15.11.2023 VATICANO NEWS
La risposta del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvata dal Papa, risponde alla richiesta di un vescovo filippino: ribadita l’inconciliabilità tra l’adesione alle logge e la fede cattolica
Ai cattolici rimane proibito aderire alla massoneria. Lo ribadisce la risposta del Dicastero per la Dottrina della Fede datata 13 novembre 2023, a firma del prefetto Victor Fernandéz e con l’approvazione di Papa Francesco. Il dicastero ha risposto alla richiesta di monsignor Julito Cortes, vescovo di Dumanguete nelle Filippine. Cortes, «dopo aver illustrato con preoccupazione la situazione della sua diocesi, a causa del continuo aumento di fedeli iscritti alla massoneria, ha chiesto suggerimenti per fronteggiare adeguatamente tale realtà dal punto di vista pastorale, tenendo conto anche delle implicazioni dottrinali».
Per rispondere alla domanda, il dicastero ha deciso di rispondere coinvolgendo anche la Conferenza episcopale delle Filippine, «notificando che sarebbe necessario mettere in atto una strategia coordinata tra i singoli vescovi che preveda due approcci».
Il primo riguarda il piano dottrinale: il dicastero ribadisce che «l’iscrizione attiva alla massoneria da parte di un fedele è proibita, a causa dell’inconciliabilità tra dottrina cattolica e massoneria (cf. la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1983, e le stesse Linee guida pubblicate dalla Conferenza episcopale del 2003)».
Pertanto, chiarisce la nota, «coloro che formalmente e consapevolmente sono iscritti a logge massoniche e hanno abbracciato i princìpi massonici, ricadono sotto le disposizioni presenti nella succitata Dichiarazione. Queste misure si applicano anche agli eventuali ecclesiastici iscritti alla massoneria».
Il secondo approccio riguarda il piano pastorale: il dicastero propone ai vescovi filippini «di svolgere una catechesi popolare in tutte le parrocchie, riguardo alle ragioni dell’inconciliabilità tra fede cattolica e massoneria». I vescovi delle Filippine vengono infine invitati a valutare l’opportunità di un loro pubblico pronunciamento su questo argomento.
La Dichiarazione del novembre 1983, era stata pubblicata alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo Codice di Diritto canonico. Il Codice sostituiva quello del 1917 e tra le novità era stata notata – da alcuni con soddisfazione, da altri con preoccupazione – l’assenza della condanna esplicita della massoneria e la scomunica per i suoi affiliati che era invece presente nel vecchio testo. La Dichiarazione, firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e dal segretario della Congregazione Jérôme Hamer, approvata da Giovanni Paolo II, ribadiva che i cattolici iscritti alle logge massoniche sono «in stato di peccato grave».
La particolare vocazione delle mafie italiane a intrecciare relazioni con coloro che detengono potere politico, economico, professionale e istituzionale, è dimostrato dal particolare rapporto che esse hanno stabilito negli ultimi decenni con alcune logge massoniche che rappresentano appieno il lato segreto (o opaco) di questi poteri. Anche nella copertura della lunga latitanza di Matteo Messina Denaro è emerso evidente un ruolo di alcuni esponenti della massoneria, così come in tante altre vicende di mafia, in Sicilia, in Calabria, in Campania e in altre parti d’Italia. A Castelvetrano, luogo di nascita del boss, nel 2017 fu sciolto il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose e ben 4 assessori risultarono iscritti a logge massoniche. All’epoca in provincia di Trapani erano in funzione 19 logge, di cui 6 proprio a Castelvetrano. E nel comune dove il boss risiedeva prima dell’arresto, Campobello di Mazara, sono attive due logge massoniche. Nelle zone di mafia, infatti, si riscontra una presenza massiccia di logge massoniche che non può essere casuale.
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11.11.2023 “Ho lasciato la massoneria perché ha troppe oscurità, anche sulla mafia”: parla l’ex vicecapo del Goi
L’ex Gran Maestro aggiunto del Grande Oriente d’Italia spiega a Fanpage.it le troppe oscurità della massoneria in Italia, soprattutto in tema di lotta alla mafia, e perché ora auspica un cambiamento, anche se lui ha deciso di uscirne.
Claudio Bonvecchi è entrato nel Grande Oriente d’Italia nel 1991. Nel corso del tempo è diventato Maestro Venerabile, rappresentante presso gli Stati esteri, poi Grande Oratore e, infine, Gran Maestro Aggiunto. In sostanza è stato il vicecapo della massoneria italiana, fino al novembre del 2022, quando ha deciso di lasciare completamente l’organizzazione e, il giorno dopo, è stato espulso. In un’intervista a Fanpage.it spiega perché ha deciso di lasciare la loggia italiana della massoneria: “Già da almeno un anno, un anno e mezzo prima, mi ero accorto che c’erano delle cose che non funzionavano“.
“Mi ero accorto anche – spiega – che il GOI non faceva quello che doveva fare, perché lei avrà capito che una struttura di questo genere non può solo chiudersi nelle sue logge, deve anche intervenire nella vita sociale e dire quello che cosa pensa, se vuole il perfezionamento degli uomini”.
I silenzi della massoneria sulla mafia
Secondo quanto racconta a Fanpage.it, uno degli aspetti che attualmente ha meno convinto Claudio Bonvecchi della massoneria italiana è il suo modo di approcciare al fenomeno mafioso: “Se io avessi le prove che c’è un filo diretto, andrei in Procura. Non avendole non posso dire niente. Però cito le tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo. Ci si limita a quei provvedimenti di routine, mentre io credo che, visto che più ci sono dati più di un caso in cui sono emersi delle connivenze, magari locali, magari note note da tempo, una precisazione maggiore ci vuole”.
Secondo l’ex Gran Maestro aggiunto, invece, “bisognerebbe cercare di parlare con lo Stato per trovare un accordo in maniera tale che questa associazione, che nel passato (vedi la P2) ma anche adesso, ha dato dei problemi abbia protocolli chiari a cui attenersi. Sennò c’è il rischio è di trovare sempre un mondo separato con conseguenze di ogni tipo“.
Ma poi ci vuole “una chiara definizione di lotta alla mafia all’infiltrazione mafiosa, che ci può essere. I nomi non devono essere riservati. Come cittadino, io penso che i nomi di tutti gli iscritti dovrebbero essere consegnati al procuratore generale della Cassazione”.
Infine “ci vuole chiarezza sul fatto che quelle che sono le regole comportamentali all’interno hanno un valore interno al GOI, ma quelle che ostano con le leggi dello Stato evidentemente non possono essere seguite”.
Il mancato riconoscimento dello Stato
Bonvecchi poi si concentra sul fatto che il Grande Oriente d’Italia non abbia mai chiesto il riconoscimento allo Stato italiano, una formula prevista per le associazioni ma che secondo lui – in virtù del numero di associati (circa 23mila in tutto il Paese) e degli scandali che in passato l’hanno colpita – non è coerente con la massoneria.
“Io – racconta – più di una volta ho fatto presente alla giunta di provare questa strada. Addirittura avevo proposto di chiedere una specie di concordato con lo Stato. In questo modo quando uno entra sa che entra in un luogo che è soggetto, non solo a parole, alle leggi dello Stato”.
“Altrimenti – spiega Bonvecchi – chiunque può formare una loggia massonica, poi cosa decide sono fatti suoi. Se decide di fare traffico di armi, nessuno glielo vieta, se non le leggi dello Stato. Però non è stato mai nemmeno tentato questo approccio. Perché? Perché in fondo, forse fa più comodo a tanti che le cose restano così in questa nebulosa rotante in cui poi tutto è possibile”.
A maggior ragione se poi “è stata fatta una circolare, firmata dal Gran Segretario e avvalorata però dalla Giunta, in cui si ribadisce che le leggi interne della massoneria hanno la prevalenza sulle leggi dello Stato. Nemmeno la P2 aveva osato fare tanto. Io mi meraviglio che la magistratura, che in Italia è così attenta anche al minimo frusciare di foglia, non si sia preoccupata di un attentato che non è solo alla normativa ma anche alla Costituzione della Repubblica”, conclude l’ex Gran Maestro aggiunto che, per questo, ora auspica un cambiamento all’interno del Grande Oriente d’Italia.
7.7.2023 Cassazione: mafia e massoneria, 6 condanne definitive
Disposto nuovo processo d’appello per altri quattro imputati
I giudici hanno annullato le condanne nei confronti di Lucio Lutri, originario di Mistretta, 64 anni, funzionario regionale gran maestro della massoneria, e Angelo Lauria, 49 anni, farmacista di Licata. Entrambi erano stati condannati in appello a 8 anni di reclusione e sono stati adesso scarcerati. Lutri è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Condanne annullate (ma solo limitatamente alla quantificazione della pena) anche per Raimondo Semprevivo, 51 anni, presunto braccio destro del boss Angelo Occhipinti, 69 anni, e per Giuseppe Puleri, 43 anni, ritenuto membro della famiglia mafiosa di Campobello di Licata: la pena andrà ricalcolata tenendo conto delle attenuanti generiche. Diventano, invece, definitive 6 condanne: 20 anni e 4 mesi ad Angelo Occhipinti, ritenuto il nuovo boss di Licata; 8 anni a Vito Lauria, 53enne tecnico informatico, massone, figlio del boss Giovanni (alias “u prufissuri”); Angelo Graci; 35 anni, 2 anni e 6 mesi di reclusione per favoreggiamento personale aggravato; 8 anni e 10 mesi di reclusione a Giovanni Mugnos, bracciante, 56 anni, ritenuto “l’alter ego” del boss Giovanni Lauria; 2 anni e 4 mesi, invece, per l’elettrauto Marco Massaro, 38 anni, accusato di favoreggiamento aggravato per avere rivelato a Mugnos dell’esistenza di microspie all’interno della sua auto. Nell’inchiesta era rimasto coinvolto anche l’ex consigliere di Licata, Giuseppe Scozzari, condannato e arrestato alcune settimane fa in seguito alla condanna definitiva a 5 anni per scambio elettorale politico mafioso. (ANSA).
27.1.2023 Le logge dei padrini. Intervista a Piera Amendola
Cosa sono le logge coperte e quanto è diffusa la presenza mafiosa in questo ambito? Ne parliamo con Piera Amendola, studiosa della massoneria e autrice di un libro, edito da Castelvecchi: Padri e Padrini delle logge invisibili
Dottoressa Amendola, lei è una studiosa della massoneria italiana. Nei giorni scorsi, subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro (d’ora in poi MMD ndr), l’ex magistrata Teresa Principato ha affermato che il latitante avrebbe contato su una rete di coperture e di aiuti da parte della massoneria, in Italia e all’estero, citando in particolare il Venezuela e l’Inghilterra. Che pensa di questa affermazione?
Le indagini scattate subito dopo la cattura di MMD, alias Andrea Bonafede, stanno portando alla luce una rete di fiancheggiatori, persone che, a partire dal medico Alfonso Tumbarello, sono affiliate a logge massoniche regolari. Probabilmente non a caso MMD ha scelto Campobello di Mazara e il trapanese, come prima di lui hanno fatto altri boss mafiosi, per vivere tranquillamente, a viso scoperto, da latitante. In quella cittadina, infatti, e in quella provincia, la presenza di logge massoniche è abnorme. Tumbarello è stato immediatamente sospeso dal GOI dal gran maestro Bisi. Stiamo dunque parlando di logge regolari, alle quali dovremmo aggiungere quelle che non lo sono: le logge coperte, invisibili. La dottoressa Principato ha anche parlato della rivelazione fatta da un collaboratore di giustizia, secondo il quale MMD sarebbe stato egli stesso massone ed avrebbe costituito una propria loggia, denominata “La Sicilia”. Quest’ultima affermazione non mi stupisce: anche i precedenti capi di Cosa Nostra, Stefano Bontate e Totò Riina, massoni, avrebbero creato, stando alle dichiarazioni rese da attendibilissimi collaboratori di giustizia, organizzazioni massoniche autonome, denominate “Loggia dei Trecento” (Bontate) e “Terzo Oriente” (Riina). Quanto al Venezuela, paese nel quale MMD poteva contare sull’appoggio di famiglie mafiose (Cuntrera e Caruana), posso dire che il Venezuela è stato un punto di riferimento strategico per Cosa Nostra anche dal punto di vista massonico. Il gran maestro del Venezuela Popper, giova ricordarlo, fu accolto in pompa magna a Palermo da Giuseppe Mandalari, mafioso, il commercialista di Totò Riina che aveva fondato alla fine degli anni ’70 una obbedienza denominata “Accademia di Alta Cultura” nella quale aveva accolto le logge coperte trapanesi di Giovanni Grimaudo, quelle che celavano la propria attività all’ombra del Circolo culturale Scontrino, in via Carreca.
Quante sono le logge in Italia?
Se ci riferiamo alle logge che dipendono dalle tre uniche comunioni massoniche regolari (Grande Oriente d’Italia, Gran Loggia d’Italia degli ALAM e Gran Loggia Regolare d’Italia), sono circa 1.500. Il numero diventerebbe ben più alto se includessimo anche le logge irregolari, segrete, coperte, quelle che nel mio libro chiamo “invisibili”. Pensi che in Italia operano più di 200 obbedienze massoniche irregolari.
Quale è la differenza tra massoneria regolare e irregolare?
Per entrare a far parte della famiglia massonica internazionale, una Gran Loggia (da cui dipendono tutte le logge di un determinato territorio), deve possedere tre requisiti fondamentali: regolarità, legittimità, riconoscimenti internazionali. Sintetizzando al massimo, deve lavorare nel rispetto degli “Antichi principi e doveri”, ovvero delle Costituzioni di Anderson del 1723 (la massoneria è nata in Inghilterra), la prima carta regolamentare massonica, aggiornata nel 1929 con il contributo della massoneria americana. La Gran Loggia deve essere costituita in modo regolare, dotarsi di una Costituzione e di un Regolamento, solo così potrà ottenere il riconoscimento internazionale delle massonerie che contano (Gran Loggia Unita d’Inghilterra, Grandi Logge americane, Supremi Consigli del Rito Scozzese Antico ed Accettato americani, massoneria francese). Nella massoneria coperta o deviata tutto ciò, ovviamente, non esiste.
Quali sono le regioni con più logge?
La Toscana, il Piemonte e la Sicilia. Se parliamo di massoneria regolare, la regione con il più alto rapporto tra iscritti a logge e popolazione, è la Toscana, ma seguono a ruota l’Umbria e la Calabria. Se parliamo di massoneria irregolare, assegnerei il primo posto alla Calabria, il secondo alla Sicilia.
Come è la situazione in Calabria e Sicilia?
In queste regioni opera un numero imprecisato di logge massoniche occulte, alle quali dobbiamo aggiungere associazioni paramassoniche ed Ordini cavallereschi deviati ed irregolari. La situazione diventa ancor più complessa quando logge regolari si dotano di un doppio piedilista: uno ufficiale e uno segreto, o quando la casa madre delle logge, come nel caso della Gran Loggia dei Garibaldini, che ha una importante loggia a Vibo Valentia, si trova a San Marino, uno dei territori più ambiti dalla massoneria occulta italiana.
Allarghiamo un po’ lo sguardo, come si è sviluppato, nel tempo, il rapporto tra logge occulte e mafie?
Prima della metà degli anni ’70, gli ingressi di soggetti mafiosi nelle logge, anche regolari, erano per lo più dettati dal desiderio di raggiungere una sorta di promozione sociale, stabilendo rapporti con la migliore borghesia cittadina: professionisti, imprenditori, magistrati, avvocati, amministratori pubblici, politici. Per quanto riguarda Cosa Nostra, la situazione cambiò radicalmente nel 1977, quando, come hanno concordemente raccontato più collaboratori di giustizia del calibro di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, una potente loggia massonica coperta propose l’affiliazione dei principali esponenti delle famiglie mafiose. I vertici dell’organizzazione, dopo aver discusso e riflettuto, accettarono (non tutti) la proposta. Ed è così che inizia il processo di ingresso nelle logge occulte. E’ così che nasce un’alleanza, un patto, tra mafia e massoneria. La stessa identica cosa accadde in Calabria, qualche anno prima, intorno alla metà degli anni ’70, quando la ‘Ndrangheta dette vita ad un nuovo grado, quello della “Santa”, appositamente concepito per accogliere i capi bastone che avevano raggiunto, in massoneria, il più alto grado, ovvero il 33°. Il sodalizio masso-mafioso, in Calabria, si caratterizzò per la presenza di una terza componente: elementi della destra eversiva.
Per quale motivo boss mafiosi come Bontate, Riina, e forse MMD, avrebbero costituito proprie logge o obbedienze?
Per poterle direttamente gestire, saltando ogni mediazione con altri massoni. Non dobbiamo dimenticare che lo status di massone equivale ad avere in tasca un passaporto per intrecciare rapporti con la massoneria di tutto il mondo. Questo sul piano internazionale. Per quanto riguarda i vantaggi sul territorio, superfluo precisare che le logge coperte di cui parliamo non sono logge di soli mafiosi. Non servirebbero a niente. Come tutte le logge coperte che si rispettano, sono a composizione mista. Basti pensare alla P2, al già citato CAMEA, alle logge coperte periferiche della Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù, portate alla luce dalla Commissione P2. Tra queste, la “Armando Diaz” di Palermo. Quando il giudice Falcone ne sequestrò nel 1986 l’elenco, insieme a quelli delle altre logge siciliane della Gran Loggia d’Italia, scoprì che non vi erano solo alcuni mafiosi eccellenti, ma anche esponenti di spicco della migliore borghesia palermitana e siciliana.
La P2 ha avuto rapporti con le mafie?
Diretti con la ‘Ndrangheta, attraverso piduisti calabresi come Carmelo Cortese ed altri soggetti emersi nelle più recenti inchieste del procuratore Gratteri e del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Lombardo. Licio Gelli, inoltre, sviluppa tutta una serie di rapporti con le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita) nella cosiddetta “stagione delle leghe”, negli anni in cui mafie, massonerie e destra eversiva danno vita, soprattutto nel Mezzogiorno, a molteplici Leghe, nell’ambito di una condivisa strategia di attacco allo Stato. Siamo dunque nel triennio 1991 – ’93. Possiamo inoltre ricordare i rapporti tra loggia P2 e Banda della Magliana, a sua volta collegata con Pippo Calò, “il cassiere” di Cosa Nostra. Ma le novità più inquietanti sono quelle emerse nel procedimento “Sistemi criminali” della DDA di Palermo, dove sono state raccolte testimonianze sui rapporti tra Gelli e Bontate, tra loggia P2 e “Loggia dei Trecento”, tra P2 e “CAMEA” (Centro Attività Massoniche Esoteriche Accettate), l’Obbedienza che aiutò Sindona durante la sua permanenza in Sicilia nell’estate del ’79, quando il banchiere cercò invano di accreditare di essere stato sequestrato da un fantomatico gruppo rivoluzionario.
Secondo lei come si sono comportate le Obbedienze massoniche regolari del nostro paese nei confronti del pericolo, più volte segnalato dalla Commissione Antimafia, di infiltrazioni mafiose?
Più che di un pericolo, possiamo parlare di una certezza. Svariate logge sono state infatti “demolite” nel corso degli anni adducendo motivazioni anche stravaganti, quando in realtà il vero problema era quello della presenza in queste logge, e del loro controllo, da parte di soggetti mafiosi. Le obbedienze regolari avrebbero dovuto e potuto fare molto di più. Finora non lo hanno fatto, ma sono ancora in tempo per intervenire, sottoscrivere una sorta di “protocollo” antimafia in difesa dei massoni onesti. E sollevare il problema della indiscriminata utilizzazione, da parte di associazioni di fatto costituite, del termine “massoneria”, quasi sempre usurpato.
Lei ha scritto un libro sulle alleanze tra mafie e logge coperte (“Padri e padrini delle logge invisibili”, Castelvecchi), dove parla molto del principe Giovanni Alliata di Montereale. Chi era?
Ho raccontato la storia del principe dallo sbarco degli alleati in Sicilia fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1994, quando si trovava agli arresti domiciliari disposti dalla procura di Palmi nell’ambito dell’inchiesta sulle deviazioni della massoneria, perché è un uomo simbolo della destra eversiva (inchieste sulla strage di Portella della Ginestra, sul golpe Borghese e sulla Rosa dei Venti), della mafia (affiliato in modo “riservato” alla famiglia mafiosa di Brancaccio) e della massoneria occulta (affiliato alla loggia P2 e poi punto di riferimento della massoneria coperta siciliana). Era inoltre un maniacale anticomunista, legato ad una rete internazionale. Alliata mi ha consentito dunque di esplorare le tre componenti fondamentali del sistema criminale italiano: mafia, massoneria deviata, destra eversiva.
Piera Amendola è stata documentarista della Camera dei deputati e, dal 1981 al 1988, responsabile dell’archivio della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2, divenendo una delle più strette collaboratrici dell’onorevole Tina Anselmi. Ha diretto l’archivio degli atti giudiziari dell’Alto Commissariato per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa e ha collaborato con la Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi. Nell’XI legislatura ha diretto l’archivio della Commissione parlamentare antimafia presieduta dall’onorevole Luciano Violante. È stata consulente delle procure della Repubblica di Palermo, Napoli, Brescia, Aosta e Perugia. Attualmente è consulente dell’Avvocatura Generale dello Stato di Bologna e fa parte del consiglio direttivo dell’Archivio Flamigni.
20.1.2023 L’alfabeto delle mafie: “M” come massoneria
La particolare vocazione delle mafie italiane a intrecciare relazioni con coloro che detengono potere politico, economico, professionale e istituzionale, è dimostrato dal particolare rapporto che esse hanno stabilito negli ultimi decenni con alcune logge massoniche che rappresentano appieno il lato segreto (o opaco) di questi poteri. Anche nella copertura della lunga latitanza di Matteo Messina Denaro è emerso evidente un ruolo di alcuni esponenti della massoneria, così come in tante altre vicende di mafia, in Sicilia, in Calabria, in Campania e in altre parti d’Italia. A Castelvetrano, luogo di nascita del boss, nel 2017 fu sciolto il consiglio comunale per infiltrazioni mafiose e ben 4 assessori risultarono iscritti a logge massoniche. All’epoca in provincia di Trapani erano in funzione 19 logge, di cui 6 proprio a Castelvetrano. E nel comune dove il boss risiedeva prima dell’arresto, Campobello di Mazara, sono attive due logge massoniche. Nelle zone di mafia, infatti, si riscontra una presenza massiccia di logge massoniche che non può essere casuale.
I riscontri giudiziari ormai sono tali e tanti che risulta evidente un’alleanza strategica tra molte logge massoniche e le tre principali criminalità mafiose italiane dagli anni Settanta in poi del Novecento. L’alleanza è stata segnalata in alcune relazioni delle Commissioni parlamentari antimafia, a partire da quella del dicembre 2017 promossa dalla presidente Rosy Bindi, che ha definito un tale connubio come una specie di “camera di compensazione di affari”, per consentire rapide carriere, per influenzare i giudici nelle sentenze, per aggiudicarsi appalti, per fare raccomandazioni e segnalazioni a favore di propri uomini. Nella relazione finale della Commissione parlamentare antimafia presieduta dal sen. Nicola Morra (2022) si segnala che “sia in Val d’Aosta, sia in Calabria, sia nella provincia di Trapani, alcune operazioni promosse dalla magistratura hanno disvelato l’intenzione, da parte di consorterie mafiose, di avvalersi della trama relazionale posta in essere dall’appartenenza alla loggia massonica per poter favorire disegni criminali “. Ultimamente un libro di Piera Amendola (Padri e padrini delle logge invisibili, edito da Castelvecchi) ha aperto uno squarcio documentatissimo sull’intreccio mafie e logge massoniche, a partire dal ruolo avuto dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale (detto Gianfranco), uno dei protagonisti della massoneria italiana di varie “obbedienze”, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Brancaccio, tessitore di tante trame oscure, soprattutto dei legami tra massoneria, destra eversiva, servizi segreti e capi mafia. Il principe Alliata fu accusato di essere uno dei mandanti della strage di Portella della Ginestra nel 1947. Fu sempre lui a presentare il finanziere Michele Sindona ai capi della mafia siciliana facendolo diventare un punto di riferimento per il riciclaggio dei capitali mafiosi derivanti dal traffico di eroina.
Com’è possibile essere massone e mafioso?
Come sia potuto accadere che un’organizzazione protagonista positiva dell’Unità d’Italia (perché di questo parliamo quando usiamo il termine massoneria) si confonda oggi con il problema mafioso e, negli ultimi decenni, con i principali eventi della “strategia della tensione” (con legami inossidabili con i servizi segreti deviati e con il terrorismo di destra) è questione che merita una riflessione seria. Un esito del genere, cioè una società segreta di nobili intenti, dedita a compiti di emancipazione dal potere, sia diventata nel tempo il reticolo più consistente di copertura e di aperto sostegno a fenomeni criminali (e di sovversivismo delle istituzioni) è questione politica e storica non banale e non trascurabile. In nessun’altra nazione dove sono presenti logge massoniche si è verificato un rapporto così stretto con forze apertamente criminali come in Italia. Il che dimostra come le mafie italiane abbiano una particolare vocazione a intessere relazioni con settori delle classi dirigenti (le logge massoniche sono formate da avvocati, insegnanti, commercialisti, architetti, notai, impiegati di banche, imprenditori, dipendenti pubblici, ecc. nonché da esponenti della magistratura e delle forze di sicurezza, quali carabinieri, finanzieri, membri dell’Esercito e anche della polizia); al tempo stesso impressiona come la massoneria italiana si sia mostrata così facilmente “penetrabile” da forze criminali.
Non è strano in Sicilia e in Calabria, né inusuale (anzi in alcuni luoghi sembra essere quasi la norma) che una persona sia allo stesso tempo massone e mafioso. Proprio per questi motivi, il magistrato Turone aveva coniato l’espressione “masso-mafie” a proposito delle interconnessioni accertate durante le indagini sulla P2, l’organizzazione massonica deviata messa in piedi da Licio Gelli.
Le mafie all’inizio copiano le sette massoniche e carbonare
Quando si parla di relazioni tra massoneria e mafie occorre distinguere due problematiche. Una riguarda l’origine delle mafie italiane che indubbiamente copiarono al loro nascere il modello organizzativo delle sette massoniche e carbonare, come vedremo. Questa diretta filiazione ottocentesca del modello organizzativo delle mafie da quello settario massonico e carbonaro non comportò, comunque, legami stretti tra i due fenomeni: i mafiosi presero sì in prestito i riti e gli statuti della massoneria (di cui ebbero conoscenza in carcere) ma senza che ciò comportasse un’alleanza organica o una reciproca contaminazione. La prima a farlo fu la camorra napoletana, il cui statuto è di diretta derivazione dalle regole massoniche. E in seguito la mafia siciliana e la ‘ndrangheta, che a loro volta copiarono le regole della camorra. La composizione sociale dei due fenomeni settari era diversa, con un prevalere della componente aristocratico-alto borghese nella massoneria e nella carboneria e di quella popolare nelle mafie, così come diverse erano le reciproche finalità. Poi il prevalere nella massoneria, soprattutto nel Secondo dopoguerra e per influenza statunitense, di uno spiccato orientamento anticomunista, ha consentito di farne uno strumento della strategia contro il pericolo “rosso” mischiandosi in Italia con tutti i centri di potere che per varie ragioni condividevano la finalità di bloccare a ogni costo l’accesso dei comunisti al governo di un paese occidentale.
E sulla base di questo assunto molte logge massoniche ebbero stretti legami con Gladio (l’organizzazione paramilitare promossa dalla Cia), con i servizi segreti italiani e con l’estrema destra stragista. Fino a organizzare con Licio Gelli, e prima di lui con Julio Borghese e con il generale Giovanni De Lorenzo, dei colpi di Stato o dei cambiamenti all’interno dello Stato in grado di bloccare qualsiasi innovazione politica che prevedesse un dialogo con il Pci. La massoneria (che per comodità chiameremo “deviata”) divenne così un’artefice di primo piano della strategia della tensione, con attentati, stragi e tentativi di colpi di Stato che hanno contrassegnato la nostra storia degli ultimi settant’anni. E proprio assegnandosi questo ruolo di avanguardia dell’anticomunismo e della difesa dell’Occidente nei confronti del pericolo rappresentato dall’Urss e dalla Cina che anche il rapporto con le mafie veniva accettato e ricercato. Fu proprio nell’immediato Secondo dopoguerra che i massoni italiani sottoscrissero la dichiarazione dei principi adottata dalla Conferenza dei Grandi maestri americani: “La massoneria aborre il comunismo come ripugnante alla sua coscienza della dignità della personalità individuale, distruttivo dei diritti fondamentali che sono la Divina eredità di tutti gli uomini e nemico della dottrina massonica fondamentale della fede in Dio”.
Segretezza e potere
Quindi, dobbiamo distinguere nettamente le due fasi: nella prima il rapporto tra massoneria e mafia consistette solo nel condividere un modello organizzativo e di gestione segreta del potere senza significativi intrecci di interessi; nella seconda, dal dopoguerra in poi, i due mondi si sono mischiati e intrecciati facendo parte di una comune strategia di difesa contro il pericolo comunista, diventato un’ossessione strategica. La massoneria è sembrata ai mafiosi il luogo per eccellenza per coltivare relazioni con coloro che avrebbero potuto aiutarli a garantirsi impunità dalla legge (soprattutto quando importanti magistrati ne facevano parte), ampi spazi nell’economia legale e modalità per occultare e riciclare le ricchezze accumulate con il delitto. Il rapporto con le mafie, da questo punto di vista, rappresenta la più evidente trasformazione delle finalità della “fratellanza” massonica: fratelli di interessi e non certo di ideali. La segretezza, coltivata come un valore strategico dalle mafie e dalla massoneria, è diventata una comune modalità di gestire potere, di condividere strategie, di intrecciare relazioni reciprocamente utili. Il potere quando si fa segreto attira e coinvolge altri poteri segreti, anche se violenti. Elias Canetti ha scritto acutamente che “Il segreto sta nel nucleo più interno del potere”. I rapporti mafie e logge massoniche dimostrano che sono le relazioni con coloro che hanno potere ufficiale ad aver determinato il successo storico delle mafie: a nessun bandito o brigante sarebbe stato permesso di entrare in una loggia massonica. Ai mafiosi sì.
Ruolo della massoneria nel regno borbonico
La Massoneria, nata in Inghiletrra nel 1717, arriva nel regno borbonico e negli altri stati preunitari dietro le truppe napoleoniche (anche se la prima loggia si forma a Firenze già nel 1733). Dunque, la sua diffusione fu agevolata dalla conquista francese nel 1806 prima con Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e poi con suo cognato Gioacchino Murat che era gran maestro della massoneria in Francia. Successivamente, dalle logge massoniche si svilupparono altre organizzazioni segrete (la Carboneria ad esempio) con più spiccate caratteristiche anticlericali, di opposizione ai regimi assolutistici ai fini della realizzazione dell’Unità d’Italia. Il regno borbonico fu “il luogo dove le società segrete misero le radici più profionde”, come scrive John Dickie nel libero I liberi muratori. Storia mondiale della massoneria. Fu questo modello di partecipazione politica tramite la segretezza e la ritualità che influenzò sia la camorra, sia la mafia siciliana, sia la ‘ndrangheta.
E sarà proprio nelle carceri che si incontreranno i delinquenti comuni “disorganizzati” e gli aristocratici e borghesi organizzati in quanto oppositori del sistema politico vigente. La violenza si era dimostrata necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici e, quindi, nelle carceri le mafie ne fanno un modello, copiando tutto l’armamentario della massoneria, compresa l’operazione di uso della violenza per scopi “nobili” o di contrapposizione al potere costituito. I delinquenti del popolo si rendono conto che se la violenza è “nobilitata”, cioè se è usata per realizzare “ideali” generosi e altruistici, perde il suo carattere respingente. E così i mafiosi e i camorristi si auto-rappresentano come riparatori di torti, come coloro che tolgono ai ricchi per dare ai poveri o con altre narrazioni dello stesso tipo.
Similitudini tra mafie e massoneria
Le similitudini delle sette segrete con i primi statuti delle mafie sono sorprendenti, in maniera particolare con quello della camorra napoletana, che è la prima mafia a presentarsi sulla scena della storia italiana. È in questa ritualizzazione della violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie.
Nelle “fratellanze” siciliane (il nome con cui erano conosciute le prime mafie) si pagava una quota di iscrizione e si formava un fondo cassa utile per assistere i “fratelli” in momenti di difficoltà. Nello statuto della camorra e nei rituali della ‘ndrangheta si usa spesso la parola “compagno” (“i compagni che stanno alle isole o sottochiave” è scritto nello statuto della camorra, e “il saggio compagno” è l’interlocutore nei rituali della mafia calabrese) così come il “compagno libero muratore” era il secondo grado massonico tra quello di apprendista e quello di maestro. I massoni definiscono la loro struttura “famiglia massonica” e così la descrivono: “La nostra unione è una simbolica famiglia riunita a lavorare per il bene dell’umanità”; e famiglia viene chiamata dai mafiosi siciliani la loro struttura territoriale. I massoni si chiamano fratelli fra di loro, così come allo stesso modo si appellano gli ‘ndranghetisti secondo un codice che si intitola “Giuramento del nuovo Fratello” in cui i presenti alla cerimonia iniziatica vengono chiamati, appunto, fratelli.
Anche il termine omertà deriva dal modello massonico. Esso non corrisponde al significato di “ominità” (“si comporta da uomo colui che non collabora con la legge e si fa giustizia da solo”) come sosteneva il famoso antropologo siciliano Giuseppe Pitrè; non è termine siciliano, non è espressione di virilità e di senso dell’onore di chi non parla, ma deriva da “umirtà”, umiltà, cioè dalle regole dell’obbedienza ai segreti dell’organizzazione dettata dagli statuti della camorra napoletana copiati da quelli della massoneria. La segretezza e il non rivelare niente di ciò che avviene all’interno dell’organizzazione è il principio organizzativo su cui si regge qualsiasi società segreta. Ancora oggi il non rivelare gli argomenti discussi nelle riunioni è un vincolo per un appartenente a una loggia massonica.
Interessante vedere come sia nella camorra sia nella massoneria e nelle sette carbonare ci sia una particolare severità nel punire i traditori. Il massone giura “sotto pena di avere tagliata la gola, strappata la lingua alla radice e il cadavere sepolto sotto la sabbia del mare” qualora dovesse tradire i segreti della setta. Nel cosiddetto Frieno, il primo statuto della camorra risalente al 1842, all’articolo 11 si proclama che “Chiunque sbelisce (rivela) cose della Società sarà severamente punito dalle mamme” (cioè, dai tribunali della camorra). Ancora oggi in alcune logge massoniche si giura con le seguenti parole: “Mi impegno a non palesare giammai i segreti della Libera Muratoria…sotto pena di aver tagliato la gola, strappato il cuore e la lingia, fatto il mio corpo cadavere in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria ed infamia eterna”. Nella nassoneria non si riconoscono le condanne della giustizia dello Stato, al punto che si può essere ammessi anche con gravi precedenti penalialle spalle, perché l’unica giustizia riconosciuta è quella delle logge, come se la massoneria avesse una sua “giuricidità” autonoma da quella statuale. Stesso comportamento seguono le mafie, che si avvalgono di loro “tribunali” per giudicare le “infamità” dei membri. E non va dimenticato che solo nel 1990 il Consiglio superiore della magistratura ha sancito l’incompatibilità della doppia appartenenza per i magistrati.
