Processo BORSELLINO QUATER: la Cassazione conferma le condanne

 

 

 



Borsellino Quater – dalla Sentenza …IL DEPISTAGGIO DI STATO

 



 

CASSAZIONE 


Borsellino quater, la Cassazione conferma le condanne. Per la strage di Via D’Amelio e i depistaggi. Convalidata la sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 2019
 

 

E’ stata confermata dalla Cassazione la condanna di appello del Borsellino quater – per la strage di Via D’Amelio e i depistaggi – e sono dunque definitive le condanne all’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per Calogero Pulci (dieci anni) e Francesco Andriotta che ha ottenuto un piccolo sconto di pena (da 10 anni a 9 anni e 6 mesi) per la prescrizione di due calunnie ai danni dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, mentre da una terza accusa di calunnia, sempre ai danni di Scarantino, è stato assolto. Convalidata la sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 2019.  ANSA 5.10.2021


6.10.2021 – Processo Borsellino. “In 30 anni si è guardato ovunque. Non all’interno delle toghe”Colloquio con Fabio Trizzino, legale della famiglia del magistrato, all’indomani della Cassazione sul Borsellino quater  

 

Il depistaggio dopo l’uccisione di Paolo Borsellino c’è stato, nessun dubbio può essere più sollevato a riguardo. La corte di Cassazione ieri sera ha messo il sigillo al processo Borsellino quater, nato per accertare quella “macchina della calunnia” che ha portato per anni a dare credito al falso pentito Vincenzo Scarantino. Il ‘pupo vestito’ che si era accusato del furto dell’auto che fu utilizzata per uccidere il magistrato palermitano e gli uomini della sua scorta il 19 luglio 1992 e che, per anni, è stato creduto. Fino a quando Gaspare Spatuzza, nel 2008, si è pentito e ha ammesso che quel furto l’aveva compiuto lui, smontando un castello di bugie di due inchieste e di due processi. Quei processi erano sbagliati dall’inizio. Gli avvocati, come Rosalba di Gregorio Giuseppe Scozzola, che assistevano le persone falsamente accusate lo hanno sostenuto subito, inascoltati in una lunga battaglia che si è poi rivelata giusta. Oggi – dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato l’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per gli altri due falsi pentiti, Calogero Pulci e Francesco Andriotta, – si può affermare serenamente che quei processi si poggiavano sul nulla. “Si sono retti su una falsa ricostruzione avallata da pm e giudici”, dice all’Huffpost Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino, insieme a Vincenzo Greco, e marito di una delle figlie del magistrato, Lucia.
Su questi elementi oggi c’è certezza. Eppure, la parola “fine” scritta al Palazzaccio può essere un nuovo inizio: “Questa sentenza può essere considerata un punto di partenza per la ricostruzione della verità storica, sul movente della strage di via D’Amelio e sulle origini del depistaggio. Mi piacerebbe pensare lo stesso per la verità processuale, il tempo non gioca a nostro favore, 30 anni sono troppi e la ricostruzione davanti a un giudice diventa sempre più complessa. Alcuni danni sono irreparabili. Restiamo con la speranza che di questi fatti si occupo anche la commissione parlamentare antimafia”, spiega ancora Trizzino. Era al Palazzaccio, ieri, mentre gli ermellini confermavano le condanne e, pur nel tecnicismo di un dispositivo, dicevano che quello che la famiglia sostiene da anni è verità. Storica e giuridica.
Per una verità assodata, altre ne mancano. E per il legale non ci sono più scuse per nascondere: “Non faremo sconti a nessuno – avverte – non per desiderio di vendetta, ma perché sentiamo di avere un dovere nei confronti delle future generazioni”. Un dovere di far riemergere una verità che è stata rubata da anni di errori, di tesi smontate – leggi alla voce Trattativa –  di bugie e di magistrati, i primi che hanno indagato sulla strage, che, ormai è certo, qualcosa hanno sbagliato.
La verità giudiziaria in sostanza a questo si ferma: la procura di Caltanissetta non avrebbe dovuto credere a Scarantino, il tribunale avrebbe dovuto smontare il castello di falsità. Né l’una né l’altro ha fatto niente di tutto questo. Ad oggi questo si può dire, il resto forse si potrà ancora ricostruire, e a leggere bene tutte le carte i punti da cui partire ci sono. “In questi 30 anni le indagini e i processi hanno guardato ovunque: nella politica, nelle forze dell’ordine. Ma non si è guardato all’interno della magistratura. Sarebbe quindi opportuno soffermarsi nell’unico ambito istituzionale tralasciato”, afferma l’avvocato.
Un’indagine su due pm che hanno condotto la prima inchiesta a Caltanissetta c’è stata, ma il fascicolo messinese su Anna Palma e Carmelo Petralia – sospettati di concorso in calunnia aggravata – è stato archiviato. Non hanno commesso reati, dice il gip che ha disposto l’archiviazione, solo degli “errori”.
Che si dovesse vagliare un po’ di più l’ambiente della magistratura lo indicavano anche alcune frasi di Borsellino. Trizzino ricorda come nei suoi ultimi giorni di vita parlava della procura di Palermo come di un “nido di vipere”. Era un uomo rigoroso, tutto fa pensare che non avrebbe pronunciato una frase del genere a caso: “In questi anni – prosegue Trizzino – c’è stata un’analisi poco attenta delle testimonianze che il magistrato ha lasciato negli ultimi 57 giorni di vita, quelli che sono seguiti alla morte di Falcone. Parlo di testimonianze orali, perché quelle scritte non ci sono. Avrebbero, forse, potuto essere nell’agenda rossa che aveva con sé il giorno dell’attentato, ma quell’agenda è sparita. E lo sa quando sono iniziate le indagini su questa scomparsa? Nel 2002″. Dieci anni, un tempo infinito, dopo. 
Messo un punto sul “depistaggio gravissimo e grossolano”, dice Trizzino, “si sta andando nella direzione giusta”. O, almeno, è più difficile mistificare quello che è stato. Un esempio: per decenni parte dell’opinione pubblica, e alcuni pm, ha ritenuto che Borsellino fosse stato ucciso perché si era opposto alla Trattativa Stato-mafia. Al netto del fatto che poche settimane fa la corte d’Appello di Palermo ha stabilito che i contatti avuti dagli ufficiali dei Ros con parte della mafia non erano reato, già le prime battute del Borsellino quater ci dicevano che quella teoria era sbagliata. Nella sentenza d’appello, non a caso il giudice scriveva che il magistrato era stato ucciso per “vendetta” per il maxi processo e per “cautela preventiva” rispetto al lavoro che stava svolgendo. Ed ecco che allora per arrivare alla verità bisogna partire dai punti fermi: “Si deve ricostruire con logica – sostiene con forza Trizzino – attenendosi ai scontri, non ai teoremi”. I teoremi sono stati tanti, e alcuni sono duri a morire. Però, dopo la sentenza della Cassazione, è tempo di speranza.“Richiameremo tutti alle loro responsabilità”, dice il legale. E se sulle origini del depistaggio bisogna fare ancora piena luce, un approfondimento serio andrebbe fatto anche sul movente della strage: “La famiglia ha sempre guardato altrove rispetto alle ricostruzioni che volevano vedere una connessione tra la strage e la trattativa. In particolare, abbiamo sostenuto, e sosteniamo, che bisognava guardare a ciò di cui Borsellino si stava occupando negli ultimi mesi. Al dossier mafia appalti, in particolare”. Si tratta di una lunga informativa firmata dal generale Mario Mori e da Giuseppe De Donno – gli stessi assolti dopo essere stati considerati per anni traditori dello Stato – che dopo la morte di Borsellino è stata dimenticata.
Fuori da questa babele di errori superficialità che hanno allontanato la verità, emerge però un dato, almeno quello, positivo: “I magistrati, negli ultimi anni, hanno fatto di tutto per rimediare agli errori dei loro predecessori”, continua ancora Trizzino. “Questo elemento – conclude – è stato evidente anche ieri, durante la requisitoria del procuratore generale della Cassazione. Dal tono, dalle parole usate, si capiva quanto fosse profondamente dispiaciuto dalle vicende di queste decenni. Era come se volesse dire che no, Paolo Borsellino non meritava tutto questo” Huffingtonpost


5.10.2021 – Borsellino quater, la Cassazione conferma le condanne per la strage e i depistaggiViene riconosciuta definitivamente la colpevolezza di Madonia, Tutino, Pulci e Andriotta. 


