e, al di là delie immagini, e non sappiamo dire se oggi anche questo rito sarà dato in pasto alle belve, ma speriamo di no.
Bartolo, il ragazzo di Lucia, una delle due figlie del magistrato assassinato, mi accoglie con la consueta gentilezza e quando gli chiedo come si svolgeranno le esequie: «La famiglia avrà dei posti suoi, poi ci saranno dei posti per le autorità, e infine dietro entrerà la gente che vuol venire».
Verrà il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, l’uomo al quale non sono state risparmiate umiliazioni che sono le umiliazioni dello Stato stesso.
E verrà Claudio Martelli, il ministro di Grazia e Giustizia che in questi mesi si è blindato, ha abbassato sempre più il tono della voce alzando la fermezza, ha stretto le file sulle questioni di principio, ha mostrato le unghie, ha dato segnali che qui a Palermo sono stati colti, anche se con Sesta primordiale diffidenza fe è riservata a tutto dò Che viene da fuori, da Roma, e dal governo, dai partiti e dal Parlaménto. E anche Parisi, il capo della polizia.
Tre nomi – ha rivelato ieri Manfredi – che papà Borsellino aveva compreso ne Ila lista delle persone che avrebbe voluto ai suoi funerali.
Quell’elenco comprendeva «solo uomini di cui si fidava». «Vogliamo che siano presenti tutti coloro che si vogliono stringere intomo a noi e partecipare al nostro dolore», mi ha detto Agnese Borsellino. «Verrà chi vuole, purché non speculi sulla morte di nostro padre», mi ha detto Lucia.
«Non voglio sciacalli, non voglio profittatori del nostro dolore», mi ha detto Manfredi – ormai l’uomo di casa – e il giudice Antonino Caponnetto sussurra: «Io sono vicino a loro come se fosse la mia famiglia, perché è la mia famiglia. Io vorrei che tutte le persone buone che hanno creduto nell’operato di Paolo fossero vicine a noi». Borsellino, questo è un fatto ormai accertato, stava sulle piste di materiali concretissimi, realissimi, nuovi e sconvolgenti.
Non è stato ammazzato a scopo dimostrativo, anche perché la mafia non ha mai ammazzato nessuno a scopo dimostrativo, fino a prova del contrario e per quante libere applicazioni si possano fare all’uso del fantasticomafioso, un genere letterario vicino a quello omerico. E con uomini come Paolo Borsellino che, proprio per amor omerico potrebbe stare forse nella parte di Ettore, ucciso e trascinato sotto le mura davanti agli occhi della sua gente e della sua famiglia, davanti alle mura d’Ilio dell’Italia assediata dal prepotere mafioso. Sì, forse Paolo Borsellino – cari Fiammetta, Manfredi e Lucia – era un Ettore che aveva intuito il punto in cui Achille, l’onnipotente macchina da guerra della mafia, aveva il suo tallone vulnerabile, ma non gli hanno dato il tempo di scoccare il suo dardo. E’ morto lì, forse senza avere il tempo di coagulare un’idea, senza aver per fortuna il tempo di capire.
La mafia, mostruosa nell’effetto scenico, e un boia più misericordioso di quello di San Quintino o di Alcatraz. La sua devastazione è feroce e spettacolare, ma immediata. Questi ragazzi hanno forse il conforto nel fatto che il loro papà è morto all’istante, con quelle altre povere cinque creature che gli erano accanto. Non sarà un grande conforto. Per lui forse fu più dura vedersi morire fra le braccia Giovanni Falcone in ospedale: «Lo tenevo io, mentre moriva». E Falcone, paradossalmente (ce lo racconto Claudio Martelli durante le elezioni presidenziali) non sarebbe morto se avesse avuto la cintura di sicurezza e se non fosse stato alla guida: la sua macchina andò a sfracellarsi dentro la voragine provocata sotto la prima auto che era già passata. Fu un errore dei killer, che si perfezionarono.
Per Borsellino non ci sono stati sbagli. Un pulsante sul citofono, una esplosione nucleare. Ora siamo all’epilogo, siamo alle esequie.
Domani racconteremo quel che sarà accaduto in via Cilea, e saranno nuove scene di dignità e strazio, sgommate di alfette e polvere, spintoni e pianti, ci saranno forse slogan e urla, ma speriamo di no. Dio mio, ragazzi figli di Paolo, impedite che anche un centesimo di quanto accadde nell’orrore della cattedrale possa ripetersi al funerale del vostro papà.
Ricordatelo, specialmente durante il momento supremo dell’addio, mentre si rammarica di non avere neppure il telefono per potervi dire come sta, specialmente Fiammetta, che ha tutti i motivi di pensare al suo papà trovato nella stanzetta chiusa con la piccola chiave.
Giovanni, Paolo, Peppino, Antonino Caponnetto loro nuovo genitore, erano e restano anche dei campioni quel sorriso siciliano triste e obliquo, una strizzata d’occhi, la faccia di chi dice: non ci credo, ma se ti fa piacere lo penso.