Mafia, massoneria e affari: 7 arresti fra Licata e Palermo
Inoltre, nello statuto della camorra, al primo articolo, è scritto che “La Società dell’Umiltà o Bella Società Riformata ha per scopo di riunire tutti quei compagni che hanno cuore, allo scopo di potersi, in circostanze speciali, aiutare sia moralmente che materialmente”. Le “circostanze speciali” si riferivano al caso in cui si finiva in galera o si veniva assassinati e si lasciava la famiglia nella miseria. La mutualità criminale sembra anch’essa riprendere una delle regole principali della massoneria. Sempre nello statuto della camorra c’è la divisione tra Società Maggiore e Società Minore, così come nella massoneria. La camorra si presenta, insomma, come una massoneria violenta della plebe. E così la definirà Marc Monnier: “La camorra, che potrebbe definirsi in due parole l’estorsione organizzata, è una specie di frammassoneria popolare costituita nell’interesse del male”. Ma anche la mafia siciliana può essere paragonata alla massoneria secondo il parere di due mafiosi, Nick Gentile e Tommaso Buscetta. Il Gentile scrive nelle sue memorie: “L’onorata società potrei paragonarla, per quanto riguarda l’assistenza ai suoi associati, alla massoneria. Gli associati si chiamano “fratelli e ubbidiscono a un capo da loro eletto”. Nella ‘ndrangheta nella cerimonia di giuramento si dà vita a un dialogo con il nuovo affiliato basato su alcune domande e risposte; è lo stesso meccanismo di domanda e risposta usato nel rito di adesione alla massoneria.
Da quando si stabilisce un rapporto organico tra alcune logge massoniche e le mafie?
In una delle sue ultime interviste Buscetta dichiarò: “Fino al 1980 non ho mai sentito parlare di uomini d’onore massoni, rapporti, certo, che ce n’erano. Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate [una capo mafia siciliano ammazzato nel 1981] era un massone, ad esempio. Nel 1970 per il golpe Borghese sono i massoni che si rivolgono a noi. E Carlo Morano, uomo d’onore, aveva un fratello massone coinvolto nel golpe. Ma parlo di contatti non di identificazione. Se poi mi si chiede: se Cosa nostra ha rapporti con i massoni in logge riservate, questo lo ritengo non possibile ma molto probabile”. Dunque, Buscetta fa risalire alla fine degli anni Settanta del Novecento il rapporto tra mafie e logge massoniche in Sicilia. Piera Amendola indica nel 1977 l’anno della svolta nel rapporto tra massoneria e mafia siciliana. Ma anche senza rapporti codificati con la mafia, diversi massoni siciliani si muoveranno in sintonia con essa fin dal Secondo dopoguerra. La strage di Portella della Ginestra del 1947 vedrà la collaborazione di banditi, mafiosi, massoni, monarchici, agrari con l’avallo di settiori della Democrazia cristiana.
A tenere le fila sarà proprio il principe Gianfranco Alliata, chiamato in causa proprio da Gaspare Pisciotta (il cugino e luogotenente di Salvatore Giuliano, assassinato con un caffè alla stricnina nel carcere dell’Ucciardone di Palermo) nel processo di Viterbo contro gli esecutori della strage. In un altro processo celebrato a Palermo nel 1995 contro Giuseppe Mandalari, ritenuto il commercialista di Salvatore Riina, si accertò che vi era stata un’interazione tra Cosa nostra e massoneria per condizionare l’esito di un processo. Si era intervenuti sui giudici popolari che dovevano giudicare l’avvocato Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere una fiala di veleno per uccidere il boss della vecchia mafia Gerlando Alberti. Il capomafia Nicola Mandalà, che si era occupato per un periodo della lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano (durata ben 43 anni) aveva dichiarato ai magistrati che “esisteva un terzo livello in relazione diretta con Provenzano che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazioni da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti. Informazioni di prim’ordine, un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”.
Secondo altre acquisizioni giudiziarie il rapporto logge massoniche siciliane e Cosa nostra sarebbe cominciato con Salvatore Greco e Giuseppe Calderone, che insieme a Stefano Bontate, suo cognato Giacomo Vitale e Salvatore Inzerillo avevano il privilegio della doppia affiliazione alla mafia e alla massoneria. Anzi, Stefano Bontate aveva creato addirittura una sua loggia a Palermo, la Loggia dei Trecento, molto legata alla P2 di Licio Gelli. I due si incontravano spesso in Sicilia. Il pentito medico Gioacchino Pennino, militante della Dc palermitana, ha rivelato che fin dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento diversi mafiosi ambivano a mischiarsi con la Palermo bene iscrivendosi a diversi circoli frequentati da aristocratici e alto-borghesi, tra questi anche quelli massonici, perché ciò li accreditava come menmbri effettivi della classe dirigente della città. Il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo ha affermato che gli “uomini d’onore” potevano essere autorizzati ad entrare nelle logge massoniche per “avere strade aperte ad un certo livello, per ottenere informazioni preziose e contatti per “aggiustare” processi attraverso giudici massoni. Un altro collaboratore, Leonardo Messina ha rivelato che “è nella massoneria che si possono avere i contatti utili con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere”. Nella sentenza del 2015 del tribunale di Trapani sul delitto Rostagno viene scritto: ” la penetrazione di Cosa nostra nell’imprenditoria, nelle banche e negli apparati dello Stato, è stata favorita con tutta probabilità dal crescente ruolo delle fratellanza massoniche”.
La Santa
Tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento l’ordinamento tradizionale della ‘ndrangheta, basato su tre livelli di gerarchia (picciotto, camorrista e sgarrista), viene stravolto con la nascita della cosiddetta Santa, un livello superiore di organizzazione riservato solo a pochi “eletti”, che hanno anche la possibilità di una seconda affiliazione, quella alle logge massoniche coperte. Fino ad allora uno ndranghetista non poteva essere contemporaneamente membro di altre organizzazioni basate su un giuramento. Lo scopo di questa nuova gerarchia malavitosa nasce dalla necessità di modificare radicalmente il rapporto non alla pari tra ‘ndranghetisti, gestori della cosa pubblica e rappresentanti delle istituzioni di sicurezza. Con la nascita della Santa i mafiosi calabresi entrano direttamente nel mondo degli affari e stabiliscono relazioni con i rappresentanti dei poteri istituzionali senza mediazioni di altri. Le logge massoniche sono il luogo in cui si consolidano queste relazioni. Con la Santa cambiano anche i riti di iniziazione della ‘ndrangheta. I “santisti” giurano in nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, ritenuti i più rappresentativi massoni del passato. In Calabria nel 2017 ben 28 logge massoniche su 32 erano controllate da ‘ndranghetisti. Un capomafia, Filippo Barreca, ha affermato che mafia e massoneria in Calabria sono “una cosa sola”. I capi della Santa erano in rapporti organici con esponenti della destra eversiva e con i servizi segreti.
Nel 1975 avviene in Calabria uno dei pochissimi delitti eccellenti della ‘ndrangheta: viene ucciso a Lamezia Terme Francesco Ferlaino, avvocato generale dello Stato presso la Corte d’Appello di Catanzaro, membro della massoneria. Il delitto resterà impunito, ma il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro collegherà l’omicidio all’opposizione di Ferlaino all’ingresso degli ‘ndranghetisti nelle logge massoniche calabresi.
Il primo procedimento organico sulla massoneria deviata e sui rapporti con la ‘ndrangheta fu condotto dalla Procura della Repubblica di Palmi nei primi anni Novanta del Novecento. Un notaio massone, Pietro Marrapodi, imputato per aver redatto numerosi atti di trasferimento di proprietà per impedire che il patrimonio immobiliare della cosca De Stefano venisse individuato, raccontò dei metodi usati per nascondere l’iscrizione alla massoneria di diversi capi ‘ndranghetisti. Nello scioglimento dell’Asl di Locri e dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza per infiltrazioni mafiose si fa riferimento a numerosi soggetti appartenenti alla massoneria.
Minore è l’intreccio di logge massoniche con la camorra in Campania. Il pentito Pasquale Galasso aveva parlato di un coinvolgimento della massoneria nella corruzione di magistrati per aggiustare i processi che lo riguardavano. In particolare fa riferimento all’avvocato massone Vittore Pascucci. Sempre Galasso aveva rivelato che nel 1993 era riuscito a ottenere un prestito di 350 milioni della Fondiaria spa per il suo socio in affari, Marco Cordasco, per comprare un importante albergo a Montecatini. Lo avevano aiutato due massoni, il ragioniere Capozzi e il dottor Palmieri. Del ragioniere Capozzi aveva parlato anche un altro camorrista alleato di Galasso, Giuseppe Cillari (a sua volta in legami con la banda della Magliana e con il faccendiere Flavio Carboni) sostenendo che il commercialista gli aveva proposto più volte affari per conto o con l’intervento della massoneria.
Anche la vicenda del traffico dei rifiuti provenienti dal Centro-Nord dell’Italia, trasportati e interrati da esponenti del clan dei casalesi, vede coinvolti dei massoni, a partire proprio da Licio Gelli. A seguito della crisi dei degli impianti di smaltimento dei rifiuti che investe la Toscana nel 1988, alcuni imprenditori massoni del settore delle pelli si rivolgono a Licio Gelli non sapendo più dove scaricare una parte dei rifiuti prodotti dalle loro concerie. E il capo della P2 si rivolge a sua volta a Gaetano Cerci, un rappresentante del clan dei casalesi che in quel periodo lavorava in Toscana e che si recava spesso a villa Wanda a Castiglion Fibocchi, residenza del “Venerabile”. È Cerci, su sollecitazione della massoneria deviata di Licio Gelli, che avvia il traffico. Gelli poi procura i contatti politici e burocratici necessari a consentire che si potessero trasportare in Campania rifiuti provenienti da fuori regione.
In definitiva, il rapporto tra mafie e massoneria va iscritto dentro la storia dei rapporti in Italia tra classi dirigenti e criminalità. Quando la gestione del potere si fa opaca o addirittura oscura, è molto probabile che ad essa vengono associate forze criminali. Le mafie hanno sempre utilizzato bene questa opportunità generata da un particolare esercizio del potere segreto da parte di rapprsentanti delle classi dirigenti del Paese. LA REPUBBLICA
26.4.2023 Cosa nostra e massoneria deviata, un intreccio che va oltre Matteo Messina Denaro
La Relazione della Dia si sofferma “solo” sul Trapanese. Ma l’alleanza tra mafia e “grembiulini” ha i suoi tentacoli in tutta la Sicilia
La relazione Dia
La Direzione Investigativa Antimafia apre all’analisi sulla masso-mafia nel capitolo dedicato alla provincia di Trapani. E quindi di Castelvetrano, città di Matteo Messina Denaro. Gli investigatori narrano che mentre erano impegnati nella stesura dell’analisi semestrale è arrivata la notizia della cattura – il 16 gennaio 2023 – a Palermo del boss stragista da parte dei carabinieri del Ros. Le indagini sulle coperture di una latitanza durata 30 anni hanno portato a scavare nel mondo grigio di grembiulini e muratori. E così si è scoperto che Alfonso Tumbarello, l’oncologo di Andrea Bonafede – nome usato dal padrino per potere avere accesso alle cure alla Clinica La Maddalena di Palermo – faceva parte del Grande Oriente d’Italia.
Dal quale – va detto – è stato immediatamente sospeso con un provvedimento firmato dal Gran Maestro Stefano Bisi. Lo stesso ha più volte ribadito che quando la magistratura parla di«massoneria» si riferisce a «quella deviata e non certo ufficiale». La storia italiana, partendo dalla P2, di obbedienze deviate ne ha conosciute diverse. Matteo Messina Denaro avrebbe potuto contare, secondo la procuratrice Teresa Principato , che per anni ha coordinato le inchieste sul mafioso di Castelvetrano, «su una rete di copertura di carattere massonico che lo ha protetto in tutto il mondo».
Un potere occulto del valore economico-finanziario, secondo i conti di Libera, di 4 miliardi di euro. E chissà cosa c’è dentro il vaso di pandora. Le indagini sono ancora embrionali. Qualche giorno fa il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia intervenendo a un incontro di giornalismo a Perugia ha detto, infatti, che «c’è ancora molto lavoro da fare».
Un intreccio che non è solo trapanese
Ma torniamo alla relazione della Dia. «Il contesto criminale della provincia di Trapani è altresì caratterizzato – si legge – da una significativa presenza di “logge massoniche” segrete o deviate che talvolta infiltrano il locale tessuto economico-sociale con interferenze negli apparati degli Enti locali e nella gestione degli appalti pubblici». Guardando ancora alle note a piè di pagina si comprende come il riferimento è all’operazione Artemisia dei carabinieri scattata nel 2019. Inchiesta che si incrociò con le indagini di “massoneria e mafia” di Palermo (che poi fu archiviata). Il processo frutto di quel blitz – in cui è contestata ad alcuni imputi la violazione della legge Anselmi per aver creato delle logge segrete – è in pieno dibattimento al Tribunale di Trapani. Nella prossima udienza potrebbe essere sciolta la riserva sulla scelta di Giovanni Lo Sciuto e degli altri imputati di sottoporsi all’esame. Il noto medico, già azzurro e alfaniano, arrivò a sedere nella Commissione regionale antimafia. In un’intercettazione captata mentre ricopriva quel ruolo avrebbe detto: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose di qui le prendo e le strappiamo».
Ma relegare il pericolo di dialogo tra massoneria e clan solo a Trapani e Messina Denaro sembra davvero riduttivo. E non solo per la Sicilia. La ‘ndrangheta – reputata dalla Dia la prima potenza criminale almeno in Europa – ha quasi nel Dna i segni del compasso. E sarebbe partito dalle ‘ndrine il suggerimento a Cosa nostra di aprirsi al mondo delle logge. E anche in questo caso sarebbe coinvolto un medico. L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho nella prefazione del libro Gotha di Claudio Cordoba scrive: «È la ‘ndrangheta a comprendere, prima di Cosa nostra, l’importanza dei rapporti con la massoneria e della creazione di una sorta di comitato d’affari tra massoni, ‘ndrangheta, Servizi segreti e politici. È’ un medico palermitano, espressione della mafia capace di dialogare con il mondo delle professioni e delle Istituzioni, a raccontare che Stefano Bontate, nel 1980-81, gli propose di proseguire il medesimo progetto della ‘ndrangheta anche in Sicilia».
I “grembiulini” deviati di Catania
Il tratto del compasso avrebbe solcato anche la roccia lavica di Catania. Il killer dagli occhi di ghiaccio Maurizio Avola rivelò diversi decenni fa – per averlo saputo da un altro boss – che Nitto Santapaola avrebbe indossato il grembiulino per poter essere introdotto nelle stanze dei poteri. Ma quelle dichiarazioni dopo le recenti balle raccontate sulla strage di via D’Amelio hanno un peso specifico notevolmente diverso. Ma che la mafia catanese abbia usufruito dei sistemi deviati – siano esse logge o altri apparati – se ne parla in diverse inchieste. Alcune rimaste però incagliate nella sottilissima e complicata articolazione di un quadro probatorio che possa portare a un’azione penale. Ma non tutto,
19.1.2023 Dopo la cattura di Messina Denaro. Vannucci: «Ecco cosa unisce mafia e massoneria»
«La proposta del ministro Nordio di intervenire sulle intercettazioni per i reati contro la pubblica amministrazione, quindi anche i reati di corruzione, è chiaramente e drammaticamente in contraddizione con tutto quello che sappiamo in merito all’evoluzione delle strategie delle organizzazioni mafiose. E in particolare su quelle aree di intersezione con l’universo dei colletti bianchi». È chiaro Alberto Vannucci, professore di Scienza politica all’Università di Pisa, autore di studi e ricerche sulla corruzione, e membro dell’Ufficio di presidenza di Libera e del Comitato scientifico di Avviso pubblico.
Professore cosa c’è di sbagliato nella proposta del ministro?
L’idea che si tratti di realtà a compartimenti stagni. Al di là del fatto che questi crimini procurano un enorme danno sociale e andrebbero adeguatamente perseguiti, volerli isolare rispetto alla realtà mafiosa è un grave errore. Questi due mondi spesso si incontrano, si sovrappongono e tendono a stringere alleanze nell’ombra. Il mondo della borghesia mafiosa e quello della criminalità organizzata, offrono reciprocamente una serie di servizi con equilibri di potere che non sono dominati dalla componente mafiosa.
E allora da chi?
Spesso la matrice più profonda nasce dall’universo dei colletti bianchi e le organizzazioni mafiose si pongono al servizio, come prestatori d’opera, fornitori di particolari prestazioni, come intimidazioni e attività illegali. La corruzione è la strategia privilegiata.
La stessa vicenda della lunga latitanza di Messina Denaro conferma questo rapporto.
E ci fa capire l’evoluzione, di cui Messina Denaro è stato la maggiore incarnazione, dalla mafia stragista, che dichiara guerra allo Stato, alla mafia degli affari. Così ha trovato una rete di omertà ad altissimi livelli. C’era una parte dello Stato che lo combatteva, di società civile che lo voleva vedere catturato, ma c’era anche una componente connivente. E in questa borghesia mafiosa, in questi circuiti di connivenze, troviamo anche la massoneria, luogo di incontro tra esponenti dei due mondi.
Ancora una volta il settore della sanità dimostra di essere il più coinvolto come luogo di comuni interessi.
La mafia degli affari segue i soldi. Nella sanità affluisce un’enorme quantità di risorse pubbliche che possono essere, anche tramite modalità opache, dirottate verso le tasche di chi poi sarà grato ai decisori pubblici. È ovvio che c’è interesse per le organizzazioni mafiose a entrare in quei circuiti con diverse modalità.
Quali?
C’è una dimensione economica, sia nella sanità pubblica ma anche in quella privata che sopperisce all’inefficienza, spesso programmata, delle strutture pubbliche. Ma la sanità è anche un grosso circuito di produzione del consenso. Non a caso molte delle figure di spicco della politica siciliana degli ultimi anni, alcune anche condannate per mafia, vengono da quel settore. Il professionista che svolge una funzione di cura, gestisce quelle risorse e acquisisce quel tipo di reputazione, poi lo può convertire in strumento di consenso politico specie se ha tutta una serie di protezioni con la realtà mafiosa e quella massonica.
Don Luigi Ciotti ha denunciato come a Milano ci sono imprenditori che vanno a cercare i mafiosi.
Ha perfettamente ragione. Al Centronord il vero elemento catalizzatore delle attività criminali proviene dal mondo delle imprese e delle professioni, che cerca punti di contatto e di collusione, mettendosi a disposizione senza alcun elemento di estorsione. In quei tavoli il soggetto mafioso è un ospite desiderato, quasi invocato, perché offre una serie di servizi come lo sversamento dei rifiuti tossici, a costi molto più bassi, oppure per creare fondi neri o attuare frodi di natura fiscale attraverso false fatturazioni. All’interno di certe dinamiche di natura corruttiva che legano politici, funzionari, imprenditori, la presenza di organizzazioni mafiose dà stabilità a questi accordi.
In che modo?
Un soggetto con quella caratura, spesso non ha neanche più bisogno di manifestarsi in modo esplicito, di esercitare la violenza, basta la consapevolezza che è espressione dei poteri mafiosi. Così gli attori dei circuiti di natura corruttiva nel mondo delle istituzioni e della politica, hanno un maggior incentivo a rispettare gli accordi. Se poi è anche capace di indirizzare pacchetti di voti si è fatto bingo.
Un soggetto con quella caratura, spesso non ha neanche più bisogno di manifestarsi in modo esplicito, di esercitare la violenza, basta la consapevolezza che è espressione dei poteri mafiosi. Così gli attori dei circuiti di natura corruttiva nel mondo delle istituzioni e della politica, hanno un maggior incentivo a rispettare gli accordi. Se poi è anche capace di indirizzare pacchetti di voti si è fatto bingo.
7.3.2022 – Mafie e massonerie deviate, un legame ancora sottovalutato
I rapporti tra mafie e massonerie deviate sono una questione molto complicata, forse più complessa di quanto accada in tutti gli altri rapporti intessuti dalla mafia con altri soggetti esterni. In Italia, la ‘ndrangheta e la mafia siciliana da sempre hanno nutrito interesse nei confronti delle massonerie. Lo dice la storia, i processi e varie Commissioni parlamentari antimafia che si sono succedute nel tempo, da ultima quella presieduta da Rosy Bindi. Le interconnessioni tra mafie e massonerie emergono in modo palese in varie inchieste giudiziarie in Sicilia e in Calabria, soprattutto riguardo a fatti legati al condizionamento dell’azione dei pubblici poteri mediante corruzione.Negli atti d’inchiesta della Commissione parlamentare antimafia Bindi, emerge che dal 1990 a fine 2016 tra gli affiliati alle logge massoniche di Sicilia e Calabria ci siano stati circa duecento soggetti con precedenti penali per delitti di mafia. Negli elenchi esaminati c’erano persone iscritte che lavoravano nei tribunali, nelle forze dell’ordine, nel comparto militare e negli ordini professionali di varia natura. Un legame dunque non solo esistente ma aggiungerei forte. Sui rapporti tra queste due organizzazioni è illuminante Tommaso Buscetta il quale interrogato da Giovanni Falcone racconta che fino al 1980 non aveva mai sentito parlare di uomini d’onore massoni. Conferma però i rapporti, tra le due entità. Il pentito dice a Falcone che il cognato di Stefano Bontate, ad esempio, era un massone. Nel 1970 per il golpe Borghese sono i massoni che si rivolgono a Cosa Nostra. Racconta anche che Carlo Morano, uomo d’onore, aveva un fratello massone coinvolto nel golpe. Buscetta però parla sempre di rapporti mai d’identificazione. Le mafie entrano, direttamente o indirettamente, nelle logge massoniche per interessi economici (per aggiudicarsi appalti, riciclare proventi illegali o percepire aiuti economici pubblici) per interessi giudiziari (per avere trattamenti di favore nei processi ove sono coinvolti) per motivi politici (gestire il voto e governare negli enti pubblici). La vera forza dei mafiosi risiede tutta nei loro legami con il potere politico, economico e finanziario. Senza la connivenza della cosiddetta “area grigia”, la mafia sarebbe solo una banda di criminali di strada, come più volte disse Totò Riina. Le mafie sono cresciute e diventate sempre più potenti anche grazie ai rapporti con le massonerie deviate. I mafiosi in questi consessi incontrano politici, avvocati, magistrati, imprenditori, industriali, professionisti vari e da questi contatti possono certamente trarre benefici di ogni genere, in primis di natura economica. Si tratta di un rapporto basato fondamentalmente sul “do ut des” e cioè do affinché tu mi dia. Faccio qualcosa in cambio di qualcos’altro. Mi adopero per te solo se, da te, posso ottenere un beneficio per me. Insomma, una mera questione di tornaconti personali soprattutto di natura lucrativa. Le passate inchieste del dottor Agostino Cordova sono tornate nuovamente attuali a distanza di oltre trent’anni. All’epoca, assieme a Falcone e poi a Borsellino, ci aveva visto giusto. Aveva individuato in anticipo su tanti la componente mafiosa immateriale, silente, mercatistica, massonica, che dialogava direttamente con le istituzioni e il potere. Oggi rispetto ad allora c’è una nuova progressione: l’integrazione delle varie mafie con le massonerie deviate forma un unico sistema criminale. Esiste un legame fra mafie, servizi segreti deviati e massonerie deviate confermato anche da fonti interne alle mafie. Il siciliano Gioacchino Pennino dichiarava: “Mio zio si recava in Calabria dove, mi disse, aveva messo insieme massoni, ‘ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere”. “Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”. C’è una mafia visibile e c’è una invisibile, in quest’ultima operano le massonerie deviate e i poteri forti, multinazionali comprese. I mafiosi si iscrivono alla massoneria oltre che per quanto ho detto in precedenza, anche perché la segretezza delle logge massoniche agevola gli incontri tra parte della classe dirigente e i boss. Sono due lati oscuri e misteriosi che s’incontrano. Le logge massoniche sono spesso celate sotto diversi appellativi. Non si conoscono gli iscritti, anzi questi sono esortati a non svelarsi mai come tali. Molte attività sono occulte. Tutto questo garantisce il basso profilo ricercato dai mafiosi. Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vedono coinvolti in stretta cooperazione mafie, massonerie deviate, terroristi di destra e servizi segreti deviati che assieme – a mio parere – hanno contribuito anche a destabilizzare la democrazia nel nostro Paese. Una verità cui probabilmente, sempre secondo la mia opinione, erano arrivati vicinissimi Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tre giudici che stranamente hanno avuto identica sorte: saltati in aria con il tritolo. Quando fu ucciso Borsellino, sparì l’agenda rossa che portava sempre con sé e dove conservava tutti gli appunti sulle indagini da lui svolte in prima persona sulla strage di Capaci. Perché è sparita e che fine ha fatto l’agenda rossa di Paolo Borsellino? Se l’avessimo sicuramente potremmo ottenere molte risposte anche sul tema di questo post. Vincenzo Musacchio. HUFFPOST
12.4.2021 «LA MASSONERIA DI VIBO AVEVA L’ORDINE DI “GESTIRE” I MAGISTRATI»Virgiglio traccia la “mappa” delle logge coperte. Agli avvocati il compito di avvicinare le toghe, ufficialmente bandite dalle logge «All’inizio del 2000 mi fecero rientrare in Massoneria in Calabria scegliendomi una delle Logge più carismatiche e più pulite che erano i Garibaldini d’Italia e che aveva sede a Vibo Valentia e non a caso, perché Vibo Valentia è indicato come un Oriente importantissimo, forse il più importante che c’è in Italia, sul potere decisionale di determinate logiche, chiamiamole così». Cosimo Virgiglio conosce bene la massoneria. Ne ha scalato i ranghi, partendo da apprendista ai tempi dell’università a Messina, per conoscere i vertici nazionali delle logge più importanti. Sono quei vertici a rimandarlo nella sua terra d’origine per gestire una fase complessa, che il pentito ha raccontato ai magistrati. I suoi verbali sono stati depositati nei processi che hanno segnato e segnano la recente storia giudiziaria della Calabria. In ‘Ndrangheta stragista ha offerto un contributo importante per ricostruire il contesto in cui è maturata la strategia eversiva delle mafie. A Rinascita Scott l’esordio del suo interrogatorio del 9 marzo scorso (ve lo abbiamo raccontato qui) serve per mettere nella giusta prospettiva il peso degli ambienti massonici della provincia di Vibo Valentia: sono tra i più potenti d’Italia. Il documento integrale offre spunti, ovviamente da passare al vaglio del dibattimento, su una fase cruciale della recente storia della Calabria.
A Roma, Virgiglio si relaziona soprattutto con Giacomo Maria Ugolini, che «era già stato ambasciatore in Egitto e in Etiopia» e «all’epoca era poi divenuto decano di tutti gli ambasciatori. Lui era il gotha, definiamolo così» e «aveva grossi rapporti con la Calabria, principalmente con Vibo e Crotone, anche Reggio». E Virgiglio, come sua persona di fiducia, viene rimandato nel profondo Sud per gestire relazioni delicatissime. I suoi racconti, per i quali sono necessari i riscontri del caso, descrivono la Calabria come l’epicentro di molte trame. E le sue logge come crocevia di rapporti delicatissimi.
Simboli e affari: l’importanza della loggia di Vibo Non a caso arriva a Vibo, dove in breve diventa Gran Maestro. Il simbolismo è (quasi) tutto nella massoneria. È grazie ai simboli che il lignaggio massonico di quelle logge è di alto livello. A Vibo «vi era stato il passaggio, nel mio Tempio, di Giuseppe Garibaldi». Quel passaggio «lasciò dei cimeli, lasciò una bandiera dei Garibaldini ancora intrisa di sangue e ancora oggi custodita, un obolo, un Maglietto fatto da un pezzo di legno e all’epoca lasciò anche delle… i cosiddetti testamenti massonici». Simboli, certo. Ma anche affari. Perché – «collochiamo il periodo di cui noi stiamo parlando», va al sodo il pentito – «era un periodo di fermento, perché su Gioia Tauro stavano arrivando tanti, e sono poi arrivati, tantissimi soldini». E quei denari andavano gestiti, «si dovevano gestire gli aspetti politici, che poi sarebbero stati importanti per gestire quelli sanitari, si parlava della costruzione tra l’altro di un grande, di un grosso polo clinico». Tutto si tiene: soldi, sanità e politica in un cliché consolidato.
«Si dovevano gestire i magistrati» Non è tutto. Altri poteri interessano a quello massonico. Forse anche più della politica. Da gestire c’erano anche «i magistrati, perché dalla famosa tornata del 1993 che fu fatta a Capo Verde si decise che i Magistrati non dovevano mai più entrare in Massoneria, perché poco affidabili, ma ci doveva essere chi doveva gestirli e quindi era la grande flotta dei nostri avvocati che avevamo tra le fila». Sono frequenti i riferimenti del collaboratore di giustizia alla «tornata di Capo Verde del 1993». Virgiglio parla di una riunione dei più alti livelli della massoneria, che si sarebbe tenuta a Santiago di Capo Verde in un momento molto delicato della storia d’Italia. «Era partita Tangentopoli – racconta –, c’erano state le famose stragi in Sicilia, era ingestibile una situazione sia politica che mafiosa». E allora «si presero una serie di decisioni» come quella, proposta dall’armatore partenopeo «Elio Matacena» di chiudere le porte alle toghe: «In Italia non ci sarebbero stati più gli ingressi neanche “sussurrati all’orecchio” di magistrati, quelli che c’erano rimanevano fino alla loro, alla loro volontà, quindi fino alla loro esistenza in vita rimanevano, ma altri no». È la massoneria, secondo la lettura che dà il pentito, a non fidarsi: «”Ci possono essere – perché all’interno si parla così (Virgiglio riporta pezzi di conversazioni, ndr) – ci possono dei Magistrati che a volte usano il proprio potere in maniera recondita, e quindi noi dobbiamo aiutare il fratello che ha dei problemi in maniera che lui ritorni sulla retta via”. E quindi furono incaricati, dice: “Allora, dobbiamo incaricare chi è vicino, chi è stato compagno di studi, chi si incontra tutti i giorni”, quindi gli Avvocati dovevano essere coloro i quali entravano in contatto e vedere se il Magistrato era disposto o meno a dare degli aiuti».
La mappa delle logge coperte Quando parla di “sussurrati all’orecchio”, il pentito si riferisce a «personaggi che hanno una carica istituzionale o politica o proprio, ecco, autorità giudiziaria, o esposti insomma in maniera diversa» e «preferiscono non comparire nel listato ufficiale che la legge in Italia ti impone». In alcuni casi, il “sussurrato all’orecchio” «non è altro che una persona tipo un Magistrato, un Agente delle Dogane, un Finanziere, un Agente dell’Esercito, un qualcuno insomma che è esposto anche politicamente». In questo caso, a sapere dell’appartenenza massonica è soltanto il Gran Maestro.
C’è un’altra categoria di massoni “coperti”: sono i “Sacrati sulla Spada”, cioè «coloro che hanno problemi di giustizia che, per il Maestro Venerabile, sono stati errori giudiziari». Il pm Antonio De Berardo incalza: «Si riferisce anche ad appartenenti alla criminalità organizzata?». «Sì, sì – risponde Virgiglio – per quel che mi consta sì, tant’è che Luigi Sorridente, il nipote prediletto del capo ‘ndrangheta di Gioia Tauro Peppino Piromalli era un appartenente proprio al Sacrato sulla Spada e come lui anche altri soggetti». È qui che l’interrogatorio si addentra negli angoli bui delle logge coperte, quelle che «non venivano riportate in nessun archivio, in nessun registro. (…) Su Reggio Calabria, cioè sul Tirreno, ce n’era una che era la nostra, proprio iniziata dal Principe Alliata e da Giacomo Maria Ugolini era, avevamo trovato come Oriente quello di Rizziconi e ne ho parlato abbondantemente in altri Procedimenti. Su Catanzaro, Crotone, Vibo avevamo la “Pitagora”; su Tropea avevamo “Amor di Patria” 1784, che operava tra Tropea, Nicotera e Limbadi. Queste erano le nostre, cioè erano le… quelle calabresi». Nel Vibonese, i “Sacrati sulla Spada” «venivano convogliati principalmente» nella loggia di Tropea. I «Garibaldini», continua Virgiglio, ne avevano chiesto la chiusura con decreto, «cosa che non era mai avvenuta». Il guaio era che l’esistenza di quella loggia era diventata (quasi) di dominio pubblico e «poteva innescarsi un altro Agostino Cordova e non era il caso, non ne avevamo bisogno noi di determinati soggetti presenti all’interno e anche perché, come ho detto in altri Procedimenti, non era mai stata la ‘Ndrangheta a andare a trovare né la Massoneria e né il politico in quel periodo, ma era viceversa, quindi a che pro mettere determinati soggetti quando tu ce l’hai sempre nelle mani?».
La massoneria mostra i muscoli. «Non abbiamo paura di nessuno» In quel contesto, fatto di intrecci tra logge ufficiali e coperte, di affari da monitorare e magistrati da gestire, Virgiglio torna in Calabria per osservare quella che descrive come una prova di forza della massoneria a Vibo. «Il momento più scottante – sottolinea – fu quell’agosto del 2004 quando il dottore Petrolo, quindi in questi casi il Maestro Venerabile Petrolo della Loggia Morelli» organizza «una premiazione, una borsa di studio cosiddetta “Tedeschi” e che era intitolata a un ragazzo che era morto per una brutta malattia, era un premio che lui voleva dare ai neolaureati di Messina di Medicina». In realtà «era la scusa per far scendere Gustavo Raffi, il capo del Goi (Grande Oriente d’Italia, ndr), in questi casi il Gran Maestro del Goi, a Vibo Valentia e quindi rendere, cioè ostentare quello che era il vero potere». Ogni loggia tira fuori «i propri assi e noi facemmo arrivare direttamente Giacomo Maria Ugolini e ci fu questa grande… fu pubblica, tant’è che Petrolo invitò a livello pubblico Elio Costa, che era già sindaco; poi invitò Bruni che era il presidente della Provincia, invitò insomma una serie di personaggi proprio pubblici proprio a sfidare, per dire: “Noi non abbiamo paura di nessuno, abbiamo tutti. Abbiamo la Magistratura, abbiamo il politico“, questo era l’obiettivo e lo fecero al Resort, fu una cosa pubblica, quindi non stiamo dicendo nulla di nuovo». Ci sarebbe stato, però, anche un lato privato, un dietro le quinte dell’evento: «In realtà il giorno prima lì andarono a spartire quelli che erano i prossimi poteri, quindi le elezioni governative, le elezioni regionali, i posti di potere e i posti pure principalmente della Port Authority di Gioia Tauro. Arrivò Cassodonte da Soverato, fece il suo portafoglio di nomi e lì ci fu, ecco, questa era la situazione che io trovai a Vibo in quel periodo». 12/04/2021 CORRIERE DI CALABRIA di Pablo Petrasso
11.3.2021 – RINASCITA SCOTT – LA MASSONERIA SECONDO VIRGIGLIO: RICERCA DI VOTI E APPOGGI IN MAGISTRATURA.
«IN CALABRIA È MOLTO POTENTE» Il collaboratore di giustizia svela i legami nascosti tra le logge, i clan e i colletti bianchi. «C’era anche un gruppo di toghe. E Pittelli poteva “raggiungerle”» Il motto della massoneria, inequivocabile, è «si entra per dare». Lo spiega il collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio, noto per la sua militanza nelle logge e gli addentellati nei servizi segreti. Su queste basi vengono scelti coloro che faranno parte di una loggia e, ancora di più coloro che vengono scelti per e appoggiati per una elezione. Nel 2006 – spiega Virgiglio interrogato dal sostituto procuratore della Dda Antonio De Bernardo – su intercessione dell’avvocato Cassadonte, decano di una loggia massonica catanzarese, si decise di appoggiare la candidatura a senatore dell’avvocato Giancarlo Pittelli appartenente alla stessa loggia di Cassadonte. «Cassadonte ci aveva informato – dice Virgiglio – del fatto che Pittelli aveva capacità di relazionarsi e interfacciarsi con i magistrati».