È stata confermata dalla Cassazione la condanna di appello del Borsellino quater – per la strage di Via D’Amelio e i depistaggi – e sono dunque definitive le condanne all’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per Calogero Pulci (dieci anni) e Francesco Andriotta che ha ottenuto un piccolo sconto di pena (da 10 anni a 9 anni e 6 mesi) per la prescrizione di due calunnie ai danni dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, mentre da una terza accusa di calunnia, sempre ai danni di Scarantino, è stato assolto. Convalidata la sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 2019.  Con la decisione odierna – giunta dopo oltre 4 ore di camera di consiglio – la quinta sezione penale della Cassazione ha dunque sostanzialmente confermato quella pronunciata dai giudici d’appello, i quali, da parte loro, avevano condiviso le conclusioni contenute nella sentenza di primo grado, nelle cui motivazioni, depositate nell’estate 2018, si sosteneva che, sulle indagini relative alla strage di via D’Amelio – nella quale, il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino morì con gli agenti della sua scorta – ci fu «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Anche l’avvocato generale della Cassazione, Pietro Gaeta, nella sua requisitoria di questa mattina, aveva sollecitato la conferma degli ergastoli per Madonia e Tutino e della condanna per calunnia di Pulci e Andriotta: vi fu, ha rilevato il rappresentante della procura generale, «una mostruosa costruzione calunniatrice che, secondo me, rappresenta una delle pagine più vergognose e tragiche» LA STAMPA


5.10.2021 – PROCESSO BORSELLINO QUATER, PG CASSAZIONE: “CONFERMARE LE CONDANNE”  

 

Secondo il magistrato sono legittime le condanne all’ergastolo per i capi mafia Salvo Madonia e Vittorio Tutino e quella a dieci anni di reclusione per calunnia nei confronti dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci Il procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta ha chiesto la conferma delle condanne per gli imputati durante l’udienza del processo Borsellino quater che si occupa della strage di Via D’Amelio, nella quale il 19 luglio 1992 a Palermo morirono per l’esplosione di un’auto-bomba il giudice Paolo Borsellino (CHI ERA) e cinque agenti della sua scorta, e dei depistaggi nelle indagini. Il Pg ha trovato pienamente condivisibili le motivazioni della sentenza della Corte di assise di Appello di Caltanissetta emessa il 15 novembre 2019. Secondo Gaeta sono legittime le condanne all’ergastolo per i capi mafia Salvo Madonia e Vittorio Tutino e quella a dieci anni di reclusione per calunnia nei confronti dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci.   Presente in aula l’Avvocato dello Stato, Massimo Giannuzzi, il quale rappresenta le istituzioni che si sono costituite nel Borsellino quater, tra cui presidenza del Consiglio, ministero degli Interni e della giustizia, Regione siciliana e Comune di Palermo, oltre ad alcuni familiari delle vittime.
Pg: “Mostruosa costruzione calunniatrice”  Il depistaggio delle indagini della strage di Via D’Amelio, con le falsità dichiarate dai finti pentiti, “è una mostruosa costruzione calunniatrice che secondo me è una delle pagine più vergognose e tragiche” della nostra storia giudiziaria ed è “di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante” in favore degli imputati per il reato di calunnia. Lo ha affermato il Pg Gaeta in un passaggio della sua requisitoria all’udienza apertasi stamani nell’Aula Magna della Suprema Corte. “Andriotta è la miccia di tutto, l’inizio di un mostruoso disegno calunniatore”, ha sottolineato, respingendo la richiesta della difesa del finto pentito Francesco Andriotta di ottenere uno sconto di pena tramite la concessione di circostanze attenuanti. Non ha invece fatto ricorso agli ‘ermellini’ Vincenzo Scarantino, l’ex pentito che in appello ha ottenuto la prescrizione del reato di calunnia pluriaggravata per la concessione dell’attenuante di essere stato indotto a dire falsità da “inquirenti infedeli”, quindi soggetti appartenenti allo Stato, rimasti non identificati. In appello la difesa di Scarantino aveva chiesto il totale proscioglimento. Skytg24


5.10.2021 BORSELLINO QUATER, IL PG CHIEDE LA CONFERMA IN CASSAZIONE DELLE CONDANNE PER IL DEPISTAGGIO DI VIA D’AMELIO: “PAGINA VERGOGNOSA E TRAGICA” 

 

Nel novembre 2019 la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta ha confermato l’ergastolo ai boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e dieci anni di carcere ciascuno ai falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta, dichiarando prescritta la calunnia pluriaggravata dell’altro falso pentito, Vincenzo Scarantino. “Una mostruosa costruzione calunniatrice”, “una delle pagine più vergognose e tragiche” della storia giudiziaria italiana, “di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante”, ha detto il sostituto Pietro Gaeta in requisitoria Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Pietro Gaeta, ha chiesto la conferma delle quattro condanne emesse nel processo “Borsellino quater” sulla strage di via D’Amelio e i successivi depistaggi nelle indagini. Nel novembre 2019 la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, confermando la decisione di primo grado, aveva inflitto l’ergastolo ai boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e dieci anni di carcere ciascuno ai falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta, dichiarando prescritta la calunnia pluriaggravata dell’altro falso pentito, Vincenzo Scarantino. Le falsità dichiarate da Pulci, Andriotta e Scarantino – ha detto il sostituto pg in requisitoria – sono “una mostruosa costruzione calunniatrice“, “una delle pagine più vergognose e tragiche” della storia giudiziaria italiana, “di una gravità tale da escludere qualunque circostanza attenuante”. di F. Q. | 5 OTTOBRE 2021


APPELLO

 

Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino ma anche legale di parte civile assieme al collega Vincenzo Greco proprio dei tre fratelli, Lucia, Manfredi e Fiammetta. Rispondendo ai giornalisti ha parlato di “soddisfazione, a nome della famiglia Borsellino, per la sentenza che ha confermato le condanne di primo grado e certifica, in maniera inconfutabile, che nell’ambito del processo Borsellino uno e bis si è realizzato uno, se non il, più grande errore giudiziario della storia italiana. Chiaramente ora attendiamo sviluppi. Questa è una pietra miliare perché si afferma che Scarantino è stato indotto a depistare le indagini. Abbiamo il processo Bo e altri, la conferma totale della sentenza di primo grado costituisce i presupposti fondamentali per l’altro processo e per le ulteriori indagini che ci saranno e che magari sfoceranno in un altro processo”.



Strage di Via D’Amelio, i giudici d’appello di Caltanissetta: “Si volle accreditare una falsa verità”

 

Sulla strage di via D’Amelio, costata la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta, fu “costituita una verità che in un determinato momento storico si è voluta accreditare”, una verità di comodo, dunque, basata su dichiarazioni false: lo scrivono, confermando la tesi del depistaggio dell’inchiesta sull’attentato i giudici della corte d’assise d’appello di Caltanissetta che oggi hanno depositato le motivazioni della sentenza che ha confermato la condanna all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e la condanna a 10 anni dei “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia.  Per i giudici, i falsi pentiti che accreditando una ricostruzione mendace della strage fecero condannare all’ergastolo persone estranee all’attentato, erano parte di un piano ben preciso. Le loro dichiarazioni erano “avvinte da una sorprendente circolarità di contenuti” ed erano fondate su frammenti di verità in ordine ad alcuni dettagli degli eventi che solo fonti qualificate potevano avere”. Secondo la corte la finalità del depistaggio non è chiara. Ma, precisano i giudici, come ritennero i magistrati del primo grado, gli inquirenti dell’epoca, incaricati di indagare sulla strage di Via D’Amelio, credettero a una fonte confidenziale, mai rivelata “tanto da operare poi una serie di forzature per darle dignità di prova“IL SICILIA 20.1.20218


Secondo la corte d’Assise d’Appello nissena, poi, non ci sarebbe un collegamento tra la Trattativa Stato-mafia e la morte di Borsellino  BORSELLINO QUATER, I GIUDICI: “NELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO POSSIBILI INTERESSI CONVERGENTI DI GRUPPI DI POTERE ESTRANEI A COSA NOSTRA 

 