Tanto, ragazzi, questo vostro padre e tutti ì giudici eroi di Palermo, non li dimenticherà mai più nessuno. Insieme, non li faremo mai dimenticare.
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 24.7.1992
Allora mi sentivo privata di una vita normale e tranquilla».
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 21.7.1992
Anche questa parte del lugubre copione è stata replicata con una puntualità quasi ossessiva. La camera mortuaria è stata allestita alle 18 nel grande atrio del palazzo di Giustizia che molti dai tempi del contrasto Falcone-Meli e delle lettere del «Corvo» chiamano «Palazzo dei veleni». Fiori, lacrime, invettive, cori con slogan pieni di rabbia e applausi, tanti applausi mentre le bare provenienti dall’Istituto di Medicina Legale dell’Università dove sono state eseguite le autopsie, inutile in questo caso ma indispensabile formalità voluta dalla legge, sono state portate su furgoni mortuari all’ingresso dell’edificio marmoreo. Per prima è stata portata a spalle la cassa con i resti martonati di Paolo Borsellino.
Se ne sono incaricati alcuni magistrati che nell’ Ufficio istruzione del tribunale avevano lavorato per molto tempo al fianco di Borsellino e Giovanni Falcone e, primo fra loro, Antonino Caponnetto ora in pensione che in mattinata aveva mormorato, provato dall’emozione, «è finito tutto» e che fu il capo dell’Ufficio subito dopo Rocco Chinnici, assassinato con un’altra autobomba nel 1983. «Caponnetto resisti, siamo con te», gli grida la folla, mentre il magistrato è in preda alla commozione. Accanto a Caponnetto, altri due giudici dell’indimenticabile esperienza del «pool» antimafia di Palermo, Giovanni Ilarda e Gioacchino Natoli.
I volti tirati, labbra serrate, occhi umidi di pianto. E gli agenti di polizia addetti alle scorte, gli stessi che dopo la strage di Capaci il 23 maggio si definirono «I morti», hanno sorretto le bare con i corpi dei cinque loro colleghi, nuove vittime dell’incessante sfida dei boss.
Anche fra i poliziotti grande commozione e pianti di rabbia mentre la folla applaudiva le casse in mogano lucido con i resti mutilati e carbonizzati. Pochi minuti prima che giungesse il furgone mortuario con la salma di Borsellino, l’edificio è stato raggiunto dalla moglie Agnese con i figli Manfredi di 20 anni e Lucia di 22.
La signora, figlia dell’ex primo presiderà del tribunale, era andata moltissime volte nel palazzo di Giustizia dove in qualche modo era di casa. Stavolta però non è riuscita a camminare con il suo consueto passo spedito e per salire la scalinata e guadagnare la porta metallica con i vetri blindati del- l’ingresso ha dovuto essar sorretta da agenti che quasi l’hanno sollevata per renderle più agevole il penoso tragitto.
E dentro la signora Borsellino e i congiunti dei cinque poliziotti, appena riconosciuti dalla folla oltre le transenne, sono stati applauditi lungamente mentre sui catafalchi venivano lanciati fiori.
Un gruppo di giovani aderenti alla «Rete» ha esibito striscioni e cartelli, proseguendo una protesta durata sin da domenica sera, do- Ela strage, accanto alla magnosotto casa di Giovanni e Francesca Falcone, in via Notarbartolo, che tutti ormai chiamano «albero Falcone» e che è diventato uno dei sempre più numerosi e questi sì invincibili simboli della lotta alla mafia.
Alle sei bare rendono omaggio picchetti di magistrati e poliziotti, mentre la gente di Palermo sfila silenziosamente nel corridoio formato dalle transenne su una stuoia in velluto rosso. [a. r.) Antonino Caponnetto, magistrato In pensione, è stato acclamato dalla folla.
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 21.7.1992
Identico. Identico fisicamente, identico mentalmente, lo stesso carattere, la stessa forza interna». E allora, quando poi lei è rientrato, l’ho guardata con maggiore e, se mi consente, più affettuosa curiosità.
Diciannove anni sono un’età terribile per sopportare il peso di una tale morte di un tale padre. E quella sorta di vostro secondo padre che è il grande le pc I conc magistrato e padre del pool antimafia, padre di Falcone, di Ayala, del suo stesso papà, Antonino Caponnetto, quei trepido signore che è tornato in trincea dallo stato di pensionato, mi spiegava rannicchiato su quella sedia di velluto beige: «Manfredi è dovuto diventare un uomo in una settimana. E che uomo.
SEGUE DALLA PRIMA Lei mi ha parlato dello sciacallaggio dei giornalisti, delle centinaia di giornalisti che si sono improvvisamente spacciati per amici di suo padre, di quelli che sono riusciti ad infiltrarsi in casa Tino a violare il sancta sanctorum della tenda oltre la quale suo padre furiosamente lavorava. Ricorda come descriveva i giornalisti, vii razza dannata? «Hanno l’attrezzatura tipica, lei li riconosce subito: taccuino e telefonino, fanno finta di volerti bene, si infiltrano, ti fanno parlare e scrivono ogni parola, ogni lacrima di mia madre. Da allora li abbiamo sbattuti fuori, da allora non vogliamo più saperne di questi ladri di parole con il telefonino e il taccuino».