«Per le elezioni la massoneria si rivolgeva alla ‘ndrangheta» «Quando c’era interesse a eleggere un nostro rappresentate era la massoneria che si rivolgeva alla ‘ndrangheta attraverso quei soggetti, definiti “in giacca e cravatta”, come medici e avvocati che grazie al proprio lavoro erano i personaggi privilegiati per fare da collegamento con la criminalità organizzata». Anche per Pittelli – spiega il collaboratore rispondendo alle domande dell’avvocato Salvatore Staiano – venne coinvolta la criminalità organizzata. In quell’occasione Virgiglio andò a Rocca di Neto e si rivolse a Sabatino Marrazzo, maestro venerabile, che guidava sia la loggia Pitagora deviata che quella pulita. Sabatino Marrazzo «ha innescato subito i meccanismi per la campagna elettorale del 2006. Marrazzo si rivolse a un avvocato di Catanzaro appartenente alla propria loggia».
Inflazione di iscritti in massoneria in Calabria Nel primo decennio del 2000 – Virgiglio comincia a collaborare dal 30 dicembre 2009 – la massoneria è molto potente in Calabria. «Non è un caso che le più grandi inchieste sulla massoneria siano state fatte in Calabria – dice Virgiglio –. Ci sarà un perché se nel 2004 ci si riunisce in Calabria per parlare degli investimento sul porto di Gioia Tauro e sulla sanità. All’epoca c’era un’inflazione di iscritti. In ogni paese si voleva aprire una loggia. E per quanto riguarda la massoneria deviata la provincia di Vibo era la più potente e impregnata. «Reggio non è neanche un satellite rispetto a Vibo», dice Virgiglio.
I processi dei Marrazzo La massoneria non disdegna di inserire tra le proprie fila forze dell’ordine e magistrati. «C’era un tenente colonnello che ci riferiva di tutte le indagini grosse che c’erano sul tirreno», racconta il collaboratore. Così il maestro venerabile Sabatino Marrazzo non esitò a rivolgersi all’amico Virgiglio e al gran maestro della loggia dei garibaldini d’Italia, Pino Francica, quando suo fratello, Agostino Marrazzo, venne arrestato per omicidio. «Sabatino ci chiese un intervento per il fratello imputato per omicidio e voleva un interessamento a livello di magistratura. Io non lo avallai perché non ero convinto dell’innocenza del fratello, come diceva lui. Francica invece lo indirizzò verso un avvocato di Cosenza». «Agostino uscì assolto per la prima volta dall’accusa di omicidio», ricorda il collaboratore.
In epoca più recente, il 17 dicembre 2020, ricordiamo per dovere di cronaca, la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, nell’ambito del procedimento antimafia denominato Six Towns, ha assolto Agostino Marrazzo per l’omicidio di Franco Iona avvenuto l’8 ottobre 1999, e la sua pena è stata rideterminata dall’ergastolo, inflitto in primo grado, a 10 anni di reclusione. Nella stessa sentenza Sabatino Marrazzo, 8 anni in primo grado, è stato assolto. I tre fratelli Agostino, Giovanni e Sabatino Marrazzo vengono considerati dall’accusa collocati nella cosiddetta società Maggiore con la dote di “santisti”, per i quali la Dda aveva ottenuto il 41 bis, ovvero il carcere duro.
Il gruppo dei magistrati C’è un locale a Settingiano dove, a detta del collaboratore, si svolgevano le riunioni della massoneria. «Era uno dei posti preferiti perché sapevamo dai “fratelli” nelle forze dell’ordine che non c’era il pericolo di essere ascoltati», spiega Virgiglio. A queste riunioni Cosimo Virgiglio ricorda di avere incontrato i fratelli Torchia, sia l’avvocato che il professore, Sabatino e Agostino Marrazzo, Saverio Zavettieri, il senatore Speziali e Franco Corrado, il segretario particolare di Giuseppe Chiaravalloti il quale «è venuto anche lui a cena con noi al locale». Secondo quanto racconta Virgiglio l’ex governatore della Calabria Chiaravalloti «gestiva la loggia coperta nella zona del catanzarese anche se il tempio era a Praialonga. Chiaravalloti è entrato nella massoneria nel ’93 insieme a Franco Tricoli. Facevano parte del gruppo dei magistrati».
«Abbiamo creato le banche»«Noi abbiamo creato delle vere e proprie banche – afferma Virgiglio –, il credito cooperativo di San Ferdinando lo abbiamo creato noi. Siamo intervenuti con la banca popolare di Crotone quando è stata fondata, e anche con la Banca di credito cooperativo di Maierato alla quale erano interessati i Mancuso». di Alessia Truzzolillo 9.3.2021 CORRIERE REGGIO CALABRIA
QUARANT’ANNI DI DELITTI, RICATTI E TRAME OCCULTE: LA P2 È MORTA, MA IL PIDUISMO VIVE
La loggia segreta di Licio Gelli, scoperta il 17 marzo 1981, era uno Stato nello Stato: 962 massoni infiltrati in tutte le istituzioni. Dal crack Ambrosiano alla strage di Bologna, da Tangentopoli a Berlusconi, l’eredità nera di sistema che sopravvive al suo creatore e condiziona ancora la democrazia La P2 sembra morta e sepolta, ma il piduismo vive ancora. Sono passati 40 anni dalla storica scoperta dell’elenco degli affiliati alla loggia massonica segreta di Licio Gelli. Un sistema di potere occulto che si era impadronito delle istituzioni. Lui, il grande burattinaio, non c’è più: è deceduto nel dicembre 2015 nella sua villa di Arezzo, libero da anni, nonostante svariate condanne per reati gravissimi. Con il marchio di organizzatore e principale beneficiario della rovinosa bancarotta dell’Ambrosiano. E di stratega dei depistaggi di Stato che hanno ostacolato le indagini sulla strage di Bologna, per favorire i neofascisti dei Nar. Oggi, certo, l’Italia è cambiata, non è più il paese del terrorismo e dei servizi deviati, della mafia padrona e delle banche criminali. Ma le reti di mutuo sostegno nate in quegli anni neri hanno continuato a condizionare la nostra democrazia. Con dinastie di piduisti rimasti in posizioni chiave, nella politica, nell’economia, nei media. Con strategie e parole d’ordine che restano le stesse di allora. Tra soldi spariti, complicità mai confessate, dossier e ricatti che funzionano ancora.
Quarant’anni fa, il 17 marzo 1981, inizia il declino della P2, non la sua sconfitta. Quel giorno viene perquisita a sorpresa la Giovane Lebole (Giole), nota azienda d’abbigliamento con sede a Castiglion Fibocchi. L’ordine è firmato da due giudici istruttori di Milano, Giuliano Turone e Gherardo Colombo. Indagano su due misfatti che si rivelano collegati: l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il liquidatore delle banche private di Michele Sindona, e il finto sequestro dello stesso banchiere siciliano, incriminato per bancarotta fraudolenta in Italia e negli Usa. Questa genesi non va dimenticata: la loggia di Gelli viene smascherata dalle inchieste che portano alla condanna di Sindona, piduista, come mandante dell’omicidio dell’«eroe borghese» Ambrosoli. E che fanno emergere la complicità tra il banchiere e le famiglie italo-americane di Cosa Nostra, diventate ricchissime con il boom dei traffici di droga. Fuggito da New York nell’estate 1979, Sindona si rifugia in Sicilia, protetto dai boss palermitani. E per simulare di essere stato rapito da terroristi di sinistra, si fa sparare a una gamba da un medico massone. Che risulta in stretto contatto con Licio Gelli.
Turone e Colombo selezionano una squadra di finanziari incorruttibili e ordinano di perquisire, senza informare i superiori, quattro indirizzi. Nei tre ufficiali, compresa villa Wanda, non c’è niente d’importante. L’archivio segreto è nell’ufficio in uso a Gelli alla Giole. Nella cassaforte c’è una lista ordinata, con 962 nomi di affiliati alla misteriosa loggia massonica “Propaganda 2”. Ci sono quattro ministri, 44 parlamentari, tutti i capi dei servizi segreti, l’intero vertice della Guardia di finanza, decine di generali e colonnelli dei carabinieri, esercito, marina, aviazione. E poi prefetti, funzionari centrali e periferici, magistrati, banchieri, imprenditori, direttori di giornali. Una struttura segreta, con gradi e gerarchie, cementata dal vincolo massonico. Uno Stato nello Stato. Che obbedisce a Gelli.
I giudici milanesi si sentono in dovere di consegnare l’elenco al presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani. A riceverli a Roma è il suo capo di gabinetto: piduista anche lui. Il 20 maggio il premier democristiano è costretto a pubblicare la lista. Lo scandalo scuote l’Italia. Una settimana dopo, Forlani si dimette. Nasce il primo governo laico, guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini. Il parlamento vara una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dall’ex partigiana bianca Tina Anselmi. Nel 1982 viene approvata una legge che vieta le associazioni segrete: mai più P2.
La commissione Anselmi, che ha poteri inquirenti, conclude la sua maxi-inchiesta stabilendo che la lista di Gelli è autentica e certifica vere affiliazioni, con riscontri oggettivi come i pagamenti delle quote d’iscrizione, versate su un deposito anonimo alla Banca Etruria. L’elenco però è incompleto: Gelli ha nascosto molte altre carte, centinaia di piduisti restano senza nome. Anche il livello superiore è oscuro. La relazione Anselmi usa la famosa metafora della clessidra: Gelli è al vertice della piramide visibile, ma è a sua volta controllato da strutture più potenti, rimaste occulte.
La svolta per la legalità, democrazia e trasparenza si esaurisce in pochi mesi. Già nell’estate 1981 la Cassazione strappa a Milano l’indagine giudiziaria sulla P2 e la trasferisce a Roma, dove viene insabbiata per tutto il decennio. I ministeri chiave avviano procedure amministrative che mettono in dubbio la lista sequestrata a Gelli, consentendo ai funzionari massoni di continuare a fare carriera. Caduto Spadolini, illustri piduisti tornano al potere. Il ministro del Bilancio del primo governo Craxi, ad esempio, è Pietro Longo (Psdi), passato alla storia come uno dei pochissimi politici italiani condannati per corruzione ancora prima di Tangentopoli.
Lo scandalo ha effetti profondi nella finanza e nei media, ma solo per ragioni economiche e giudiziarie, non per iniziative politiche. Il Banco Ambrosiano, motore del sistema, fallisce con perdite record per 1.193 miliardi di lire. Le sentenze spiegano che la banca cattolica guidata da Roberto Calvi (ucciso nel 1982 a Londra) era diventata la tesoreria occulta dei capi della P2. Ma anche la cassaforte estera dei fondi neri dello Ior, la banca vaticana, guidata da un cardinale americano che ottiene l’immunità diplomatica. Gelli e il suo braccio destro, Umberto Ortolani, vengono dichiarati colpevoli, in tutti i gradi di giudizio, per aver rubato montagne di soldi, usati tra l’altro per impadronirsi del gruppo Rizzoli-Corsera. Dopo l’arresto in Svizzera, Gelli risarcisce 300 milioni di dollari, ormai sequestrati. Mentre lo Ior ne rimborsa altri 250 «senza ammissioni di colpa».
Una società simbolo del sistema P2 è una offshore anonima, denominata Bellatrix: custodisce il pacchetto di controllo del Corriere della Sera, ma nessuno la rivendica, per non auto-accusarsi della bancarotta. A liquidarla sono i giudici di Milano che liberano la Rizzoli dalla P2. Calvi e Sindona furono due pionieri della finanza offshore, che oggi è una patologia mondiale.
Con lo scandalo P2 anche i vertici dei servizi segreti vengono spazzati via dalle indagini giudiziarie, quelle sul terrorismo di destra. Risultano piduisti, in particolare, tutti gli ufficiali condannati per aver depistato le inchieste sulle stragi nere, da Milano a Peteano, da Brescia a Bologna. Invece di contrastare il terrorismo, facevano scappare i ricercati con documenti falsi, distruggevano intercettazioni, nascondevano prove, pagavano i latitanti per farli tacere. Lo stesso Gelli è stato condannato come mandante del più spaventoso depistaggio di Stato: armi ed esplosivi nascosti dai militari piduisti del Sismi su un treno per Bologna.
La relazione Anselmi definisce la P2 «un’organizzazione criminale» con due fasi. La prima è «eversiva»: fino al 1974 Gelli arruola soprattutto militari di destra con tendenze golpiste. E ottiene coperture internazionali da un fronte anti-comunista che va dai servizi americani alla dittatura argentina. La linea cambia in coincidenza con la caduta di Nixon per lo scandalo Watergate. A partire dal 1976 nella P2 entrano imprenditori, politici, banchieri, funzionari, giornalisti. Ora l’obiettivo è conquistare il potere salvando le apparenze della democrazia, come nel «golpe bianco» progettato dal nobile piduista Edgardo Sogno.
Fuori dal perimetro dei processi penali, la P2 rinasce dalle sue ceneri. La relazione Anselmi cita Silvio Berlusconi (tessera 1816) come esempio di imprenditore favorito dalle banche controllate da piduisti, come Montepaschi e Bnl, «al di là di ogni merito creditizio». Lui smentisce (sbugiardato dalle sentenze) e negli anni Ottanta crea il suo impero televisivo, che sembra realizzare lo slogan del «piano di rinascita nazionale» sequestrato alla figlia di Gelli: «Dissolvere il monopolio pubblico in nome della libertà d’antenna». Il gruppo Fininvest accoglie molti ex affiliati, tra cui spicca Maurizio Costanzo, l’intervistatore ufficiale del «signor P2». A fare concorrenza alle tv private dovrebbe pensare la Rai, dove diventa presidente il socialista Enrico Manca: nella lista di Gelli c’era anche il suo nome, ma non si può scrivere che fosse piduista. A escluderlo è una sentenza romana firmata da Filippo Verde, un giudice che incassava soldi in Svizzera, poi assolto o prescritto da tutte le accuse. E la «prova a discarico» che scagiona Manca è una testimonianza orale di Costanzo. Che intanto ammette la propria iscrizione alla loggia segreta. Ed è tuttora il grande vecchio della televisione italiana, pubblica e privata.
Della P2 si torna a parlare con Tangentopoli. A partire dal 1992 le indagini sulla corruzione svelano il ruolo cruciale di molti piduisti. Come Duilio Poggiolini, corrottissimo capo della commissione farmaci. La maxi-inchiesta Mani Pulite comprova anche lo scandalo del Conto Protezione, descritto in uno dei dossier ricattatori sequestrati nel 1981 alla Giole: una tangente di 7 milioni di dollari, versati da una società estera dell’Ambrosiano a Bettino Craxi e Claudio Martelli, su un conto svizzero prestato dal faccendiere amico Silvano Larini. Soldi chiesti da Gelli a Calvi, che in cambio ottiene prestiti dall’Eni, smistati da un dirigente socialista e piduista, Leonardo Di Donna.
Nel processo simbolo per la maxi-tangente Enimont, invece, trova spazio un altro affiliato, Luigi Bisignani, scoperto a riciclare soldi della Montedison attraverso lo lor: la stessa banca vaticana del crack Ambrosiano. E di tanti scandali successivi, fino alle grandi pulizie ordinate da papa Francesco con la prima riforma anti-riciclaggio.
Nel 1994, con la nascita di Forza Italia e la vittoria di Berlusconi, Fini e Bossi, tornano al governo e in Parlamento schiere di reduci della P2: da Fabrizio Cicchitto ad Antonio Martino, Vito Napoli, Aventino Frau, Publio Fiori, Gustavo Selva. Mentre Massimo De Carolis (tessera 1815) diventa presidente del consiglio comunale di Milano, prima di dimettersi dopo una condanna per corruzione (tangenti sul depuratore, divise con altri ex piduisti).
Il ventennio berlusconiano è costellato di progetti di matrice piduista, di cui Gelli rivendica la paternità in un’intervista a Repubblica: leaderismo e presidenzialismo, riduzione del peso dei partiti, separazione delle carriere tra giudici e pm, attacchi ai magistrati «comunisti». Da allora, nei palazzi del potere, riemergono figure intramontabili: da Vittorio Emanuele di Savoia, riaccolto in Italia con una modifica della Costituzione, a Gian Carlo Elia Valori, il super dirigente pubblico che fu espulso dalla P2 perché faceva concorrenza a Gelli. Mentre Flavio Carboni, il faccendiere condannato per l’Ambrosiano, torna agli arresti con la cosiddetta P3 (tangenti sull’energia eolica, gestite da massoni sardi). E l’eterno Bisignani è tuttora sotto processo a Milano per corruzione, dopo essere stato intercettato con l’amico manager Paolo Scaroni mentre trattava affari con l’Eni in Nigeria e dispensava consigli a ministri.
Per completare il quadro, si potrebbero citare le straordinarie posizioni di potere conquistate, anche in tempi recentissimi, dai figli ed eredi di numerosi piduisti, che però hanno diritto di non rispondere delle colpe dei padri. Per misurare la forza persistente dei legami di loggia, piuttosto, basta studiare le nuove indagini della procura generale di Bologna, che accusa Gelli e Ortolani di essere stati i «mandanti e finanziatori» dell’orrenda strage del 2 agosto 1980. Quarant’anni dopo, la ricerca di verità e giustizia continua a scontrarsi con reticenze di ex ufficiali dei servizi, documenti spariti, menzogne depistanti, mediatori che non ricordano a chi hanno consegnato valigie di soldi della P2, complicità inconfessabili. Un caso esemplare è l’interrogatorio di un generale che ha comandato il centro Sid di Padova, una roccaforte della P2. I magistrati di Bologna gli contestano che, nel luglio 1980, aveva ricevuto «il preannuncio della strage» da un giudice anti-terrorismo, Giovanni Tamburino, allertato da un detenuto di destra (poi pestato a sangue). Il generale ha 90 anni, è malato. I magistrati gli mostrano le carte dell’epoca firmate da Tamburino, ma lui nega perfino l’evidenza dell’incontro. E piuttosto di parlare, sceglie di affrontare, poco prima di morire, un’accusa infamante di falsa testimonianza sulla strage. L’ombra della P2 si allunga su molti altri delitti politici irrisolti, dall’omicidio Pecorelli all’assassinio di Piersanti Mattarella. L’ex giudice Giuliano Turone, oggi, commenta: «La P2 fa ancora paura».di Paolo Biondani11 MARZO 2021 L’ESPRESSO
27.1.2021 – “Una loggia massonica segreta si occupa della spartizione di appalti pubblici”: 18 perquisizioni tra Calabria e Basilicata
22.1.2021 Gratteri: ”’Ndrangheta e massoneria deviata controllano interi settori della sanità calabrese” Il Procuratore capo di Catanzaro replica a chi lo attacca: “Con le mie inchieste non faccio politica”. “Io non faccio politica con le mie inchieste e non sono né di destra, né di sinistra. Lo ribadisco ancora una volta”. Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervenendo questa mattina a “Buongiorno regione”, la trasmissione mattutina della Tgr Calabria, sul caso Cesa, coinvolto nell’inchiesta della Procura di Catanzaro che ieri ha portato all’arresto di 48 persone da parte della Dia. Il magistrato calabrese è tornato sul punto dopo le polemiche sula “giustizia a orologeria” sollevata da certa politica per l’avviso di garanzia che ha visto coinvolto il segretario dell’Udc. “Le giuro che i tempi della politica non c’entrano – ha detto in un’intervista al Corriere della Sera – Noi abbiamo saputo che dovevano arrestare l’assessore Talarico, assieme agli altri, quando è arrivata l’ordinanza del gip, all’inizio di gennaio, a un anno di distanza dalla nostra richiesta e a sei mesi dall’ultima integrazione. Le elezioni in Calabria erano fissate per il 14 febbraio, avremmo aspettato il 15 per non interferire sulla campagna elettorale, ma poi sono state rinviate ad aprile: non potevo lasciare arresti in sospeso per decine di persone altri tre mesi”. Sulla crisi di governo, su CESA e Udc entrati nel gioco dei ‘responsabili’ in soccorso del premier Conte, Gratteri ha sottolineato: “Io fino all’altra sera gli ho sentito dire in tv che lui e l’Udc non sarebbero entrati nella maggioranza, quindi questo problema non si è posto. Se ora qualcuno vuole sostenere il contrario lo faccia, ma io l’ho sentito con le mie orecchie”. Anche in un’altra intervista a Repubblica, Gratteri riguardo a Lorenzo Cesa, uno dei principali “costruttori”, ha aggiunto: “L’altra notte avevo capito che era all’opposizione, ma questo non interessa. Dovrei dire che la magistratura ha i suoi tempi che non possono essere quelli della politica. Ma in realtà in questo caso ci siamo posti i problemi dei tempi. Che era quello delle elezioni regionali calabresi, però”. Poi ha evidenziato: “Questa indagine è la sintesi di quello che vediamo da anni, perché ci troviamo di fronte la ‘Ndrangheta che spara di meno e corrompe di più”. E poi ancora: “Noi ci basiamo sui fatti riscontrati e dobbiamo procedere con le verifiche, perché quest’inchiesta rappresenta un ulteriore passo avanti nell’evoluzione della ‘Ndrangheta nelle sue relazioni con il potere”, che porta “un’organizzazione criminale a entrare nei salotti buoni della società grazie a imprenditori, avvocati, notai. Ci sono rapporti diretti con la pubblica amministrazione, coltivati da professionisti che hanno piena consapevolezza di avere interlocutori espressione della criminalità”. “E’ quello che avevamo visto arrivare venti anni fa: la ‘Ndrangheta che si traveste da imprenditore. E bussa alla politica. E la politica, per lo meno un pezzo importante di essa, risponde. Aprendo la porta; ci troviamo di fronte la ‘Ndrangheta che spara di meno e corrompe di più. Ci sono sempre più reati che riguardano il potere politico e sempre più reati che riguardano il potere economico. ‘Ndrangheta e massoneria deviata controllano interi settori della sanità calabrese”. Secondo il magistrato, dunque, servirebbe “una rivoluzione del codice di procedura penale e del regolamento penitenziario che inasprisca le pene le nostre indagini dimostrano che delinquere è ancora troppo conveniente”. AMDuemila 22 Gennaio 2021
MASSONERIA, MAFIA E STATO: TRAME DI UN’ALTRA TRATTATIVA
PAOLO BELLINI Il pentito: “I carabinieri mi chiesero i quadri rubati da Maniero, in cambio i boss volevano aiuti per Calò, Liggio e Brusca”
La massoneria trapanese ebbe un ruolo nelle trattative Stato-mafia a cavallo delle stragi del 1992 e 1993 ovviamente sotto l’ala di Matteo Messina Denaro, oggi 53 anni e latitante proprio dal ’93. È il convincimento della Procura di Caltanissetta anche conseguentemente alle parole di Paolo Bellini, “pentito” con un passato nell’estrema destra di Avanguardia nazionale, tanto da essere indagato per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, ma anche mafioso al soldo della ’ndrangheta in Emilia. Il più pericoloso latitante italiano al mondo, Messina Denaro, è l’unico imputato in questo processo a Caltanissetta, la cui sentenza è attesa nelle prossime settimane.
Bellini ha parlato a lungo (il verbale è pubblicato integralmente in un pezzo di Rino Giacalone sul numero 128 del mensile S in uscita) di quanto gli riferì il boss palermitano Nino Gioè, morto suicida a Rebibbia nel luglio 1993 lasciando una lettera per invitare a chiedere conto proprio a Bellini dei contatti tra Cosa Nostra e “settori” dello Stato.
Ma qual era il legame tra Bellini e Gioè? Il pentito al pm Gabriele Paci risponde così: ci siamo incontrati “prima delle stragi di Falcone e Borsellino, parlavo con lui che avevo avuto la possibilità di recuperare i famosi quadri della Pinacoteca di Modena (…), che io avevo avuto l’incarico dal maresciallo, mi scusi, no Tempesta, dall’ispettore Procaccia di darmi da fare per recuperare queste cose”.Il riferimento è al furto delle opere d’arte della Pinacoteca di Modena nel 1992 attribuito alla mafia del Brenta di Felice Maniero. Roberto Tempesta, carabiniere del Nucleo tutela beni artistici, si rivolge a Bellini –secondo il racconto dell’ex estremista di destra –per recuperare il bottino, incontrandolo anche in giorni in cui Bellini era impegnato in omicidi per conto della ’ndrangheta. “Tempesta rappresenta il viatico per cui mi potevo infiltrare, cioè le opere d’arte, è uno del settore”, che poi “mi disse che ne avrebbe parlato con le persone adatte”, “i Ros me lo dice lui nel 1992”. E poi, in Emilia, l’incontro con qualcun altro ci fu: “Era allarmato che io scendessi in Sicilia e che si sarebbero fatti risentire, che lui era Aquila Selvaggia, non mi ha fatto vedere tesserini. Ho avuto l’ordine di non dire niente a nessuno ”. Un’altra specie di trattativa, insomma, per usare Bellini da infiltrato per recuperare le opere d’arte di Modena. E a sua volta Bellini si rivolge al boss Gioè. Che gli consegna una busta con le foto dei quadri da consegnare ai carabinieri.
Bellini non vede le foto ma un elenco con nomi di mafiosi detenuti da “aiutare”, usando le opere d’arte per creare un canale di dialogo tra Stato e Cosa Nostra: tra gli altri il cassiere della mafia Pippo Calò, Bernardo Brusca, Luciano Liggio e Giuseppe Gambino. E si arriva a Trapani e alla massoneria, cioè all’ombra di Messina Denaro, che potrebbe aiutare nel recupero delle opere d’arte come avrebbe spiegato Nino Gioè. Ecco al riguardo le parole di Bellini: “Nino mi disse io ci posso arrivare con la massoneria di Trapani, noi siamo addentrati. Una discussione che è stata fatta quando iniziamo con la trattativa dei quadri”. Nell’ottobre 1992, però, qualcosa s’inceppa: Bellini e Gioè s’incontrano di nuovo e il primo gli dice che non c’è nulla da fare per i nomi dei boss della lista. Gioè diventa furente e afferma che sarà distrutta con un attentato la Torre di Pisa. Nel frattempo la massoneria a Trapani ha continuato a protendere i propri tentacoli, come scritto sulla relazione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi, e Messina Denaro, secondo ultimissime indagini, sarebbe non solo capo incontrastato del Trapanese, ma avrebbe messo anche definitivamente le mani su Palermo attraverso il mandamento di Brancaccio (Filippo Guttadauro è il cognato di Messina Denaro) e creato due strutture parallele: “Nella prima ci sarebbero imprenditori apparentemente puliti attraverso i quali il boss intrattiene collegamenti con i politici e quindi controlla gli appalti; nell’altra vi è la manovalanza mafiosa”. L’inchiesta del pm Paci di Caltanissetta riconduce a Messina Denaro la strategia stragista cara a Totò Riina, ma anche la capacità di sposare ed emulare la “sommersione mafiosa”poi scelta da Bernardo Provenzano. Di Giampiero Calapa’ Da il FQ del 3 Ottobre 2020
COMMISSIONE ANTIMAFIA: AUDIZIONI SUI RAPPORTI TRA MASSONERIA E ORGANIZZAZIONI CRIMINALI MAFIOSE
Il 3 agosto 2016 si è svolta l’audizione del gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi. Il 13 ottobre 2016 è stata ascoltata la Procura della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria (seduta parzialmente segretata); il 23 novembre 2016 e l’11 gennaio 2017 la Procura presso il tribunale di Palermo (sedute anch’esse parzialmente segretate). Nelle sedute del 18 ottobre 2017, 24 gennaio 2017, 25 gennaio 2017 e 31 gennaio 2017 sono stati auditi, in qualità di testimoni, i rappresentanti di alcune logge massoniche, cui sono stati anche richiesti gli elenchi degli iscritti. Il dott. Gratteri, procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro, è stato ascoltato nella seduta del 22 febbraio 2017 (seduta parzialmente segretata). Nella seduta del 1° marzo 2017 sono stati ascoltati i professori Isaia Sales e Enzo Ciconte e l’8 marzo 2017 il procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo (seduta segretata). Il 15 febbraio 2017 è stato ascoltato l’Amministratore unico di Riscossione Sicilia S.p.A. (seduta parzialmente segretata con riferimento alla relazione tra massoneria e mafia); successivamente è stato audito il Presidente della Regione Sicilia (seduta del 14 marzo 2017).Qui di seguito sono sintetizzati gli aspetti più rilevanti, sulla base degli stenografici pubblicati.
Le argomentazioni del responsabile del Grande Oriente d’Italia. Stefano Bisi ha rivendicato l’azione svolta dal Grande Oriente d’Italia (attualmente composta da oltre 23.000 fratelli, divisi in 850 logge) nei suoi 200 anni di storia, sia per le iniziative pubbliche a difesa della Costituzione che per quelle di natura sociale, sottolineando le regole rigide su coloro che chiedono di aderire all’organizzazione, i controlli effettuati sul rispetto delle regole interne (soprattutto negli anni della sua presidenza) e negando l’esistenza di logge segrete nell’ambito del Grande Oriente d’Italia ed il coinvolgimento di iscritti alla sua organizzazione.
Le contestazioni della Commissione. Sono stati richiesti puntuali chiarimenti in ordine a quanto emerso da indagini giudiziarie (ad esempio dall’inchiesta “Mammasantissima”), dichiarazioni di collaboratori di giustizia, intercettazioni telefoniche degli stessi esponenti mafiosi (in particolare ’ndranghetisti), dalle quali emergerebbe un rapporto organico tra massoneria e mafie (taluni analisti parlano di “masso-mafia”, per descrivere un’organizzazione alla quale appartengono esponenti sia delle organizzazioni criminali che della massoneria). Si tratterebbe di logge e massoniche segrete, deviate, utilizzate dalle associazioni criminali mafiose per infiltrarsi nell’economia e nelle istituzioni, come confermato anche dalle dichiarazioni al riguardo di alcuni ex iscritti al Gran Oriente. La Commissione chiede di conoscere quali provvedimenti siano stati assunti, a partire dagli anni ‘80, nei confronti di soggetti affiliati delle organizzazioni malavitose – cosa nostra, ’ndrangheta, sacra corona unita – presenti all’interno del Grande Oriente d’Italia e di altre organizzazioni massoniche. Stefano Bisi afferma di voler collaborare con la Commissione nella lotta alle mafie ma non fornisce riscontri su specifici provvedimenti assunti dall’organizzazione nei confronti di iscritti sospettati di essere in rapporto con gruppi criminali né sulle ragioni che hanno portato allo scioglimento di alcune logge (come quelle di Locri, Brancaleone e Gerace). E solleva forti obiezioni sulla presentazione della lista degli iscritti (richiesta espressamente dalla Commissione, in omaggio ai principi di trasparenza, sulla base dei poteri ad essa attribuiti), invocando a tale riguardo la tutela della privacy, anche per salvaguardare l’incolumità dei membri dell’organizzazione da possibili attentati e ritorsioni. La Commissione chiede delucidazioni anche sul forte radicamento della massoneria a Castelvetrano, in provincia di Trapani (dove opera la loggia Francisco Ferrer) e sul comportamento di tre assessori massoni del comune, due dei quali iscritti al Gran Oriente, che hanno rilasciato dichiarazioni ambigue in ordine alla volontà di collaborare alla cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro (che è nato proprio a Castelvetrano) e hanno attaccato anche la Commissione antimafia e la sua Presidente.
Le indagini della procura distrettuale di Reggio Calabria. I magistrati evidenziano il fortissimo radicamento attuale dell’’ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria, dove anche l’apertura di un bar o lo svolgimento di piccoli lavori di manutenzione degli edifici è soggetta all’autorizzazione da parte delle cosche locali. Le inchieste giudiziarie hanno evidenziato che un controllo del territorio così penetrante non sarebbe possibile in assenza di una “rete segreta”, composta da avvocati, professionisti, amministratori locali, appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti, magistrati, che svolge un’importantissima opera di supporto e appoggio all’’ndrangheta con particolare riferimento agli appalti pubblici: un’associazione segreta in grado di condizionare le scelte delle amministrazioni locali grazie ad una fittissima rete di rapporti. Si tratta di soggetti “invisibili”, che cioè debbono rimanere “coperti” per svolgere il proprio ruolo: ed è per questo che risulta spesso molto difficile, anche ricorrendo ai collaboratori di giustizia, avere notizie su di essi. In parallelo l’ndrangheta ha deciso da molti anni di inserire numerosi rappresentanti della cosca, anch’essi in modo “riservato”, all’interno della massoneria per sfruttarne la capacità di influenza sulle istituzioni e sulla società civile. Nel corso del dibattito è stata approfondita anche l’esistenza di forme di convergenza tra ‘ndrangheta e mafia, che hanno dato origine in alcuni momenti a strategie comuni (ad esempio con la creazione di movimenti separatisti in Calabria ed in Sicilia): su questo aspetto le indagini sono tuttora in corso.
L’audizione della procura di Palermo. La parte non segretata delle audizioni del 23 novembre 2016 e dell’11 gennaio 2017 è dedicata esclusivamente a fornire elementi di valutazione in ordine alle indagini relative alla latitanza di Matteo Messina Denaro e alla strategia adottata dalla magistratura per rompere il muro di omertà e di complicità che ha finora impedito l’arresto del boss mafioso. I numerosi arresti compiuti, che hanno coinvolto anche molti familiari, il sequestro di un numero elevato di beni, l’intensificazione delle perquisizioni e controlli nei confronti di persone che potevano averlo agevolato in passato, stanno producendo infatti i primi risultati, con l’affievolimento del consenso non solo della famiglia ma anche della borghesia professionale, della politica, dell’imprenditoria, confermato dalle intercettazioni svolte e dalle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia. Recentemente sono state adottate nuove ordinanze di custodia cautelare per associazione mafiosa.