Con 377 pagine i giudici della corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta motivano la sentenza emessa il 15 novembre 2019: ergastolo per i boss Tutino e Madonia, 10 anni per i falsi pentiti Andriotta e Pulci. I magistrati non credono che Borsellino fu ucciso per la Trattativa: “Non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la ‘Trattativa Stato-mafià avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano”  “E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione provinciale e nelle precedenti riunioni della Commissione regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra”. Lo scrivono i giudici del processo d’appello ‘Borsellino quater‘ nelle motivazioni della sentenza emessa il 15 novembre 2019 e adesso depositate in cancelleria. Si tratta dell’ultima “verità giudiziaria” sulla strage di via d’Amelio, in cui il 19 luglio del 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta. “Le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione – scrivono i giudici della corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nelle 377 pagine di motivazioni – ‘in giacca‘ nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nella immediatezza come ‘appartenenti ai servizi segreti“. I magistrati sottolineano che “tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che ‘di un uomo estraneo a Cosa nostra ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la Fiat 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo”, aggiunge la corte presieduta dal giudice Andreina Occhipinti con consigliere estensore Gabriella Natale. L’accusa era rappresentata dal Procuratore generale Lia Sava e dai sostituti Antonino Patti, Carlo Lenzi, Lucia Brescia, Fabiola Furnari. La sentenza ha confermato le condanne all’ergastolo per i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, il primo come mandante, in qualità di reggente della famiglia di Resuttana, ed il secondo tra gli esecutori della Strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992. Condannati a 10 anni di carcere per calunnia anche i ‘falsi pentiti‘ Francesco Andriotta e Calogero Pulci, che avevano confermato molte delle menzogne riferite da Vincenzo Scarantino (per cui il reato di calunnia è stato prescritto): è il più grande depistaggio della storia italiana ed è stato smontato solo dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. “La strage di via D’Amelio – continua la sentenza depositata dai giudici nisseni – rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso“. Nello specifico secondo la corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, “ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e terrore non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti o gruppi di potere interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”. “Ma tutto ciò – dicono – non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”. Per i giudici della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta sottolineano anche che “non si hanno elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa della stessa“. “Non è sufficiente che il proposito di rendere dichiarazioni calunniose sia stato ingenerato nell’imputato Vincenzo Scarantino – continua la sentenza – da una serie di discutibili e inquietanti e iniziative poste un essere da alcuni investigatori che hanno esercitato in modo distorto i loro poteri, con il compimento di una serie di forzature, tradottesi in indebite suggestioni e nella agevolazione di una impropria circolarità tra diversi contribuiti dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà”. Per il depistaggio delle prime indagini sulla strage Borsellino sono attualmente a processo i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia, aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Secondo la corte d’Assise d’Appello nissena, poi, non ci sarebbe un collegamento tra la Trattativa Stato-mafia e la morte di Borsellino, contrariamente a quanto sostenuto dalla corte d’Assise di Palermo nel processo concluso nel 2018 per mafiosi, ufficiali dei carabinieri e politici. “Non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la ‘Trattativa Stato-mafià avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992.
Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”. Per i giudici nisseni, poi, “è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di ”destabilizzazione’ intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso”, scrivono i giudici. I magistrati considerano le indagini sulla strage avvolte ancora dai “coni” d’ombra: “Le emergenze probatorie acquisite nel procedimento costituiscono singoli pezzo di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti. Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosà dell’agenda rossa del magistrato e alla ricomparsa della borsa stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio di Arnaldo La Barbera”. IL FATTO QUOTIDIANO 20.1.2021

 

 


PRIMO GRADO

  • Nel Borsellino quater una conferma ai dubbi di Fiammetta Le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater potrebbero contenere elementi chiarificatori per la strage di via D’Amelio «Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione …LEGGI TUTTO

  • Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del Borsellino quater vengono evidenziate anche le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore». LEGGI TUTTO


PROCESSO BORSELLINO QUATER –  Primo grado



Borsellino quater”, la teoria dei giudici: «la strage di via d’Amelio non fu dovuta alla trattativa stato-mafia»


Il giudizio emesso dalla Corte esclude che la “trattativa stato-mafia”, oggetto di altro procedimento il cui appello è in corso, abbia aperto nuovi scenari e che, quindi sia stata la motivazione e, soprattutto, l’accelerante della strage di via d’Amelio.
Si è chiuso l’appello del “Borsellino quater”, il procedimento sulla strage di via d’Amelio, quella che vide morire il dottor Paolo Borsellino e gli agenti del servizio di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina
La sentenza dell’appello del procedimento “Borsellino quater” fa il punto sul lungo iter processuale relativo alla strage di via d’Amelio, iter costellato da depistaggi e falsi pentiti.
Sulla base, però, dei precedenti procedimenti e anche delle ulteriori acquisizioni documentali, fa chiarezza sul movente, sulla dinamica della strage,sulla paternità della stessa.
“Le emergenze probatorie acquisite nell’odierno procedimento costituiscono singoli pezzi di un mosaico che, nel suo complesso, continua a rimanere in ombra in alcune sue parti. Basti pensare alla ‘scomparsa misteriosa’ dell’agenda rossa del magistrato (cristallizzata nella ripresa fotografica riprodotta nella stessa impugnata sentenza, nella quale risulta immortalato il capitano Arcangioli nell’atto di allontanarsi dalla scena del delitto con in mano la borsa del magistrato) e alla ricomparsa della stessa in circostanze non chiarite nell’ufficio del dottor Arnaldo La Barbera; alla presenza di uomini “sconosciuti” sul luogo del delitto e nell’immediatezza dello stesso (individuati come ‘appartenenti ai servizi’ da parte di due degli agenti sentiti come testimoni) e di un uomo ‘estraneo a Cosa Nostra’ al momento della consegna della Fiat 126 da parte di Spatuzza Gaspare, agli uomini incaricati di provvedere al successivo caricamento della stessa di esplosivo; alla vicenda Mutolo e all’interruzione del suo interrogatorio ed al successivo incontra da parte del giudice Borsellino con il dottore Bruno Contrada, all’anomalia del coinvolgimento del SISDE nelle indagini; alla vicenda del falso pentito Scarantino Vincenzo e del falso strumentale delle dichiarazioni di Francesco Andriotta, altri odierni imputati. 
Non si hanno, tuttavia, elementi in grado di adombrare profili di erroneità nella ricostruzione del momento deliberativo della strage e nella configurazione della ‘paternità mafiosa’ della stessa. 