Che dire? Io sono e resto un giornalista, e ho sempre carta e penna. Ma quello che voi Borsellino mi avete detto, acco- f;liendomi come un amico, ‘andavo registrando su quella banda magnetica che corre fra mente e cuore.
Infatti era talmente siciliano che l’italiano gli era una lingua vagamente ostile e in compenso capiva ogni sfumatura dei mille dialetti, con cui afferrava negli interrogatori tutto quello che c’era da capire. Manfredi è un bel ragazzo, asciutto, bruno, sportivo, interista, maglietta blu, fermo e sorridente.
La sua fermezza, la sua virilità sono la continua¬ zione paterna: «Il padre, questi figli li ha fatti graffiati nella sua stessa roccia. Manfredi prima di tutto. E poi Lucia, passione della sua vita. E Fiammetta, passione a parte: tre figli, tre passioni distinte e grandiose». E il figlio: «Noi siamo una vera, autentica famiglia siciliana. Alla sera ci mettiamo a tavola per mangiare, sì, ma per parlare prima di tutto. Le cene siciliane sono lunghe. Sono fatte di parole, di silenzi, di comunicazioni.
La moglie mi dice: «Aveva perso la voglia di vivere, aveva perso il suo buonumore, aveva carte, carte, carte. Lavorava sempre, indagava, lavorava. Era preso da una frenesia senza tregua».
Capisco, anche se nessuno me lo dice, che Paolo Borsellino inseguito dalla morte, consapevole di essere già nel braccio delle esecuzioni, già temendo di non poter forse rivedere più Fiammetta che partiva per una lunga vacanza («Ricorda di lasciarmi il tuo numero, sennò come ti telefono se mi ammazzano?»), trasmetteva al figlio semplicemente le sue sensazioni. Ricorda, Manfredi: «Papà non ci dava mai notizie sul suo lavoro, ferreo e preciso come sempre. Ma sussurrava i nomi delle persone di cui ci si può fidare, la gente che considerava sicura. Non moltissima». E capisco che Paolo Borsellino non si fidava quasi di nessuno, e la sera a tavola negli ultimi tempi diceva discretamente quali fossero le poche persone meritevoli di fiducia. E le altre? La mia è una visita di condoglianze.
Non ho il cuore di chiedere della pista tedesca, quella del pentito che sta in Germania e che Borsellino andava a interrogare. Ma Manfredi me ne parla indirettamente confidandomi che troppa gente sapeva e scriveva quello che non doveva sapere e scrivere: «Chi le ha date queste notizie ai giornali? Come sono uscite? Chi è stato?», chiedeva a tavola, durante le lunghe cene dell’addio il servitore dello Stato Paolo Borsellino, l’ultimo del pool antimafia, l’ultimo generoso moschettiere della Repubblica, lui che era di sentimenti conservatori, un po’ missino e un po’ monarchico, ma in quella maniera tipicamente siciliana, che consiste nel sentirsi funzionari di un potere lontanissimo, regale, assoluto, che sta a Madrid, a Napoli, a Torino, a Roma, ma che comunque è lo Stato, di cui con orgoglio sprezzante si dichiarano servitori, pronti prima di tutto a morire, e quanto al resto si vedrà.
Ed ecco, l’uomo più trepido e caro di questa Palermo triste e terribile. Ecco Antonino Caponnetto, il siciliano che parla fiorentino perché dalla Sicilia emigrò a Firenze che aveva dieci anni, e a Firenze è voluto tornare nell’83 quando ammazzarono Rocco Chinnici: «E C’è molta forza nella sofferenza e il magistrato per tutti è ancora vivo La moglie Agnese «Sapeva che era arrivato alla fine e voleva lavorare senza tregua» Paolo Borsellino e Giovanni Falcone (nella foto a fianco) sono sempre stati uniti nel lavoro e nella vita
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 23.7.1992
Uno sbarramento di foliziotti in divisa impedisce accesso ai fotoreporter. E’ stato un pellegrinaggio, per tutta la mattinata di ieri ed anche la sera di domenica.
Decine di giovani, commossi, arrivano, sostano, posano un fiore o semplicemente pregano. Salgono soltanto gli amici di famiglia. Più che i curiosi, si ha l’impressione che la famiglia Borsellino non gradisca ingerenze di carattere, diciamo, «politico». No, non vogliono proprio che si speculi su questa ennesima tragedia.
