Nell’Agosto del 1985 le famiglie Falcone e Borsellino, come tutti ricorderete, vennero “esiliate” all’Asinara, isola blindatissima, carcere di massima sicurezza quindi una botte di ferro. Però per ragazzi di 14,15,16 anni di sicuro era una noia mortale, bellissimo paesaggio ma nessun possibile divertimento; e così i divertimenti bisognava cercarseli..
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone lavoravano fino a tardi e di notte, perchè di giorno faceva molto caldo per cui il pomeriggio Falcone era solito schiacciare il suo riposino, dalle 14 alle 15/16 non c’era per nessuno. Un pomeriggio mentre stava sonnecchiando sentì- “Brrrrr,brrrrr,brrrr,bbrrrrbrrr,”. Un motorino sgangherato e smarmittato che passava e si fermava sotto la sua finestra accelerando per farsi sentire.
Pensò fosse un caso. Alla sera a tavola, mentre erano tutti insieme, il giudice raccontò la cosa- “Non ho potuto chiudere occhio..c’è uno che si è divertito a passarmi sotto la finestra con un motorino e accelerava, per me la fa apposta..”.
Sentendo ciò Paolo Borsellino, sotto al tavolo, dava calci a Manfredi nelle gambe, e questi si tratteneva a stento dal ridere…Continuò sta tiritera col motorino per qualche giorno ma Falcone si era già accorto che si trattava di Manfredi e l’aveva “dolcemente” rimproverato..
Ma niente, Manfredi, indomito, continuava a passare e spassare sotto la finestra. Così, la sera, i calci sotto al tavolo glieli dava Falcone perchè Manfredi, al padre, aveva promesso che non si sarebbe ripetuto e il giudice non voleva che l’amico si accorgesse che il figlio gli aveva disobbedito.
Si era creata una complicità tra Falcone e Manfredi, impazziva per Manfredi…lo adorava. Però il motorino ad un certo punto sparì.
Va beh che lo adorava ma aveva pur bisogno di riposare. Chissà chi fu a farlo sparire. Fatto sta che sull’Isola quel motorino non si trovò più e pensare che era piccola e con un carcere di massima sicurezza. E questo è parte di quell’episodio che la signora Agnese raccontò nel suo libro.
“Fino a quando, una mattina, Manfredi si alzò e non trovò più il suo cavallo di battaglia. Che risate, Giovanni e Paolo. Credo che in quei mesi caldissimi Giovanni realizzò anche un piccolo sogno: Manfredi diventò il figlio che non aveva mai avuto. Giocavano spesso, a pranzo si davano persino i calci sotto il tavolo.
Sembravano due fratellini monelli.
Manfredi non rinunciò comunque a fare le sue indagini per ritrovare il motorino: convocò addirittura gli agenti della scorta e quelli della polizia penitenziaria che stavano a guardia dell’isola, chiese ai familiari. Ma niente. Sospettò persino che la moto fosse finita in mare. Quasi sento le sue voci di protesta. E sento Giovanni che lo prende in giro, mentre Paolo sorride.” La fine di quel motorino non la conosceremo mai.
Fonte: Gruppo FB – Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino
“Quando papà mi regalò il motorino”
“Quando avevo poco più di tredici anni mio padre mi acquistò un ciclomotore marca ‘Garelli’, con le marce a pedale. L’intento di mio padre era quello che io mi esercitassi ad andare in moto dentro il cortile del nostro condominio e solo dopo il quattordicesimo anno di età mettessi il naso fuori.
Avevo fatto il “solco” dentro quel cortile ma il naso fuori con quel ciclomotore non lo misi mai. Ricordo che ero entusiasta perché non solo era il mio primo motorino ma soprattutto mi consentiva di portare dietro i miei compagnetti (o compagnette), allora infatti non vigeva il divieto di circolare in due su di un ciclomotore.
L’entusiasmo però finì presto perché un bel giorno, proprio alla vigilia della bella stagione, mio padre mi disse se ero pronto a fare un gesto di grande responsabilità e coraggio. Io non capivo esattamente a cosa alludesse perché così piccolo non è che ci fossero tutti questi gesti di responsabilità e coraggio che potesse farmi fare ma non feci una piega,anzi ero pure divertito dalla sfida che lui mi chiamava ad affrontare.
Doverosa una premessa: in quel tempo di omicidi e assassini di mafia a Palermo, in piazza Scaffa, in un quartiere popolare della città ad alta intensità mafiosa c’era stata ad opera dei corleonesi, quella famiglia di di cosa nostra che stava mettendo le mani sulla città, una vera e propria strage all’interno di una stalla clandestina, la strage di piazza Scaffa in cui morirono i fratelli Quattrocchi. Mio padre da giudice istruttore si occupò della relativa inchiesta e in poco tempo assicurò alla giustizia i responsabili di quell’eccidio ma, come era solito fare, non si limitò solo al suo dovere di giudice inquirente andando ben oltre, iniziò infatti a prendersi cura e a provvedere ai bisogni primari di una delle tante vedove di mafia che incrociò lungo il suo cammino di giudice istruttore prima e pubblico ministero dopo, tale Pietra Lo Verso, vedova di uno dei fratelli Quattrocchi ma soprattutto madre di tre figli e senza una lira per sfamarli. Inoltre non era una vedova di mafia come tante altre, era anche una delle prime collaboratrici donne di quei primi anni ’80, dato che alcune sue rivelazioni fatte a mio padre si erano rivelate determinanti per individuare i responsabili della morte del marito.