La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto ad una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il Maxiprocesso (nato anche, si ripete, da una felice intuizione die giudici Falcone e Borsellino).
E ancora:  “Ogni tentativo della difesa di attribuire una diversa paternità a tale insana scelta di morte e di terrore non può trovare accoglimento, potendo, al più, le emergenze probatorie sopraindicate – in parte già acquisite al preesistente patrimonio conoscitivo e in parte disvelate da presente procedimento – indurre a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta. Ma tutto ciò non esclude la responsabilità principale degli uomini di vertice dell’organizzazione mafiosa che, attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute”.
Il giudizio emesso dalla Corte esclude che la “trattativa stato-mafia”, oggetto di altro procedimento il cui appello è in corso, abbia aperto nuovi scenari e che, quindi sia stata la motivazione e, soprattutto, l’accelerante della strage di via d’Amelio.
“Ed anche in questa sede non può che ribadirsi la  sostanziale neutralità di tali fatti ai fini dell’accertamento dei responsabili della strage di via D’Amelio (imputati nel presente procedimento) dovendosi ancora una volta ribadire la matrice mafiosa della stessa. Non può condividersi, sul punto, l’assunto difensivo secondo cui la “trattativa Stato-mafia” avrebbe aperto “nuovi scenari” in relazione alla “crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali” e al possibile collegamento fra “la stagione degli atti di violenza” e l’occasione di “incidere sul quadro politico italiano” con riferimento a coloro che “si accingevano a completare la guida del paese nella tornata di elezioni politiche del 1992”
Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata “strategia stragista” unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva. Ed è anche logico affermare che vi sia stata una finalità di “destabilizzazione” intesa ad esercitare una pressione sulla compagine politica e governativa che aveva fino a quel momento attuato una drastica politica di contrasto all’espansione del crimine organizzato mafioso”.
E ancora:   “Deve essere ritenuta ancora attuale la valutazione espressa dai Giudici Supremi in seno alla prima sentenza emessa nel procedimento Borsellino ter relativamente alla incidenza che la cd. “trattativa Stato-mafia” avrebbe avuto sulla deliberazione della strage di via D’Amelio anche alla luce delle ulteriori acquisizioni probatorie cristallizzate nel presente procedimento. Deve dunque escludersi la sussistenza di elementi probatori idonei a fare ritenere che vi sarebbe stata, per la sola strage di via D’Amelio,  una sorta di “novazione” della deliberazione di morte, tale da avere determinato una soluzione di continuità rispetto alla precedente deliberazione stragista risalente alla riunione degli ‘auguri di fine anno 1991’”.
La sentenza, chiaramente, determina che la causale della strage è di matrice mafiosa.
“Allo stato, comunque, il quadro probatorio appare immutato rispetto a quello già considerato dalla Suprema Corte di Cassazione nella richiamata pronuncia del 2003, non sussistendo altri elementi probatori per dire che la strage di via D’Amelio abbia avuto una causale diversa dalla matrice mafìosa o che la stessa sia ascrivibile ad un contesto deliberativo diverso da quello accertato nel corso del presente procedimento, nel quale si inscrive il protagonismo dell’imputato appellante”.
E ancora:  “E’ possibile che la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi nella corale riunione degli auguri di fine anno 1991 della Commissione Provinciale, e nelle precedenti riunioni della Commissione Regionale, abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa Nostra. Ma ciò non può equivalere a mettere in ombra la paternità della terribile decisione di morte compiuta da Cosa Nostra né condurre ad escludere la responsabilità penale di coloro che ebbero a partecipare alle riunioni deliberative.”
In chiusura vengono rigettati tutti gli appelli presentati.
“Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, l’impugnata sentenza deve essere pertanto confermata con riguardo a tutte le posizioni, stante l’infondatezza degli appelli proposti”.
Breve cronistoria dei procedimenti relativi alla strage di via d’Amelio  Il procedimento “Borsellino uno” veniva concluso, in primo grado, con la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Caltanissetta il 27 gennaio 1996 e riconosceva colpevoli del delitto di strage Vincenzo Scarantino, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto, condannando il primo a 18 anni di reclusione e gli altri tre all’ergastolo per aver partecipato a vario titolo alle fasi esecutive dell’attentato e della decisione deliberativa.
Determinanti, per il giudizio di condanna, risultarono le dichiarazioni rese dai tre “collaboratori” Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta e Salvatore Condura.
All’esito del giudizio d’appello, la Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 23 gennaio 1999, assolveva Pietro Scotto (per non aver commesso il fatto) e riqualificava la condotta (di strage) ascritta a Orofino come favoreggiamento, aggravato dalla circostanza di cui all’art. 7 delle legge 203 del 1991, condannandolo a alla pena di nove anni di reclusione. Rimaneva confermata la condanna all’ergastolo nei confronti di Salvatore Profeta.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 18 dicembre 2000, confermava la sentenza impugnata. Il procedimento “Borsellino bis” vedeva come imputati sia alcuni dei mandanti che taluni esecutori materiali della strage, fra i quali anche quelli chiamati in correità da Scarantino, e precisamente Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso e Gaetano Murara, oltre a Riina Salvatore, Aglieri Pietro, Greco Carlo, Graviano Giuseppe, Biondino Salvatore e altri, questi ultimi per aver preso parte al momento deliberativo della strage. In primo grado, la Corte di Assise di Caltanissetta, con sentenza del 13 febbraio 1999, confermava sostanzialmente, quanto agli imputati chiamati in correità da Scarantino, i risultati della sentenza di secondo grado del “Borsellino uno”, assolvendo quindi gli imputati chiamati in correità esclusivamente da Scarantino, ritenendo le dichiarazioni di quest’ultimo prive di riscontri.
Riportavano condanna Riina Salvatore, Pietro Aglieri e Carlo Greco, quali esponenti della famiglia della Guadagna, Giuseppe Graziano per il mandamento di Brancaccio, Salvatore Biondino per il mandamento San Lorenzo e Tagliavia Francesco con l’accusa di essere stati i mandanti della strage di via d’Amelio, per aver preso parte alla deliberazione della stessa, in quanto componenti la Commissione Provinciale “intorno al mese di marzo 1992”, dopo la sentenza del Maxiprocesso, oltre che per aver preso parte al progetto esecutivo.
Veniva confermata la natura mafiosa del movente della strage, pur non escludendosi la sussistenza di “estranei interessi distinti da quelli specifici della suddetta organizzazione mafiosa, che in un dato momento storico possono aver assunto una posizione convergente per questi ultimi”.
La conclusione era, comunque, quella di ritenere che eventuali, occulti, interessi estranei a Cosa Nostra non avrebbero mai potuto porsi “in antitesi con l’interesse fondamentale di eliminazione fisica del dott. Borsellino da tempo coltivato dall’organizzazione mafiosa Cosa Nostra”. 
La Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, con sentenza del 18 marzo 2002, ribaltava in parte le conclusioni del giudice di primo grado, rivalutando integralmente le dichiarazioni accusatorie di Scarantino e Andriotta, condannando per strage anche quegli imputati che erano stati assolti in primo grado da tale imputazione (Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Urso Giuseppe, Vernengo Cosimo, Tinirello Lorenzo e Murana Gaetano). 
La Suprema Corte confermava la sentenza in appello, con propria decisione del 3 luglio 2003, affermando – in punto di competenza della Commissione Provinciale e di prova del concorso morale – che “la strage è stata deliberata in seno alla commissione provinciale di Palermo, organismo di vertice che governa sul territorio delle singole province costituito dai capi mandamento e dai loro sostituti in caso di impedimento dei primi”.
Intanto, nell’estate del 1996, durante la pendenza dei primi due procedimenti avviati, il “Borsellino uno” e il “Borsellino bis”, le indagini sulla strage di via d’Amelio subivano un’ulteriore svolta a seguito della cattura e della decisione di collaborare di diversi “uomini d’onore” direttamente implicati negli avvenimenti.
Si tratta di Ganci Calogero, capomandamento della Noce e fedelissimo di Riina il 7 giugno 1996, di Anzelmo Francesco Paolo e Galliano Antonino il 19 luglio 1996, entrambi nipoti dello stesso Ganci, Ferrante Giovanbattista il 12 luglio 1996, Brusa Giovanni dai primi dell’agosto 1996, Cangemi Salvatore il 29 luglio 1996 e Siino Angelo dal luglio 1997. 
I racconti dei nuovi collaboratori permettevano di delineare in modo più nitido la fase esecutiva della strage e di risalire ad ulteriori mandanti della stessa, in aggiunta a quelli che già erano stati imputati nei due precedenti processi, attraverso una ulteriore definizione del ruolo della commissione provinciale.
Si arrivava, così, alla celebrazione di un “Borsellino ter”.
A conclusione di tale processo, la Corte d’Assise di Caltanissetta, con sentenza del 9 dicembre 1999, condannava quali mandanti, nella qualità di componenti della commissione provinciale, Brusca Bernardo, Calò Giuseppe, Farinella Giuseppe, Giuffrè Antonino, Graviano Filippo, La Barbera Michelangelo, Montalto Giuseppe, Montalto Salvatore, Motisi Matteo e Provenzano Bernardo. Tale ultima sentenza ribadiva che la strage di via d’Amelio non potesse essere intesa come un fatto isolato, costituendo bensì espressione di una “strategia stragista”, comprendente l’eliminazione dell’on. Lima ucciso il 12 marzo 1992, dei giudici Falcone e Borsellino uccisi il 23 maggio e il 19 luglio 1992, di Ignazio Salvo ucciso il 17 settembre 1992, nonché una serie successiva di stragi a Firenze, Milano e Roma che “si prefiggeva non solo lo scopo immediato di uccidere le persone specificatamente individuate ma anche di mettere in discussione la capacità della compagine governativa che, sino ad allora, aveva adottato le misure antimafia, di mantenere l’ordine pubblico, in modo da provocarne la destabilizzazione e da ottenere da coloro che avessero avuto l’intento di prenderne il posto sostanziose concessioni pur di ripristinare un clima di sicurezza generale”.
La sentenza veniva, poi, parzialmente modificata dalla Corte di Assise di Appello di Caltanissetta, del 7 febbraio 2002, con l’affermazione di penale responsabilità degli imputati Madonia Francesco e Biondo Salvatore (cl. 1956) ritenuti responsabili anche di concorso nel reato di strage, in accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore Generale. 
La Corte di Cassazione, con sentenza del 17 gennaio 2003, annullava in parte la sentenza di appello e in particolare le assoluzioni di Benedetto Santapaola, Antonino Giuffrè, Giuseppe Farinella e Salvatore Buscemi, disopnendo il rinvio davanti alla Corte d’Appello di Catania.
Il giudizio veniva concluso con sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 18 settembre 2008, con integrale conferma della sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Catania, quale giudice di rinvio. 
Nel 2008 Gaspare Spatuzza decideva di intraprendere il cammino di collaborazione con la giustizia fornendo una ricostruzione dei fatti diversa da quella precedentemente resa da Scarantino Vincenzo.
Il procedimento “Borsellino quater” presenta, quindi, una singolare genesi, in quanto avviato a seguito di una riapertura delle indagini per le stragi di Capaci e via d’Amelio indotta dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza.
Dalle dichiarazioni del predetto nascevano anche problemi di verifica e tenuta delle precedenti pronunce che avevano definito, in particolare, i procedimenti “Borsellino uno” e “Borsellino bis”, nelle quali il giudizio di penale responsabilità era risultato in modo preponderante, se non esclusivo, fondato sulle dichiarazioni rese da Salvatore Candura, Francesco Andriotta e soprattutto Vincenzo Scarantino, ritenute reciprocamente riscontrate. 
Con sentenza del 13 luglio 2017, divenuta definitiva, la Corte di Assise di Appello di Catania, accogliendo l’istanza di revisione, scagionava tutti coloro che erano stati ingiustamente condannati sulla base delle dichiarazioni dei falsi pentiti.
L’intensa attività istruttoria compiuta nel dibattimento di primo grado del “Borsellino quater”, integrata, in alcuni punti, anche nel giudizio di appello da ulteriori acquisizioni documentali, ha consentito di acclarare che le dichiarazioni mendaci rese da Andriotta Francesco e Scarantino Vincenzo oltre che da Condura Salvatore, fin dalla prima fase delle indagini e fino alla conclusione del procedimento “Borsellino bis”, lungi dal costituire il frutto di un isolato intento calunniatore, rappresentano singoli tasselli di una verità costituita che, in quel determinato momento storico, si è voluto accreditare, risultando avvinte da una sorprendente circolarità di contenuti e fondate su frammenti di verità, in ordine ad alcuni dettagli degli eventi, che solo fonti qualificate potevano conoscere. 
Non sono state, tuttavia, accertate le finalità del depistaggio, non potendo che trovare conferma l’ipotesi dei primi Giudici secondo cui, ritenuta probabile l’esistenza di una fonte confidenziale “gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzatura per darle dignità di prova”.
Rispetto alla strage di via d’Amelio sono stati acquisiti plurimi ulteriori elementi – in ordine alla ricostruzione del contesto e delle motivazioni dello stesso attentato, oltre che in ordine all’accelerazione dello stesso. Rimessi alla valutazione della Corte con la conseguenza di escludere che possa parlarsi per i due processi di identica piattaforma probatoria. WORDNEWS 19.1.2021 ROBERTO GRECO