Lo Stato, nei funerali del procuratore aggiunto Paolo Borsellino, sarà assente. La famiglia, almeno per ora, sembra irremovibile e resiste ad ogni pressione: nessuna auto blu, nessuna scorta, nessuna autorità. Non si riempirà, stavolta, la basilica di San Domenico. Non ci sarà la diretta Tv. E il governo non sarà costretto, come avvenne per i funerali di Giovanni Falcone, ad imboccare la porta secondaria della sacrestia per sfuggire alla contestazione della piazza.
Il giovane Manfredi ha trascorso in piedi il pomeriggio, la serata e la nottata di domenica. Prima ha voluto vedere: è andato nell’inferno di via D’Amelio, lo hanno visto aggirarsi tra le macerie come il figlio che cerca le spoglie del padre in un campo di battaglia. L’hanno visto barcollare. Anche Lucia barcolla, adesso.
La ragazza, ancora convalescente dopo un periodo lunghissimo e terribile in cui ha rifiutato il cibo per il terrore di perdere il padre, adesso sta immobile. Entrambi hanno parlato con mamma Agnese. Madre-disperazione appare devastata: è irriconoscibile questa donna che per tanti anni è stata la compagna discreta e insostituibile di un uomo che il suo vero matrimonio l’aveva contratto con l’aspirazione ad amministrare giustizia. Non hanno dovuto dibattere troppo, per convenire che «non c’era alcuna necessità di funerali di Stato». Il resto delia famiglia ha convenuto, anche il vecchio Angelo Piraino Leto, ax presidente del Tribunale di Palermo e padre della signora Agnese. Alla consultazione è mancata Fiammetta, l’altra figlia. E’ in viaggio, in Indonesia.
I funerali si faranno solo quando la ragazza rientrerà a Palermo. Mamma Agnese comunali che saranno «strettamente privati» e si celebreranno nella chiesa di Santa Maria Marinai;, dove Paolo Borsellino andava ogni domenica. Il parroco è già stato messo al corrente, tramite don Cesare Battoballi, il giovane prete cugino di Antonio Schifani uno dei poliziotti della scorta di Falcone, morto nella strage di Capaci. II sacerdote è stato in via Cilea, ieri mattina. L’accompagnava Rosaria Costa, la vedova di Schifani, la ragazza che ha commosso l’Italia intervenendo in diretta Tv ai funerali del marito per dire: «Mafiosi, inginocchiatevi». E’ stato l’incontro di due donne affrante, quella di Rosaria e mamma Agnese.
Un abbraccio stretto e commovente.
Ci sarà solo una deroga alla decisione dei Borsellino: riguarda il Capo dello Stato. Ieri mattina Scalfaro ha telefonato alla famiglia: un colloquio privato. Il Presidente ha assicurato il suo intervento per accelerare le ricerche di Fiammetta. Non si sa altro del contenuto della telefonata, si sa, però, che Scalfaro è stato invitato ai funerali. Sarà la sola eccezione. Anche Martelli ha telefonato alla signora Borsellino.
Il ministro si è intrattenuto a lungo con la vedova.
Il colloquio è rimasto riservato ma non sembra aver provocato ripensamenti nella determinazione di «fare a meno dei rappresentanti del governo». C’è anche Antonio Caponnetto, nel salotto, insieme coi parenti. E’ stato in piedi tutta la notte. Abbraccia la signora Agnese.
Lei piange, guarda una foto di Paolo e sussurra: «Gioia mia… gioia… me lo hanno preso. E’ tutto finito». E’ un susseguirsi di emozioni. Arriva la madre di Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni Falcone morta nella strage di Capaci, stringe ìe mani della signora Agnese e singhiozza: «Paolo è andato a trovare Giovanni e Francesca».
Poi una frecciata rivolta allo Stato: «Non meritavano uomini così». Ma è ancora di Caponnetto il commento più emaro: «Non vado a palazzo di giustizia. Non voglio incontrare alcune persone, non voglio vedere certe facce. Troppi farisei a Palermo, troppi amici dell’ultima ora». La tensione sale, il silenzio sostituisce le parole.
Arriva un vecchio amico di Paolo Borsellino, il maresciallo Canale. Lucia va con lui. Vuole presenziare alla ricognizione nell’ufficio del padre. Vuole gli oggetti personali. E’ coraggiosa Lucia. Manfredi sta seduta su una poltroncina accanto ad una porta chiusa. Sembra abbia montato la guardia, al di là di quella porta c’è lo studio del padre. Francesco La Licata «Fiammetta è a Bali E questo governo non è neppure capace di trovarla» In alto: il corpo del giudice Borsellino
Il giudice Sarà sepolto domani
Salvo imprevisti dell’ultima ora si svolgeranno domani i funerali, in forma privata, del giudice Paolo Borsellino, che erano stati rimandati in attesa di rintracciare la figlia Fiammetta in vacanza a Bali.
Anche in quell’occasione ci dovrebbe esser la presenza del presidente Scalfaro, l’unico personaggio dello Stato che i familiari hanno invitato per le esequie.
Intanto la salma di Borsellino è stata trasferita dalla camera ardente allestita a palazzo di giustizia nella parrocchia di Santa Maria Luisa di Marillac. Nella chiesa è vegliata esclusivamente dai familiari.