Le testimonianze dei vertici di alcune logge. Nelle sedute del 18 ottobre 2017, 24 gennaio 2017, 25 gennaio 2017 e 31 gennaio 2017 (parzialmente segretate), i rappresentanti di alcune logge massoniche hanno risposto sotto giuramento ai quesiti elaboratori dai membri della Commissione. Il gran maestro del Grande Oriente d’Italia illustra le ragioni che ostacolano la trasmissione degli elenchi degli iscritti, fornendo altresì informazioni sulle caratteristiche principali delle logge stesse e sulle regole da esse applicate. La Commissione si sofferma in particolare sulla questione delle logge segrete; il dott. Bisi afferma di non essere a conoscenza di logge “coperte” all’interno della sua organizzazione: il fenomeno dei “Fratelli all’orecchio”, conosciuti solo dai Gran maestri dell’epoca, risale a prima del 1982. Forniti anche dati sulla consistenza degli iscritti in Calabria e Sicilia, che appaiono più elevati rispetto a quelli di altre Regioni. Stefano Bisi nega che vi sia un obbligo di verifica se un dipendente pubblico iscritto al GOI ha comunicato o meno alla sua Amministrazione di essere iscritto, come enunciato invece da una sentenza del Consiglio di Stato del 2003. Il dott. Bisi fornisce inoltre alcuni elementi su iscritti alla Gran loggia coinvolti nelle inchieste sui rapporti tra organizzazioni mafiose e massoneria. Il dott. Fabio Venzi illustra le origini della Gran Loggia Regolare d’Italia, di cui è gran maestro, nata nel 1993 per iniziativa dell’ex gran maestro Di Bernardo e di 300 membri fratelli appartenenti principalmente al Grande Oriente d’Italia, giudicando impossibile contrastare le infiltrazioni nel Grande Oriente d’Italia della malavita. La nuova loggia, dedita soprattutto agli studi su simbologia, storia, filosofia della libera muratoria, si caratterizza per la trasparenza delle adesioni; le liste degli iscritti sono state consegnate, sin dalle origini, al Ministero dell’Interno e alle altre autorità pubbliche presenti sul territorio: questa prassi rappresenta un fortissimo deterrente nei confronti di chi si volesse iscrivere alla loggia per fini diversi da quelli statutari. Il dott. Venzi fornisce informazioni dettagliate sulla consistenza e composizione sociale della Gran Loggia Regolare d’Italia (attualmente ci sono 2.400 iscritti, tra cui militari, dipendenti pubblici, giornalisti, preti, professionisti) e delle cautele adottate per impedire infiltrazioni della criminalità, in particolare in Calabria (si è opposto ad esempio alla istituzione di nuove logge nel versante jonico) e in Sicilia: viene citato in particolare il caso di un iscritto che fu espulso dalla loggia di Reggio Calabria. Il dott. Massimo Criscuoli Tortora illustra le caratteristiche della Serenissima Gran Loggia d’Italia-Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori, di cui è gran maestro dal 2006: si tratta di una loggia di limitate dimensioni (attualmente solo 197 iscritti rispetto ai 400 di alcuni anni fa), caratterizzata da un estremo rigore nell’esame delle richieste di adesione. Accanto alla valutazione dei certificati penali, sia generale che dei carichi pendenti e dei certificati antimafia e di non fallimento, viene effettuata una attenta verifica delle qualità morali di chi chiede l’adesione. Vi è da questo punto di vista un forte impegno di evitare qualsiasi compromissione con gruppi criminali, testimoniato anche da alcune iniziative culturali promosse dalla Gran loggia (ad esempio a Locri). Nel corso dell’audizione viene posta particolare attenzione al fenomeno delle logge irregolari, che sono numerosissime, soprattutto nel Centro-sud, ai rapporti esistenti tra le poche logge regolari e alle diverse forme di affiliazione internazionale. L’avv. Antonio Binni, gran maestro della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, fornisce una quadro dettagliato della sua associazione, nata nel 1805 da una scissione dal Grande Oriente d’Italia dovuta all’elevata politicizzazione di quest’ultima e alle sue posizioni critiche nei confronti della Chiesa; attualmente conta oltre 8.000 iscritti (il 40% donne, escluse invece da altre logge massoniche), con logge presenti non solo in tutte le regioni italiane ma anche all’estero (ad esempio Gran Bretagna, Canada, Libano). L’avv. Binni sottolinea l’estremo rigore nella valutazione delle richieste di iscrizione, per le quali viene comunque richiesto il certificato penale e quello dei carichi pendenti: non sono mai state accertati casi di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Il professor Giuliano Di Bernardo, gran maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani tra il 1990 e il 1993, illustra le vicende relative all’inchiesta promossa dal procuratore di Palmi, Agostino Cordova e della sua decisione di consegnare immediatamente gli elenchi degli affiliati calabresi (per tutti gli altri ci fu un veto dell’organo di governo del Grande Oriente e furono poi sequestrati); proprio gli elementi di prova raccolti da Cordova sulla compromissione della loggia Grande Oriente d’Italia con l’ndrangheta lo hanno indotto a fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Il professor Di Bernardo fornisce anche elementi sulla loggia presieduta da Gelli.L’avvocato Amerigo Minnicelli, già maestro venerabile emerito della loggia Luigi Minnicelli n. 972 di Rossano (CS) del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani, illustra le ragioni che hanno portato alla sua espulsione e gli elementi da lui raccolti in ordine ai rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria.
Le relazioni tra organizzazioni mafiose e massoniche. Nell’audizione del 1° marzo 2017, i prof. Sales e Ciconte evidenziano come le organizzazioni mafiose hanno recepito sin dalle origini il modello organizzativo delle sette segrete e delle società carbonare, sia per quanto riguarda l’aspetto solidaristico e di mutualità che per quanto concerne lo sviluppo delle relazioni, la segretezza della loro azione, i diversi gradi di affiliazione ed infine l’uso della violenza: così come le logge massoniche attribuiscono alla violenza un valore ideale, anche quella dei gruppi criminali “non è una violenza delinquenziale, ma è una violenza d’onore, una violenza che segue una strategia, una violenza che segue un ideale”. Non è un caso che Sicilia e Calabria siano le regioni dove si è sviluppato il maggior numero di logge massoniche. E nel corso del tempo si sono sviluppate forti relazioni tra massoneria e gruppi mafiosi quando vi era un interesse comune: uno dei casi più rilevanti è quello dei rifiuti, che è stato gestito assieme da camorra e massoneria. Il prof. Ciconte si sofferma in particolare sulle commistioni tra ’ndrangheta e le logge deviate, soprattutto a metà degli anni Settanta, quando c’è stato un rapporto molto forte tra ’ndrangheta, cosa nostra e massoneria all’interno della strategia della tensione; tale convergenza di interessi si manifesta anche nella stagione dei grandi appalti pubblici (Autostrada del sole, quinto centro siderurgico, Enel etc). L’analisi degli atti delle inchieste giudiziarie condotte in passato – a partire da quelle del procuratore Cordova – potrebbe fornire utilissimi spunti per approfondire i legami concreti che si sono instaurati nel tempo tra mafie e massoneria. Tra i temi affrontati nel corso della discussione c’è quello dell’opportunità di definire per via legislativa un’incompatibilità tra la partecipazione ad associazioni massoniche e la funzione di magistrato o di appartenente alle forze dell’ordine o ai corpi militari. Secondo i prof. Sales e Ciconte tale incompatibilità si fonda sul vincolo di segretezza imposto agli aderenti alle logge massoniche, ciò che è in palese contrasto con il vincolo istituzionale di fedeltà richiesto ai servitori dello Stato.
Le liste degli iscritti alle logge. La Commissione ha chiesto formalmente gli elenchi degli iscritti di alcune logge, al fine di verificare – alla luce delle indagini della magistratura – l’esistenza di soggetti legati alle organizzazioni mafiose. Poiché i responsabili delle logge interessate non hanno dato corso tempestivamente a tale richiesta, la Commissione ha deliberato il sequestro di tali elenchi, che saranno assoggettati a regime di segretezza e quindi non divulgati (vedi a tale riguardo le sedute del 7 marzo 2017 e del 15 marzo 2017).
L’evoluzione della ‘ndrangheta. L’audizione del dott. Gratteri, nella parte non segretata, si è concentrata sul processo evolutivo dell’ndrangheta, avvenuto nel 1970 con la costituzione della “santa” ad opera di una nuova generazione di ‘ndranghetisti: lo scopo è quello di far fare un salto di qualità all’organizzazione, permettendole di assumere potere decisionale della gestione della cosa pubblica. Entrare nella massoneria deviata vuol dire stabilire relazioni importanti con quadri della pubblica amministrazione, medici, ingegneri, avvocati, magistrati, altri professionisti: con la “santa” è stata regolamentata la possibilità di avere una doppia affiliazione. Il procuratore di Catanzaro, in merito allo scioglimento di alcune logge massoniche, sottolinea che tale provvedimento si giustifica solo con la gravità degli errori ad esse addebitati dal tribunale interno, perché nei casi meni gravi la massoneria – così come la ‘ndrangheta – prevede pene più lievi, come ad esempio la sospensione.
La riscossione delle imposte in Sicilia. L’Amministratore unico di Riscossione Sicilia, partecipata regionale cui è affidata la riscossione delle imposte, in luogo di Equitalia, illustra – nella parte non segretata della seduta – la drammatica situazione siciliana: nel 2015, a fronte di 5 miliardi e 700 milioni l’anno previsti, gli incassi reali erano pari a 480 milioni (l’8 per cento), con 52 miliardi di imposte prescritte. Anche oggi, nonostante i grossi sforzi sostenuti, la percentuale di riscossioni è solo del 14 per cento. Le ragioni principali vanno ricercate nelle fortissime resistenze opposte a tutti I livelli e nelle prassi seguite: ad esempio in Sicilia l’aggiudicazione degli appalti pubblici avviene in seguito alla presentazione di semplici autocertificazioni sulla “regolarità fiscale”, perlopiù false, senza alcuna verifica successiva. Segnala inoltre l’esistenza di rilevanti problemi organizzativi interni, scarsa collaborazione di altre Amministrazioni, fortissime difficoltà per la notifica delle cartelle. Le categorie merceologiche maggiormente interessate riguardano le imprese dedite all’ortofrutta, al mercato ittico, alle carni, al movimento terra, agli appalti, alle onoranze funebri e alle società petrolifere, a cui si aggiungono anche molti importanti comuni. Sullo stesso tema ha chiesto di essere ascoltato il Presidente dell’Assemblea siciliana, che ha contestato la ricostruzione dell’Amministratore unico, sottolineando le gravi carenze dell’attività di Riscossione Italia e l’assenza di risultati nel recupero dell’evasione fiscale (non è tra l’altro disponibile il bilancio 2016 e il piano industriale), che hanno indotto l’Assemblea a procedere ad una ricapitalizzazione parziale e a riflettere sull’opportunità di procedere allo scioglimento della società e all’affidamento di tali competenze ad un nuovo organismo nazionale che effettui la riscossione anche per la Sicilia. La discussione in Commissione si è sviluppata soprattutto sulle affermazioni dell’Amministratore unico– che ha presentato anche una denuncia alla procura – in merito ai forti condizionamenti delle organizzazioni mafiose volti ad ostacolare l’attività di riscossione e sulle dure polemiche tra membri dell’Assemblea e l’Amministratore stesso. Sul punto il Presidente dell’Assemblea sottolinea i profondi cambiamenti rispetto all’epoca in cui le esattorie erano gestite dai fratelli Salvo e che le dichiarazioni dell’Amministratore unico sono oggetto di valutazione da parte della Commissione antimafia dell’Assemblea siciliana, oltre che della procura.
Relazione finale.La Commissione ha avviato nella seduta del 19 dicembre 2017 l’esame della proposta di relazione sulle infiltrazioni di cosa nostra e della ’ndrangheta nella massoneria in Sicilia e Calabria: il documento conclusivo (doc. XXIII, n. 33) è stato approvato nella seduta del 21 dicembre 2017.
Mafia e massoneria, in manette due ‘maestri venerabili’ Mafia e massoneria a braccetto. E’ quanto emerge dalla nuova inchiesta antimafia della Dda di Palermo che all’alba di oggi ha emesso sette fermi. In manette per concorso esterno in associazione mafiosa anche il funzionario regionale Lucio Lutri che, secondo quanto emerge dall’inchiesta coordinata dalla Dda di Palermo e condotta dal Ros dei carabinieri, temeva di essere intercettato. “Lutri – dicono i magistrati -invitava più volte i propri interlocutori a spegnere i telefonini per evitare di essere intercettati”. “L’associazione mafiosa – scrivono i pm nel provvedimento di fermo – ha avuto garantita la sua disponibilità e l’utilizzo di importanti canali massonici, ottenendo vantaggi consistenti”. Gli indagati sono accusati di associazione mafiosa e concorso esterno in associazione mafiosa. Nel corso dell’inchiesta sono state documentate “qualificate dinamiche associative funzionali alla infiltrazione di rilevanti attività imprenditoriali in via di realizzazione nell’agrigentino – dicono gli inquirenti – e il ruolo occupato all’interno del sodalizio da due massoni che ricoprivano il ruolo di maestri venerabili di due distinte logge”. “Il vantaggio per il massone, in alcune occasioni, si è concretizzato nella possibilità di richiedere favori che soltanto una struttura criminale come quella mafiosa poteva garantire”, dicono i pm. “Ciò in particolare è accaduto quando Lustri si è rivolto a Giacomo Casa al fine di costringere con metodi mafiosi un imprenditore restio ad onorare un debito nei confronti di una persona a lui vicina”, dicono gli inquirenti. “La commissione antimafia intende capire quanto sia diffusa, conosciuta e tollerata la presenza di affiliati alla massoneria nell’amministrazione della Regione Sicilia, anche alla luce dell’indagine della Dda di Palermo sui legami tra Cosa nostra, massoneria e burocrazia regionale” dichiara il presidente della Commissione Antimafia regionale Claudio Fava, spiegando di voler valutare “se aprire a settembre un’indagine sul rapporto fra massoneria, enti locali e amministrazione regionale, tenuto conto delle molte inchieste in corso in tutte le Dda siciliane”. Per il presidente dell’antimafia “è urgente estendere l’obbligo di dichiarazione dell’appartenenza alla massoneria, già in vigore per legge per tutti i parlamentari siciliani, anche ai funzionari e ai dirigenti della Regione”. ADNKRONOS 31/07/2019
Massoneria e Cosa nostra I rapporti tra massoneria e mafia risalgono già al periodo della seconda guerra mondiale, quando il ‘pastore’ protestante Frank Bruno Gigliotti, massone ed agente dell’OSS (poi CIA), preparò lo sbarco in Sicilia degli alleati attraverso i rapporti con la mafia e la massoneria. Quindi la massoneria siciliana ha avuto un ruolo ‘fondamentale, insieme a elementi della mafia, nel preparare lo sbarco degli Alleati in Sicilia’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 37). Ma questi rapporti sono proseguiti nel tempo e si sono rafforzati. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo racconta che mentre era Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Armando Corona (1982-1990), siccome Corona fece riscrivere i regolamenti interni, le costituzioni del GOI, trasformando – come dice lui – ‘la massoneria in una specie di società per azioni in cui la giunta è diventata un consiglio d’amministrazione’ (Ibid., pag. 35), avvenne che la massoneria americana tolse il riconoscimento al GOI, e a questo punto rivela dei particolari a dir poco inquietanti: ‘La riforma della costituzione massonica voluta da Corona fece perdere al Grande Oriente il riconoscimento da parte della massoneria americana. I gran maestri regionali, soprattutto del Sud, che erano molto irritati, avevano rapporti molto stretti con la Gran Loggia di New York. Quindi anche con la mafia, infiltrata nella famosa loggia Garibaldi: un concentrato di esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia, pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa nostra in America’ (Ibid., pag. 36-37). Altre concrete prove sui rapporti tra Massoneria e Mafia provengono dal processo sull’omicidio di Roberto Calvi, infatti nella requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo ‘Omicidio di Roberto Calvi’, si legge a proposito di Angelo Siino, ex «ministro dei lavori pubblici» di Cosa nostra ed ora collaboratore di giustizia: «Gran Maestro dell’Oriente di Palermo della loggia massonica Camea, con il grado di trentatré, Angelo Siino ha riferito di aver incontrato per caso Roberto Calvi a Santa Margherita Ligure all’interno della sede della loggia, una chiesa sconsacrata, adibita a tempio massonico, mentre stava parlando con l’allora Gran Maestro della loggia, Aldo Vitale, personaggio importante in quella zona, medico condotto. Siino si era recato a Santa Margherita con Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, massone parimenti appartenente alla loggia Camea» (Requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo «Omicidio di Roberto Calvi», Procura della Repubblica, Tribunale di Roma, P.p. 13034/95 RG Noti, Roma, 9 Marzo 2007, parte I, p. 106; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 544). Siino descrisse quell’incontro in questa maniera: ‘Aldo Vitale, sempre espansivo, gentile ed accogliente nei suoi confronti, gli aveva detto di ‘aspettare un attimo’. Si era meravigliato ed aveva domandato al suo accompagnatore ‘ma chi è questo che è in compagnia di Vitale?’. Questi gli aveva risposto che era Calvi, ‘un banchiere di Milano’ ‘un personaggio importante’, ‘anche perchè gestisce dei soldi nostri’. Aveva usato il plurale maiestatis per fargli intendere che ‘gestiva dei soldi di Cosa nostra’. Nell’occasione, aveva detto che gestiva anche denaro di altri. Aveva usato l’espressione ‘e non solo’. Si era meravigliato del fatto che Aldo Vitale conoscesse Roberto Calvi. Era, però, un personaggio importante, anche amico di Licio Gelli, circostanza che aveva potuto constatare personalmente’ (Requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo «Omicidio di Roberto Calvi», Procura della Repubblica, Tribunale di Roma, P.p. 13034/95 RG Noti, Roma, 9 Marzo 2007, parte I, p. 106; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 544-545). Oltre al Siino, anche un altro ex mafioso ora collaboratore di giustizia che si chiama Gioacchino Pennino è un massone, infatti nella requisitoria si legge a suo proposito: «Uomo d’onore riservato, medico specialista, Gioacchino Pennino ha fatto parte di una loggia appartenente all’obbedienza di Palazzo Giustiniani e, prima ancora, sin dagli anni Sessanta, all’ordine di Rito Scozzese antico e accettato di cui era Gran Sovrano il principe Giovanni Alliata di Monreale, che aveva sede a Roma, in via del Gesù, e che si rifaceva alla loggia del Mondo di Washington. Negli anni Sessanta aveva ricevuto il titolo massonico di ‘dumitis’ dell’Ordine del gladio e dell’aquila» (Verbale del 12 aprile 2006, Procedimento penale n. 13034/95 RG Noti, p. 8; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 545-546), ed ha rivelato delle cose sulla massoneria che vale la pena trascrivere: ‘Il principe Gianfranco Alliata è appartenuto alla famiglia mafiosa di Brancaccio e, al contempo, ha rivestito il ruolo di Grande Sovrano della massoneria di piazza del Gesù, con il ruolo di sovrano dell’ordine di Rito scozzese antico ed accettato, che aveva come riferimento il duca di Kent, la Gran Loggia Unita di Inghilterra e, in America, la loggia del Mondo di Washington. E’ stato uno dei mandanti della strage di Portella delle Ginestre per conto del partito monarchico e della massoneria. Facevano parte di questa massoneria Michele Sindona e Antonino Schifando; ed era frequentata da alcuni associati a Cosa nostra, quali Angelo Cosentino, responsabile della famiglia di Santa Maria del Gesù a Roma, con il ruolo di capo decina; da Giuseppe Calò e Luigi Faldetta. Aveva appreso le circostanze sull’appartenenza e le frequentazioni massoniche di questi boss nel corso degli anni, da Stefano Bontate e dal cognato Giacomo Vitale, entrambi defunti e massoni. Non era in grado di precisare a quale massoneria apparteneva Bontate. Giacomo Vitale, dapprima, apparteneva alla massoneria di piazza del Gesù e, successivamente, aveva aderito alla Camea, loggia di origine ligure, con alcune logge in Sicilia e a Palermo soprattutto. Gianfranco Alliata aveva presentato Michele Sindona a Stefano Bontate» (Ibidem). E proseguiamo, perchè di prove ce ne sono altre molto importanti. Infatti nell’aprile del 1986 la squadra mobile di Trapani fece irruzione nel Centro, situato in via Carreca, sequestrando gli elenchi di sette logge massoniche (circa 200 gli iscritti). Dopo un attento esame si scoprì che una delle sette logge era ‘coperta’ e i suoi quasi cento affiliati non erano presenti in alcun elenco o registro ufficiale. Dopo qualche settimana emersero i primi nomi degli affiliati segreti: funzionari del comune e della provincia, un burocrate della prefettura, imprenditori edili, commercianti, un famoso deputato della Democrazia Cristiana, e boss mafiosi. Il giornalista Attilio Bolzoni scrisse allora su La Repubblica: «Alcuni ‘fratelli’, ammette un investigatore, oltre ad essere in buoni rapporti con i boss, occupano posti importanti nella Pubblica amministrazione. Altri, forse, hanno anche in mano le chiavi della città … Un sospetto inquietante’ (La Repubblica, 3 Dicembre 1986). Di quel Centro si occupò pure la Commissione parlamentare antimafia. Nel resoconto stenografico della seduta del 4 dicembre 1992, che era presieduta dall’onorevole Luciano Violante si legge: ‘Nell’aprile del 1986 la magistratura trapanese dispose il sequestro di molti documenti presso la locale sede del Centro studi Scontrino. Il centro studi, di cui era presidente Giovanni Grimaudo – con precedenti penali per truffa, usurpazione di titolo, falsità in scrittura privata e concussione – era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Cafiero ed Hiram. L’esistenza di un’altra loggia segreta, trovò una prima conferma nel rinvenimento, in un’agenda sequestrata al Grimaudo, di un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura ‘loggia C’; tra questi quello di Natale L’Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d’Alcamo risultano essere stati affiliati: Fundarò Pietro, che operava in stretti rapporti con il boss mafioso Natale Rimi; Pioggia Giovanni, della famiglia mafiosa di Alcamo; Asaro Mariano, imputato nel procedimento relativo all’attentato al giudice Carlo Palermo». La relazione della Commissione antimafia dice ancora quanto segue: «Nel procedimento trapanese contro Grimaudo vari testimoni hanno concordato nel sostenere l’appartenenza alla massoneria di Mariano Agate; dagli appunti rinvenuti nelle agende sequestrate al Grimaudo risultano poi collegamenti con i boss mafiosi Calogero Minore e Gioacchino Calabrò, peraltro suffragati dai rapporti che alcuni iscritti alle logge intrattenevano con gli stessi. Alle sei logge trapanesi ed alla ‘loggia C’ erano affiliati amministratori pubblici, pubblici dipendenti (comune, provincia, regione, prefettura), uomini politici (l’onorevole Canino ha ammesso l’appartenenza a quelle logge, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati), commercialisti, imprenditori, impiegati di banca. Gli affiliati a questo sodalizio massonico interferivano sul funzionamento di uffici pubblici, si occupavano di appalti e di procacciamento di voti in occasione delle competizioni elettorali, tentavano di favorire posizioni giudiziarie e di corrompere appartenenti alle forze dell’ordine amici. Il Grimaudo risulta aver chiesto soldi agli onorevoli Canino (Dc) e Blunda (Pri) per sostenerne la campagna elettorale; la moglie di Natale L’Ala ha testimoniato che, su richiesta del Grimaudo, il marito si attivò per favorire l’elezione degli onorevoli Nicolò Nicolosi (Dc) e Aristide Gunnella (Pri)» (Commissione parlamentare antimafia, resoconto stenografico della seduta del 4 dicembre 1992 [n. 38, XI legislatura] presieduta dall’onorevole Luciano Violante, pp. 1833-1834; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 561-562), e riferisce pure: «Particolare rilevanza assume, infine, nel contesto descritto, il rapporto di Grimaudo con Pino Mandalari. Mandalari fu arrestato nel 1974 per favoreggiamento nei confronti di Leoluca Bagarella e nel 1983, fu imputato con Rosario Riccobono. E’ legato a Totò Riina e socio fondatore nel 1974, con il mafioso Giuseppe Di Stefano, della società Stella d’Oriente di Mazara del Vallo, della quale fece parte dal 1975 Mariano Agate. Della società facevano parte parenti del boss camorristico Nuvoletta, membro di Cosa nostra. Mandalari è un esponente significativo della massoneria e riconobbe, nel 1978, le logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo» (Ibidem; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 562-563). Il giornalista Antonio Nicaso definisce il Mandalari ‘il commercialista di Totò Riina’ e ‘Gran Maestro dell’Ordine e Gran Sovrano del Rito scozzese antico e accettato, un uomo al centro di mille sospetti e di altrettanti misteri’ Anche negli atti del processo Dell’Utri emergono collusioni tra la Massoneria e la Mafia, infatti nella lunga requisitoria pronunciata dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nico Gozzo nel corso di diverse udienze viene detto dai pm: «Il tema della massoneria è centrale in questa parte della requisitoria che riguarda la fine degli anni ’70. E’ fondamentale per l’associazione mafiosa, e specie per Bontate, che voleva svezzare Cosa nostra ed introdurla ancora di più negli ambienti che contano. Tramite la massoneria viene acquisita una serie di contatti […]. La massoneria – ed in particolare proprio Licio Gelli, fondatore della loggia massonica coperta Propaganda 2 – in quel periodo si trova al centro di una serie di interessi, che avevano come propri terminali associati mafiosi» (Testo della requisitoria relativa al procedimento penale numero 4578/96 N.R. nei confronti di Gaetano Cinà e Marcello Dell’Utri, pubblicato in Peter Gomez e Marco Travaglio, L’amico degli amici, Rizzoli-Bur, Milano 2005, p. 227). Ed in effetti, come dice Ferruccio Pinotti, ‘in Sicilia, tra il 1976 e il 1980, i mafiosi fanno a gara per entrare nella massoneria. Cosa nostra offre ai massoni l’efficacia della propria macchina militare, ma soprattutto una formidabile carta di pressione politica: il denaro. I massoni offrono ai boss i canali legali per riciclare e investire i soldi, i contatti politici giusti per concludere grandi affari e i magistrati adatti per l’«aggiustamento» dei processi. Le logge, negli anni Ottanta, fioriscono. Solo a Palermo, dopo la Camea, la Armando Diaz, la Normanni di Sicilia. Nella sola Sicilia all’epoca si contano più di centosettanta logge’Questa commistione tra Massoneria e Mafia è stata confermata dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, l’ex capo mafioso di Castelvetrano (Trapani). Ecco infatti cosa riporta la requisitoria del PM Tescaroli (nel processo sull’omicidio di Calvi) sulle sue dichiarazioni in merito ai rapporti tra mafia e massoneria: «Appare utile, per poter apprezzare l’attendibilità delle sue dichiarazioni dibattimentali, riportare quanto ha riferito Calcara sui temi d’interesse del presente processo. In data 2.12.1992, ha riferito: ‘Voglio adesso parlare di un argomento del quale avevo già iniziato a parlare con il Giudice Borsellino ma solo a voce. E con il quale avevamo rimandato la verbalizzazione di tali fatti. Esiste infatti un grosso collegamento tra la Loggia Massonica di Castelvetrano, Campobello e Trapani e l’organizzazione mafiosa che milita in quella zona. Infatti il Vaccarino è un massone, e anche l’avv. Pantaleo di Campobello. Voglio essere molto preciso nel parlare di queste cose perchè chiaramente sono cose molto delicate. So per certo che molti uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato sono appartenenti alle Logge Massoniche. Una volta il Vaccarino parlando di tale argomento, mi disse che la Massoneria era una cosa grande, più grande di noi. E mi disse che il suo piacere era che io facessi parte di tale organizzazione. Fu lo stesso Vaccarino a dirmi che lo Schiavone è massone e nell’ambito delle famiglie si diceva che anche il giudice Carnevale era massone. Ricordo, che una volta mi recai a Roma e lì andai a trovare lo Schiavone il quale mi accompagnò a Montecitorio perchè io dovevo consegnare per conto di Pantaleo una grande busta sigillata, da consegnare a mano all’on.le Miceli dell’Msi. A Montecitorio la Segreteria dell’on.le Miceli mi disse che l’onorevole non era in sede. Io allora uscii da Montecitorio (fuori mi aspettava lo Schiavone) e chiamai per telefono il Pantaleo che mi aveva consegnato la busta. Questi mi disse di consegnarla allo Schiavone. Di tali fatti chiesi spiegazione al Vaccarino che mi disse: ‘Cose di Massoni’ e in quell’occasione aggiunse che parlavano di una cosa più grande di noi. Sono argomenti estremamente difficili e delicati perchè di difficile riscontro. Bisogna anche considerare che i probabili anzi più che probabili elenchi dopo tutti questi fatti siano stati occultati. Ricordo che il giorno prima che Borsellino morisse, conversammo, per telefono; Borsellino in quella occasione mi disse che dovevamo vederci presto per parlare di quelle ‘cose importanti’ e chiaramente intendeva riferirsi a quei discorsi sulla Massoneria che insieme avevamo fatto. Voglio aggiungere sull’argomento che ho anche sentito dire che l’on.le Culicchia era massone e comunque ribadisco che moltissimi uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato fanno parte della Loggia Massonica e ciò perchè per la realizzazione di determinati traffici tale condizione li aiutava, e anche per quello che è la vita sociale in genere. Voglio però precisare che non intendo affermare che, per quanto a mia conoscenza, il semplice fatto di essere massone significhi essere legato all’organizzazione mafiosa. Certo è comunque, come ho già detto, che i mafiosi che fanno parte della Loggia Massonica evidentemente ne ricevevano i loro vantaggi» (Requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo «Omicidio di Roberto Calvi», Procura della Repubblica, Tribunale di Roma, P.p. 13034/95 RG Noti, Roma, 9 Marzo 2007, parte II, pp. 288-289; in Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 585-586).
Come ha scritto giustamente un giornalista su La Repubblica: «Le affiliazioni massoniche offrono all’organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere per ottenere favori e privilegi in ogni campo, sia per la conclusione di grandi affari sia per l’aggiustamento di processi, come hanno rilevato numerosi collaboratori della giustizia’ (La Repubblica, 23 aprile 1993). E io aggiungo, non solo all’organizzazione mafiosa, ma anche a quei pastori evangelici corrotti che si affiliano alla massoneria – non importa se a logge ufficiali o coperte – per ricevere ‘aiuti’ dai criminali, che poi loro puntualmente presenteranno alle loro Chiese come aiuti provenienti da Dio! E di cosa bisogna meravigliarsi sapendo quanta corruzione e malvagità esiste nelle denominazioni evangeliche e che ci sono pastori in esse che si alleerebbero pure con il diavolo in persona per perseguire i loro interessi personali? Questi sono tra quei pastori amici di malfattori, che cercano il loro proprio interesse e non ciò che è di Cristo, e di cui il profeta Isaia dice: “I guardiani d’Israele son tutti ciechi, senza intelligenza; son tutti de’ cani muti, incapaci d’abbaiare; sognano, stanno sdraiati, amano sonnecchiare. Son cani ingordi, che non sanno cosa sia l’esser satolli; son dei pastori che non capiscono nulla; son tutti vòlti alla loro propria via, ognuno mira al proprio interesse, dal primo all’ultimo. ‘Venite’, dicono, ‘io andrò a cercare del vino, e c’inebrieremo di bevande forti! E il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!’” (Isaia 56:10-12). Guai a loro! La commistione tra Massoneria e mafia in Sicilia è tale che dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, avvenute nel 1992, in cui furono uccisi dalla mafia i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ‘il professor Orazio Catarsini, uno dei massimi esponenti del mondo accademico, presidente del collegio dei Maestri Venerabili, sottopone ai confratelli delle logge un documento di condanna delle stragi, ma il documento non passa’. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo, a tale proposito, ‘ha raccontato al Procuratore di Palmi che, in una riunione del Collegio dei Gran Maestri delle logge siciliane, il 26 luglio 1992, il suo presidente, il professor Catarsini «aveva ritenuto opportuno far approvare un documento che attestasse la presa di posizione della massoneria rispetto alla mafia, anche alla luce dei gravi fatti accaduti con l’uccisione di Falcone e Borsellino. Subito dopo la riunione, Catarsini mi telefonò alle Canarie» ricorda Di Bernardo «dove mi trovavo in vacanza, comunicandomi, turbato, la mancata approvazione del documento, che lo aveva disorientato e non sapeva come interpretare»’ (Francesco Forgione & Paolo Mondani, Oltre la cupola: massoneria mafia politica, pag. 211). Tratto dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro
1.10.2020 Massoneria segreta a Castelvetrano
Diciannove indagati, sei per violazione della Legge Anselmi. Avviso di conclusione indagine per l’on. Giovanni Lo Sciuto
La maxi inchiesta “Artemisia” è prossima a giungere nella fase dibattimentale dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. La Procura di Trapani ha fatto notificare il provvedimento a 19 persone. Potremmo definirli tutti come appartenenti al “cerchio magico” creato attorno al principale indagato, l’ex deputato regionale Giovanni Lo Sciuto, medico, 58 anni, di Castelvetrano. I carabinieri gli hanno notificato il provvedimento al suo domicilio dove da qualche mese si trova agli arresti domiciliari. Misura cautelare di recente confermata anche dai giudici di appello del Tribunale del riesame. Lo Sciuto è stato più volte consigliere comunale a Castelvetrano, consigliere e assessore alla Provincia regionale, prima di approdare al Parlamento regionale, dove fu anche componente della commissione regionale antimafia. Politico centrista, da ultimo vicino all’ex ministro Angelino Alfano. Il provvedimento riguarda anche Paolo Genco, manager della formazione professionale (Anfe), Rosario Orlando, medico, 69 anni, per un lungo periodo a capo delle commissioni mediche dell’Inps per il riconoscimento delle invalidità civili, Gaspare Magro, 55 anni (con incarichi nella pubblica amministrazione regionale), l’ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante, altri politici come Vincenzo Chiofalo, Luciano Perricone, ed inoltre Vincenzo Barone, 66 anni, Giuseppe Angileri, 63 anni, Maria Luisa Mortillaro, 64 anni, Isidoro Calcara, 57 anni, i poliziotti Salvatore Passanante, Salvatore Virgilio e Salvatore Giacobbe, Vincenzo Giammarinaro, 61 anni, Francesco Messina Denaro, 59 anni, Gaetano Bacchi, 90 anni, Tommaso Geraci, 66 anni e Giuseppe Berlino 42 anni, dirigente dei Beni culturali in Sicilia. I reati in generale contestati sono quelli di corruzione, induzione indebita, concussione, traffico di influenza illecita, truffa, falso e rivelazione segreti di ufficio. Delle trenta pagine del provvedimento, 10 sono dedicate alla violazione della legge Anselmi, la norma votata dal parlamento nel 1982 contro la massoneria segreta. Le indagini sfociarono nel marzo 2019 nell’esecuzione di numerose misure cautelari. L’inchiesta condotta dal reparto operativo provinciale dei Carabinieri e coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Agnello e dalle pm Sara Morri e Francesca Urbani, ha svelato l’esistenza di due associazioni, Hypsa e Malophoros, con sede a Castelvetrano, che da Lo Sciuto sarebbero state usate come vere e proprie logge massoniche. L’ex deputato non è massone ma per i pm avrebbe usato la massoneria e i suoi diversi addentellati per gestire il proprio potere politico. La violazione della legge Anselmi è contestata oltre che all’ex parlamentare anche all’ex sindaco Errante, al suo vice Chiofalo, all’ex consigliere comunale Luciano Perricone, al poliziotto Salvatore Passanante e ancora a Giuseppe Berlino e Gaspare Magro. Affari, politica e massoneria. Trapani, non nuova a queste connessioni, è scossa da questa indagine, frutto di una maxi inchiesta dei Carabinieri del nucleo investigativo del Comando provinciale. Il nome di Lo Sciuto si legge in alcune delle indagini condotte nel trapanese contro Cosa nostra, ma mai l’ex deputato è stato indagato per mafia: da giovane era vicino, per interessi commerciali, a familiari dei Messina Denaro, c’è una sua foto da giovanissimo ritratto ad una cerimonia (il matrimonio di Lorenzo Cimarosa, cugino dei Messina Denaro, morto prematuramente dopo avere iniziato la collaborazione con la giustizia) assieme al coetaneo ed oggi super boss latitante, Matteo Messina Denaro. Trapani secondo questa inchiesta “Artemisia” resta la terra dove la massoneria tiene forti radici. Unico precedente risale alla metà del 1986 quando ci fu la scoperta a Trapani degli elenchi di una loggia massonica segreta all’interno del circolo culturale “Antonio Scontrino”. Erano gli elenchi della Iside 2, fondata dal massone palermitano Pino Mandalari, il commercialista di Riina, lì erano iscritti professionisti della città, politici e mafiosi, tutti accolti da un professore di filosofia il gran maestro Gianni Grimaudo. A quasi 35 anni di distanza si replica: due logge segrete, sono scoperte dai Carabinieri nel cuore di Castelvetrano, la città del ricercato Matteo Messina Denaro. A capo delle logge ci sarebbe stato Giovanni Lo Sciuto, secondo la Procura di Trapani avrebbe usato in determinate occasioni il circuito della massoneria e avrebbe dato lui la parvenza massonica alle due associazioni Hypsas e Malophoros. L’indagine “Artemisia” fotografa quasi uno per uno gli affari trattati all’interno di queste pseudo logge coperte dal vincolo della segretezza, comune denominatore degli affari, corruzioni, concussioni, truffe. Ma anche l’infiltrazione nel mondo della formazione professionale, la gestione di centinaia di pratiche per le concessioni di invalidità civili, nomine pubbliche a diversi livelli. Per i pm l’inchiesta ha dipanato una vera e propria rete di inquinamento istituzionale. Tra gli episodi contestati quello di una fuga di notizie: Lo Sciuto aveva saputo di essere sotto inchiesta. Un troncone investigativo che riguarda l’ex presidente dell’Ars Francesco Cascio, procedimento trasferito ora a Palermo, l’ex capo della segreteria del ministro Alfano, Giovannantonio Macchiarola, per il quale come per Cascio il fascicolo è destinato ad essere trasferito ad altra Procura, in questo caso quella di Roma. Trasferito a Marsala anche il fascicolo riguardante un massone mazarese, Arturo Costa, anche lui indagato per avere veicolato verso Lo Sciuto la notizia che era oggetto di indagini. ALQUAMA
3.3.2020 Mafia e massoneria, coinvolto anche maestro della loggia palermitana: chiusa inchiesta
Sono 21 gli indagati nei cui confronti si profila una richiesta di rinvio a giudizio. Spicca la figura del funzionario della Regione, Lucio Lutri: grazie alla rete di conoscenze di cui disponeva avrebbe “acquisito e veicolato ai boss licatesi informazioni riservate”
Meno di un anno dopo la doppia operazione, eseguita dai carabinieri e dal Ros fra luglio e agosto, i pubblici ministeri della Dda di Palermo, Geri Ferrara, Claudio Camilleri e Alessia Sinatra, hanno chiuso le inchieste “Assedio” e “Halycon” che hanno disarticolato la nuova famiglia mafiosa di Licata che avrebbe pure stretto un accordo con la politica e la massoneria deviata per portare avanti i propri interessi economici e personali. Tra i personaggi principali c’è anche il funzionario della Regione Lucio Lutri.