STRAGE DI VIA D’AMELIO, L’AVVOCATO DEI BORSELLINO: “PERCHÈ GIAMMANCO NON FU SENTITO?  

 

Vincenzo Greco, che rappresenta i figli del magistrato ucciso nel 1992, è intervenuto al processo di Caltanissetta e ha parlato dell’allora procuratore di Palermo: “Aveva nascosto al giudice l’informativa dei Ros con cui si diceva che il tritolo era arrivato” “Ci siamo sempre chiesti come famiglia perché il procuratore Giammanco (morto lo scorso anno ndr) non venne mai sentito dagli i inquirenti”. Così l’avvocato Vincenzo Greco, legale della famiglia Borsellino, nel corso delle conclusioni delle parti civili nell’ambito del processo Borsellino Quater, che si celebra davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta. Sul banco degli imputati i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i falsi pentiti Francesco Andriotta, Calogero Pulci e Vincenzo Scarantino. “Giammanco aveva nascosto al giudice l’informativa dei Ros con cui si diceva che il tritolo era arrivato a Palermo”, ricorda l’avvocato Greco. Che sottolinea anche come i rapporti tra Borsellino e Giammanco fossero pessimi. L’avvocato si è posi associato alle richieste della procura generale che chiede la conferma della sentenza di primo grado. “I magistrati – aveva detto il pg Lia Sava aprendo la requisitoria nelle scorse udienze – devono continuare a raccogliere prove certe di responsabilità penali che consentano di addivenire a sentenze definitive di condanna per tutti coloro, anche in ipotesi, esterni a Cosa nostra, che possono avere concorso, a qualunque titolo, e per qualsivoglia scopo, alla realizzazione della strage di via D’Amelio e che, successivamente ai tragici eventi, possono avere mosso i fili, in maniera da determinare il colossale depistaggio delle relative indagini”. PALERMO TODAY 23.9.2019


PROCESSO BORSELLINO QUATER, CHIESTA LA CONFERMA DELLE CONDANNE. 


Al processo Borselli Quater è stata chiesta la conferma della sentenza di primo grado per tutti i cinque imputati, del processo sulla strage di via d’Amelio,  che si celebra in Corte d’Assise d’Appello a Caltanissetta Così come avevano fatto nel corso della loro requisitoria Lia Sava e Antonino Patti, anche i Pg Carlo Lenzi e Lucia Brescia, hanno chiesto la conferma dell’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, già condannati all’ergastolo per strage e per i falsi collaboratori Calogero Pulci e Francesco Andriotta, condannati alla pena di dieci anni ciascuno per calunnia. Reato prescritto invece per Vincenzo Scarantino, perché sarebbe stato «indotto a mentire». I due sostituti procuratori Lenzi e Brescia, nella loro requisitoria, sono entrati nei dettagli, soffermandosi sui vari ruoli ricoperti dai cinque imputati. La sentenza di morte per Paolo Borsellino sarebbe stata emessa da Totò Riina, nel corso della riunione per gli auguri di Natale, svoltasi nel dicembre del 91. Nessuno dei capi mandamento si oppose. Avallarono quella decisione. «Gli italiani – ha detto il Pg Lenzi – dovevano capire con chi avevano a che fare». Soffermandosi poi sul ruolo dei falsi collaboratori, il Pg ha affermato che «Francesco Andriotta e Calogero Pulci hanno reso gravissime dichiarazioni mendaci da cui sono discese pesantissime condanne. Andriotta ha ammesso di non sapere nulla e di aver barattato la sua libertà con quella degli altri». Il ruolo di Andriotta sarebbe stato quello di convincere Scarantino a collaborare. A soffermarsi invece sul ruolo ricoperto dall’ex picciotto della Guadagna, è stato il sostituto procuratore generale Lucia Brescia. «Scarantino – ha sottolineato il Pg – trasferito presso la casa circondariale di Pianosa, ebbe una serie di colloqui investigativi: rispettivamente il 20 dicembre 1993 con Mario Bo (funzionario di polizia), il 22 dicembre 1993 con Arnaldo La Barbera, il 2 febbraio 1994 nuovamente con Mario Bo e il 24 giugno dello stesso anno ancora con Araldo La Barbera. In quest’ultima data Scarantino (il quale fino all’interrogatorio reso il 28 febbraio 1994 alla dottoressa Boccassini aveva protestato la propria innocenza) iniziò la propria collaborazione con l’autorità giudiziaria, confermando il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese da Candura e da Andriotta ed aggiungendo ulteriori tasselli al mosaico». 22.9.19 TP24


“LA DECISIONE DI ELIMINARE FALCONE E BORSELLINO FU PRESA DA RIINA E AVALLATA DA TUTTI”  

 