In questo tempio – ha ricordato il parroco Alessandro Manzone – il procuratore aggiunto si recava ogni domenica per assistere alla messa.
«Era un uomo – dice il sacerdote – che riusciva ad abbinare fede e professione, testimoniando il suo essere cristiano e i valori in cui credeva anche nel lavoro».
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 22.7.1992
In chiesa il presidente recita una preghiera e chiede aiuto alle persone giuste e pulite Da Scalfaro, l’ultimo applauso a Borsellino Una enorme folla ha ascoltato l’omelia in strada, sotto il sole Alla cerimonia anche Galloni, un parente: lui non era invitato .
Se i funerali di martedì nella cattedrale si ricorderanno come un incubo, quelli di Paolo Borsellino, ieri, lasceranno tutt’altra memoria: una folla straripante, ma contenuta; il presidente della Repubblica che non sa dove sedersi, e che poi si sistema fra la propria figlia e la signora Agnese, vedova del giudice ucciso. E poi, dietro, come una crostimi arruffata e angelicata, in discretissimo incognito, Francesco Cossiga, Cossiga il Tremendo, se ricordate, commosso, silenzioso.
La televisione ha ripreso dall’esterno e avrete visto tutti quella grande piazza terrosa che separa i caseggiati di via Cilea dalla chiesa. Noi eravamo dentro, e siamo stati abbastanza vicini alla famiglia, ai ragazzi commossi, ai compagni d università. E sulla bara era distesa la toga rossa del magistrato. Caponnetto, come si legge nel testo del suo discorso, ha ricordato il biglietto del cittadino che ha lasciato un lilium per Borsellino, con su scritto: «Un solo grande fiore per un grande uomo solo». Ripetere che Borsellino non era solo, che viveva in tutti, sarebbe retorico, ormai. Paolo Borsellino è morto. Lo abbiamo in foto e nella mente, ci sono i suoi figli e i suoi allievi. Esistono videocassette e testi di discorsi, scritti e conferenze. Ma è morto. E quella era la sua bara. Per ora la mafia ha vinto.
C’era il prefetto Parisi, capo della polizia, che stava seduto sulla stessa panca del ministro Martelli e del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Galloni. A proposito di Galloni un parente dei Borsellino mi dice esplicitamente che la sua presenza è stata subita dalla famiglia, che non lo aveva invitato ma che non ha neppure potuto dire di no. C’era. Ce n’erano tanti. Troppi. Borsellino, quando seppe che stava per morire, dettò ai suoi un elenco delle persone che avrebbe desiderato vedere in prima fila al proprio funerale.
Quelle e non altre. La famiglia però non è riuscita, né ha potuto né saputo resistere a tutte le pressioni. E cosi sono entrati nelle prime file uomini che Borsellino, dall’interno della sua prigione corporale, non avrebbe voluto sentirsi accanto.
Quanto a Galloni non esisteva alcun divieto, ma nessun motivo di simpatia, né riconoscenza.
La cerimonia. E’ stata molto cristiana, molto moderna, talmente moderna da sembrare, ai nostri occhi viziati da un’infanzia di controriforma barocca e latina, quasi una bella messa protestante: con una figura femminile vestita da diacona, con un coro di voci che cantavano canzoni sacre moderne, tutto molto suggestivo. Un signore gentilissimo mi avvicina e si presenta come il consuocero del povero giudice. Non sapevo che Borsellino avesse figli sposati, e in effetti non ne aveva. Ma il signor Francesco Gabrielli è il papà di Federica, fidanzata di Manfredi. E mi racconta un episodio, un frammento di vita, che da solo illustra una società e una cultura: «Mia figlia mi ha raccontato, proprio pochi giorni fa, di avere scoperto che Paolo Borsellino aveva aperto una grappetta, cioè un fascicolo, a suo nome.
Dentro c’era tutto quello che la riguardava, compresi i nomi degli amici, i numeri di telefono… Esattamente come faceva con i suoi tre figli. Aprendo una cartella con il suo nome, di fatto l’aveva dichiarata sua quarta figlia». Questo minimo dettaglio, al di là della psicologia, assume un valore ulteriore se si considera quel che ci ha detto ieri il consigliere Caponnetto a proposito dell’inseparabile agenda di Borsellino, volatilizzata il giorno della sua morte, anche se la borsa che la conteneva è rimasta intatta.