Quest’ultimo, in particolare, “grazie alle rete relazionale a sua disposizione quale Maestro venerabile della loggia massonica “Pensiero ed Azione” di Palermo, avrebbe “acquisito e veicolato agli appartenenti alla famiglia mafiosa informazioni riservate circa l’esistenza di attività di indagine a loro carico” e sarebbe intervenuto per favori di altra natura che avrebbero rafforzato l’organizzazione criminale.
Sono ventuno gli indagati nei cui confronti si profila una richiesta di rinvio a giudizio. Tra i personaggi principali anche il boss Angelo Occhipinti, 65 anni, e l’ex consigliere comunale, nonchè geometra dell’ufficio tecnico dell’ospedale di Licata, Giuseppe Scozzari. Scozzari, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa come Lutri, avrebbe, “nell’esercizio delle sue funzioni di responsabile del servizio tecnico del presidio ospedaliero di Licata ed essendo influente funzionario dell’Asp di Agrigento, garantito corsie preferenziali per l’accesso ai servizi dell’Asp a soggetti indicati dal capomafia Occhipinti”.
Nell’esercizio delle funzioni di consigliere comunale di Licata, invece, avrebbe “messo a disposizione il proprio peso politico all’interno del Comune al fine di fare ottenere al capomafia Occhipinti ed a Raimondo Semprevivo (suo cognato) la regolarizzazione amministrativa di un’area sottoposta a sequestro penale PALERMO TODAY
“Mafia e ‘ndrangheta cresciute grazie alla massoneria” Lo afferma il procuratore De Raho. Gran maestro d’oriente: parole inappropriate – 25 gennaio 2020
“È la massoneria che comanda, che ha la forza di andare avanti e sviluppare la nostra economia. È ormai documentato attraverso numerose indagini che Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta sono cresciute proprio grazie alla massoneria”. Così il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, che ha descritto la massoneria come “quella camera in cui le varie forze condividono progetti. Ci sono la politica, la ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, professionisti, magistrati, imprenditori. Ci sono tutte le categorie”. “L’economia e la politica – ha aggiunto – si sono incontrate con le mafie in quei salotti ed è lì che hanno dato corpo, che hanno effettivamente costituito quel comitato d’affari che ha poi determinato infiltrazioni negli appalti, acquisizioni di vari settori e l’esclusione di chi si muove nel rispetto delle regole e oggi – ha concluso – ci troviamo di fronte a una situazione in cui dobbiamo stare molto attenti”. “Rispettiamo il dottor Cafiero De Raho e siamo completamente vicini a lui sul piano della legalità e della lotta alle mafie ed al malaffare, ma crediamo che certe sue dichiarazioni, rilasciate a Napoli, ed in cui attribuisce alla Massoneria addirittura ‘un ruolo di comando’ definendola altresì ‘quella camera in cui le varie forze condividono progetti. Ci sono la politica, la ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, professionisti, magistrati, imprenditori. E’ la Massoneria che comanda’, risultino particolarmente pesanti e siano andate ben oltre ogni ragionevole limite e dubbio”. Lo ha detto Stefano Bisi Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, commentando le parole del procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho. “Ci dispiace – ha aggiunto Bisi – che un così alto ed apprezzato magistrato, tra l’altro nella sua delicata funzione di Procuratore nazionale Antimafia, si lasci andare a esternazioni così gravi e generiche. Addirittura si è passati dalla Massoneria infiltrata da forze e comitati di affari con fini illegali a quella che ‘comanda’ queste forze. Il Grande Oriente d’Italia non può accettare che si spari pericolosamente nel mucchio e si scateni l’ennesima ingiusta e inqualificabile caccia al massone”. “Il procuratore nazionale antimafia sa bene che la responsabilità è sempre personale e che questo principio giuridico vale per tutti – ha concluso Bisi – . Ribadiamo la nostra estraneità al quadro da lui descritto e lo esortiamo a evitare facili sentenze mediatiche che possono portare grave danno all’immagine e pericolo per l’incolumità di tanti onesti cittadini liberi muratori”.(ANSA SETT.2020).
QUEL PATTO TRA BOSS E MASSONI
Le dichiarazioni degli ultimi pentiti di mafia che hanno ribadito gli stretti legami tra mafia e massoneria, sono al vaglio dei magistrati della Procura di Palermo che hanno avviato un’ inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Luigi Croce e dal sostituto Antonino Napoli. I due magistrati ieri hanno già ascoltato in una località segreta i pentiti Vincenzo Calcara e Rosario Spatola. Ma altri pentiti, che hanno rivelato l’esistenza di stretti rapporti tra mafia e massoneria, saranno ascoltati nei prossimi giorni, tra questi anche Leonardo Messina e Giuseppe Marchese. Nel passato, tutte le inchieste relative a mafia e massoneria, avviate sia a Palermo che a Trapani, non hanno avuto fortuna. Negli ultimi tempi vecchie indagini sono state rispolverate e rilette alla luce dei nuovi avvenimenti e delle recenti dichiarazioni dei pentiti. A Trapani un giovane sostituto, Luca Pistorelli ha ridato vigore ad una indagine che era in “sonno”, quella sulla loggia “Scontrino-Iside 2” nei cui elenchi, accanto ai nomi di prefetti, funzionari di polizia, burocrati comunali, c’ erano anche quelli di boss di primo piano di Cosa Nostra: Mariano Agate, Natale Lala, Natale Rimi, Mariano Asaro. Atti di questa indagine il cui processo è in corso di celebrazione a Trapani, sono stati adesso acquisiti anche dai magistrati palermitani che stanno tentando di far luce sugli ormai noti intrecci tra mafia e massoneria. Un intreccio di cui si è occupata anche la recente relazione approvata a maggioranza della commissione parlamentare Antimafia. “Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa Nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche – è detto nella relazione – il giuramento di fedeltà resta l’impegno centrale al quale uomini d’ onore sono prioritariamente tenuti”. Ed ancora: “Le affiliazioni massoniche offrono all’ organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere per ottenere favori e privilegi in ogni campo, sia per la conclusione di grandi affari sia per l’ “aggiustamento” di processi, come hanno rilevato numerosi collaboratori della giustizia”. Massoni, secondo i pentiti, sarebbero stati anche il numero uno di Cosa Nostra, Totò Riina, Michele Greco e tanti altri. Il nome di Michele Greco era già spuntato in una vecchia inchiesta avviata a Palermo nel 1986 dall’ allora sostituto procuratore Alberto Di Pisa, accusato poi di essere il “corvo” di Palermo. Il “papa della mafia” era iscritto nella loggia “Armando Diaz” di via Roma, che era stata scoperta dalla polizia che conduceva un’indagine su un colossale traffico di stupefacenti tra la Sicilia e la Francia. Contemporaneamente, a Trapani, l’allora dirigente della mobile Saverio Montalbano, veniva inspiegabilmente trasferito perché avrebbe continuato le indagini del collega Ninni Cassarà, assassinato in un agguato nel 1985. I due poliziotti avevano ficcato il naso nella loggia “Scontrino-Iside 2” dove tra i fratelli c’ era tra gli altri anche Pino Mandalari, indicato come il “commercialista” di Totò Riina. Quella loggia ebbe anche come illustre visitatore il Gran Maestro venerabile della P2, Licio Gelli. La loggia trapanese potrebbe riservare altre sorprese alla luce delle indagini della magistratura palermitana nei confronti del senatore Giulio Andreotti. E’ stato accertato che l’aeroporto “Birgi” di Trapani nel 1980, l’anno in cui secondo il pentito Marino Mannoia, Andreotti sarebbe atterrato su un aereo privato per incontrarsi con i cugini Ignazio e Nino Salvo, era sotto il controllo di “fratelli” iscritti alla “Iside 2”. Il direttore dello scalo aereo era allora Giovanni Bertoglio, Andrea Barraco era assistente al traffico aereo, Giuseppe Di Genova era addetto al controllo dei voli. Erano tutti iscritti alla loggia segreta “Iside 2”. di FRANCESCO VIVIANO LA REPUBBLICA 23.4.1993
Quei dossier su Gelli & mafia sul tavolo del giudice Falcone Secondo alcune ricostruzioni investigative, Giovanni Falcone aveva messo le mani su vari affari dove, al centro dei vari interessi ,c’era la P2 e Licio Gelli, con tutti i vari addentellati siciliani e trapanesi
Giovanni Falcone seguiva con grande attenzione gli “affari” di Licio Gelli. Quando aveva accettato l’ incarico di direttore degli affari penali al ministero si era portato a Roma i fascicoli di una delle ultime inchieste avviate quando era procuratore aggiunto a Palermo. Quella che il 18 marzo scorso portò la Criminalpol all’ arresto di ventisei persone e alla scoperta di uno strano traffico di armi e di un nuovo canale di riciclaggio che portava da Palermo ai forzieri svizzeri attraverso la Bolivia, la Jugoslavia, il Sud America. Kalashnikov comprati da cecoslovacchi e ungheresi e pagati con cocaina, titoli di Stato per quasi 500 miliardi piazzati ai boliviani, strane transazioni in rubli acquistati dai russi al mercato nero. Sofisticatissime operazioni finanziarie internazionali sul cui sfondo appare improvvisamente il nome di Licio Gelli. Lo fanno, al telefono, i due capi di questa organizzazione individuata dagli investigatori, l’ ingegnere tedesco Ulrich Bahl, ed un trafficante di eroina palermitano, Giovanni Lo Cascio, noto massone. Telefonando a Lo Cascio da Miami, Bahl manda “i saluti di Gelli”, assicurandolo che all’ affare sono interessati “amici comuni”. E proprio seguendo Lo Cascio, nel marzo dell’ 86, gli investigatori palermitani scoprirono quel che accadeva al secondo piano di un vecchio palazzo liberty, al 391 di via Roma, nel cuore di Palermo. Il “Centro Sociologico Italiano” era in realtà la sede di una mezza dozzina di logge affiliate alla “massoneria universale di rito scozzese antico e accettato”. Scorrendo l’ elenco dei duemila iscritti alla loggia, Giovanni Falcone, allora giudice istruttore, scoprì che, tra i fratelli massoni, insieme a noti mafiosi, c’ erano anche decine di nomi della Palermo che conta. Fianco a fianco gli esattori di Salemi, i due cugini Nino e Ignazio Salvo (quest’ ultimo condannato poi al maxiprocesso) e i due Greco di Croceverde Giardini: Michele, il “papa” di Cosa Nostra e il fratello Salvatore, detto il “senatore”. Nella lista c’ erano l’ avvocato Vito Guarrasi e il vecchio editore del Giornale di Sicilia Federico Ardizzone, Joseph Miceli Crimi e Giacomo Vitale, cognato del boss Stefano Bontade, a sua volta “gran sacerdote” di una loggia che aveva sede nel cuore del suo regno, Villagrazia. Dal 1970, anno del fallito golpe Borghese, al 1979, anno del finto rapimento di Michele Sindona, fino alla stagione dei delitti eccellenti e delle stragi. Un filo ininterrotto disegna la trama del fitto intreccio tra mafia e massoneria. La loggia Camea, di via Roma 391 a Palermo, la Iside 2 del circolo Scontrino a Trapani, due inchieste finite in archivio con un dito di polvere sopra. E poi una serie di rapporti investigativi, come quello redatto nel dicembre del ‘ 90 dai carabinieri di Corleone che, impegnati a ricostruire l’ impero economico di Totò Riina, trassero da una serie di intercettazioni telefoniche la convinzione “dell’ esistenza di una o più logge di tipo massonico, segrete o meno, i cui adepti vengono di volta in volta asserviti, in relazione alla funzione pubblica o privata esercitata, alle finalità illecite perseguite”. Rapporti archiviati ed investigatori troppo zelanti trasferiti in altra sede. Proprio come il comandante della compagnia di Corleone Angelo Jannone o come il vice questore Saverio Montalbano, il capo della Squadra mobile di Trapani che, il 6 aprile dell’ 86, fece irruzione nel Circolo Scontrino sequestrando una montagna di carte, tra cui gli elenchi degli iscritti alla loggia Iside 2. Pochi giorni dopo, il capo della Squadra mobile venne prima privato delle sue funzioni, poi trasferito su richiesta dell’ allora questore Gonzales. Ufficialmente gli venne contestato “un uso improprio dell’ auto blindata”. In realtà – scrisse poi nella sua requisitoria il sostituto procuratore Franco Messina – il trasferimento di Montalbano fu un lampante esempio “della capacità di penetrazione e quindi di influenza sull’ attività della pubblica amministrazione” della loggia Iside 2. Anche a Trapani, come a Palermo, stretti dal vincolo di “fratellanza massonica” vi erano boss come Mariano Agate e politici come il deputato democristiano Francesco Canino. E alla massoneria sembrano portare le più recenti indagini sui flussi di riciclaggio degli immensi patrimoni illegali di Cosa Nostra. Quelli di Totò Riina, ad esempio. Per mesi, i carabinieri di Corleone hanno intercettato il telefono di un noto commercialista, Giuseppe Mandalari, già condannato per riciclaggio. Sarebbe lui a gestire i “movimenti” delle molteplici “società riconducibili ai corleonesi”. Nel loro rapporto i carabinieri scrivono che “Mandalari costituisce un elemento di spicco e di raccordo tra diverse logge massoniche i cui appartenenti potrebbero essere compartecipi delle molteplici attività illegali di cui si presume che Mandalari costituisca il perno principale”. Fonte: Documenti Storici “la Trattativa”
Dai contatti con la P2 di Gelli al traffico di armi ed il progetto separatista
“Una compenetrazioe tra massoneria e la ‘Ndrangheta? Penso che ci sia sempre stato”. “La P2 di Gelli? Gelli è stato inventato dalla Cia, dagli americani, perché il governo americano aveva perso fiducia in Moro e Andreotti e iniziava a temere che in Italia ci potesse essere il sorpasso comunista. Una volta mi offrì gli elenchi veri della P2 per essere riammesso al Goi (Grande Oriente d’Italia)”. Sono queste solo alcune delle dichiarazioni che il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo (in foto) ha rilasciato oggi durante l’udienza al processo ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria e che vede come imputati il boss siciliano Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone ritenuti mandanti degli agguati ai carabinieri nella stagione delle stragi dei primi anni Novanta. Una deposizione piuttosto articolata in cui Di Bernardo, uomo chiave nella storia della massoneria italiana, ha ripercorso diversi momenti vissuti al vertice del Grande Oriente d’Italia (fu eletto l’11 marzo 1990, ndr), in un momento storico in cui la più grande organizzazione massonica italiana era riconosciuta dalla massoneria inglese e rientrava quindi nel novero delle cosiddette “massonerie regolari”. Nel corso delle sue funzioni, Di Bernardo venne a conoscenza di un fenomeno di infiltrazione della mafia nei vertici meridionali del Grande Oriente d’Italia e, prima di andare via sbattendo la porta, indagò a fondo raccogliendo diversi documenti. E sul punto fu anche sentito dal giudice Agostino Cordova che in quegli anni stava conducendo la delicatissima indagine “Mani segrete”. Il lavoro di Cordova era partito dalla morte sospetta di un notaio esponente della ‘ndrangheta, Pietro Marrapodi, Grande Oratore della loggia di Reggio Calabria ‘Logoteta’ che iniziò a rivelare retroscena scottanti sui rapporti tra ‘Ndrangheta e massoneria calabrese ed iniziò a fare i nomi dei massoni reggini collusi. Nonostante una richiesta di scorta negata, Marrapodi fu trovato morto impiccato nello scantinato della sua abitazione in città e la sua morte fu archiviata velocemente come omicidio, anche se ancora oggi i dubbi sulla sua dipartita rimangono.
La giusta direzione Di Bernardo, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha confermato che l’inchiesta del giudice Cordova stava andando nella giusta direzione comprendendo che i clan calabresi controllavano il Nord Italia attraverso le infiltrazioni le logge. “Io gli misi a disposizione documenti importanti e i risultati delle mie scoperte – ha ricordato in aula – ma poi non è successo nulla. Quando l’inchiesta gli fu tolta il fascicolo è passato in mano a più procuratori. Poi venne trasferita a Roma per competenza e lì è stata archiviata per decorrenza termini”. Dunque il Gran Maestro è entrato nello specifico dei fatti: “Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza e mio vice al Goi nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia disse che poteva affermare con certezza che in Calabria su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io saltai e gli dissi: ‘E cosa vuoi fare?’. Lui mi rispose: ‘Nulla, assolutamente nulla’. E mi spiegò che viceversa lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie. Mi recati allora dal duca di Kent a cui esposi la situazione, ma mi disse che ne era già a conoscenza”. “A Londra – ha specificato – mi dissero che grazie all’ambasciata ed ai servizi di sicurezza erano a conoscenza delle infiltrazioni della ‘Ndrangheta e questo è normale, perché in Inghilterra la massoneria è un’istituzione riconosciuta. Il capo è il duca di Kent se ci fosse il Re, sarebbe il Re, quindi è normale che le associazioni con cui sono in rapporti siano sotto osservazione”. Di Bernardo allora, su suggerimento del duca di Kent ha fondato un nuovo ordine la Gran loggia regolare d’Italia.
Infiltrazioni in Sicilia e in Calabria Secondo Di Bernardo: “La Calabria era indubbiamente il centro di questo fenomeno di infiltrazione, come messo in evidenza da Procuratore Cordova, ma già segnali venivano dalla Sicilia. Ci fu un fatto che fece tremare i vertici del Grande Oriente ossia l’arresto del sindaco di Castelvetrano per suoi coinvolgimenti con la mafia, ma in Sicilia ebbi altri segnali da parte dei vertici del GOI”.
Questi segnali venivano da un avvocato massone, Massimo Maggiore di Palermo, ai vertici del Grande Oriente siciliano, che informò confidenzialmente Di Bernardo di rifiutare l’invito a visitare la loggia che faceva capo ad un noto avvocato del trapanese perché in quella zona tutte le logge del GOI erano state occupate da mafia. “Gli chiesi come avevano potuto permetterlo – ha aggiunto il teste – e li mi rispose che non aveva potuto evitarlo. Lì cominciai a capire che i vertici che avrebbero dovuto applicare le regole della massoneria nel territorio erano in realtà state subordinate a logiche di altro potere. E questo avveniva già prima dell’inchiesta di Cordova” ha affermato Di Bernardo. “Io sono stato eletto Gran Maestro ignorando completamente quali fossero le realtà locali” ha proseguito dando l’impressione di volersi giustificare rispetto a determinati fatti avvenuti.
Il sostituto procuratore Giuseppe Lombardo, rifacendosi ad un verbale del maggio 2014 in cui Di Bernardo aveva dichiarato che la situazione in Calabria era più preoccupante di quella siciliana, ha voluto chiarire la differenza tra le logge in quei territori. Secondo Di Bernardo “nella massoneria siciliana non c’era per cosi dire un punto di vista unitario. La massoneria era frastagliata e ogni parte aveva il suo centro di potere. In Calabria invece c’era una mente che regolava, al di la di tutti, i contrasti che esistevano tra le obbedienze massoniche di quel territorio. Si percepiva un filo conduttore” continua Di Bernardo “Loizzo mi diede l’imprinting più forte però poi io iniziai a vedere il contorno e sono arrivato a capire che la massoneria calabrese è più potente di quella siciliana per la visione unitaria che possiede”.
I movimenti separatisti e la stagione stragista del 92-94Rispetto ai movimenti separatisti che si stavano diffondendo in quegli anni in tutto il territorio nazionale, Di Bernardo parla delle informazioni che aveva dalla sua posizione di Gran Maestro del Grande Oriente in Italia. La sua fonte era il suo segretario personale Luigi Savina che riceveva informazioni direttamente dai massoni calabresi i quali sostenevano i movimenti separatisti e cercavano un appoggio del loro Gran Maestro. “Il mio segretari persona mi diceva che parte della massoneria appoggiava i movimenti separatisti. Reggio Calabria era il centro propulsore di questi movimenti separatisti – ha dichiarato Di Bernardo – Cosenza aveva una sua specificità e la situazione era meno grave. Catanzaro non contava molto. Quella visione non rientrava nella mia visione d’Italia, per questo fin quando sono stato Gran Maestro ho sempre respinto tali richieste di coinvolgimento ch arrivavano. Non conosco la situazione al Nord, ma posso immaginare che non fosse interessato, sebbene non possa escludere che ci fosse chi gettava benzina sul fuoco”.
Rispetto al collegamento tra la massoneria e la mafia durante la stagione delle stragi, Di Bernardo ha detto al sostituto Lombardo: “Io un’idea me la sono fatta e penso che fosse tutto all’interno di uno stesso contesto seppur con separazioni interne. L’idea che mi sono fatto era che lì c’era qualcuno che tirava le fila all’interno di contesti diversi. Sì quella stagione è maturata a contatto con ambienti massonici”. L’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia aveva parlato di questo anche con i vertici della massoneria inglese, nello specifico con il Duca di Kent che era già al corrente di tutto quello che riguardava la massoneria italiana e la situazione politica nazionale.
Il traffico di armi e il Grande Oriente d’ItaliaAll’interno del quadro descritto questa mattina da Giuliano Di Bernardo, su sollecitazione dl procuratore aggiunto Lombardo, vi è anche una misteriosa telefonata che l’ex Grande Maestro del GOI ricevette di notte nella sua residenza romana a Villa Vascello in cui un uomo dall’accento straniero, che lui definisce africano, scambiandolo per il suo predecessore, Armando Corona, iniziò ad avanzare delle richieste di armi pesanti e leggere. “Ero nella mia residenza sul Gianicolo e suona al telefono alle tre di notte. Era il 1991. Mi sento dire con una voce da straniero ‘Gran maestro noi avremmo bisogno delle stesse cose che ci ha dato prima’. Io avrei potuto dire ‘sta parlando con un’altra persona’. Però sono stato al gioco e ho chiesto ‘cosa avete bisogno in particolare?’ e inizia a farmi un elenco di armi non solo leggere ma anche pesanti. Quando lui si accorge del senso delle mie domande, mi dice ‘Sto parlando con Armando Corona?’. Io dico ‘No con Giuliano Di Bernardo’ e lui mette giù. Per me si è accesa una spia. Capii che quella telefonata proveniva dall’Africa, forse dalla Somalia”.
Di Bernardo avvisò subito i vertici della massoneria francese da cui dipende a livello massonico il territorio africano e venne a sapere dai francesi dei legami che Corona, e quindi i vertici del GOI, avevano con il Presidente del Gabon, anche egli massone, e degli scambi di armi presenti a livello internazionale tra massoneria e il paese africano. Anche di questo Di Bernardo parlò al Procuratore Cordova. Di Bernardo ha anche sostenuto di aver presentato la questione anche alla giunta del Grande Oriente d’Italia per giudicare Corona ma coloro che dovevano esprimere un giudizio “erano suoi amici e quindi tutto si concluse con un nulla di fatto. La corte centrale del GOI era presieduta dal numero uno della massoneria siciliana”.
Massoneria e mafia a confronto secondo Giuseppe Di Bernardo Di Bernardo nel corso dell’interrogatorio ha poi descritto quello che accomuna l’appartenenza massonica e quella mafiosa e che potrebbe essere una delle chiavi per spiegare la fitta rete di legami che intercorre tra queste appartenenze. “Penso che punto di giuntura tra mafia e massoneria sia nel rituale. Quello usato in massoneria e quello nella ‘Ndrangheta hanno una base in comune: in entrambi i casi si usa un rituale che ha lo stesso significato cioè vincolarti ad un segreto una volta che sei dentro” afferma Di Bernardo. “Questo secondo me ha facilitato molto la compenetrazione in Calabria tra mafia e massoneria. Penso che questo ci sia sempre stato” ha continuato.
Massoneria inglese e massoneria americana in ItaliaNel suo racconto Giuliano Di Bernardo ha anche ripercorso la storia della massoneria italiana spiegando che l’indirizzo contemporaneo delle logge italiane si è formato in seguito alla seconda guerra mondiale quando in Italia la massoneria è rinata dopo lo sbarco in Sicilia “su basi nettamente differenti rispetto alla massoneria ottocentesca terminata con la prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo”. “Quando gli americani vengono in Italia – ha spiegato il teste – portano una nuova immagine della massoneria che è quella della massoneria democratica diversa da quella nata in Inghilterra e in questo cambia tutto”.
Licio Gelli e il Grande Oriente d’Italia Altro tema importante toccato durante l’udienza odierna dal Gran Maestro è stato quello sui contatti con la P2 e Licio Gelli. Secondo l’ex Gran Maestro del GOI, Licio Gelli sarebbe stato l’uomo che gli americani attraverso Cia e FBI, avrebbero ‘inventato’ per evitare il sorpasso comunista in Italia nel momento in cui Moro e Andreotti avevano tradito la loro fiducia. “Il governo americano iniziava a temere che ci potesse essere il sorpasso comunista. Quando gli americani non hanno più fiducia negli organi istituzionali, vanno alla ricerca dell’uomo nuovo, fuori da ogni contesto” ha ricordato Di Bernardo. Per evitare l’ascesa del comunismo in Italia, secondo il teste, gli americani intervennero tramite Frank Gigliotti, importante massone che favorì lo sbarco Usa in Sicilia chiedendo aiuto alla mafia.
“Fu lui a rifondare la massoneria in Italia – ha spiegato Di Bernardo – e sempre lui propose Gelli. Disse: ‘Il salvatore dell’Italia è quest’uomo’. Da quel momento Gelli è stato il referente unico ed esclusivo del governo americano, per evitare che in Italia si facesse il sorpasso dei comunisti. Gelli ha avuto montagne di dollari, ma soprattutto il governo americano ha messo all’obbedienza di Gelli i vertici italiani economici, militari e della magistratura. Tutti nella sua obbedienza. Quest’uomo all’improvviso si è ritrovato un potere che penso nessuno ha mai avuto in Italia. Ed è vero: si parla di questo progetto politico di Gelli, il piano di rinascita. Ma cosa avviene? Gelli si era impegnato a modificare l’Italia per evitare il sorpasso. Ma quando Gelli riceve i soldi dagli americani fa i suoi affari e non pensa allo scopo fondamentale. Gli americani cominciano a sollecitarlo. E allora lui, come confidato a qualche suo collaboratore, non ce la fa più e si mette a scrivere così un progetto a caso. Tradisce gli americani, mettendo da parte i fini politici”.
Di Bernardo ha spiegato come il “Venerabile” godesse di grande approvazione anche all’interno del Grande Oriente d’Italia: “Aveva una base molto forte. Ufficialmente tutti osannavano Gelli. Ma io ho avuto modo di capire che questo non era vero. Gelli, dopo la mia elezione, mi invia due lettere in cui mi chiede di essere riammesso. Io le leggo e informo la giunta che mi sono arrivate queste lettere e non faccio nulla. Una sera Eraldo Ghinoi mi viene a trovare e mi chiede se ho ricevuto le lettere. Io dico che, a parte la mia idea personale, Gelli non può né deve tornare. E che se anche io volessi voluto proporre il suo rientro, l’avrei dovuto presentare in Gran Loggia con la certezza che sarebbe stato bocciato a grande maggioranza. E lui mi dice: qui ti sbagli. Prova a metterlo all’approvazione e vedrai che sarà approvato. A questo punto, mi dice, ‘io sono amico di Gelli da tanto tempo’ e mi fa vedere una medaglia di oro e platino ricevuta da Gelli. Io cominciai a pensare: è questa la massoneria”.
I veri elenchi della P2Ma i tentativi di riammissione non si conclusero qui. Di Bernardo ha ricordato di aver ricevuto anche una prima offerta in denaro e, successivamente, una proposta indecente: il possesso del vero elenco della P2. “Quello sequestrato dalla magistratura era solo parziale. Gelli mi offrì l’elenco vero della P2 tramite un suo emissario che commentò: ‘così puoi ricattare tutta l’Italia’”. Alla domanda del pm Lombardo su chi fosse questo soggetto il teste ha preferito trincerarsi nel silenzio: “Preferisco non dirlo”. “No dico di non averci pensato – ha ammesso Di Bernardo – Ma poi ho deciso di non procedere”.
Che l’elenco segreto della P2 fosse qualcosa di reale il teste si è convinto dopo un altro episodio: “Dopo la mia elezione chiede di incontrarmi il segretario personale del gran maestro Battelli. Questo segretario voleva fare una dichiarazione al Gran maestro da firmare. Infatti lo incontro e mi dice che una sera Gelli si presenta nello studio del Gran maestro Battelli con un gran fascicolo e gli dice ‘questo è l’elenco della P2’. Battelli inizia a sfogliarlo e diventa di tutti i colori. Alla fin fine, Battelli chiude e dice a Gelli: ‘Riprendilo, questo io non l’ho mai visto’. E dice al suo segretario che i nomi che ha visto lì non li vuole dire. Il segretario si sente in dovere di fare questa dichiarazione. Io ho la cognizione che il vero elenco esiste ma non sappiamo dove. Questo avviene dopo che la loggia P2 è stata sciolta. Per sciogliere la P2 è stata necessaria la legge Anselmi, anche se non scioglie proprio nulla perché contiene una contraddizione che contrasta con un articolo della Costituzione”.
Questa tesi è stata perseguita recentemente anche dall’ultima Commissione antimafia.
In questo modo, secondo Giuliano Di Bernardo, anche il suo predecessore Armando Corona, poté fondare una loggia coperta i cui partecipanti non erano individuabili se non dal Gran Maestro. Di questa vicenda Di Bernardo venne a conoscenza quando fu Gran Maestro del GOI: “Un giorno mi viene a trovare un personaggio calabrese che mi dice: Gran Maestro io sono all’obbedienza di Armando Corona della loggia coperta, però voglio stare sempre accanto al numero uno e voglio entrare nella sua loggia coperta – ha proseguito nel racconto Di Bernardo – E io dissi che per prendere in considerazione la sua richiesta avevo bisogno di un documento scritto. Cosi mi scrisse una lettera su carta intestata in cui allegò una foto con Corona vestito con paramenti massonici e mi fornì la prova documentale dell’esistenza di una loggia coperta. Non ho mai saputo se fosse in Calabria ma il soggetto che venne da me era un calabrese. Io quel punto diedi tutto a Cordova. Le logge coperte sono di fatto comitati d’affari. Corona ha preso quegli imprenditori che secondo lui potevano essergli utili nei suoi progetti e li ha riuniti in una loggia coperta”.
Gli indirizzi massonici di Di Bernardo Viste le infiltrazioni del Grande Oriente con la mafia e la presenza di correnti interne che non rispecchiavano più il suo ideale massonico, Giuliano Di Bernardo ha poi parlato delle sue dimissioni nel 1993 dal Grande Oriente d’Italia e della fondazione della “Gran Loggia Regolare d’Italia” riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra che pochi mesi dopo la formazione di questa nuova realtà massonica in Italia, troncò i rapporti con il Grande Oriente d’Italia. Di questa nuova realtà massonica, nata su ispirazione inglese, Di Bernardo fu Gran Maestro per nove anni fino al 2002. Dopo poco tempo si ritirò dalla massoneria per fondare l’Accademia degli Illuminati. All’interno dell’udienza Di Bernardo ha dichiarato di come anche la Gran Loggia Regolare d’Italia, come risulta dalla relazione della Commissione Antimafia, ha il 77,3 percento di affiliati non identificabili in regioni come la Calabria e la Sicilia.