Bene, questa lunga ma indispensabile premessa per dire che quel giorno in cui mio padre mi chiamò per farmi fare quel famoso gesto di “responsabilità e coraggio”, mi chiese senza tanti giri di parole di rinunciare al mio primo motorino e praticamente regalarlo al figlio più grande della sig.ra Lo Verso per consentirgli di recarsi all’alba in in panificio di Mondello, nota località balneare alle porte di Palermo, per svolgere le mansioni di garzone. In realtà non parlò di regalare ma più esattamente di “prestare” per qualche tempo la motocicletta ma io presi quel verbo prestare con molto molto beneficio d’inventario.
Io ovviamente rimasi un po’ interdetto ma prima che proferissi parola mio padre mi presentò questo giovane (che evidentemente aveva ascoltato nella stanza accanto il nostro colloquio) e mi disse: Manfredi, allora tutto a posto, scendete giù in garage e consegna il motorino a …… (non mi ricordo come si chiamava questo ragazzo, ricordo che era ben più aitante e muscoloso di me).
Ed io come un automa scesi con quel ragazzo giù in garage, gli consegnai chiavi e documenti del motorino e lo lasciai andare ben consapevole che quel motorino difficilmente l’avrei più rivisto. Ed infatti non solo non lo rividi più, ma soprattutto dovetti aspettare un bel pò per averne un altro (ma non certo lo stesso), e in particolare che ne regalassero uno a mio padre i suoi colleghi in occasione del suo trasferimento a Marsala come procuratore capo.
Metabolizzai successivamente ciò che mi aveva fatto fare mio padre e ne sono andato fiero e orgoglioso per tutti gli anni a seguire, quel giorno grazie a lui avevo davvero compiuto un gesto nobile di grande “responsabilità e coraggio”.
Questa é la storia del motorino. E penso che mio padre debba essere ricordato soprattutto per la sua bontà d’animo, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. La sua generosità era senza limiti.
MANFREDI BORSELLINO
Ricordando la strage di via D’Amelio. L’estate di lavoro “obbligato” all’Asinara di Borsellino e Falcone. Che poi dovettero pagare il conto
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Il turista che si aggira distratto tra le casette di Cala d’Oliva si imbatte per caso nella targa appiccicata alla parete della villetta rossa affacciata sul mare dell’Asinara. Basta quella frase, firmata Paolo Borsellino, per sentirsi risucchiare dallo spirito vacanziero e ritrovarsi all’indietro nel tempo, tra le pagine più crudeli della recente storia d’Italia. “Qui, nell’estate del 1985, i due magistrati trucidati dalla mafia scrissero parte dell’ordinanza sentenza del maxi processo” spiega la targa. L’altro magistrato è Giovanni Falcone: li prelevarono insieme in gran fretta e li trasferirono sull’isola in elicottero, perché si era sparsa la voce di un imminente attentato per eliminare entrambi. All’Asinara i due giudici amici continuarono il loro lavoro, completando l’atto d’accusa contro i boss mafiosi. Vi restarono un mese, il capo chino sulle carte. Ogni tanto cedevano alla tentazione di un tuffo nelle acque cristalline, ed era uno dei pochi lussi che conoscevano. Sulla collina, poche centinaia di metri più su, incombeva il braccio di massima sicurezza del super carcere di Fornelli. Dove, nel 1994, verrà portato Totò Riina, subito dopo l’arresto. In questo 19 luglio, 24 anni dopo la strage di via D’Amelio, è bello pensare che chi si trova a passare da Cala d’Oliva si fermi un attimo a ricordare quei due uomini soli, costretti a portare avanti un compito immane e fatale in uno scenario da sogno, dove oggi ci si rilassa e si prende il sole, sforzandosi al massimo di sfogliare qualche rivista. Alla fine, lo Stato presentò pure il conto del soggiorno. Come a due turisti qualsiasi. “Pagammo, noi e i familiari – ricordò Borsellino – diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, avevamo cose più importanti da fare”.
La vacanza coatta di Falcone e Borsellino all’Asinara. Era d’estate con Giuseppe Fiorello e Massimo Popolizio –
- Asinara, poesia dedicata a Falcone e Borsellino
- Caponnetto per proteggerli li chiuse in carcere
- Casa Falcone Borsellino
- Dove la targa è onorata anche di notte
- Falcone e Borsellino all’Asinara
- Falcone e Borsellino trasferiti all’Asinara
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