Con queste parole il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Carlo Lenzi ha proseguito, davanti alla Corte d’Assise d’Appello nissena, la requisitoria del processo Borsellino quater 
E’ assolutamente impossibile, illogico e inammissibile che la decisione di eliminare Falcone e Borsellino, non fosse maturata nell’ambito di una riunione con tutti i vertici”. Con queste parole il sostituto procuratore generale di Caltanissetta Carlo Lenzi ha proseguito, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, la requisitoria del processo Borsellino quater. 
Imputati i boss mafiosi palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannati in primo grado all’ergastolo per la strage di via d’Amelio, e i falsi collaboratori di giustizia Francesco Andriotta, Calogero Pulci e Vincenzo Scarantino. I primi due sono stati condannati a 10 anni per calunnia. Reato prescritto per il terzo che, come riconosce la sentenza di primo grado, è stato “indotto a mentire”. La riunione si tenne “prima di Natale nel ’91”, dice Lenzi. “Se è vero che in quella riunione fu presa questa decisione non è pensabile che Madonia fosse assente. I Madonia non erano capi mandamento lontani da Totò Riina. È credibile che la famiglia Madonia restasse fuori da una decisione così importante?”. I particolari di quella riunione sono stati raccontati dal pentito Giuffrè il quale “ci dice – ha sottolineato Lenzi – della presenza del Madonia e anche che a quella riunione parlò solo Madonia e gli altri tacquero. Si potrebbe dire che era una decisione di Riina e gli altri presero solo atto. Ma gli altri capi mandamento, con il loro silenzio, hanno avallato una decisione di Riina che tutti condividevano”. “Riina – ha aggiunto il rappresentante dell’accusa – è l’uomo che ha scalato Cosa Nostra su un letto di cadaveri. Vi immaginate che Totò Riina si fa imporre una decisione del genere da qualcuno? Fantasticare su mandanti occulti, poteri forti non si può. Quello di cui si può parlare all’esito delle indagini sarà di concorrenti esterni. Il capo dei capi era Totò Riina. Un capo che ci teneva ad affermare il suo potere su tutti gli altri capi”. FANPAGE 20.9.19


“STRAGI, I MANDANTI OCCULTI SARANNO PRESTO SCOPERTI”

 

 La requisitoria del Pg di Caltanissetta Lia Sava al Borsellino “quater ” “Abbiamo nuovi elementi da approfondire su Capaci e via D’Amelio”  Le indagini su via D’Amelio? “Si stanno delineando nuove strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi, si tratta di produzioni inerenti la strage di Capaci e che sono oggetto di ulteriori approfondimenti”. A 27 anni dalla strage, il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava rivela punti di contatto tra gli indizi raccolti tra le due stragi del ’92 nella caccia ai mandanti occulti, esterni a Cosa Nostra: “Questo materiale – ha detto il pg –costituisce la dimostrazione che senza alcuna remora si sta cercando di battere ogni pista percorribile per far luce su alcune zone d’ombra”. E il pg chiarisce: “Anche qualora si arrivasse a individuare soggetti esterni, e allorquando sarà fatta luce sull’agenda rossa, ciò non farà venir meno le responsabilità degli uomini di Cosa Nostra”.   La rivelazione arriva in apertura della requisitoria dell’appello del Borsellino quater, in cui Sava ha fatto il punto sullo stato delle indagini sulla più “anomala” delle stragi siciliane, ancora fitta di buchi neri, legati soprattutto al colossale depistaggio istituzionale sul quale davanti al Tribunale di Caltanissetta è tuttora in corso un nuovo processo a tre uomini del gruppo “Falcone Borsellino” della Polizia di Stato. E se in primo grado la Corte d’assise nissena stabilì che Vincenzo Scarantino fu “indotto”a fingersi pentito, facendo scattare per lui la prescrizione (confermata già dalla Cassazione), oggi il Pg Sava aderisce totalmente all’impostazione di quel verdetto, che pure due anni fa aveva ignorato le richieste della Procura (all’epoca la Sava era il numero due di quell’ufficio) che per Scarantino aveva chiesto la condanna a 8 anni e 6 mesi per calunnia. Il Pg, infatti, ha già anticipato che alla fine della requisitoria chiederà conferma anche per le condanne all’ergastolo dei boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, e a 10 anni per calunnia dei falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Nella sua requisitoria Sava sembra oggi allinearsi anche alla sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia che stabilisce un nesso tra il negoziato sotterraneo e l’accelerazione della strage di via D’Amelio: “Non può escludersi – ha detto il Pg – che la cosiddetta trattativa possa aver contribuito (insieme alle vicende del rapporto mafia-appalti), a indurre Totò Riina alla più rapida eliminazione di Borsellino”. Per concludere, consapevole delle numerose anomalie che tuttora spalancano dubbi su eventuali cointeressenze dei servizi deviati: “La ricerca della verità non si è mai fermata. Tocca ai magistrati la ricostruzione completa della strage di via D’Amelio che presenta, ancora oggi, punti drammaticamente irrisolti”, perché “l’Italia –ha concluso il pg –ha bisogno di comprendere il più violento degli attacchi alla nostra democrazia. Confidiamo che l’opera condotta all’unisono porterà alla verità”. Di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza  Da il FQ. del 18/09/2019


BORSELLINO QUATER, IL PG: “TROVARE CHI HA MOSSO FILI PER COLOSSALE DEPISTAGGIO” 

 

“Il primo profilo riguarda la famiglia di Paolo Borsellino e i congiunti di tutti gli uomini della scorta, i servitori dello Stato che sono stati trucidati in via D’Amelio. Essi hanno il diritto di sapere e di comprendere fino in fondo come e perché si giunse alla stagione delle stragi, anche al fine di cercare di lenire un dolore mai sopito, ma che addirittura si amplifica di fronte agli assordanti silenzi sia all’interno di Cosa nostra che all’interno di altri e più differenti contesti“. E’ quanto dice il procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava, nel corso della requisitoria per il processo ‘Borsellino quater’ in corso a Caltanissetta. Imputati i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e i tre ex pentiti Calogero Pulci, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. “Questo ufficio – scandisce il procuratore generale – è fortemente convinto che la completa verità sulla strage di via D’Amelio potrà essere raggiunta solo mettendo insieme elementi che provengano da direzioni e da contesti investigativi diversificati che dovranno essere letti in chiave unitaria e supportati, si spera, da sopravvenute fonti dichiarative e dalle risultanze di ulteriori accertamenti anche di carattere tecnico scientifico“. ADNKRONOS 17.9.19


“LA RICERCA DELLA VERITÀ NON SI È MAI FERMATA”. 

 

Così il Procuratore generale di Caltanissetta Lia Sava ne corso della requisitoria del processo Borsellino quater. Secondo la procura generale “lo sviluppo delle indagini sta via via delineando altre strade che, se doverosamente riscontrate, possono far individuare altri soggetti che hanno potuto contribuire alle stragi”. “Si tratta di produzioni inerenti la strage di via Capaci e che sono oggetto di ulteriori approfondimenti. Questo materiale – dice il pg in aula – costituisce la dimostrazione che senza alcuna remora si sta cercando di battere ogni pista percorribile per far luce su alcune zone d’ombra. Il materiale sopra richiamato non incide in alcun modo sulla sentenza della quale oggi vi chiediamo conferma. Perché anche qualora si arrivasse ad individuare i soggetti esterni e allorquando sarà fatta luce sull’agenda rossa, ciò non farà venir meno le responsabilità degli uomini di Cosa nostra”. RAI NEWS 17.9.19


Il collegamento con l’Agenda Rossa  

 

I giudici mettono nero su bianco per la prima volta che “c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende”. Il personaggio a cui la Corte d’Assise fa riferimento è Arnaldo La Barbera, funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato. Secondo la Corte, ebbe un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre”. Per la corte l’agenda del magistrato, da lui custodita in una borsa e scomparsa dal luogo dell’attentato, “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”. La Corte dedica proprio un capitolo alla sparizione dell’agenda rossa evidenziando le “molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati”. Tra questi anche quella dell’allora capitano Giovanni Arcangioli del Nucleo Operativo Provinciale dei Carabinieri di Palermo. Lui è quel soggetto immortalato nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage, proprio in quel disgraziato pomeriggio del 19 luglio, in direzione di via dell’Autonomia Siciliana, con in mano la borsa del magistrato. Un fotogramma che venne fuori soltanto nel 2005 quando il nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, segnalò alla Dia l’esistenza della foto.  Quel che è certo è che oggi sulla strage di via d’Amelio ed i fatti ad essa connessi si continua ad indagare. La Procura di Caltanissetta ha chiesto il processo nei confronti dei funzionari di polizia Mario Bo e i due sottufficiali Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia in concorso. Un’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Gabriele Paci e dal PM Stefano Luciani. Intanto la Corte ha ritenuto “doveroso” disporre la trasmissione al Pubblico ministero dei verbali di tutte le udienze dibattimentali in quanto “possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità”.  Ci sono ancora diverse zone d’ombra che avvolgono la strage. Misteri irrisolti oltre la sparizione dell’agenda rossa come l’identità dello sconosciuto uomo che Spatuzza ha detto essere stato presente durante la preparazione dell’autobomba; l’infiltrato di cui parla la mamma del piccolo Giuseppe Di Matteo con il marito nel 1993; le confessioni di Borsellino fatte alla moglie Agnese su Subranni e quelle fatte ai colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa riguardo “un amico che mi ha tradito”. A ventisei anni di distanza, questa sentenza, offre comunque una prima risposta.