Vaticano e massoneriaNel corso dell’udienza il pm Lombardo ha anche chiesto al teste le sue conoscenze sui legami che si sviluppano tra le massonerie ed il Vaticano. “Per me sono solo invenzioni – ha detto il teste – Tuttavia non escludo che ci siano stati rapporti tra massoneria e vaticano ma oggi non esistono più. Il Vaticano oggi si è buttato alle spalle queste cose, i cardinali accusano di questo altri cardinali per le loro lotte interne”. Di Bernardo ha poi raccontato di non aver avuto rapporti con il Vaticano quando era Gran Maestro del GOI. “Nel 2002 quando avevo costituito l’Accademia degli Illuminati, ricevetti richiesta di includere un rappresentante del Vaticano nell’Accademia e mi proposero un signore bulgaro, capo servizi segreti e diplomazia, personaggio che aveva seguito la pista bulgara dell’attentato al Papa” ha detto rivolgendosi alla Corte. “Lui – ha concluso Di Bernardo – mi disse che in Vaticano c’era una persona che mi voleva conoscere personalmente e mi ritrovai di fronte il Sottosegretario agli Esteri Pietro Parolin. C’è stato subito sintonia sulle cose da fare. Più volte sono tornato li e ho aiutato Parolin a risolvere un problema con il governo cinese di qualche anno fa”. Il processo è stato rinviato al prossimo 18 gennaio. di Aaron Pettinari e Francesca Panfili ANTIMAFIA DUEMILA
Trapani, preso il boss legato a politica e massoneria di garanzia anche a un parlamentare e un sindaco
LA STAMPA 07 Luglio 2020 E’ un boss mafioso ritenuto parecchio pericoloso dagli inquirenti antimafia, quello che la scorsa notte è stato arrestato nel trapanese dai Carabinieri del reparto operativo investigativo del comando provinciale di Trapani. Si tratta di Mariano Asaro, 64 anni, capo mafia di Castellammare del Golfo. Era tornato libero nel 2018 dopo una lunga carcerazione e da allora si era messo a tessere una tela di relazioni con altri capi mafia del trapanese. Le intercettazioni hanno tradito anche una certa consapevolezza sugli equilibri mafiosi della provincia palermitana, tanto da essere a conoscenza della ricostituzione di una nuova Cupola nel capoluogo siciliano, risultata vera a seguito di indagini che nel Palermitano portarono i carabinieri a smantellare l’organizzazione, con la cosiddetta operazione «Cupola 2.0». Mafia, arrestato boss del Trapanese: Asaro il “dentista”‘ Gli investigatori, diretti dal tenente colonnello Antonio Merola, hanno scoperto Asaro a parlare dei mafiosi palermitani anche con fare dispregiativo, soprattutto per la collaborazione con la giustizia presa immediatamente dopo l’arresto da parte di alcuni degli indagati, come Francesco Colletti, ex capo mafia di Villabate, «minchia e dicevano che era gente seria, che erano omini boni». Asaro non nascondeva l’astio nei confronti dei pentiti, «tutti cornuti», come Giuseppe e Vincenzo Ferro, padre e figlio, ex boss di Alcamo. E’ stato sentito solo parlare bene del pentito della zona, Francesco Milazzo, boss di Paceco, uno che la mafia di Paceco avrebbe voluto uccidere: questi secondo Asaro avrebbe potuto accusarlo ma non lo fece di avere partecipato al delitto del magistrato trapanese Gian Giacomo Ciaccio, Montalto, ucciso a Valderice il 25 gennaio 1983, così come sostenne il pentito Rosario Spatola, «un altro cornuto» a sentire Asaro. Nella rete di rapporti che Mariano Asaro era riuscito a realizzare da quando era tornato libero c’entra anche la politica. Due avvisi di garanzia «pesanti» sono stati notificati all’ex deputato regionale Paolo Ruggirello, oggi agli arresti domiciliari e sotto processo per associazione mafiosa e all’avvocato Giuseppe Scarcella, attuale sindaco di Paceco, centro agricolo a pochi chilometri da Trapani, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel giro di pochi giorni due sindaci del trapanese sono risultati irrispettosi della necessità di tenere una distanza di sicurezza dai mafiosi, prima di Scarcella era toccato al sindaco Nicola Rizzo di Castellammare del Golfo. Pe tutti e due la stessa accusa. Documentati dai Carabinieri anche attraverso le intercettazioni i continui rapporti anche diretti tra Asaro con Ruggirello e Scarcella, quest’ultimo addirittura lo accoglieva dandogli del «don». Stanotte i carabinieri hanno eseguito perquisizioni anche nell’ufficio del primo cittadino al Municipio e la notifica di un invito a rendere interrogatorio davanti ai pm della Procura antimafia di Palermo, Paolo Guido e Gianluca De Leo. I pm avevano chiesto l’arresto dell’onorevole Paolo Ruggirello, ma il gip Rosini lo ha negato sostenendo che il politico si trovava già detenuto (ma nel frattempo è agli arresti domiciliari) e che il suo arresto nel 2019 ha interrotto i legami con società civile e politica, quindi impossibilità di inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Mariano Asaro è stato scoperto a gestire una serie di vorticosi affari, dall’apertura di un centro scommesse al reperimento di un terreno per realizzare un impianto fotovoltaico. E’ stato ascoltato mentre a casa contava denaro per migliaia di euro. Ma il suo affare più importante è stato quello di costituire una società per la gestione di un ambulatorio odontoiatrico. I politici si sarebbero messi a disposizione: Ruggirello per convenzionare la società con l’Asp, così da ottenere fondi pubblici; Scarcella per il rilascio delle autorizzazioni. L’indagine cominciata nel 2018 è stata coordinata direttamente dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. «Un duro colpo è stato inferto – dice il comandante provinciale dei Carabinieri di Trapani colonnello Gianluca Vitagliano – alla organizzazione mafiosa trapanese , questa indagine dimostra la vitalità cui riesce ancora a godere Cosa nostra in questa provincia». Il nome di Mariano Asaro è legato anche a pagine rimaste oscure, per i suoi provati rapporti con le logge segrete della massoneria trapanese e con servizi segreti deviati. Quando Asaro venne arrestato per la prima volta nel 1997 dopo una lunga latitanza, allora era inserito tra i 30 più pericolosi latitanti, in un telefonino a disposizione sua e dell’altro ricercato arrestato nella stessa circostanza, Michele Mercadante, entrambi castellammaresi, venne trovato un telefonino da dove sarebbero partite telefonate verso il centralino di Roma dell’allora servizio segreto militare, il Sismi. Il nome di Mariano Asaro compare anche in indagini sui rapporti tra la mafia siciliana e esponenti del terrorismo mediorientale, per il traffico di esplosivi. Forte poi il suo legame con il super latitante Matteo Messina Denaro. E non è da escludere che la caratura riconquistata da Asaro in poco tempo (controllando buona parte del territorio trapanese, per i rapporti instaurati con diversi capi famiglia) sia stata conseguenza di un volere del latitante. destinatari della misura cautelare che ha riguardato Asaro, sono state altre quattro persone: il capo mafia di Paceco Carmelo Salerno, già in carcere dal 2019; la cognata Vincenza Occhipinti e la segretaria di un notaio Maria Amato, moglie a sua volta di un boss. Per loro è scattato obbligo di dimora, e un medico, Vito Lucido, interdetto dalla professione per un anno.
TRAPANI E LA MASSONERIA, 500 ISCRITTI. UN POTERE PARALLELO IN GRADO DI…
A trent’anni dalla scoperta della Loggia segreta Iside 2, a Trapani e provincia la voglia di essere massoni, di vestire cappucci e praticare riti non passa. Se trent’anni fa i massoni erano un paio di centinaia, l’elenco consegnato alla Prefettura di Trapani dal procuratore Marcello Viola conta quasi 500 massoni, sparsi in 19 logge. Sono tutte scoperte, nulla di segreto. Ma la provincia di Trapani si conferma territorio di riti e “fratellanza”. La città con più logge è quella di Castelvetrano. Proprio la Castelvetrano di Matteo Messina Denaro, il super latitante di cosa nostra, l’ultimo boss invisibile da 24 anni.
E in questo elenco ci sono politici di ogni ordine e grado, amministratori locali, funzionari, banchieri, uomini delle forze dell’ordine e giornalisti.
Un dossier preparato dalla Questura di Trapani e dal Procuratore Viola che sta indagando sugli intrecci tra mafia, politica, massoneria e imprenditoria. La questura scrive nella sua informativa:“Le clamorose vicende politico-giudiziarie di risonanza nazionale (P2) e locale (Iside2) non sembrano avere ancora ingenerato il diffuso convincimento che in seno a logge massoniche, soprattutto se occulte o deviate, possa annidarsi un vero e proprio potere parallelo in grado di inquinare l’attività amministrativa e la gestione della cosa pubblica costituendo una temibile turbativa per le istituzioni e la collettività. Appare lecito chiedersi fino a che punto la quotidiana e multiforme attività di enti pubblici non sia subdolamente pilotata dall’influenza di poteri occulti assai più penetranti della purtroppo diffusa logica clientelare, della dilagante corruzione o ancora delle ben note pressioni intimidatorie di chiara matrice mafiosa. L’ esigenza di sviluppare una sistematica ed incisiva attività di investigazione appare prioritaria”.
Un dossier che tra corsi e ricorsi storici, da Iside 2 ad oggi, fa la fotografia della massoneria di oggi in provincia di Trapani. Se i maggiori intrighi, storicamente, sono stati nel capoluogo, oggi la città con più logge massoniche è proprio quella Castelvetrano di Matteo Messina Denaro. Su 19 logge censite, sei sono qui, nella città del Belice. Loggia Italo Letizia 345, Loggia Demetra, Loggia Enoch, l’Obbedienza di Piazza del Gesù, la Loggia Oriente, la “Francisco Ferrer” e la “Hypsas” del Grand Orient de France. Un gran numero di logge per una cittadina di poco più di trentamila abitanti. E tra i “fratelli” ci sono anche politici e amministratori, persone che gestiscono o hanno gestito in passato la cosa pubblica. Come il vice sindaco Salvatore Stuppia, iscritto alla loggia Italo Letizia 345. O ancora i consiglieri comunali Pietro D’Angelo e Maurizio Silvestro Piazza, e l’ex assessore Giuseppe Rizzo, tutti iscritti alla “Ferrer”. Una delle più importanti è la loggia “Enoch”, a cui aderiscono i consiglieri comunali Pietro Barresi e Gaetano Salvatore Accardo. Nelle logge di Castelvetrano ci sono anche uomini appartenenti alle forze dell’ordine. Alla loggia Hypsas di Castelvetrano sono iscritti anche il vicesindaco di Partanna Antonino Zinnanti e l’assessore Angelo Bulgarello.
Non è un segreto invece l’appartenenza alla loggia Myrhiam di Palermo dell’ex sindaco di Alcamo Sebastiano Bonventre, di cui è anche maestro venerabile, come ha raccontato tempo fa Tp24. Ma ad Alcamo c’è dell’altro, che riguarda sempre ciò che coinvolgeva la precedente amministrazione. Qualche giorno fa infatti in una operazione anticorruzione è stato arrestato l’ex vice sindaco Pasquale Perricone, accusato dalla procura trapanese di essere “vicino” alla famiglia mafiosa dei Melodia, e al vertice di un “comitato d’affari” che gestiva diversi business nella zona. Tra gli arrestati c’era anche il dirigente regionale Emanuele Asta, anche lui risulterebbe iscritto alla Myrhiam. A Trapani mafia, massoneria, potere politico, imprenditori hanno avuto sempre un legame molto intrecciato e forte. Da Iside 2 ad oggi, dal circolo Scontrino alle dichiarazioni di Nino Birrittella, l’ex patron del Trapani Calcio arrestato nel 2005 perchè componente della famiglia mafiosa trapanese. Oggi collabora con la giustizia, e in questi anni ha raccontato di una massoneria “necessaria” per avere agganci utili e la maggior parte delle decisioni erano subordinate a questa. La loggia massonica, secondo Birrittella, avrebbe influito sugli uffici pubblici, la Prefettura, il Comune, la Camera di commercio, l’ospedale, e avrebbe perfino controllato cosa accadeva in Procura.
Oggi in Procura si è aperto un altro filone di inchiesta. Le inchieste che hanno riguardato l’ex vescovo di Trapani Francesco Miccichè hanno portato alla stesura di questo dossier. Miccichè è indagato per truffa sui fondi dell’8 per mille, e nel 2011 è stato “epurato” da Papa Ratzinger. Ora la Procura trapanese sta approfondendo una serie di lavori e incarichi dati dall’ex vescovo trapanese, senza gara, per la costruzione della nuova chiesa, della canonica, e del teatro parrocchiale a Paceco. A chi? A persone che appartengono alle logge massoniche trapanesi. A queste persone Miccichè avrebbe dato circa 3 milioni di euro in tre anni. Soldi prelevati dai fondi per l’8 per mille. Dicevamo che il rapporto tra questo territorio e le logge massoniche è antico. Proprio trent’anni fa è stata scoperta a Trapani la loggia segreta Iside 2, sotto l’insegna del circolo culturale “Scontrino”. Era, esattamente il 6 aprile dell’86, quando il capo della Squadra Mobile di Trapani, Saverio Montalbano, quello vero, non quello della fiction, fece irruzione con i suoi uomini presso il Centro Studi dove in realtà si celava la sede di ben sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Hiram, Cafiero, Ciullo d’Alcamo, Osiride, e una settima, scoperta successivamente e chiamata Loggia C.
I poliziotti nel corso del blitz sequestrano gli elenchi di sette logge massoniche con 200 iscritti, e, da un primo esame, la documentazione sembra regolare. Indagini più accurate del Capo della Mobile intuiscono che c’è in realtà una loggia coperta e i suoi quasi cento iscritti non erano presenti negli elenchi ufficiali.
Accanto a personaggi delle istituzioni, c’erano anche i boss mafiosi: Mariano Agate di Mazara del Vallo, Natale L’Ala di Campobello di Mazara, Mariano Asaro di Castellammare del Golfo, ricercato per avere organizzato la strage al tritolo di Pizzolungo,Vincenzo Rimi figlio di Natale Rimi, boss della famiglia di Alcamo, e Gioacchino Calabrò ritenuto l’autore della strage di Pizzolungo. Un rapporto interminabile. In provincia di Trapani non tramonta mai l’antico compasso. IL MATTINO DI SICILIA di Francesco Appari 2 giugno 2016
LA PROCURA: “A TRAPANI COMANDANO LE LOGGE MASSONICHE
Politici, imprenditori, professionisti e uomini di Cosa nostra: spuntano 460 nomi di massoni per 19 obbedienze, alias logge. Sei solo nel paese del boss Messina Denaro. Per i magistrati “un potere parallelo persino più forte della mafia” Nel comitato d’affari che ad Alcamo influenzava le scelte politiche e amministrative non poteva mancare un “fratello”. Emanuele Asta, dirigente regionale del Centro per l’impiego, iscritto alla loggia massonica Myrhiam, è finito agli arresti nell’ultima delle tante inchieste della Procura che cercano di scardinare quel “condizionamento tentacolare” della vita politica, sociale ed economica di una provincia dove la massoneria sembra essere tornata più potente di prima: 19 logge di diverse obbedienze, 6 delle quali a Castelvetrano, il paese del superlatitante Matteo Messina Denaro,460 gli iscritti tra i quali figurano mafiosi, esponenti delle forze dell’ordine, funzionari della prefettura, dirigenti di banca, decine di medici e professionisti, imprenditori. E naturalmente tanti politici e amministratori locali. Numeri ben più alti di quelli delle sette logge (con 200 iscritti in chiaro e 100 segreti) che il 6 aprile 1986 vennero scoperte sotto le insegne del circolo culturale Scontrino dal capo della squadra mobile Saverio Montalbano che qualche giorno dopo venne rimosso con una contestazione di uso improprio dell’auto di servizio. Da quell’indagine, confluita poi in un processo che portò a sei condanne, sono passati 30 anni. Ma, stando all’informativa redatta dalla questura e soprattutto al lavoro del procuratore Marcello Viola e dei sostituti che in un clima di tensione, minacce e avvertimenti, stanno indagando sul grande intreccio tra mafia, politica, massoneria e forze imprenditoriali, a Trapani il fascino di squadra e compasso sembra più forte che mai. Tanto che, nel dossier che consegna alla prefettura tutti i nomi degli iscritti alle logge (naturalmente scoperte), la questura scrive che “le clamorose vicende politico-giudiziarie di risonanza nazionale (P2) e locale (Isise2) non sembrano avere ancora ingenerato il diffuso coinvincimento che in seno a logge massoniche, soprattutto se occulte o deviate, possa annidarsi un vero e proprio potere parallelo in grado di inquinare l’attività amministrativa e la gestione della cosa pubblica costituendo una temibile turbativa per le istituzioni e la collettività”. E così, oltre a rivelare la presenza del nome dell’ex ministro Calogero Mannino negli elenchi della loggia Iside 2 accanto a quelli di boss mafiosi di primissimo piano come Mariano Agate e Natale L’Ala, Gioacchino Calabrò e Antonino Melodia, il dossier disegna la massoneria trapanese 30 anni dopo nelle 19 logge censite a Trapani e provincia. Il paese con più “fratelli” è Castelvetrano: Loggia Italo Letizia 345, Loggia Demetra, Loggia Enoch e poi per l’Obbedienza di Piazza del Gesù la Loggia Oriente. E ancora la “Francisco Ferrer” e la “Hypsas” del Grand Orient de France. Il patto di “solidarietà” accomuna assessori e mafiosi, consiglieri comunali e imprenditori corrotti, burocrati e forze dell’ordine. E la massoneria appare persino più forte della mafia. “Appare lecito chiedersi fino a che punto la quotidiana e multiforme attività di enti pubblici – scrivono gli investigatori – non sia subdolamente pilotata dall’influenza di poteri occulti assai più penetranti della purtroppo diffusa logica clientelare, della dilagante corruzione o ancora delle ben note pressioni intimidatorie di chiara matrice mafiosa”. Da qui, “l’esigenza di sviluppare una sistematica ed incisiva attività di investigazione appare prioritaria”. Anche perché qui non c’è inchiesta scottante in cui la Procura non tiri un filo che porti alla massoneria. Come quella sull’ex vescovo Francesco Micciché, rimosso dopo il suo coinvolgimento in un’indagine per truffa dei fondi dell’8 per mille che si intreccia con un’altra sugli appalti per la gestione dei centri di accoglienza dei migranti gestiti da una rete di cooperative ed enti riconducibili alla Curia. Dalle intercettazioni, i pm hanno tratto materiale utilissimo per avviare un terzo filone di indagine che porta proprio alla massoneria. Perché “fratelli”, ad esempio, sono sia il titolare della ditta sia il progettista incaricati, senza alcuna gara d’appalto, della costruzione della nuova chiesa, della canonica e del teatro parrocchiale del piccolo centro di Paceco, ai quali nel giro di tre anni Micciché ha consegnato piu di 3 milioni e mezzo di euro. MARSALA NEWS 31.5.2018
‘NDRANGHETA E MASSONERIA: CORDOVA AVEVA SCOPERTO TUTTO IN “MANI SEGRETE”
Fu con il pentimento di Pietro Marrapodi, notaio, ’ndranghetista e grande oratore della loggia reggina “Logoteta”, che nel 1992 vennero svelati eventi fino ad allora rimasti segreti. A raccogliere le testimonianze c’era uno sbigottito procuratore, Agostino Cordova. Marrapodi fu il primo ad indicare anche numerosi magistrati reggini come massoni collusi. Dopo le sue scottanti rivelazioni Pietro Marrapodi chiese alla Procura di Reggio e a quella nazionale di avere una scorta che gli fu negata. Una mattina il corpo di Pietro Marrapodi, 62 anni, fu trovato senza vita nello scantinato della sua abitazione di centro città‘, impiccato. Il caso fu velocemente archiviato come suicidio ma i dubbi sulla fine dell’uomo permangono ancora oggi. Il procuratore Cordova prese spunto da questi eventi per dare il via ad una indagine da cui scaturì una delicatissima inchiesta denominata “mani segrete”.
L’INCHIESTA “MANI SEGRETE” DEL PROCURATORE AGOSTINO CORDOVA Agostino Cordova, allora procuratore di Palmi, tentò con questa inchiesta di districarsi tra gli intrecci tessuti dalle logge massoniche. Tra molte difficoltà raccolse molto materiale che gli sarebbe servito a dimostrare l’esistenza di un rapporto vincolante tra ‘ndrangheta e politica. Il procuratore riuscì a porre sotto sequestro il computer del Grande Oriente d’Italia contenente l’archivio elettronico di tutte le logge massoniche italiane. L’inchiesta si allargò fino a produrre circa 800 faldoni e sottoporre ad indagine più di sessanta persone. La maxi inchiesta di Cordova coinvolse influenti personaggi dell’imprenditoria, della finanza, della politica e della stessa magistratura, anche non strettamente calabrese. Furono trovate tracce di alcuni grossi scandali come quello legato al traffico di rifiuti tossici, del commercio illegale di armi, degli appalti, fino ad arrivare a sospettare di un traffico di uranio con l’ex Unione Sovietica. Dopo circa due anni di indagini, nel 1994, l’inchiesta fu tolta dalle mani di Agostino Cordova e trasferita alla Procura di Roma, dove rimase a prendere polvere fino al 3 luglio 2000 quando il giudice per le indagini preliminari Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, accolse la richiesta di archiviazione dell’inchiesta dichiarando il “non luogo a procedere nell’azione penale per 64 indagati ritenuti appartenenti alla massoneria”. Tra le varie accuse in seguito mosse ad Agostino Cordova c’è anche quella di aver raccolto una documentazione definita “abnorme”, in altre parole di aver lavorato troppo. Negli anni Novanta, in Italia, c’erano 146 massoni indagati per mafia e reati politici, 83 dei quali accusati anche di riciclaggio. Fra gli iscritti alle logge figuravano però anche diversi poliziotti e carabinieri, accusati da Cordova di impedire le indagini. 2018 IACCHITE
Massonerie e grandi corruttori. La mafia nel Lazio ha nuovi alleati. Sorprese nel Rapporto regionale sui clan. Per i boss la Capitale è la città delle possibilità
7 Ottobre 2020 di Clemente Pistilli. Per le mafie Roma è la città delle possibilità. Nella capitale ci sono i palazzi del potere, è più facile avere relazioni, c’è un mercato enorme per la droga e pure un intreccio inquietante tra crimine e massoneria. Un luogo a cui non a caso da decenni danno ormai l’assalto le organizzazioni mafiose tradizionali e in cui si stanno sviluppando sempre più mafie autoctone, quelle di origine nomade e non solo. E come se non bastasse a smuovere gli appetiti dei clan ci sono ora le ingenti risorse in arrivo per il superamento dell’emergenza Covid. Non c’è altro posto in Italia dove la mafia assume caratteristiche simili a quelle che mostra a Roma e tali aspetti sono stati messi a fuoco nella quinta edizione del rapporto “Mafie nel Lazio”, presentato ieri dal governatore Nicola Zingaretti in un luogo simbolo (nella foto), una villa confiscata proprio alla mafia alla Romanina.
IL QUADRO. Il rapporto cerca di inquadrare i “fattori storici, criminali, socio-economici e ambientali che hanno determinato la genesi e lo sviluppo di gruppi criminali autoctoni nel contesto di insediamento e radicamento delle mafie tradizionali a Roma”. Nella capitale è stato registrato un vero e proprio salto di qualità dei narcotrafficanti di quartiere, che hanno mutuato dalle mafie tradizionali il metodo mafioso. Si parla così di narcomafie romane, gruppi che hanno affiancato al traffico di droga la pratica costante e organizzata delle estorsioni, dell’usura e del recupero crediti abusivo, con l’uso del metodo mafioso. A preoccupare c’è tra l’altro il particolare che i clan, dopo un lungo silenzio utile agli affari, sono tornati a far scorrere il sangue sulle strade, tra gambizzazioni e omicidi, essendo talmente succulenta la torta da far rispolverare pure le armi per tentare la conquista di ulteriori spazi di investimento e il controllo di varie attività. Con tanto di killer professionisti e broker internazionali coinvolti, oltre alla solita piaga della corruzione che è miele per i mafiosi. Non a caso, nel periodo esaminato, la locale Direzione distrettuale antimafia ha indagato per reati di associazione mafiosa ben 295 persone e 178 per reati aggravati dal cosiddetto metodo mafioso. Sono poi attualmente confiscati 1243 beni tolti ai clan e 821 sono stati destinati al riutilizzo sociale e istituzionale. La Banca d’Italia infine ha segnalato per il Lazio 10.567 operazioni sospette, di cui 9.037 solo a Roma. Ma sempre nel rapporto viene anche sottolineato che cosche e clan, da Cosa Nostra alla ‘ndrangheta, fino alla camorra, negli anni hanno saputo “reinventarsi” nella capitale, “rinascere e allearsi per sfruttare al meglio le potenzialità offerte dalla città”. Con gli strumenti della corruzione sono poi appunto riusciti ad infiltrare l’economia legale e corrompere funzionari pubblici.
L’ULTIMA TENTAZIONE. Ora c’è pure la paura per i fondi Covid. Un allarme lanciato ieri, in occasione della presentazione del rapporto, dallo stesso presidente Zingaretti e dal prefetto Matteo Piantedosi. “Dobbiamo mettere al riparo dalle mafie le nuove risorse europee”, ha specificato il governatore. Preoccupazione comune a quella del prefetto. Per Piantedosi infatti “l’attenzione va posta su scenari futuri indotti dal Covid e dovuti all’arrivo di nuovi fondi che andranno preservati dall’interesse dai gruppi criminali”. “Dobbiamo stare attenti a questa miscela esplosiva, serve prevenzione, bisognerà buttare il cuore oltre l’ostacolo”, ha detto. Fonte:lanotiziagiornale.it/
Massonerie e grandi corruttori. La mafia nel Lazio ha nuovi alleati. Sorprese nel Rapporto regionale sui clan. Per i boss la Capitale è la città delle possibilità
‘Ndrangheta e massoneria “soci” per investire in Calabria 100 milioni dei Lloyd’s di Londra.L’ex venerabile divenuto collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio racconta a Dda di Catanzaro e Ros anche gli affari dei Mancuso. Nel 2005 un’operazione di riciclaggio con «cardinali e vescovi» per opere ecclesiastiche. I soldi sporchi, mascherati da offerte, così uscivano puliti. E cita pure Letta e Previti (ASCOLTA L’AUDIO). di Pietro Comito 25 ottobre 2020
Un pezzo da novanta della massoneria e due della ‘ndrangheta, un ex ufficiale della Guardia di finanza e, niente meno, un emissario dei Lloyd’s di Londra. Anzi, erano proprio i Lloyd’s a voler investire «prima della chiusura dell’anno finanziario, cento milioni di euro nell’acquisto di villaggi turistici».
Per farlo, interessarono il maestro venerabile crotonese Sabatino Marrazzo. Il coinvolgimento dei boss Rocco Molè, da Gioia Tauro, e Giovanni Mancuso, una sorta di ministro delle finanze del clan di Limbadi, fu il passo successivo. E tutti insieme, c’era pure quell’ex finanziere – racconta Cosimo Virgiglio, ex colletto bianco con grembiulino sporco, al pool di Nicola Gratteri – «andammo a visionare diversi villaggi».
È il 24 luglio 2018, sede della Direzione nazionale antimafia. Virgiglio viene interrogato dal pm Antonio De Bernardo e dai carabinieri del Ros. Quella raccontata dal collaboratore di giustizia rosarnese, premettiamo, è una storia tutta da verificare sul piano investigativo, ma è certamente molto suggestiva e di rilevante interesse pubblico, acquisita agli atti delle maxinchieste condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.
Massomafia e alta finanza.Virgiglio ricorda delle riunioni massoniche in un noto ristorante catanzarese e colloca la vicenda relativa agli investimenti londinesi sulla Costa degli dei nel 2003. Quello era un periodo molto complicato, tanto per i Molè quanto per i Mancuso. A Gioia Tauro si frantumò l’alleanza coi Piromalli, esasperando quelle tensioni che l’1 febbraio 2008 condussero proprio all’omicidio di Rocco Molé. A Limbadi, invece, le frizioni tra le varie articolazioni del clan Mancuso, prima esplosero con il tentato omicidio di Ciccio Mancuso alias Tabacco e l’omicidio di Raffaele Fiamingo detto il Vichingo, poi furono spente con la maxioperazione Dinasty-Affari di famiglia: tutto, appunto, nel 2003. La malavita, però, avrebbe avuto piena intenzione di controllare quel fiume di denaro annunciato oltremanica. E la massoneria? Avrebbe sovrinteso gli affari dei Lloyd’s.
E questo è uno dei passaggi del verbale che contiene le dichiarazioni rese da Cosimo Virgiglio (in foto) al pm De Bernardo e al Ros: «Molte riunioni tra massoni per la discussione di grandi affari e candidature avvenivano al ristorante L’orso cattivo (dove abbiamo incontrato soggetti come Gianni Letta, con il quale si parlò dell’affare che coinvolgeva la Lloyd’s di Londra, Cesare Previti ed altri). Tuttavia previso che il ristorante L’orso cattivo era soltanto un luogo dove sapevamo di poter parlare indisturbati ed inascoltati di questioni delicate, ma non un vero e proprio tempio massonico».
Precisiamo che finora non c’è riscontro sulle dichiarazioni di Virgiglio e che tanto l’onorevole Gianni Letta quanto Cesare Previti non sono mai stati coinvolti in indagini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Così come estranei ad ogni contestazione di reato sono i Lloyd’s e il ristorante L’orso cattivo. Ma andiamo avanti. Perché i racconti di Virgiglio – ripetiamo, tutti da riscontrare – sono davvero suggestivi. L’ex commercialista arringato ai Molè, arrestato nella maxioperazione Maestro della Dda di Reggio Calabria e poi passato tra le fila dei collaboratori di giustizia, faceva parte della Gran Loggia Garibaldini d’Italia di Vibo Valentia «da cui – sottolinea – dipendevano altre logge». Continua: «Io ero maestro venerabile di una di queste, quella Eroe dei due mondi di Reggio Calabria. Facevo comunque parte, già precedentemente, del Grande Oriente di San Marino di cui Ugolini era il massimo rappresentante». Ugolini, Giacomo Maria, ex ambasciatore sammarinese, massone potentissimo e controverso, scomparso nel 2006.
La massoneria e la Chiesa Ancora dal verbale reso da Cosimo Virgiglio, il 24 luglio 2018, a Dda di Catanzaro e Ros: «Mancuso (Giovanni, ndr) tramite la loggia di cui faceva parte Sensi, l’imprenditore romano, soggetto vicino ad Ugolini, e grazie all’intervento di questi, concluse anche una complessa operazione di riciclaggio». Precisiamo, anche in questo caso, che a Franco Sensi, scomparso nel 2008, che Ugolini, la giustizia non ha mai contestato nulla al riguardo. Ma torniamo nuovamente al racconto del collaboratore di giustizia.
Era il 2005 e «Ugolini fu convocato da Giovanni Mancuso e Mario Esposito (non indagato), degli Arena di Isola Capo Rizzuto, per il riciclaggio di danaro attraverso la realizzazione di opere ecclesiastiche, ad esempio un centro anziani». Il numero uno del Grande Oriente di San Marino – secondo quanto riferisce la gola profonda – «avrebbe dovuto fare da tramite per la consegna del denaro sotto forma di offerte ad istituti ecclesiastici, grazie all’intermediazione di alti prelati, quali cardinali e vescovi di Mileto, che avrebbero poi affidato la realizzazione di strutture a costruttori puliti, dietro cui però si celavano gli stessi mafiosi che avevano messo a disposizione il denaro di provenienza illecita, il quale attraverso le offerte non era più rintracciabile. So – conclude Virgiglio – che questa operazione è andata in porto con la costruzione di un centro anziani a Paravati».
Proprio da quelle parti, il Grande Oriente di San Marino avrebbe giocato in casa. «Ugolini aveva un punto di riferimento in Calabria costituito da Mario Esposito della cosca Arena, ed era un personaggio molto importante e molto legato a Vibo Valentia, che teneva in grossa considerazione. Peraltro a Vibo c’è una loggia madre e dal punto di vista massonico, è un centro molto importante». LacNews24
«MAFIA E MASSONERIA IN AFFARI COI SOLDI DEI LLOYD’S». VIRGIGLIO CITA PURE GIANNI LETTA E PREVITI
L’ex venerabile divenuto collaboratore di giustizia racconta a Dda di Catanzaro e Ros gli affari dei Mancuso. Nel 2005 un’operazione di riciclaggio con «cardinali e vescovi» per opere ecclesiastiche. I soldi sporchi, mascherati da offerte, così uscivano puliti Un pezzo da novanta della massoneria e due della ‘ndrangheta, un ex ufficiale della Guardia di finanza e, niente meno, un emissario dei Lloyd’s di Londra. Anzi, erano proprio i Lloyd’s a voler investire «prima della chiusura dell’anno finanziario, cento milioni di euro nell’acquisto di villaggi turistici». Per farlo, interessarono il maestro venerabile crotonese Sabatino Marrazzo. Il coinvolgimento dei boss Rocco Molè, da Gioia Tauro, e Giovanni Mancuso, una sorta di ministro delle finanze del clan di Limbadi, fu il passo successivo. E tutti insieme, c’era pure quell’ex finanziere – racconta Cosimo Virgiglio, ex colletto bianco con grembiulino sporco, al pool di Nicola Gratteri – «andammo a visionare diversi villaggi».
È il 24 luglio 2018, sede della Direzione nazionale antimafia. Virgiglio viene interrogato dal pm Antonio De Bernardo e dai carabinieri del Ros. Quella raccontata dal collaboratore di giustizia rosarnese, premettiamo, è una storia tutta da verificare sul piano investigativo, ma è certamente molto suggestiva e di rilevante interesse pubblico, acquisita agli atti delle maxinchieste condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro.
Virgiglio ricorda delle riunioni massoniche in un noto ristorante catanzarese e colloca la vicenda relativa agli investimenti londinesi sulla Costa degli dei nel 2003. Quello era un periodo molto complicato, tanto per i Molè quanto per i Mancuso. A Gioia Tauro si frantumò l’alleanza coi Piromalli, esasperando quelle tensioni che l’1 febbraio 2008 condussero proprio all’omicidio di Rocco Molé. A Limbadi, invece, le frizioni tra le varie articolazioni del clan Mancuso, prima esplosero con il tentato omicidio di Ciccio Mancuso alias Tabaccoe l’omicidio di Raffaele Fiamingo detto il Vichingo, poi furono spente con la maxioperazione Dinasty-Affari di famiglia: tutto, appunto, nel 2003. La malavita, però, avrebbe avuto piena intenzione di controllare quel fiume di denaro annunciato oltremanica. E la massoneria? Avrebbe sovrinteso gli affari dei Lloyd’s.
E questo è uno dei passaggi del verbale che contiene le dichiarazioni rese da Cosimo Virgiglio al pm De Bernardo e al Ros: «Molte riunioni tra massoni per la discussione di grandi affari e candidature avvenivano al ristorante L’orso cattivo (dove abbiamo incontrato soggetti come Gianni Letta, con il quale si parlò dell’affare che coinvolgeva la Lloyd’s di Londra, Cesare Previti ed altri). Tuttavia previso che il ristorante L’orso cattivo era soltanto un luogo dove sapevamo di poter parlare indisturbati ed inascoltati di questioni delicate, ma non un vero e proprio tempio massonico».
Precisiamo che finora non c’è riscontro sulle dichiarazioni di Virgiglio e che tanto l’onorevole Gianni Letta quanto Cesare Previti non sono mai stati coinvolti in indagini della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Così come estranei ad ogni contestazione di reato sono i Lloyd’s e il ristorante L’orso cattivo. Ma andiamo avanti. Perché i racconti di Virgiglio – ripetiamo, tutti da riscontrare – sono davvero suggestivi. L’ex commercialista arringato ai Molè, arrestato nella maxioperazione Maestro della Dda di Reggio Calabria e poi passato tra le fila dei collaboratori di giustizia, faceva parte della Gran Loggia Garibaldini d’Italia di Vibo Valentia «da cui – sottolinea – dipendevano altre logge». Continua: «Io ero maestro venerabile di una di queste, quella Eroe dei due mondi di Reggio Calabria. Facevo comunque parte, già precedentemente, del Grande Oriente di San Marino di cui Ugolini era il massimo rappresentante». Ugolini, Giacomo Maria, ex ambasciatore sammarinese, massone potentissimo e controverso, scomparso nel 2006.