La sorella di Federica, Francesca, mi racconta un altro episodio del rapporto padre-figli. Prima di morire Borsellino aveva deciso di regalare al figlio Manfredi gli sci d’acqua. Ma aveva anche deciso di tenere nascosto il fatto che fosse lui a comprarli: voleva che fosse Federica, la futura nuora, a darglieli come un dono suo. E così ieri l’altro Federica è entrata in un negozio d’articoli sportivi ed ha comperato quegli sci d’acqua che facevano parte delle promesse di Paolo Borsellino, e ha consegnato a Manfredi soltanto il buono d’acquisto. Il giorno che se la sentirà, andrà a ritirarli. Mi rendo conto che tutti que- sti ragazzi, questi giovani che ho intomo, tutti sui vent’anni, già formano coppie stabili e definitive, sono legati dall’infanzia, sono legati dagli studi, dal vicinato, dall’amicizia dei padri. Sono amorì «in casa», benedetti dalla parentela, e tuttavia di libera scelta. E si vede in filigrana il tessuto della società siciliana e palermitana, la fratellanza e la sorellanza, il senso dell’onore e della famiglia, Federica che è fidanzata di Manfredi, ma che studia insieme con Lucia Borsellino, sorella di Manfredi, gli ultimi esami di laurea in farmacia: «Laboratorio 3» fra pochi giorni. Mancano ormai soltanto Tecnica di laboratorio e Farmacologia. E intanto Manfredi, ovviamente, studia Legge seguendo le orme paterne: è al secondo anno, in regola con gli esami, anche se il primo lo amareggiò perchè prese soltanto 21.
La messa prosegue. Si alternano al podio, o forse si dovrebbe dire ancora pulpito, le persone care e comunque quelle invitate a «dire parole» sull’ucciso. E’ un dramma nel dramma perché, l’abbiamo visto altre volte, l’emozione moltiplicata dall’elettronica, elevata alla potenza del dolore, produce creature spettacolari e terribili, o anche qualche episodio di insopportabile trombonismo.
Ma come dimenticare la sorella dei]’ucciso, Rita, leggere il suo testo che contiene le inevitabili parole del sangue, del perdono, dei veleni, con la voce infranta, il tremore trattenuto in un vestitino scuro a righine e da un volto terreo? I parlanti si alternano alle voci cantanti e al microfono sale una ragazza bruna molto bella e severa che intona un inno di alleluia che somiglia ai canti celtici irlandesi di «Enya», inse¬ guita da un coro che invoca «non abbandonerai l’anima mia». Dalla lettera di San Paolo agli apostoli, legge un giovanotto in grigio, vibrante di emozione, un nipote. E subito viene ricordato che sull’Arca di Noè soltanto 8 si salvarono, otto giusti e non di più. Si guarda intorno.
Non sono giusto 8 i sostituti procuratori che si sono dimessi, come se volessero a modo loro ridar vita al pool antimafia? Dal Vangelo secondo Matteo: vedendole falde deìmonte Gesù salì la montagna circondato dai suoi discepoli e disse: beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché avranno giustizia. Quando, si chiedono nel brusio della preghiera? Da chi? Ecco la Schifarli in prima fila, la vedova in nero che lesse straziata e corretta (dal sacerdote) un testo di rifiuto del perdono.
Le siamo accanto, è fragile, è tremante, è ferita a morte. L’officiante prende il microfono: «Guai – dice – a chi accumula ciò che non è suo». Applausi, applausi dentro e fuori la chiesa, dove è radunata la folla, e dai palazzi dai balconi gremiti. Parole gravi che frustano un’aria pesante, non più mitigata dai condizionatori: «Borsellino si era accorto di essere odiato da chi ha ostacolato in ogni modo la sua azione, di essere stato perseguitato. Abbiamo il dovere sacrosanto di continuare questa lotta.
Oscar Luigi Scalfaro parla per pochi minuti, e il suo tono è sommesso e forte allo stesso tempo. E’ lui il capo del Consiglio superiore della magistratura, è da lui che i giudici di Palermo si aspettano decisione e tutela.
Il presidente della Repubblica usa parole sobrie e appropriate, anche se esordisce in nome della madre di tutti noi, come se fosse obbligatorio e scontato che o si è cattolici apostolici romani o non si è. Il Presidente assicura fermezza, assicura il éiiò interesse”atffWo, ricorda con molta passione le qualità del servo dello Stato che lo Stato, distrattamente imprevidente, sempre un passo indietro rispetto alle necessità di oggi, ha lasciato o ha consentito che si uccidesse.
Usa parole emotivamente e moralmente efficaci in nome e per conto delle persone giuste, oneste, pulite, che vogliono la pace, le persone per le quali vale la pena pregare affinché le persone responsabili «mai siano motivo di vergogna e odio».
Ma il presidente della Repubblica si impegna: e dalla sua dichiarazione di impegno prende poi slancio la forte allocuzione di Antonino Caponnetto, il padre del pool antimafia, il pensionato tornato in servizio, in militanza attiva, stremato da un collasso che lo ha fatto vacillare, seguito da una moglie trepida e con un grande bicchier d’acqua a portata di mano perché ha bisogno di reidratarsi, bere e volontà. Del discorso straordinario e teso di Antonino Caponnetto diamo conto per intero in prima pagina. Ma quel discorso è stato applaudito per ottantadue secondi, e se provate a vedere quanto sono lunghi guardando 1 orologio, potete, possiamo capire il senso di quell’applauso. Il telegramma del cardinale Pappalardo che gelidamente si scusa di non esserci, riceve quattro battute di mani. Forse meno ancora.