Convergenza d’interessi  I giudici, che parlano in maniera diretta di “disegno criminoso”, evidenziano come l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage di via D’Amelio, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato, potrebbe essere proprio uno dei moventi del depistaggio delle indagini. In particolare la Corte ricorda le parole del collaboratore di giustizia Antonino Giuffré: “L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, che ha riferito che prima di passare all’attuazione della strategia stragista erano stati effettuati ‘sondaggi’ con ‘persone importanti’ appartenenti al mondo economico e politico”. Giuffrè ha precisato che “questi ‘sondaggi’ si fondavano sulla ‘pericolosità’ di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a ‘fare affari’ con essa”.

Il movente del delitto e la trattativa  Dunque perché Paolo Borsellino fu ucciso? Il magistrato palermitano “rappresentava un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con ‘Cosa Nostra’”. I giudici, riprendendo le parole scritte dai PM nella memoria conclusiva, affermano che “appare incontestabile come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di “spargere terrore” allo scopo di “destare panico nella popolazione”, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina ed i suoi sodali intendevano imporre”. Secondo la Corte d’Assise, dunque, nella strage di Via D’Amelio, “era sicuramente riscontrabile la finalità di incutere terrore nella collettività con un’azione criminosa diretta contro Paolo Borsellino per tutto quello che egli rappresentava per la società italiana e volta a destabilizzare pesantemente le istituzioni, scuotendo la fiducia nell’ordinamento costituito. Ne consegue che la finalità terroristica è sicuramente riscontrabile nella strage di Via D’Amelio, la quale non fu soltanto un fatto di mafia, ma un fatto di terrorismo mafioso”.

Anomalie d’indagine   Secondo la Corte d’Assise, “Le anomalie nell’attività di indagine – aggiungono i giudici della Corte d’Assise -continuarono anche nel corso della collaborazione dello Scarantino, caratterizzata da una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni (seguite persino dalla ritrattazione della ritrattazione, e da una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni dello Spatuzza), che sono state puntualmente descritte nella memoria conclusiva del Pubblico Ministero”.  La Corte ritiene “le indagini successive alla ‘collaborazione’ dello Scarantino furono contrassegnate da numerosi profili del tutto singolari ed anomali. Assolutamente anomala appare, ad esempio, la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino (colloqui che furono autorizzati dal PM Ilda Boccassini, ndr), detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia”. Altra anomalia si riscontra nelle condotte di alcuni poliziotti appartenenti al “Gruppo Falcone-Borsellino” della Polizia di Stato. Questi “mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia, dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo c.d. ‘Borsellino uno'”. E i giudici ravvisano come “tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’Ispettore Fabrizio Mattei, escusso all’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino. Risulta però del tutto inverosimile che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura, e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale. A ciò si aggiungono ulteriori aspetti decisamente singolari segnalati da alcune parti civili. Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate”.  La Corte cita anche la lettera che due PM, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano scritto ai colleghi per segnalare “l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino su via d’Amelio”. Una missiva che è stata rinvenuta anni dopo alla Procura di Palermo e non a Caltanissetta.  Partendo da questi fattori la Corte d’assise, senza fare nomi, parla dell’operato dell’autorità giudiziaria. “Questo insieme di fattori – proseguono i giudici riferendosi alla valutazione che venne fatta delle parole di Scarantino – avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni dello Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata”.  Quel che è noto è che non tutti i magistrati condussero dall’inizio quell’inchiesta. Ad esempio l’oggi sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel cosiddetto “Borsellino bis”, dove entrò a dibattimento già avviato, mentre istruì completamente il cosiddetto “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra. Un processo che ha portato alla definitiva condanna di boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56).  E proprio nelle conclusioni di quella sentenza, come riporta oggi la Corte d’Assise del “Borsellino quater”, si ritiene “che delle dichiarazioni rese da Vincenzo Scarantino non si debba tenere alcun conto per la ricostruzione dei fatti e la valutazione delle responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio”. Sempre in quella sentenza si scriveva che “risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche”.  Una trascrizione, quest’ultima, effettuata anche nelle motivazioni della Corte d’Assise che ha evidenziato come di “particolare rilievo” le parole dette da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio (“che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”) e la “drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un ‘colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato'”.

Candura-Andriotta  La Corte mette in fila i colloqui investigativi che i funzionari di polizia avranno con Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino. Scrive la Corte che “è rimasto documentalmente confermato che la falsa collaborazione con la giustizia fu preceduta da colloqui investigativi di entrambi con il Dott. La Barbera, e del primo anche con il Dott. Bo’. Un colloquio investigativo del Dott. La Barbera precedette anche un successivo interrogatorio dell’Andriotta contenente un significativo adeguamento al racconto – parimenti falso – esposto dal Candura. A sua volta, il Dott. Ricciardi effettuò un ulteriore colloquio investigativo che precedette un consistente mutamento del contributo dichiarativo offerto dal Candura”. Dunque “l’analisi che si è condotta sulla genesi della ‘collaborazione’ con la giustizia del Candura, dell’Andriotta e dello Scarantino – scrivono i giudici – lascia emergere una costante: in tutti e tre i casi, le dichiarazioni da essi rese, radicalmente false nel loro insieme, ricomprendevano alcune circostanze oggettivamente vere, che dovevano essere state suggerite loro dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.

Le note del Sisde  Ma come si arrivò a Scarantino? Nel corso del processo vennero riscontrate alcune anomalie come ad esempio l’appunto con cui, in data 13 agosto 1992, il Centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo comunicò alla Direzione di Roma del Sisde che “in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abitava la madre del Giudice Paolo Borsellino. (…) In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”. La Corte, così come i pm, ricorda che in quella data ancora non era comparso sulla scena Candura, “prima fonte dell’accusa nella direzione della Guadagna”. Chi era dunque il soggetto a cui si riferisce la nota?” Quale fosse tale fonte nessuno ha saputo o voluto rivelarla – annotano i giudici – Residua allora il dubbio che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente ‘suggestionabile’, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via d’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti”. La Corte parla anche dell’iniziativa, definendola “decisamente irrituale”, presa dall’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra di chiedere la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai PM di Palermo nel dicembre del 1992, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio. In tal senso va sottolineato come la normativa vigente all’epoca, ancor già tenuto conto che Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura. E i giudici non possono fare a meno di rilevare che quella richiesta fece seguito alla “mancata audizione del dottore Borsellino nel periodo dei 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia”. La Corte ricorda “la particolare attenzione rivolta allo Scarantino dai servizi di informazione, nei mesi immediatamente successivi alla strage”, così come dimostrato in alcuni documenti segnalati già nella sentenza del “Borsellino uno”. Vi è un informativa riservata del Sisde, trasmessa alla Squadra mobile il 10 ottobre 1992, nella quale si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti. La Corte ricorda il dato che il Capo della Squadra mobile, Arnaldo La Barbera, aveva già intrattenuto un rapporto di collaborazione “esterna” con il Sisde (dal 1986 al marzo 1988), con il nome in codice “Rutilius”, mentre dirigeva la Squadra Mobile di Venezia, ma la Corte evidenzia che già nel periodo immediatamente anteriore alla trasmissione alla Squadra Mobile di Caltanissetta della suddetta nota del Sisde relativa allo Scarantino, quest’ultimo era stato destinatario di una intensa attività investigativa.

Il falso mescolato assieme a un po’ di vero  La sentenza riserva una parte delle motivazioni anche a quelle dichiarazioni dello Scarantino che, “pur essendo sicuramente inattendibili, contengono elementi di verità”. “Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di ‘collaborare’ con la giustizia, in data 24 giugno 1994 – scrivono i giudici – lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell’accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto”. Ebbene tutte queste circostanze sono “del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage”. Queste circostanze, che saranno anche raccontate da Gaspare Spatuzza (l’ex boss di Brancaccio che si è autoaccusato del furto dell’auto, ndr), come potevano essere note dai cosiddetti suggeritori? Secondo i giudici “E’ del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte”.