LA MASSONERIA E LA CHIESA Ancora dal verbale reso da Cosimo Virgiglio, il 24 luglio 2018, a Dda di Catanzaro e Ros: «Mancuso (Giovanni, ndr) tramite la loggia di cui faceva parte Sensi, l’imprenditore romano, soggetto vicino ad Ugolini, e grazie all’intervento di questi, concluse anche una complessa operazione di riciclaggio». Precisiamo, anche in questo caso, che a Franco Sensi, scomparso nel 2008, che Ugolini, la giustizia non ha mai contestato nulla al riguardo. Ma torniamo nuovamente al racconto del collaboratore di giustizia. Era il 2005 e «Ugolini fu convocato da Giovanni Mancuso e Mario Esposito (non indagato), degli Arena di Isola Capo Rizzuto, per il riciclaggio di danaro attraverso la realizzazione di opere ecclesiastiche, ad esempio un centro anziani». Il numero uno del Grande Oriente di San Marino – secondo quanto riferisce la gola profonda – «avrebbe dovuto fare da tramite per la consegna del denaro sotto forma di offerte ad istituti ecclesiastici, grazie all’intermediazione di alti prelati, quali cardinali e vescovi di Mileto, che avrebbero poi affidato la realizzazione di strutture a costruttori puliti, dietro cui però si celavano gli stessi mafiosi che avevano messo a disposizione il denaro di provenienza illecita, il quale attraverso le offerte non era più rintracciabile. So – conclude Virgiglio – che questa operazione è andata in porto con la costruzione di un centro anziani a Paravati». Proprio da quelle parti, il Grande Oriente di San Marino avrebbe giocato in casa. «Ugolini aveva un punto di riferimento in Calabria costituito da Mario Esposito della cosca Arena, ed era un personaggio molto importante e molto legato a Vibo Valentia, che teneva in grossa considerazione. Peraltro a Vibo c’è una loggia madre e dal punto di vista massonico, è un centro molto importante». IL VIBONESE 25.10.2020
Rapporti tra la ‘ndrangheta e la massoneria italiana
Wikipedia – Il 22 dicembre 2017 la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (DNAA) afferma per la prima volta l’enorme interessi di Cosa Nostra e ‘ndrangheta per la massoneria deviata indicando inoltre 193 soggetti aventi una doppia appartenenza di cui 122 del Grande Oriente d’Italia; 58 al GLRI, 9 al GLI e 4 alla Serenissima[2][3]. Il Gran Maestro del GOI ha replicato immediatamente: “Siamo seriamente preoccupati. In Italia qualcuno vuole riportare indietro le lancette della storia reintroducendo di fatto leggi fasciste e illiberali soprattutto contro i massoni. Come denunciò Antonio Gramsci, può essere l’inizio di un pericoloso ritorno al passato. È in grave pericolo innanzitutto la democrazia e il libero pensiero” [4]. La ‘ndrangheta, seppur in modo collaterale, già negli anni sessanta aveva rapporti con la massoneria deviata, nella misura in cui questa faceva da tramite con le istituzioni[5][6] Il fine era instaurare rapporti di cointeressenza con la classe politica, attraverso la clientela saldata dal voto di scambio.[7] Dagli anni ’70 i rapporti si stringono nella misura in cui, la massoneria faceva da tramite con le istituzioni. Incomincia ad avere rapporti stretti dopo la prima guerra di ‘ndrangheta, dove alcuni capibastone diventano massoni per poter comunicare senza intermediari e incrementare così i guadagni con personaggi della massoneria appartenenti anche al mondo bancario, della magistratura, imprenditoria e delle forze dell’ordine[8]. Questo nuovo modo di agire della mafia calabrese sembra sia stato voluto dal vecchio capobastone Don Mommo Piromalli e dalla nuova promessa Paolo De Stefano[8]. Chi era contrario a ciò, come Antonio Macrì e Domenico Tripodo, riteneva che la ‘ndrangheta non dovesse affiliarsi ad altre associazioni e quindi rispettare le tradizionali regole del codice mafioso[8]. Questi furono eliminati, ma comunque per ovviare al problema morale, Piromalli fonda la Santa, una sorta di ultimo grado gerarchico dell’organizzazione alla quale una volta avuto accesso si ha il potere anche di entrare in contatto e affiliarsi ad altre organizzazioni, come la massoneria[8]. I santisti possono essere massimo 33 ma successivamente il numero fu incrementato[8]. Nel 1992 con l’operazione Olimpia si ebbero maggiori informazioni; si scoprirono le persone che fecero accedere i santisti nella massoneria calabrese: il notaio Pietro Marrapodi, Pasquale Modafferi e il capo-loggia Cosimo Zaccone.[9] A suggerire l’esistenza, negli ultimi anni, di un livello occulto della ‘ndrangheta è stata un’intercettazione telefonica risalente alla fine del 2007. I carabinieri registrano, tramite una microspia, una conversazione tra Sebastiano Altomonte (originario di Bova Marina) e sua moglie. Altomonte in tale frangente sottolinea che «c’è una che si sa e una che non la sa nessuno». E poi, rimarcando il concetto: «c’è la visibile e l’invisibile […] che non la sa nessuno, solo chi è invisibile». Questa entità non ha mai trovato conferme giudiziarie. Tuttavia, le parole di Sebastiano Altomonte, successivamente condannato per associazione mafiosa, rendono plausibile un attuale accostamento tra potere mafioso e ambienti massonici.[5][10] Il 7 novembre 2012 da un’inchiesta della DDA di Catanzaro emerge il presunto coinvolgimento della cosca per i lavori di ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo e la messa in opera a Roma della rete di fibre ottiche per internet e del coinvolgimento con Paolo Coraci fondatore di una loggia massonica che avrebbe chiesto il sostegno elettorale per D’Ambrosio in cambio di appalti nel Lazio, Lombardia e Veneto.[11] Nello stesso anno l’inchiesta Saggezza della DDA di Reggio Calabria è emerso che il legame con la massoneria italiana sarebbe molto forte, al punto di costituire una via di infiltrazione ai vertici apicali della politica e dell’economia italiana[12], oltre alla promozione di tre questure -due al Sud e una al Nord- a livello di direzione generale.[13] In particolare, nel 2010 la loggia ha indicato i consiglieri di amministrazione di 15 enti pubblici[14][15], nomine poi non concretizzatesi. Le operazioni erano agevolate dal movimento Liberi e Forti, fondato da Coraci nel 2010, e dalla società Edil Sud di Francesco Comerci, emissaria della cosca Mancuso–Tripodi.[16][17]
- Il 17 novembre 2013il Grande Oriente d’Italia sospende per la prima volta nella sua storia una loggia, nella fattispecie la loggia Rocco Verducci con sede a Gerace, e con il tempio a Siderno per un possibile coinvolgimento di persone affiliate irregolarmente e collegate alla criminalità organizzata calabrese. La scelta della sospensione è stata presa dopo l’ultima inchiesta giudiziaria: l’operazione Saggezza, in cui furono arrestate persone affiliate sia alla ‘ndrangheta che alla loggia[18].
- Il 4 gennaio 2016si conclude l’operazione Kyterion 2 diretta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro che porta all’arresto di 16 presunti affiliati ai Grande Aracri di Cutro, dalle indagini si evince presunti tentativi di collegarsi ad esponenti del Vaticano e della Corte di Cassazione, nonché l’intrusione in ordini massonici e cavalierati da parte del capo-locale Nicolino Grande Aracri[19][20].
- Dall’operazione Mammasantissimadel Ros dei Carabinieri conclusa il 15 luglio 2016 emergerebbe il verbale del 2014 dell’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo (1990 – 1993), ora Gran Maestro della Gran loggia regolare d’Italia, il quale riferisce al pubblico ministero Giuseppe Lombardo le confidenze di Ettore Loizzo, ai tempi vice del Gran Maestro: «Nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente, che io indissi con urgenza nel ’93 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Gli dissi subito: “E cosa vuoi fare di fronte a questo disastro?”. Lui mi rispose: “Nulla”. Io, ancora più sbigottito, chiesi perché. Lui mi rispose che non poteva fare nulla perché altrimenti lui e la sua famiglia rischiavano gravi rappresaglie… Faccio presente che la questione calabrese era molto più preoccupante in quanto la massoneria calabrese era ben più ramificata di quella siciliana»[21]. Da luglio ha iniziato a parlare dei rapporti tra massoneria e ‘ndrangheta anche il pentito nonché massone Cosimo Virgiglio. Racconta che la massoneria fortemente politicizzata si serve della criminalità calabrese per il controllo dei flussi elettorali mentre essa per il riciclaggio di denaro. Secondo il pentito la loggia di Reggio Calabria sarebbe suddivisa in due parti: una pulita e una occulta; della seconda farebbero parte gli ‘ndranghetisti. Racconta anche della presenza nelle logge di esponenti dei Piromalli e dei De Stefano. La commistione tra elementi criminali, con dote di Santa e massoni in gergo massonico viene definito “varco” (in riferimento alla Breccia di Porta Pia); e tecnicamente sarebbe il mondo massonico ad entrare nelle file della ‘ndrangheta[22][23][24].
- Il 31 gennaio 2017in udienza presso la commissione antimafia l’ex maestro del GOI Giuliano Di Bernardo racconta dei legami tra ‘ndrangheta, Cosa Nostra e massoneria, e che il numero 1 della massoneria calabrese gli riferì che 28 logge calabresi su 32 erano infiltrate dalla ‘ndrangheta[25][26].
- Il 23 maggio 2018nel processo Breakfast entra una informatica della Direzione investigativa antimafia in cui il pentito Cosimo Virgiglio ed ex massone racconta che la ‘ndrina dei Molé attraverso l’ex ministro della Repubblica Claudio Scajola voleva arrivare ad Impregilo.Racconta inoltre dei rapporti dei Molè con la loggia coperta di Ugolini Giacomo Maria alias Grande Oriente di San Marino[27].
- Il 19 dicembre 2019si conclude l’operazione Rinascita-Scott iniziata nel 2016 che porta all’arresto di 334 persone in particolare nella Provincia di Vibo Valentia tra cui i capi e affiliati di tutti le principali locali di ‘ndrangheta vibonese e alleate dei Mancuso oltre ai Mancuso stessi. Tra gli arrestati ci sono anche esponenti politici quali Giancarlo Pittelli (ex di Forza Italia), Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo e presidente dell’ANCI in Calabria, legali, Filippo Nesci, dirigente dell’urbanistica di Vibo Valentia, Danilo Tripodi impiegato al tribunale di Vibo Valentia, l’imprenditore edile Prestia, il ristoratore Ferrante, ed esponenti della massoneria[28][29][30][31].
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- ^‘Ndrangheta: «Pittelli è un valore aggiunto». Così lo accoglieva Giorgia Meloni, in repubblica.it, 19 dicembre 2019. URL consultato il 20 dicembre 2019.
- ^Gratteri: “Centrale la figura di Pittelli, ex parlamentare, avvocato, massone”, in it, 19 dicembre 2019. URL consultato il 20 dicembre 2019.
- ^‘Ndrangheta, maxi blitz contro le cosche: oltre 300 arresti tra boss, politici e imprenditori . Sequestrati beni per 15 milioni, in it, 19 dicembre 2019. URL consultato il 20 dicembre 2019.
‘Ndranghetisti e massoni, il giuramento su Garibaldi, Mazzini e La Marmora
Gli anni ’70 rappresentano un vero e proprio spartiacque che segnerà il corso e la storia della ‘ndrangheta, ponendo le basi della sua evoluzione sino a giungere alla potenza economica e militare che oggi ne contraddistingue il ruolo sui territori e nello scenario criminale internazionale.
In quegli anni si salda anche il tanto analizzato e indagato rapporto con la massoneria, storicamente radicata nella società calabrese.
Scrivono a questo proposito i magistrati della Dda di Reggio Calabria: «Si tratta dell’ingresso dei vertici della ‘ndrangheta nella massoneria, che non può avvenire se non dopo un mutamento radicale nella ‘cultura’ e nella politica’ della ‘ndrangheta, mutamento che passa da un atteggiamento di contrapposizione, o almeno di totale distacco, rispetto alla società civile, ad un atteggiamento di integrazione, alla ricerca di una nuova legittimazione, funzionale ai disegni egemonici non limitati all’interno delle organizzazioni criminali, ma estesi alla politica, all’economia, alle istituzioni.
L’ingresso nelle logge massoniche esistenti o in quelle costituite allo scopo doveva dunque costituire il tramite per quel collegamento con quei ceti sociali che tradizionalmente aderivano alla massoneria, vale a dire professionisti (medici, avvocati, notai), imprenditori, uomini politici, rappresentanti delle istituzioni, tra cui magistrati e dirigenti delle forze dell’ordine. Attraverso tale collegamento la ‘ndrangheta riusciva a trovare non soltanto nuove occasioni per i propri investimenti economici, ma sbocchi politici impensati e soprattutto quella copertura, realizzata in vario modo e a vari livelli (depistaggi, vuoti di indagine, attacchi di ogni tipo ai magistrati non arrendevoli, aggiustamenti di processi, etc.), cui è conseguita per molti anni quella sostanziale impunità, che ha caratterizzato tale organizzazione criminale, rendendola quasi “invisibile” alle istituzioni, tanto che solo da un paio di anni essa è balzata all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e degli organi investigativi più qualificati.
Naturalmente l’inserimento nella massoneria, che per quanto inquinata, restava pur sempre un’organizzazione molto riservata ed esclusiva, doveva essere limitato ad esponenti di vertice della ‘ndrangheta, e per fare questo si doveva creare una struttura elitaria, una nuova dirigenza, estranea alle tradizionali gerarchie dei “locali”, in grado di muoversi in maniera spregiudicata, senza i legami culturali della vecchia onorata società.
Nuove regole sostituivano quelle tradizionali, che restavano in vigore solo per i gradi meno elevati e per gli ingenui, ma non vincolavano certo personaggi come Antonio Nirta o Giorgio De Stefano, che si muovevano con tranquilla disinvoltura tra apparati dello stato, servizi segreti, gruppi eversivi.
Persino l’attività di confidente, un tempo simbolo dell’infamia, era adesso tollerata e praticata, se serviva a stabilire utili relazioni con rappresentanti dello Stato o se serviva a depistare l’attività investigativa verso obiettivi minori. E più oltre: «Esigenze razionalizzatrici dunque che in qualche modo anticipavano e preparavano quei nuovi assetti della ‘ndrangheta che hanno formato oggetto della presente indagine, ma che rispondevano anche alla necessità di ‘segretazione’ dei livelli più elevati del potere mafioso, al fine di sottrarli alla curiosità degli apparati investigativi ed alle confidenze dei livelli bassi dell’organizzazione».
Un lungo filo rosso
Un lungo filo rosso unisce dunque ‘ndrangheta e massoneria, anche se, stando alle pacifiche conclusioni alle quali sono pervenute indagini giudiziarie e storiche, la reciproca compenetrazione delle due società segrete si consolidò a partire dalla seconda metà degli anni ’70, in singolare e non certo casuale consonanza con quanto avveniva dentro Cosa Nostra, come ebbe a riferire il collaboratore di giustizia Leonardo Messina davanti alla Commissione parlamentare antimafia: «Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».
Rimane dunque aperto il tema di come rendere efficace il livello giudiziario e penale quando emerge una dimensione occulta del potere e la sua doppiezza. Le conclusioni sin qui riferite trovano riscontro in alcuni dei documenti “interni” della ‘ndrangheta.
In essi si fa riferimento alle formule di iniziazione alla “Santa”, la struttura di ‘ndrangheta creata nella metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ad essa potevano essere ammessi i giovani e ambiziosi esponenti delle cosche, smaniosi di rompere le catene dei vecchi vincoli della società di sgarro e di misurarsi con il mondo esterno, che offriva infinite possibilità di inserimento, di arricchimento, di gratificazione.
Due sono gli elementi che appaiono decisivi. Il primo è costituito dall’impegno assunto dai santisti di “rinnegare la società di sgarro”. Dunque le vecchie regole, ancora valide per tutti i “comuni” mafiosi, non valgono più per la nuova èlite della ‘ndrangheta.
I santisti possono entrare in contatto con politici, amministratori, imprenditori, notai, persino magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine, se questo può essere utile per l’aggiustamento dei processi, per lo sviamento delle indagini, per stabilire rapporti sotterranei di confidenza e di reciproco scambio di favori.
L’infamità non rappresenta più uno sbarramento invalicabile, può essere aggirata e superata in vista dei vantaggi che la rete dei contatti non più preclusi può assicurare. Il secondo importante elemento è costituito dalla “terna” dei personaggi di riferimento prescelti per l’organizzazione della “Santa”.
Non più gli Arcangeli della società di sgarro – Osso, Mastrosso e Carcagnosso, giunti dalla Spagna in Italia dopo 29 anni vissuti nelle grotte di Favignana- ma personaggi storici, ben noti nella tradizione culturale e politica italiana: Garibaldi, Lamarmora, Mazzini. I primi due, generali dell’esercito italiano, un tempo, in quanto portatori di divisa al servizio dello Stato, sarebbero stati considerati “infami” per definizione, per eccellenza.
Come va spiegato allora un richiamo così solenne ed esplicito a tali personaggi? Qual è il messaggio che attraverso tale indicazione si vuole mandare al popolo della ‘ndrangheta? La risposta è chiara se si osserva come Garibaldi, Lamarmora, Mazzini erano tutti e tre appartenenti a logge massoniche, per di più in posizioni di vertice (Garibaldi fu Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 24 maggio all’8 ottobre del 1864).
L’ingresso nella società civile
La ‘ndrangheta, insomma, da corpo separato, si trasforma in componente della società civile, in potente lobby economica, imprenditoriale, politica, elettorale. Da allora diventa l’interlocutore imprescindibile, il convitato di pietra, di ogni affare, investimento, programma di opere pubbliche avviato sia a livello regionale che centrale, ma anche di ogni consultazione elettorale, amministrativa e politica.
Per arrivare a questo risultato, tuttavia, i santisti non potevano entrare in contatto “diretto” con gli esponenti delle istituzioni e del potere economico, almeno all’epoca. Oggi, probabilmente, tutto questo è possibile senza mediazioni, ma in quella fase storica era necessario passare attraverso camere di compensazione, che consentissero a quei contatti la necessaria dose di riservatezza, affidabilità, sicurezza. Furono le logge massoniche ad offrire una tale possibilità. Non tutte certo. Alcune di quelle già esistenti diedero la propria disponibilità, altre furono create per l’occasione, ma sicuramente il sistema massonico-mafioso costituì il formidabile strumento di integrazione delle mafie nel sistema di potere dominante e di captazione nella borghesia degli affari.
Da allora in avanti, il fenomeno ‘ndrangheta appare sempre più con i caratteri di componente strutturale della società meridionale, e non solo, di “istituzione tra le istituzioni”, di attore diretto e principale delle politiche di sviluppo, di investimento, realizzate in quelle aree da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali.
Per questo è verosimile che il ruolo della massoneria, accertato e necessario in altre fasi, sia in gran parte superato, almeno nelle forme finora conosciute.
È però necessario abbandonare alcune categorie di lettura fortemente radicate nella cultura dell’antimafia, categorie che appaiono oggi superate e addirittura di ostacolo ad una lettura idonea a fornire strumenti di analisi e soprattutto di contrasto in grado di avere una qualche possibile efficacia. La prima categoria è quella dell’emergenza.
Se la ‘ndrangheta vive ed opera dall’Unità d’Italia e se essa, con il passare di oltre un secolo e mezzo, ha conservato intatte fisionomia e presenza, accrescendo la sua forza economica e il potere di condizionamento politico, allora di emergenziale nella sua presenza vi è davvero poco.
È piuttosto un fenomeno dinamico, funzionale all’attuale assetto economico-sociale e quindi non contrastabile solo con i consueti interventi repressivi di carattere giudiziario. La definizione della mafia come “antistato”, poi, è di quelle che appaiono suggestive ed accattivanti ma legate all’immagine di una criminalità simile al fenomeno terroristico, intenzionata cioè ad abbattere lo Stato di diritto per sostituirsi ad esso.
Di fronte ad un fenomeno storico di tale portata, non solo non vi è mai stata una seria, duratura, coerente, volontà politica di condurre un’azione di contrasto decisa e irremovibile ma, al contrario, si è registrata, da sempre, una linea ambigua e contraddittoria.
Alle debolezze istituzionali ed ai ritardi culturali si è aggiunto un vero e proprio sistema di collusioni e mediazioni sociali ed economiche, fino a determinare un livello di organicità degli interessi mafiosi alle dinamiche della società determinando il relativo degrado della politica e delle istituzioni. Si è reso così sempre più labile, in intere aree della Calabria il confine tra lo Stato e gli interessi della ‘ndrangheta.
Con questa forza la ‘ndrangheta ha sempre cercato, quando ne ha avuto l’opportunità, di valicare l’area del proprio insediamento.
Il suo essere “locale” – non a caso auto-definizione della sua struttura organizzata centrale – non è mai stato considerato una gabbia o una limitazione al proprio agire mafioso, ha invece rappresentato una pedana di lancio verso altri territori –geografici, economici e sociali- nei quali stabilire relazioni in cui sviluppare nuove attività criminali.
Mafia e logge occulte, l’indagine della Commissione parlamentare antimafia
Depistaggi e tanto denaro, riti e affari, cappucci e iniziazioni.
Il pentito Francesco Marino Mannoia raccontò che il suo capo Stefano Bontate era anche massone. Voleva entrare lì dentro per stringere accordi e governare Palermo insieme ad altri amici che non fossero solo i suoi. E poi la vicenda di Michele Sindona, il bancarottiere siciliano legato a Giulio Andreotti, alla P2 di Licio Gelli e – naturalmente – all’aristocrazia mafiosa siciliana.
Su questi intrecci poche sono le indagini e ancora meno le sentenze. Per provare a capire e a scoprire ci sono state le inchieste di alcune commissioni parlamentari. Le analisi e le riflessioni sul tema: «Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa Nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi». E poi: «Nelle logge la presenza di esponenti di Cosa Nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica». E ancora: «Le affiliazioni massoniche offrono all’organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per la conclusione di grandi affari, sia per ‘l’aggiustamento’ dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia».
Una grande questione criminale, tante realtà tutte diverse e tutte uguali con luoghi speciali come Castelvetrano, la patria di Matteo Messina Denaro, latitante per trentanni fino al 16 gennaio scorso. Un paese con ben sei logge sulle diciannove attive nella provincia trapanese, fra i “fratelli” moltissimi uomini politici.
Da oggi sul Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi. Un documento molto prezioso.
Tutti gli incappucciati nella patria di Matteo Messina Denaro
Il consigliere, pertanto, veniva sospeso dalla carica ma poi reintegrato in seguito alla sua assoluzione in primo grado del dicembre 2015. Il suo rientro, però, nel marzo 2016, determinava, proprio in relazione al contenuto di quelle intercettazioni, le dimissioni di ventotto consiglieri comunali (su trenta) e, dunque, il commissariamento del consiglio comunale di Castelvetrano con la nomina, il 24 marzo 2016, da parte della Regione siciliana, di un magistrato in pensione. In base alla normativa regionale, invece, il sindaco e la giunta rimanevano in carica.
Qualche mese dopo, appunto nell’estate del 2016, a trent’anni dalla scoperta a Trapani della loggia segreta “ Iside 2” , nata sotto l’insegna del circolo culturale “Scontrino” , e in cui, accanto a personaggi delle istituzioni, sedevano i boss mafiosi di maggiore rilievo, si ritornava a parlare di massoneria quale possibile luogo chiave, secondo alcune inchieste della Procura di Trapani e di Palermo, per la composizione di interessi mafiosi, politici e imprenditoriali, compresi quelli riconducibili a Messina Denaro.
Al di là degli esiti di tali indagini, peraltro ancora in corso, le Forze dell’ordine e la Prefettura evidenziavano sin da subito che nel pur piccolo comune di Castelvetrano, patria e sede criminale dei Messina Denaro, insistono diverse logge massoniche (sei sulle diciannove operanti nell’intera provincia di Trapani) e che nell’amministrazione comunale castelvetranese, già storicamente oggetto degli interessi mafiosi ma anche, come detto, dimora di qualche sostenitore del latitante, vi era un’elevata presenza di iscritti alla massoneria tra gli assessori (4 su 5), tra i consiglieri (7 su 30), tra i dirigenti e i dipendenti comunali.
Anzi, la stessa prefettura di Trapani segnalava che gli elenchi ufficiali degli iscritti nel trapanese apparivano incompleti per difetto e, pertanto, non era possibile ottenere una descrizione d’insieme del fenomeno.
La Commissione, quindi, procedeva, nel corso della missione, ad una serie di audizioni, in buona parte segretate, delle autorità locali, di consiglieri comunali che si erano apertamente schierati contro Messina Denaro e, per questo, divenuti bersaglio di attentati e minacce, della magistratura trapanese (il procuratore di Trapani e i giudici che avevano trattato il caso dell’omicidio Rostagno) sulle indagini in corso e sugli aspetti particolarmente inquietanti di una serie di gravi delitti consumati in quella provincia.
Poco più tardi, giungeva la definitiva ed eclatante conferma alle preoccupazioni della Commissione. Risultava evidente e documentato, infatti, che quello stesso Comune di Castelvetrano, popolato anche da numerosi appartenenti alle diverse logge massoniche, aveva subito l’infiltrazione mafiosa e veniva sciolto ai sensi dell’art. 143 Tuel.
A Trapani, del resto, nel mese di giugno 2017, nel pieno della campagna elettorale, è stato raggiunto da provvedimento cautelare Girolamo Fazio, già sindaco e candidato alle elezioni amministrative; le elezioni sono state invalidate per il mancato raggiungimento del quorum dei votanti e al posto del sindaco si è insediato un commissario.
Nel solo 2017 altre importanti inchieste si sono susseguite a ritmi serrati: per motivi di mafia il tribunale di Trapani ha disposto importanti misure di natura personale e patrimoniale nei confronti di politici come Giuseppe Giammarinaro, ex parlamentare regionale; a novembre è stato sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale Gianfranco Becchina, noto mercante d’arte, ritenuto vicino a Matteo Messina Denaro, e suo finanziatore; sono stati disposti sequestri e confische per molti milioni di euro.
Ancora, in provincia di Trapani per la prima volta è stata disposta l’amministrazione giudiziaria ex art. 34 d.lgs. n. 159/2011 di un istituto di credito, la Banca di Credito Cooperativo Sen. Pietro Grammatico, con sede legale in Paceco.
Attualmente, nel trapanese, è censita inoltre la presenza di circa 200 soggetti, già detenuti per reati di mafia e di traffico di stupefacenti, che, scontata la pena, sono ora in stato di libertà.
All’esito, dunque, della missione di Trapani, delle dichiarazioni rese della Presidente e dei membri della Commissione nella conclusiva conferenza stampa, delle successive reazioni giornalistiche degli assessori massoni che si sentivano criminalizzati dall’attenzione delle Istituzioni sulla vicenda di Castelvetrano, dunque, Stefano Bisi, gran maestro dell’associazione massonica denominata “Grande Oriente d’Italia” (Goi) chiedeva, con lettera del 28 luglio 2016, di essere audito per esporre la posizione della sua obbedienza rispetto alla possibile permeabilità mafiosa.
La Commissione antimafia accoglieva con vivo interesse quella richiesta e, pochissimi giorni dopo, il 3 agosto 2016, Stefano Bisi veniva audito in plenaria a Palazzo San Macuto.
L’atteggiamento assunto dal gran maestro, però, lungi dall’apparire trasparente e collaborativo nel perseguimento dell’obbiettivo, che si riteneva dovesse essere comune, di impedire l’inquinamento mafioso di lecite e storiche associazioni private, si rivelava di netta chiusura e di diffidenza verso l’Istituzione.
Da qui, dunque, trae origine la necessità da parte della Commissione di avviare gli opportuni approfondimenti anche attraverso l’esercizio dei poteri d’inchiesta parlamentare.
Si evidenziavano così recenti episodi di infiltrazione mafiosa nella massoneria e si attualizzavano gravi fatti similari del passato, lasciando supporre sia l’esistenza e la reiterazione nel tempo di infiltrazioni da parte di cosa nostra e della ‘ndrangheta nella massoneria, sia che, parallelamente alla metamorfosi delle mafie, sempre meno violente e più collusive, la composizione degli interessi illeciti potesse avvenire, talvolta, proprio tramite logge massoniche a cui aderiscono, tra l’altro, esponenti della classe dirigente e dell’imprenditoria del paese.
Castelvetrano, una grande capitale di boss e di “liberi muratori”
Il tema del rapporto tra mafia e massoneria affiora in modo ricorrente nelle inchieste giudiziarie degli ultimi decenni, con una intensificazione nei tempi più recenti, sia in connessione con vicende criminali tipicamente mafiose, soprattutto in Sicilia e Calabria, sia con vicende legate a fenomeni di condizionamento dell’azione dei pubblici poteri a sfondo di corruzione.
In tale prospettiva, la Commissione ha considerato un punto centrale della propria attività l’analisi del cambiamento delle mafie, e del loro nuovo modo di agire prevalentemente attraverso modalità collusive e corruttive, meno violente ma inclusive di una pluralità di soggetti all’interno della gestione degli affari, attraverso accordi di cui si fa garante con il consenso e le relazioni di cui gode e a cui conferisce forza per il tramite della propria “riserva di capitale” violento.
Di tali accordi corruttivi in cui sono presenti esponenti mafiosi si rinviene traccia ormai in tutte le indagini sui nuovi affari criminali, in cui confluiscono soggetti dell’impresa, della politica, dell’amministrazione e delle organizzazioni mafiose.
Sulla pericolosità del fenomeno la Commissione ha un interesse ad indagare che va ben oltre la mera ricerca degli elementi che qualificano la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., che compete alla magistratura e che afferisce evidentemente alle condotte dei singoli e alla loro qualificazione giuridica. La Commissione indaga infatti su un piano diverso, politico, fondato sull’interesse pubblico della materia in base a un mandato della legge istitutiva, la quale stabilisce altresì che i compiti e i poteri di inchiesta sono attribuiti alla Commissione medesima con riferimento a tutte le forme e ai raggruppamenti criminali di questo tipo, non solo cioè quelli che abbiano le caratteristiche di cui all’articolo 416-bis del codice penale in senso tecnico, ma anche quelli “che siano comunque di estremo pericolo per il sistema sociale, economico e istituzionale”.
Su tale base, dal punto di vista privilegiato del proprio osservatorio istituzionale, la Commissione si è occupata dell’argomento delle infiltrazioni mafiose nella massoneria interloquendo con tutti i soggetti istituzionali coinvolti nella raccolta di utili elementi di conoscenza, soprattutto nel corso delle missioni territoriali in Sicilia e Calabria. Pur essendo già affiorato in precedenza, l’argomento è emerso con particolare rilevanza in occasione della missione effettuata a Palermo e a Trapani, il 18, 19 e il 20 luglio 2016.
In quell’occasione, nell’ambito delle attività istruttorie effettuate mediante interlocuzione con il prefetto, i rappresentanti provinciali delle forze di polizia, la magistratura distrettuale e circondariale, è stato ripetutamente affrontato il tema del rapporto tra Cosa nostra e la massoneria in Sicilia, anche in relazione alla vicenda dell’appartenenza a logge massoniche di alcuni assessori del comune di Castelvetrano (Tp), luogo di origine del noto capomafia latitante Matteo Messina Denaro.
Le vicende di Castelvetrano
Nonostante la mafia trapanese sia un’espressione tradizionale di Cosa nostra, già tendente di per sé al controllo economico e istituzionale di un territorio, essa – come accertato non solo nelle sedi giudiziarie ma anche nell’ambito dei lavori della Commissione antimafia da diverse legislature – ha caratteristiche proprie che assumono rilievo sia sulla sua particolare capacità di infiltrazione nella res pubblica sia sulla centralità, in siffatti affari, della cittadina di Castelvetrano.
In particolare, l’attuale capo della mafia della provincia di Trapani, il latitante Matteo Messina Denaro, da almeno un ventennio gestisce l’associazione mafiosa e il suo rapportarsi con il territorio secondo regole solidaristiche volte all’acquisizione del consenso degli associati e della società civile.
L’imprenditoria, ad esempio, non è vessata dall’imposizione del pizzo ma riceve l’aiuto economico e il sostegno mafioso offrendo in cambio, sinallagmaticamente, la titolarità di quote delle imprese. Pertanto, già la sola contrattazione della pubblica amministrazione con le società private, di fatto, finisce talvolta per avvantaggiare e rafforzare l’associazione mafiosa.
Significativi sono, al riguardo, sia i numerosi procedimenti penali sui condizionamenti degli appalti dove si evince, ancora una volta, l’assoggettamento dei pubblici interessi a quelli di cosa nostra e del suo leader Matteo Messina Denaro, sia, soprattutto, i diversi scioglimenti delle amministrazioni del trapanese (sette enti dal 1992 al 2012) e i molteplici provvedimenti di accesso ispettivo adottati negli anni, sebbene non conclusi con la misura sanzionatoria, fino a giungere, come si dirà, al giugno 2017 con lo scioglimento per infiltrazioni mafiose dello stesso comune di origine del latitante.
In tale contesto, la cittadina di Castelvetrano è al centro delle dinamiche mafiose della provincia di Trapani non solo quale luogo natale dei Messina Denaro, ma soprattutto perché questi da sempre amministra cosa nostra trapanese attraverso una cerchia di stretti parenti e di fidati amici lì residenti che gli consentono, dunque a tutela della sua latitanza, di evitare una continua permanenza in quel territorio e di mantenere comunicazioni diradate con gli associati.
Per comprendere quanto sia forte e determinante la presenza occulta di Messina Denaro a Castelvetrano basti richiamare le recenti vicende del defunto Lorenzo Cimarosa, cugino acquisito del capomafia e unico soggetto di quell’ambito familiare che ha reso dichiarazioni collaborative con la giustizia così minando, per la prima volta, l’intangibilità di una famiglia di sangue che è, al contempo, una famiglia mafiosa.
Ebbene, non solo egli e i suoi figli hanno subito l’isolamento da parte di taluni concittadini, ma dopo la sua improvvisa morte, avvenuta nel gennaio del 2017 a causa di una grave malattia, nel successivo mese di maggio la sua tomba è stata profanata.
Del resto, basti pensare alle agghiaccianti dichiarazioni rese sul punto proprio da uno dei candidati sindaco di Castelvetrano nell’ultima tornata elettorale (che poi non ha avuto luogo per l’intervenuto provvedimento ex art. 143 Tuel). In una registrazione diffusa tramite i social, egli, negando l’esistenza della mafia, inveiva contro il figlio del collaboratore invitandolo a prendere le distanze dalla scelta del padre, accusava la magistratura e, di converso, elogiava la criminalità organizzata della quale condivideva pubblicamente le ragioni della devianza.
È in tale peculiare contesto ambientale, dunque, che si verificavano una serie di accadimenti che, nell’estate del 2016, portavano la Commissione parlamentare antimafia a svolgere una missione a Trapani.
Le infiltrazioni mafiose e il “negazionismo” dei Venerabili Maestri
La Commissione, pertanto, nell’adempimento dei propri doveri previsti dall’art. 82 della Costituzione e dall’art. 1 della legge istitutiva del 19 giugno 2013, n. 87, avviava un’inchiesta sulla mafia e sui suoi rapporti con la massoneria, finalizzata, soprattutto, ad “accertare la congruità della normativa vigente” al fine di formulare “ le proposte di carattere normativo e amministrativo ritenute opportune per rendere più coordinata e incisiva l’iniziativa dello Stato” (…).
Si procedeva, quindi, allo svolgimento di una serie di attività conoscitive,8 tra le quali assumevano rilievo centrale le audizioni dei gran maestri di quattro obbedienze individuate a campione, tra cui il suddetto GOI, trattandosi di una delle associazioni numericamente più rilevanti e poiché, del resto, era stato proprio il suo gran maestro a chiedere spontaneamente di essere sentito per offrire il suo contributo agli accertamenti della Commissione.
L’accennato esito della prima audizione di Stefano Bisi, però, imponeva, dal punto di vista del metodo, di procedere all’ascolto dei gran maestri nella forma della testimonianza sulla base delle prerogative riconosciute dall’art. 4 della legge istitutiva n. 87 del 19 luglio 2013 […], così parificando l’audizione a testimonianza all’esame testimoniale reso innanzi al giudice (e non già alle sommarie informazioni rese in fase di indagine al pubblico ministero, sanzionate, per i casi di falsità o reticenza, dalla diversa fattispecie di reato di cui all’art. 371-bis c.p.).
La Commissione procede infatti non solo attraverso le forme parlamentari, libere, ma anche quelle giudiziarie. Queste sono modellate anzitutto su quelle della magistratura giudicante, attraverso le disposizioni del codice penale e del codice di procedura penale a cui fa rinvio la legge istitutiva, che fa costantemente riferimento ai poteri e alle attività processuali che dinanzi al giudice si svolgono.