La funzione va avanti nella sua impeccabile regìa, il prefetto Parisi si alza dalla sua panca e comincia ad arretrare, in piedi, avviandosi verso l’uscita. Anche qui, in questa chiesa, dovrà subire un’amarezza: un cognato dell’ucciso lo affronta con parole aspre e aggressive, e il prefetto è costretto a subire. Il vecchio Angelo Piraino Leto, magistrato anche lui, è il suocero di Borsellino, padre di Agnese. Ed è un uomo all’antica che ricorre a tutto il bagaglio della retorica tradizionale. E’ l’unico che, dicendo «siamo in presenza del presidente Scalfaro e del suo predecessore», dà atto della presenza di Francesco Cossiga. Quanto al resto, l’anziano uomo di legge reclama il ritorno all’ordine, rimpiange, così dice, i tempi in cui «delitto e castigo erano un binomio indissolubile». La triste cerimonia è alla fine. Corre voce che qualcuno sia stato colto da malore e portato via, ma il fatto non ha interferito con il rito. La bara viene alzata a spalla e vediamo Bartolo, il ragazzo di Lucia, Manfredi naturalmente, tutti i parenti 0 gli uomini della famiglia sollevare il feretro mentre si leva un primo lungo applauso, e poi l’applauso prosegue, dilaga quando la bara esce all’esterno, e’ sale la confusione, scoppiano minimi alterchi da nervosismo e da «lei non sa chi sono io», ci sono i soliti ordini cretini che ingiungono di sbarrare un’uscita lasciando che la gente si insulti e soffochi, finché il presidente della Regione, con lodevole buonsenso, interviene intimando alle forze dell’ordine, e in nome dei suoi poteri, di riaprire il passaggio. Partono le auto delle scorte, rombano, si accendono le lampade, applausi per il presidente della Repubblica, per il ministro Martelli, anche per il povero Parisi, ovazioni per Caponnetto, applausi per Giuseppe Ayala e la chiesa si svuota, lentamente ma con qualche convulsione.
Il furgone parte per «I Rotoli» cimitero antico di Palermo, dove il padre di Paolo volle improvvisamente comperare una tomba con una piccola cappella, presentendo la morte. E’ un cimitero marino, come quello amato da Paul Valéry, e lì riposerà l’ultimo giusto giustiziato dalla mafia. Paolo Suzzanti Il suocero del magistrato «Rimpiango i tempi nei quali delitto e castigo erano un binomio indissolubile»
A sinistra, portata a spalle, cori sopra la toga rossa eia giudice, la bara del giudice Paolo Borsellino esce dalla chiesa di Santa Luisa di Marillac Il presidente della Repubblica Scalfaro e il capo della polizia Parisi applaudono la salma del giudice all’uscita dalla chiesa Circondato dagli uomini della scorta, ai funerali c’era anche l’ex sindaco Leoluca Orlando
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 25.7.1992
Quando l’ho ritrovata china sulla bara di Paolo non ho provato soltanto pietà e disagio, mi sono vergognato perché non ho potuto far nulla per esaudire l’invocazione di quella donna».
Alla vigilia di un’altra estate di veleni, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, per molti ormai luogo simbolo dei cavilli corporativi che hanno favorito la vittoria della mafia, si presenta all’appuntamento nel torrido e deserto pomeriggio festivo alla guida di una «Uno». E la scorta? «Cerco sempre di evitarla perché sono convinto che sia il modo migliore per salvare la vita mia e degli agenti. Io a sedici anni ero già nella Resistenza, ho imparato presto a rischiare la vita.
Personalmente sono convinto che a suo tempo la nomina di Antonino Meli a capo della Procura di Palermo sia stata un errore, ma nessuno può negare che egli avesse più titoli formali di Falcone. E qui è la chiave di quella che è stala chiamata la stagione dei veleni: c’è un conflitto profondo nella magistratura tra chi pensa che siano più efficaci i metodi tradizionali e chi invece ritiene che l’unico metodo per combattere la mafia sia quello del pool di magistrati inventato da Rocco Chinnici.
Anche il suo scontro con Cossiga derivava da questo? Cossiga aveva alcuni motivi di doglianza verso il vecchio Consiglio: un trasferimento di Ayala per incompatibilità ambientale e l’applicazione assai severa delle norme nei confronti dei giudici risultali iscritti alla P2. E nei confronti del nuovo Consiglio da lei presieduto? C’è stato il problema dei giudici iscritti alla massoneria. Io riconosco il diritto d’opinione e credo che la massoneria sia un’associazione libera, ma la sua se- frelezza va a detrimento deiautonomia e dell’indipendenza del giudice massone. Le sembra il problema più grave rispetto a un corporativismo che tende a salvare anche i giudici incapa¬ ci? Questo è un luogo comune. Noi non siamo più corporativi dei prefetti o degli avvocati e non è vero che lasciamo gli errori senza sanzione per difendere una casta chiusa. Sui giudici incapaci siamo molto rigidi: nella passata gestione su 100 processi c’erano state 27 condanne, ora le condanne sono salite a 62. Certo, non tutti i magistrati hanno capacità eccezionali e per le carriere di quelli meno capaci avviene un po’ come per i professori universitari, ciascuno difende il suo allievo. Non le sembra un paradosso rivendicare così fortemente l’autonomia dal governo, quando poi il Consiglio superiore della magistratura è una delle sedi più irriducibili della partitocrazia? E’ vero, l’elezione dei membri del Csm avviene su liste di corrente.