Il depistaggio Scarantino  Quel depistaggio, costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti poi scarcerati e scagionati nel processo di revisione, viene indicato dalla Corte come “un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”.  Proprio sul gruppo degli investigatori dell’epoca, guidato da Arnaldo La Barbera (deceduto), vengono accesi i riflettori. Secondo i giudici sarebbero stati loro a indirizzare l’inchiesta costruendo i falsi pentiti e la motivazione non si sarebbe celata dietro un’ansia di ottenere risultati nella ricerca dei responsabili del delitto del 19 luglio 1992. Scarantino viene descritto come “un soggetto psicologicamente debole che era rimasto per un lungo periodo di tempo (quasi un anno e nove mesi) in stato di custodia cautelare proprio a seguito delle false dichiarazioni rese dal Candura sul suo conto, ed era stato, nel frattempo, oggetto di ulteriori propalazioni, parimenti false, da parte dell’Andriotta, il quale millantava di avere ricevuto le sue confidenze durante la co-detenzione. Egli quindi, come ha evidenziato il Pubblico Ministero, aveva ‘maturato la convinzione che gli inquirenti lo avessero ormai ‘incastrato’ sulla scorta di false prove'”. Secondo la Corte dopo un lungo periodo nel quale lo Scarantino aveva professato inutilmente la propria innocenza, le sue residue capacità di reazione vennero infine meno a fronte dell’insorgenza del proposito criminoso portato avanti da quegli investigatori.  Così furono compiute “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”. “Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana” e “soggetti inseriti negli apparati dello Stato” indussero il balordo della Guadagna, Vincenzo Scarantino, a rendere false dichiarazioni sulla strage che, cinquantasette giorni dopo “l’Attentatuni di Capaci”, uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. E’ questo uno dei passaggi centrali delle motivazioni della sentenza del cosiddetto Borsellino quater che, a distanza di un anno e due mesi dalla pronuncia del dispositivo, è stata depositata dai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta.


BORSELLINO QUATER – stralci di sentenza  alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra “Cosa Nostra” e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato.
In proposito, va osservato che un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino è sicuramente desumibile dalla identità di taluno dei protagonisti di entrambe le vicende: si è già sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, dal Dott. Arnaldo La Barbera, il quale è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre. 
L’indagine sulle reali finalità del depistaggio non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario – cheportò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione – rivelatasi poi infondata – che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone e lui più vicine nel periodo che precedette la strage di Via D’Amelio. Vanno richiamati, al riguardo, gli elementi probatori già analizzati nel capitolo VI. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, «chenon sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, (…) ma sarebbero stati i suoi colleghi edaltri a permettere che ciò potesse accadere», e la drammatica percezione, da parte del Magistrato, dell’esistenza di un «colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato». Occorre, altresì, tenere conto degli approfonditi rilievi formulati nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”) secondo cui «risulta quanto meno provato che la morte di Paolo BORSELLINO non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica. (…) E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come BORSELLINO avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con COSA NOSTRA e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o di sue componenti politiche». Questa Corte ritiene quindi doveroso, in considerazione di quanto è stato accertato sull’attività di determinazione realizzata nei confronti dello Scarantino, del complesso contesto in cui essa viene a collocarsi, e delle ulteriori condotte delittuose emerse nel corso dell’istruttoria dibattimentale (tra cui proprio quella della sottrazione dell’agenda rossa), di disporre la trasmissione al Pubblico ministero, per le eventuali determinazioni di sua competenza, dei verbali di tutte le udienze dibattimentali, le quali possono contenere elementi rilevanti per la difficile ma fondamentale opera di ricerca della verità nella quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta è impegnata. ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti difondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci; alla copertura della presenza di fonti rimaste occulte, che viene evidenziata dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee alloro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà; (…) Va quindi sottolineata la particolare pervicacia e continuità dell’attività di determinazione dello Scarantino a rendere false dichiarazioni accusatorie, con la elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi sulla strage di Via D’Amelio, così producendo drammatiche conseguenze sulla libertà e sulla vita delle persone incolpate. Poiché l’attività di determinazione così accertata ha consentito di realizzare uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:


AUDIO UDIENZE


20.4.2017 – Mafia, Processo “Borsellino quater”: ergastolo a Madonia e Tutino 

 

La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, dopo quasi undici ore di camera di consiglio ha emesso la sentenza del processo “Borsellino quater”. Ergastolo per Salvuccio Madonia e Vittorio Tutino, entrambi accusati di strage. Dieci anni ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci, chiamati a rispondere di calunnia per le false dichiarazioni rese all’inizio delle indagini. “Non doversi a procedere” per Vincenzo Scarantino, per il quale e’ stata richiamata la prescrizione.
Confermata la richiesta dell’accusa, dunque, per i due principali imputati; per Scarantino invece la Procura aveva chiesto 8 anni e sei mesi, mentre per Andriotta e Pulci 14 anni di reclusione ciascuno.
Madonia e Tutino dovranno risarcire 500.000 euro alle parti civili, tra cui i figli di Paolo Borsellino, Lucia, Manfredi e Fiammetta. Presenti, tra gli altri, il procuratore Amedeo Bertone e l’aggiunto Lia Sava, al centro nei giorni scorsi di un caso inquietante, con una misteriosa incursione nel suo ufficio al Palazzo di giustizia.
Mafia: sentenza Borsellino, Scarantino manovrato, atti a procura
Vincenzo Scarantino indotto nel suo falso pentimento. E trasmissione degli atti in procura per accertare chi lo abbia spinto in questa direzione e a rendere quelle dichiarazioni che hanno deviato i primi tre processi. E’ uno degli aspetti della sentenza del “Borsellino quater” che stasera a Caltanissetta ha condannato all’ergastolo due boss, a 10 anni due falsi pentiti e deciso il non luogo a procedere per il terzo, Scarantino, il ‘picciotto della Guadagna’, per intervenuta prescrizione. Un elemento che conferma lo scenario del depistaggio. “La sentenza – commenta l’avvocato Giuseppe Scozzola, difensore di parte civile di Gaetano Scotto – conferma con la concessione dell’attenuante a Vincenzo Scarantino, e cioe’ che e’ stato indotto nel suo falso pentimento, quanto i difensori non solo in questo processo ma essenzialmente nei due precedenti, hanno sempre sostenuto e cioe’ che Scarantino non solo raccontava fatti non vissuti, ma che in cio’ era stato indotto. Sara’ compito della Procura con la trasmissione degli atti ad accertare i soggetti che hanno tenuto questa condotta”.

Mafia: sentenza Borsellino; parti civili, strage di apparati Stato

“Alcune di queste ombre sono state illuminate in questo dibattimento. Mi auguro ora che la Procura faccia chiarezza sui punti oscuri. La strage di via d’Amelio non e’ stata solo una strage di mafia ma e’ stata anche una strage in cui hanno partecipato apparati dello Stato”. Lo ha detto l’avvocato Fabio Repici, difensore di parte civile di Salvatore Borsellino, a margine della sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, sul quarto processo per l’attentato di via d’Amelio.

Mafia: sentenza Borsellino, Procuratore “ora nuove indagini”

“Siamo ovviamente soddisfatti perche’ l’esito di questo processo non e’ un risultato soltanto per l’ufficio che rappresento, ma anche per i familiari delle vittime. Non so, se esattamente ci sara’ un altro processo, ma ci sono dei punti che devono essere ulteriormente sviluppati”. E’ quanto ha detto il procuratore capo di Caltanissetta Amedeo Bertone dopo la sentenza sul Borsellino quater. “Certamente l’esito del processo e gli ulteriori spunti emersi durante il dibattimento devono offrire l’occasione per ulteriori approfondimenti”, ha aggiunto. Bertone a proposito delle sette persone condannate ingiustamente ha detto che “una riflessione su quanto e’ successo l’abbiamo gia’ fatta nel corso del processo e della requisitoria. C’e’ stata una combinazione di elementi che hanno favorito questo risultato infausto che non fa onore alla storia, alla giustizia, alla memoria di coloro che sono rimasti vittime della strage. L’importante e’ sapere reagire, ricucire. Gli uffici della Procura di Caltanissetta hanno lavorato sulle nuove dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina per evitare che si commettessero gli stessi errori fatti in passato”. LA SPIA


BORSELLINO QUATER – L’arringa finale dell’avvocato di parte civile Fabio Repici