Ma chi potrebbe mai dire che, ad esempio, tutti gli aderenti a Magistratura democratica fanno parte dello stesso partito politico? Le nomine del Parlamento avvengono con criterio lottizzatorio, ma sicuramente il Consiglio non risponde a direttive dei partiti. Glielo dice uno che sulla perversione del sistema dei partiti ha idee ben chiare da oltre un decennio. Perché da oltre un decennio? Perche fino al 1980 partecipai all’ultimo tentativo di rinnovamento del mio partito, la de. Con il rovesciamento di Zaccagnini, quel tentativo è definitivamente fallito. Nel decennio successivo la politica e i partiti sono rimasti avviluppati nella loro perversione di potere.
Il potere e il denaro hanno travolto la classe politica italiana, cui è venuto meno ogni punto ideale di riferimento. Veramente, la tesi prevalente sulla questione morale dice che ne è responsabile proprio il consociativismo che voi avete propugnato ed esercitato. Anche Moro vedeva il consocia tivismo come una fase transitoria, cui doveva seguire l’alternanza di maggioranza e opposizione. Il nostro riferimento ideale era la Costituzione, una Costituzione attualissima e modernissima.
Per questo dissento da Cossiga e da tutti quelli che vogliono fare la seconda Repubblica.
I partiti, abbandonando la Costituzione, hanno subito una mutazione malvagia che ha eletto il potere a loro oggetto sociale. Il loro punto d’incontro è negli affari. Insomma, la politica si fa mafia?
Attenzione: la ricerca del potere ha una natura analoga, ma ciò non vuol dire, come qualcuno sostiene teorizzando sul terzo livello, che i capi siano gli stessi. I capi mafia sono ‘.api mafia e i capi politici capi politici. Il problema è un altro. Quale? Che il cittadino comune da una parte ha la mafia, il racket, la criminalità organizzata; dall’ altra le tangenti, le ruberie istituzionalizzate, i politici che si fanno ricchi. Come fa più a distinguere? Mafia e Stato non gli appariranno come la stessa cosa? Certo, fa impressione un Paese in cui a Palermo vince la mafia e a Milano il governo dei giudici E ha colto nel segno: il Consiglio superiore viene attaccato perché i giudici ti Palermo fanno poco e a Milano troppo.
L’inchiesta di Di Pietro a Milano è inattaccabile? Si è detto che i giudici hanno usato i servizi segreti e non la polizia, ma nessuno l’ha dimostrato. Io capisco che il capo di un partito soffra quando vede portar via i suoi ammanettati, ma il Consiglio non ha alcun elemento per interferire. Se degli eccessi ci son stati, saranno corretti.
Non c’è l’uso della prigione come deterrente per chi non parla? Formalmente sull’inchiesta di Milano non c’è nulla da dire, la detenzione viene applicata contro il rischio d’inquinamento delle prove. Una cosa ho raccomandato fraternamente a Di Pietro: di non esprimere mai opinioni sul merito del procedimento in corso. Il giudice Colombo non l’ha fatto, proponendo un condono? Se ci saranno denunce le quali proveranno che i giudici hanno violato la riservatezza sul merito del procedimento, chiederò l’applicazione delle sanzioni.
Altri Paesi ricorsero perfino alla tortura. Spero che nessuno da noi voglia imitarli. Alberto Staterà «Il Csm non ha mai dato aiuti alla mafia Per Falcone abbiamo fatto i salti mortali ma non si può nominare un sergente a capo dello Stato Maggiore. Le carriere vanno gestite sulla base dei titoli formali» «Non credo alla superprocura Tangentopoli? Ci criticano perché Di Pietro si dà troppo da fare, ma i giudici non obbediscono ai partiti» Da sinistra Borsellino. Falcone, Giovanni Galloni, Bettino Craxi e l’ex consigliere istruttore di Palermo, Antonino Meli Agnese, la moglie del giudice assassinato da una autobomba in via D’Amelio, a Palermo durante i funerali. La donna ha detto: «Paolo è ancora con noi, la sua forza non va dispersa» Sopra l’ex presidente della Repubblica. Francesco Cossiga, e a destra il deputato del pri, Giuseppe Ayala, pm del maxiprocesso.
ARCHIVIO STORICO LA STAMPA EDIZ. 27.7.1992