Inoltre, la Commissione procede alle indagini anche con i poteri propri della magistratura requirente, attraverso i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova disciplinati dal codice di procedura penale, in ossequio a quanto previsto dall’articolo 82 della Costituzione.
Nel merito, l’esame era diretto ad acquisire elementi conoscitivi sul comportamento e sulle prassi delle obbedienze al fine di verificare se, ad una parte significativa della massoneria ufficiale o considerata “regolare” risultasse, più da vicino, l’eventuale interesse della mafia nei suoi confronti, e, in caso positivo, quali fossero i rimedi da loro adottati e quelli adottabili in sede legislativa e, comunque, quale fosse il suo eventuale vulnus strutturale che potesse consentire o facilitare l’infiltrazione mafiosa.
Al pari di quanto accaduto con la prima audizione di Bisi, ciò che emergeva da tali audizioni, era, in sostanza e con varie sfumature, una posizione negazionista delle obbedienze nei confronti del fenomeno a cui veniva, al contrario, opposta l’esistenza di regole e prassi massoniche tali da sventare ogni pericolo.
Si ricavava anche, come si dirà meglio, l’unanime rifiuto, più o meno netto, ma sempre apparso pretestuoso, di consegnare alla Commissione gli elenchi degli iscritti alle rispettive obbedienze, invocando, a sostegno della propria posizione, le più disparate ragioni e, comunque, da parte di tutti, la legge sulla privacy che, a loro dire, li avrebbe obbligati a mantenere riservati i nominativi degli accoliti, pena la violazione di norme dello Stato.
Tuttavia, per la proficua prosecuzione dell’inchiesta parlamentare, la Commissione riteneva indispensabile acquisire quegli elenchi per procedere all’analisi sia circa l’incidenza tra gli iscritti di soggetti con precedenti penali per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. o per i delitti aggravati dall’art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991; sia circa la particolare ricorrenza di determinate categorie professionali tra gli iscritti che potesse rivelarsi sintomatica di strumentalizzazioni mafiose; sia, di conseguenza, con riguardo all’adeguatezza della legislazione vigente ad evitare la creazione di zone grigie, facilitate dalla riservatezza e dai vincoli di obbedienza che caratterizzano
talune associazioni massoniche, in cui sia agevole la penetrazione delle mafie e, soprattutto, l’interferenza di queste ultime, attraverso i fratelli, nello svolgimento di pubbliche funzioni o nel controllo delle attività economiche.
Pertanto, oltre alle sollecitazioni di consegna rivolte in forma collaborativa ai quattro gran maestri nel corso delle rispettive audizioni, rivelatesi ben presto vane, si procedeva anche a reiterare la richiesta per iscritto attraverso formali missive, fermo restando che la Commissione aveva già deliberato di assoggettare i documenti richiesti al regime di segretezza che ne avrebbe impedito la divulgazione, […].
L’ennesimo rifiuto opposto con motivazioni manifestamente infondate – rapportato, peraltro, a quelle audizioni insoddisfacenti e ad una serie di altri elementi di allarme desunte da indagini penali in corso e dalle altre audizioni nel frattempo svolte (comprese quelle di ex appartenenti a logge massoniche, i quali avevano assolutamente segnalato la situazione di pericolo) – costituiva motivo ulteriore che, ancor di più, faceva ritenere necessaria l’acquisizione di quegli elenchi, tanto più alla luce del tempo trascorso.
La Commissione parlamentare antimafia, dunque, in data 1° marzo 2017 deliberava, all’unanimità, di acquisire gli atti di interesse presso le sedi centrali delle quattro obbedienze, attraverso gli strumenti della perquisizione e del sequestro disciplinati dagli articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale.
Sebbene non mancassero spunti per svolgere l’inchiesta sulle infiltrazioni delle mafie nella massonerie in tutte le regioni italiane, in quanto le articolazioni delle mafie su tutto il territorio nazionale sono ben evidenti, la Commissione riteneva opportuno circoscrivere l’ambito immediato di azione, almeno prioritariamente, agli elenchi degli iscritti a logge della Sicilia e della Calabria.
Ciò in ragione di un interesse ancor più concreto e attuale, trattandosi di regioni ad alta densità mafiosa, teatro delle indagini penali in corso svolte dalle Procure di Palermo, di Trapani e di Reggio Calabria, e in cui si registrava un elevato numero di appartenenti alla massoneria, a partire dall’anno 1990 (periodo questo in cui erano iniziate le più pregnanti segnalazioni, anche da parte di taluni massoni, circa infiltrazioni mafiose nella massoneria) fino ad oggi, nonché, essendo emerso l’abbattimento di logge calabresi e siciliane, talvolta, anche “per possibile inquinamento malavitoso”, alla documentazione relativa alle articolazioni territoriali calabresi e siciliane che erano state oggetto di decreti massonici di scioglimento.
Le perquisizioni venivano eseguite nella medesima data del 1° marzo 2017 e consentivano di ottenere un cospicuo materiale documentale e informatico, di cui si tratterà più avanti, che, insieme al già importante compendio probatorio, permetteva, pur in assenza della collaborazione dei gran maestri, di osservare dall’interno dei sistemi massonici taluni meccanismi di facilitazione dell’ingresso delle mafie.
L’Antimafia e quelle quattro “obbedienze” oggetto d’indagine
Preliminarmente, e a chiarimento di ogni possibile equivoco, va ancora una volta sottolineato che l’indagine svolta dalla Commissione, così come più volte ribadito dai membri dell’organo parlamentare nel corso delle varie audizioni dei gran maestri delle quattro obbedienze, non riguarda la massoneria come fenomeno associativo in sé, quanto piuttosto la mafia e le sue infiltrazioni nelle associazioni di tipo massonico in Sicilia e Calabria.
Il tema dell’indagine, del resto, è in linea con quello di altre inchieste svolte dalla Commissione, incentrate sull’aspetto relazionale delle mafie con tutti i soggetti del mondo politico, imprenditoriale e sociale, sotto i profili del livello di infiltrazione e condizionamento, di consapevolezza dei conseguenti rischi, del valore generale di quanto rilevato nell’ottica di una più mirata produzione legislativa.
Tale approccio, in coerenza con il mandato e con le finalità della Commissione d’inchiesta, è stato sempre tenuto ben presente in tutte le fasi dell’indagine ed ha inciso sulle modalità di accertamento e sul perimetro della medesima.
Già con riferimento alla mafia, protagonista di questa investigazione, l’inchiesta è stata delimitata da due diverse considerazioni.
La prima. Poiché, già da tempo immemorabile, la questione dell’infiltrazione della mafia nella massoneria ha costituito oggetto di procedimenti penali e di relazioni di precedenti Commissioni parlamentari, non si è inteso inutilmente “scoprire” quanto già può ritenersi conosciuto e notorio alla collettività, bensì si è voluto comprendere, attualizzando quei rapporti, quali fossero i meccanismi che consentono o facilitano l’infiltrazione mafiosa nella massoneria e ciò, in ultima analisi, per indicare i possibili rimedi, anche di natura legislativa, idonei ad impedire, o quanto meno arginare, il fenomeno.
La seconda. Non potendo ragionevolmente svolgersi verifiche su tutte le mafie operanti sul territorio nazionale, e dunque, sulle relative associazioni massoniche di eventuale riferimento, l’analisi delle infiltrazioni è stata delimitata alle associazioni mafiose operanti in Calabria e in Sicilia, regioni queste che, di recente, sono state interessate, come detto, da diverse inchieste giudiziarie sull’argomento.
Con riguardo alla massoneria, che in questa inchiesta è il termine di riferimento della mafia, si è ritenuto di individuare, a campione, quattro obbedienze – il Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani (Goi), la Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), la Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Ggli) e la Serenissima Gran Loggia d’Italia – Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Sgli o “ Serenissima” ) – tramite le quali potere acquisire quelle necessarie basi informative sul funzionamento delle associazioni massoniche, utili per comprendere gli eventuali elementi di fragilità di queste ultime strumentalizzate dalla mafia.
Di conseguenza, essendosi osservate solo quattro obbedienze rispetto all’ampia galassia di associazioni massoniche di varia natura presenti nelle due regioni, si è ottenuta una prospettiva parziale del loro atteggiarsi che, per quanto di rilievo, non può ritenersi rappresentativa di tutta la massoneria italiana.
Pertanto, va precisato sin d’ora, che il termine massoneria, che sarà necessariamente utilizzato in modo generico nelle pagine successive, non vuole né può riferirsi alla massoneria complessivamente intesa ma solo a quelle associazioni di tipo massonico che presentino talune peculiari caratteristiche che, insieme considerate, possano risolversi nell’agevolazione dell’accesso mafioso.
Ancora, tale prospettiva è altresì parziale rispetto alle stesse quattro obbedienze posto che, avendo privilegiato solo gli accadimenti relativi ai territori calabresi e siciliani, non si sono considerati quelli riguardanti altre regioni. Anzi, nella scrupolosa osservanza dei decreti di sequestro del 1° marzo 2017 – riguardanti solo gli iscritti alle logge calabresi e siciliane delle quattro obbedienze, una certa tipologia di atti, e un determinato arco temporale – il materiale acquisito è stato attentamente selezionato assicurando il contraddittorio tra le parti, nonché tempestivamente restituito agli aventi diritto, per trattenere agli atti della Commissione indicato nei citati provvedimenti.
Limiti dell’indagine parlamentare
Inoltre, trattandosi di un’indagine sulla mafia, la Commissione, nell’approfondire la composizione degli appartenenti alle quattro citate obbedienze, effettuato verifiche a tal fine mirate, grazie alla collaborazione con la Dna e alla consultazione del suo sistema informativo. Sono state pertanto rilevate esclusivamente le ricorrenze giudiziarie relative ai reati di cui all’art. 51, comma 3- bis c.p.p. e, in particolare, i delitti di cui all’art. 416-bis del c.p. e quelli aggravati dall’art. 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, tralasciando le altre fattispecie di reato, seppure altrettanto gravi o, addirittura, possibilmente indicative di rapporti mafiosi.
Sempre per le medesime ragioni, la Commissione non ravvisa la sussistenza di un interesse pubblico alla rivelazione dell’identità dei singoli iscritti alla massoneria in quanto tali, dei quali, pertanto, va rispettata la privacy mantenendo, anche sotto tale profilo, il regime di segretezza già imposto alle liste degli appartenenti nel corso dell’inchiesta.
Eventuali nominativi che saranno indicati nel corso della relazione riguardano soltanto quelli di soggetti che pubblicamente hanno dichiarato la loro iscrizione alla massoneria o le cui vicende, collegate alla loro appartenenza massonica, possono ritenersi notorie.
Non verranno nemmeno rivelate le generalità di coloro per i quali potrebbero trarsi elementi di responsabilità giuridica posto che le funzioni della Commissione parlamentare di inchiesta, espressione ope costitutionis del potere legislativo, non possono che essere finalizzate ad acquisire elementi di conoscenza propedeutici all’esercizio della legislazione e, pertanto, non consentono di accertare e perseguire condotte individuali, compito questo rimesso alla magistratura.
Tuttavia, nello spirito di collaborazione istituzionale, la Commissione corrisponderà alle richieste dell’Autorità giudiziaria pervenute in ordine alla propria attività istruttoria, anche con riferimento al sequestro degli elenchi. Del resto, l’esistenza del conseguente segreto investigativo ne impedirà, parimenti, la loro divulgazione.
È, infine, opportuno evidenziare che, accanto al suindicato perimetro degli accertamenti, il compendio informatico e cartaceo sequestrato è caratterizzato da altri limiti probatori dei quali non si può non tenere conto nella valutazione delle risultanze.
Procedendosi nei confronti della mafia e non della massoneria, le perquisizioni sono state eseguite esclusivamente presso le sedi ufficiali delle quattro obbedienze ed in epoca successiva alle diverse e pubbliche sollecitazioni ai gran maestri di consegnare gli elenchi. Non può pertanto escludersi a priori né che altra documentazione potesse essere conservata altrove né che parte di quella custodita nelle sedi ufficiali sia stata spostata prima dell’esecuzione dei suddetti decreti.
Va ancora segnalato che il materiale informatico in sequestro consiste, nella sostanza, in milioni di file la cui completa analisi richiederebbe l’impiego di un rilevante arco di tempo, incompatibile con la durata della legislatura. Pertanto i risultati che saranno illustrati, se possono ritenersi singolarmente verificati e approfonditi, devono però considerarsi parziali nel senso che non rispecchiano l’intero compendio in sequestro.
L’insieme delle risultanze oggetto della presente relazione, dunque, non ha potuto che essere coerente sia con gli obiettivi perseguiti sia con i limiti suddetti.
Comitati d’affari segretissimi e misteriose affiliazioni
Sul fronte di Cosa nostra, già nel gennaio del 1986 la magistratura palermitana aveva disposto una perquisizione presso la sede del Centro sociologico italiano.
In quell’occasione erano stati sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – obbedienza di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figuravano, tra gli altri, i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e di Giacomo Vitale, quest’ultimo cognato di Stefano Bontate (noto come Bontade).
I riscontri, allora effettuati sui nominativi dei presenti negli elenchi, avevano inoltre messo in luce che «molti dei soggetti presi in esame risultano avere precedenti penali per reati di mafia».
È sempre di quegli anni la nota vicenda, curata dalla magistratura trapanese, del Centro studi Scontrino presieduto da Giovanni Grimaudo, in cui grazie alle risultanze degli atti sequestrati si era accertato che nello stesso luogo avevano sede anche sei logge massoniche (Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Cafiero, Hiram), nonché un’ulteriore loggia, quest’ultima segreta, il cui elenco degli iscritti veniva rinvenuto nell’agenda sequestrata al Grimaudo, tutti annotati sotto la dicitura “loggia C”.
Nell’elenco di questa loggia coperta, accanto ai nomi di imprenditori, banchieri e liberi professionisti del luogo, figuravano quelli dei maggiori esponenti della mafia trapanese, della politica e della pubblica amministrazione locale.
La sentenza pronunciata dal Tribunale di Trapani il 5 giugno 1993 è comunque emblematica perché diede atto sul piano fattuale che le affiliazioni massoniche erano strumentali all’unica finalità di raccogliere attorno alla figura di Giovanni Grimaudo uno straordinario e pericolosissimo comitato d’affari, composto da personaggi di varia estrazione, appartenenti a mondi separati i quali, sfruttando la possibilità di incontro nel cono d’ombra delle logge spurie, avevano la possibilità di stringere rapporti e di collaborare per la realizzazione di interessi nei più disparati ambiti, dall’aggiudicazione degli appalti al traffico di stupefacenti.
Inoltre, non si deve dimenticare che il primo procedimento organico sulla massoneria deviata e sui rapporti con la ndrangheta è stato condotto dalla procura della Repubblica di Palmi nei primi anni novanta; successivamente è stato archiviato dalla procura della Repubblica di Roma, dove il procedimento era stato trasmesso per competenza.
L’indagine fu avviata sulla base di dichiarazioni di sedici pentiti, tra i quali il notaio Pietro Marrapodi, imputato di avere redatto numerosi atti di trasferimento per sottrarre al rischio di sequestro il patrimonio immobiliare della cosca De Stefano. Il notaio illustrò l’attività della
massoneria c.d. “deviata”, i metodi per occultare gli adepti tra i quali l’iscrizione in logge situate in luoghi diversi da quelli di residenza, spesso lontanissimi, o l’iscrizione “mediata” di prossimi congiunti.
Contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani erano, altresì, emersi nel processo celebrato a Palermo nel 1995 contro Giuseppe Mandalari – “gran maestro dell’ordine e gran sovrano del Rito scozzese antico e accettato” nonché ritenuto il commercialista di Salvatore Riina – che avevano confermato che sarebbe stato proprio costui a conferire il riconoscimento “ufficiale” alle logge trapanesi che facevano capo a Giovanni Grimaudo e, soprattutto, che vi era stata un’interazione tra Cosa nostra e massoneria per condizionare l’esito di un processo.
La sentenza emanata, in tempi più recenti rispetto ai fatti, a carico di Mandalari ha accertato la pesante influenza esercitata da taluni “fratelli” sui giudici popolari della Corte d’assise chiamata a giudicare l’avvocato Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno destinata ad uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti.
L’interesse di Cosa nostra, come di altre organizzazioni mafiose, a rapportarsi con ambienti della massoneria per avere l’opportunità di interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie a loro carico nonché per far ottenere particolare benefici a favore dei detenuti, costituisce un tema invero piuttosto ricorrente in diverse indagini.
D’altronde, già nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Gaspare Mutolo, agli esordi della sua collaborazione con la giustizia, ebbe ad affermare che alcuni uomini d’onore potevano essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per “avere strade aperte ad un certo livello”, per ottenere informazioni preziose provenienti da determinati circuiti e non solo. Il collaboratore riferiva, infatti, che taluni iscritti alla massoneria erano stati persino utilizzati per “aggiustare” processi attraverso contatti con giudici massoni.
A riprova dell’interesse della mafia ad infiltrare il mondo massonico quale mezzo per accedere ad altri circuiti di potere, giova ricordare le plastiche parole di uno dei primi collaboratori a parlare dell’argomento, ovvero Leonardo Messina: «È nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».
Tale dichiarazione sembra dunque confermare che da un certo momento in poi cosa nostra avesse superato ormai l’atavico canone in base al quale un uomo d’onore poteva essere legato, fino alla morte, al solo vincolo di appartenenza alla mafia, così escludendo la contemporanea adesione alla massoneria.
Nonostante lo stesso Giovanni Brusca, divenuto collaboratore di giustizia, ancora nell’anno 1998, avesse dichiarato che, per quanto a sua conoscenza, sotto il dominio dei corleonesi non era consentita l’iscrizione degli uomini d’onore alla massoneria, (apparendo la dichiarazione riscontrabile dalla circostanza che il numero delle logge nella provincia di Palermo risultava assai più ridotto rispetto a quello delle altre province della Sicilia ed in particolare rispetto al numero elevato di quelle esistenti nella provincia di Trapani) le dichiarazioni rese, poi, da Angelo Siino, collaboratore di giustizia e massone, fanno piena chiarezza sul punto. Il divieto per gli aderenti a cosa nostra di fare parte della massoneria continuava ad essere valido, ma solo sul piano formale.
“Le regole erano un po’ elastiche” – aveva spiegato Siino – “come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali”. I primi a coltivare queste relazioni, fuori dal vincolo mafioso, erano stati il già citato Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, che intuirono ben presto l’utilità di un’adesione a logge massoniche.
Le dichiarazioni del venerabile maestro del Grande Oriente d’Italia
Tra le numerose dichiarazioni raccolte nel corso dell’inchiesta parlamentare, anche nelle forme dell’audizione a testimonianza di cui all’articolo 4 della legge 89 del 2013, appare significativo soffermarsi, in primo luogo, su quella resa da Giuliano Di Bernardo e poi, specularmente, su quella del collaboratore di giustizia Francesco Campanella.
È interessante, infatti, cogliere i diversi aspetti della stessa medaglia, ponendo a confronto il punto di vista e l’esperienza di due diversi appartenenti alla stessa obbedienza massonica: l’apice e la base.
Giuliano Di Bernardo – iniziato alla massoneria nel 1961, maestro venerabile nel 1972 della loggia bolognese “Zamboni de Rolandis” ove era “coperto” , eletto poi gran maestro del Goi l’11 marzo 1990 – in seguito alla cosiddetta “inchiesta Cordova” il 16 aprile 1993 si dimise dalla carica per fondare una propria autonoma obbedienza, la Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), di cui fu gran maestro dal 1993 al 2001, fino a quando nel 2002 non decise di lasciare anche l’obbedienza da lui fondata abbandonando del tutto la massoneria.
Al di là dei possibili livori maturabili in tutti gli ambiti associativi (e di cui vi è traccia anche nelle dichiarazioni di Bisi allorché parla di Di Bernardo), si ritiene, in questa sede, di dovere attribuire un particolare interesse alle dichiarazioni dell’ex gran maestro del Goi in merito alle sue conoscenze circa il funzionamento della massoneria e agli episodi da lui constatati (per i quali, appunto, lasciò il Grande Oriente d’Italia), posto che, anche in base all’ordinamento di tale obbedienza, il gran maestro è “garante della Tradizione Muratoria”, al quale tutto viene rapportato e riferito e, come spiegato, è anche colui che può conoscere l’esistenza di eventuali “ fratelli all’orecchio” all’interno dell’intera associazione.
In particolare, nell’audizione a testimonianza resa dinanzi alla Commissione il 31 gennaio 2017, Di Bernardo ha riferito che, nel corso di un incontro avvenuto nel 1993 tra i vertici del GOI, gli era stato riferito “ con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta” e che ciò nonostante nessun provvedimento era stato adottato in merito, né sarebbe stato preso per paura di “rappresaglie”.
Furono proprio queste argomentazioni ad indurlo a prendere immediatamente contatti con il Duca di Kent – referente di prestigio della massoneria ufficiale a livello internazionale – al fine di esporre la situazione in cui versava l’obbedienza, ricevendo in risposta di averne già avuto notizia da ambienti dell’Ambasciata in Italia e dei servizi di sicurezza britannici.
Di Bernardo aggiunge che, in realtà, già in precedenza – intorno agli anni ’90 – aveva avuto modo di apprendere notizie inquietanti sull’infiltrazione delle organizzazioni mafiose nelle logge del GOI e, in particolare, della Sicilia dove la situazione appariva gravemente compromessa. Nel corso di una riunione a Palermo, l’allora vertice Goi delle logge siciliane gli aveva persino consigliato di non accettare l’invito del presidente del consiglio regionale, proveniente da Campobello di Mazara, in quanto mafioso o collegato con la mafia. Tutti elementi, questi, che lo avevano indotto a chiedersi se gli ispettori del Goi facessero realmente i controlli previsti.
Proprio a causa di tali “presenze”, Di Bernardo aveva abbandonato il Goi, decidendo di fondare una nuova obbedienza (Glri) dove, per evitare il rischio delle infiltrazioni mafiose, ha dichiarato di aver assunto regole più stringenti, quali la consegna annuale al ministro dell’interno dell’elenco completo degli iscritti, l’abolizione dei cappucci e delle spade in quanto ritenuti ormai anacronistici e, infine, la certificazione dei bilanci.
Tuttavia, nonostante l’adozione di tali misure, nemmeno questa volta era riuscito nel suo intento di garantire trasparenza ad una obbedienza e, pertanto, aveva preso la grave decisione di abbandonarla nel 2002 e di lasciare definitivamente il mondo composito della massoneria.
Dava poi contezza della giustizia massonica come indipendente ed autonoma da quella “profana”: “Un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no”.
Pertanto non vi è l’obbligo di denunciare neanche se si viene a conoscenza dell’appartenenza di un “fratello” ad una associazione mafiosa; dall’audizione emergeva, altresì, che il rifiuto della giustizia “profana” è nel modo di essere di un’associazione massonica.
Anche se Di Bernardo ha potuto riferire di fatti risalenti agli anni ’90 (peraltro corrispondenti alla stagione delle stragi politico-mafiose che insanguinarono l’Italia in quel terribile periodo), la portata e la gravità delle sue dichiarazioni è di tutta evidenza, emergendo uno spaccato di un’associazione che, contrariamente ai valori che professa, non si prefigge il rispetto della legalità e tollera pratiche di segretezza.
Ancor più grave la mancata reazione a fronte di una espressa denuncia di presenza mafiosa nelle sue logge. Alcune di esse verranno poi “abbattute”, ma mai è stata palesata la presenza o solo il rischio di presenze devianti, nelle motivazioni degli scioglimenti.
Il quadro riferito è inquietante, ancor più perché proveniente da colui che è stato al vertice dell’obbedienza e che, nonostante il suo grado, non è riuscito a dar vita ad un dibattito all’interno dell’associazione per estirpare il pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso.
Il racconto di un “fratello muratore” molto vicino alla mafia di Provenzano
La Commissione parlamentare antimafia ha voluto ascoltare anche il racconto di due collaboratori di giustizia, uno siciliano e l’altro calabrese, per approfondire il tema, a cui avevano accennato nelle loro dichiarazioni in sede giudiziaria ma non sempre di diretto interesse della magistratura, delle “fragilità” del sistema massonico che consentono alla mafia di infiltrarsi.
Francesco Campanella, originario di Villabate, in provincia di Palermo, sin da giovane si era dedicato alla politica, alla massoneria, aderendo alla loggia palermitana del Goi “Triquetra”, ma anche alla mafia, ponendosi al servizio del noto capomafia Nicola Mandalà il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano.
Campanella, dunque, ha raccontato alla Commissione, dall’ottica di chi si collocava alla base della scala gerarchica mafiosa e massonica, dell’incrocio tra le due diverse esperienze, quella mafiosa, presa sul serio, e quella massonica, presa quasi per gioco.
La sua doppia appartenenza era nota ad entrambe le parti, al capomafia e ai vertici della loggia (rappresentati da persone con cui intercorrevano rapporti di amicizia). La contemporanea adesione, quasi contestuale temporalmente (fine anni ’90), alle due diverse associazioni, non era osteggiata né dall’una né dell’altra parte. Mandalà, infatti, aveva ritenuto che potesse essere “una cosa interessante e che .. sarebbe potuta tornare utile in qualche maniera” .
Ben presente era, infatti, l’utilità che avrebbe potuto conseguire Cosa nostra dall’affiliazione di un suo uomo alla massoneria, in ragione dei rapporti, della conoscenza e delle frequentazioni che, in quel consesso, si rendono possibili (“c’erano persone importanti che determinavano gestione di potere come pubblici funzionari, avvocati, notai, magistrati (..) la massoneria aveva (..) importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico, decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione).
Utilità, in effetti, giunte all’occorrenza. Attraverso i fratelli a lui più vicini, infatti, aveva acquisto informazioni utili dai Monopoli di Stato per la gestione delle sale Bingo (facenti capo all’associazione mafiosa) nel momento più delicato in cui era intervenuto l’arresto di Mandalà, e si temeva che tali esercizi potessero essere sequestrati.
I fratelli, a loro volta, lungi dal manifestare alcun disappunto sulla mafiosità di Campanella, aderirono, anzi, ad un suo progetto, costituendo una società per la gestione dei finanziamenti pubblici regionali, potendo il giovane di Villabate garantire la giusta copertura.
A sua volta, lo stesso Campanella, sempre grazie ai fratelli massoni, venne in contatto con un avvocato che gli ritornò utile nei propri affari. Pur trattandosi di un fratello che, come egli stesso dichiara, ha fatto poca carriera nella massoneria, Campanella è, coerentemente, risultato a conoscenza di quanto un massone di quel livello può sapere, a parte qualche confidenza, come si dirà, ottenuta dal Mandalà e dai vertici della “Triquetra”.
Le sue dichiarazioni confermano, innanzitutto che l’appartenenza alla massoneria crea un vincolo esclusivo e permanente, che, come avviene in Cosa nostra, si dissolve solo con la morte.
La riservatezza delle logge
Egli stesso, infatti, riteneva di essere ancora iscritto (in realtà, risulta messo in sonno nel 2003 e depennato nel 2005 proprio a causa delle sue traversie giudiziarie).
Confermano, altresì, l’esistenza di prassi di “riservatezza” (come i segnali convenzionali per l’accesso alla sede della loggia, la mancanza di indicazioni su citofono); un “dovere di segretezza sia sull’affiliazione che su tutto quello che si discuteva all’interno della loggia”; il fatto che “non c’è comunicazione tra livelli bassi e quelli successivi” e, quindi, non c’è conoscenza di quanto avviene nei gradi superiori.
Confermano, soprattutto, l’esistenza di vere tecniche di segretezza, tramite l’assonnamento utilizzato, secondo le sue conoscenze, per due noti politici siciliani poi coinvolti in fatti di mafia: “Fratelli in sonno quei fratelli che a un certo punto rimangono fratelli affiliati e vengono messi in sonno proprio per motivazioni che possono essere la visibilità politica. (..) C’è un piè di lista della loggia, un registro dei soggetti affiliati, dove però non vengono scritti né i fratelli coperti, semmai ce ne fossero stati, né quelli in sonno. ( ..) N el momento in cui hanno cominciato a ricoprire cariche politiche si sono messi in sonno e hanno chiesto riservatezza, per cui sono stati cancellati dall’elenco pur continuando a farne parte. Credo che pagassero costantemente la quota annuale di affiliazione. ( Ma) è a disposizione della loggia, rimane fratello.” Ciò però è conosciuto solo dal “livello di comando della loggia” che fece a Campanella tali confidenze.
A tale ultimo riguardo, deve aggiungersi che dai controlli effettuati nel materiale sequestrato dalla Commissione, si è verificato che, in effetti, del nome di uno dei due non vi è traccia (risultano tuttavia iscritti taluni suoi discendenti), mentre del secondo ne è rimasta l’annotazione nella lista. Singolare, al riguardo, appare il fatto che, per quest’ultimo, nel corso delle indagini che ne avevano poi determinato l’arresto, erano stati rinvenuti, durante una perquisizione, segni evidenti della sua appartenenza alla massoneria che, dunque, a differenza dell’altro politico, era divenuta nota.
Attraverso le confidenze di Mandalà aveva invece appreso “che esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti, ecc.(..) Informazioni di prim’ordine. (..) a un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria”.
Francesco Campanella, pur dichiarando che non ebbe “il tempo di capire come funzionavano, per dirla con tutta franchezza”, ha riferito di uno specifico episodio di “fughe di notizie” che poté constatare personalmente: “in quel momento specifico in cui Mandalà era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandalà, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che lui cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandalà lo comunica a me: “ mi arresteranno, fai riferimento a mio padre” . Tutta questa serie di informazioni arrivavano”.
Un gioco a fare il massone (così Campanella ha definito la sua partecipazione alla “Triquetra”) ma che, tuttavia, corrispondeva all’interesse dello stesso collaboratore di giustizia, della sua famiglia mafiosa e della massoneria.
Va ricordato che è stato sentito, altresì, Cosimo Virgiglio, collaboratore calabrese, già più volte ascoltato dai magistrati di Reggio Calabria ai quali aveva reso un ampio resoconto sui meccanismi propriamente massonici. Davanti alla Commissione ha sostanzialmente confermato le sue ampie dichiarazioni, peraltro riportate in diversi giudiziarie.
Tra queste si ricorda, come nota di colore, che dopo il suo arresto, l’obbedienza lo fece raggiungere in carcere da un avvocato incaricato di dirgli di tacere il nome dei fratelli. Un segreto dunque ancor più valido anche per chi sta dietro le sbarre di un carcere. Anche lui confermava, come Campanella, che il vincolo massonico è perpetuo: si estingue solo con la morte.
Le procedure di controllo e la “trasparenza” delle Quattro Obbedienze
Una serie univoca, finora, di acquisizioni probatorie provenienti dalle fonti più disparate ha offerto, come visto, un quadro inquietante non solo per la pericolosità in sé del fenomeno ma anche per la sua costanza, da mettere in relazione anche con la consistenza numerica degli iscritti alle rispettive obbedienze.
Eppure le audizioni testimoniali dei quattro gran maestri, come anticipato, denotano un quadro quanto meno di sottovalutazione rispetto all’infiltrazione delle mafie nella massoneria.
In linea generale, infatti, tutti i gran maestri hanno rivendicato l’assenza di elementi di segretezza nelle rispettive obbedienze in quanto gli elenchi degli iscritti erano stati sempre consegnati alle Prefetture o alla polizia ma che, trattandosi di dati sensibili, dovevano essere tutelati per il diritto alla privacy, di cui D.lgs. 196/2003, e non potevano essere divulgati.
Tutti hanno proclamato l’assoluta fedeltà e il rigoroso rispetto delle obbedienze alla Costituzione ed alle leggi dello Stato; la trasparenza delle loro associazioni; l’assenza di logge coperte e di fratelli “all’orecchio”, quanto meno, quest’ultimi, dopo lo scandalo della P2; l’esecuzione di rigorose verifiche e di controlli nella fase di selezione dei “bussanti” anche attraverso l’acquisizione dei certificati penali e dei carichi pendenti, (in particolare per un obbedienza, dal 1° gennaio 2017, era richiesto altresì il certificato antimafia e di non fallimento); nonché di procedere all’espulsione degli iscritti ove si fossero riscontrati motivi connessi a frequentazioni o legami con consorterie criminali, ove accertata.
Come meglio si vedrà, le dichiarazioni rese sono rimaste affermazioni di principio, ed invero:
– nessuna obbedienza, prevede l’aggiornamento dei dati giudiziari e non sempre l’opera degli ispettori interni vuole essere efficace;
– sono state fornite risposte vaghe e generiche a specifiche domande, dimostrando, sotto vari profili, meglio nel prosieguo evidenziati, che, pur chiamandola riservatezza, permane un certo grado di segretezza sui rituali, sulle riunioni delle logge, sulla composizione sociale degli iscritti, con riferimento anche alla professione svolta;
– si è per lo più ribadito che non vi sono stati fratelli coinvolti in indagini giudiziarie o sospettati di avere rapporti con la mafia se non in casi del tutto isolati e, deve dedursene di conseguenza, che non si sia mai proceduto all’espulsione formale di un fratello da una loggia con dette ragioni. È stato, infatti, riferito di un solo caso, dal 1993 ad oggi, verificatosi in Calabria, in cui un appartenente all’obbedienza della Glri era stato depennato per i rapporti emersi con ambienti mafiosi. Gli accertamenti compiti dalla Commissione smentiranno le circostanze riferite;
– nessuna loggia è stata formalmente abbattuta con l’espressa motivazione che era in atto un tentativo di inquinamento delle associazione mafiose.
In conclusione, sulla base di tali dichiarazioni, si dovrebbe affermare che non vi è alcuna vicinanza tra mafia e ambienti della massoneria ufficiale e che, comunque, il pericolo di infiltrazione è scongiurato dalle procedure di selezione e controllo messe in atto.
Gli elenchi degli iscritti alle confraternite sequestrati dalla Finanza
Dall’analisi sistematica delle risultanze acquisite, è stato possibile verificare, più da vicino, una serie di elementi che contribuiscono a comprovare la persistente infiltrazione, o il persistente tentativo di infiltrazione, della mafia nella massoneria.
Dati, questi, che non solo si pongono in perfetta continuità con quanto prima d’ora accertato, ma assumono una particolare valenza essendo tratti, non tanto da dichiarazioni di terzi, ma da vicende accertate direttamente nel mondo massonico in cui la Commissione, anche attraverso le perquisizioni e i sequestri e, dunque, gli elenchi degli iscritti e i fascicoli delle logge sciolte, è riuscita ad affacciarsi.
Anzitutto, occorre un riepilogo del metodo di lavoro seguito dopo l’adozione del decreto di perquisizione e sequestro del 1° marzo 2017, eseguito da personale dello Scico della guardia di Finanza.
L’esame è stato circoscritto al materiale sequestrato presso quattro associazioni massoniche, con riguardo agli elenchi degli iscritti nelle regioni Calabria e Sicilia appartenenti al Grande Oriente d’Italia (Goi), alla Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri), alla Serenissima Gran Loggia d’Italia – Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Ssgli), e alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (Gli).
L’acquisizione del materiale, sia cartaceo sia soprattutto informatico, si è svolta nel più scrupoloso rispetto delle norme del codice di procedura penale, ampliando al massimo i profili di garanzia delle parti destinatarie del provvedimento, ben oltre le prassi in materia. Il 24 marzo 2017, è stata conferita una delega di indagine allo Scico nella quale sono state puntualmente indicate talune attività che sono state richieste alla polizia giudiziaria in quanto ritenute strumentali alla presente inchiesta.
La fase di duplicazione dei dati – la cosiddetta copia forense – è stata svolta prevedendo il contraddittorio con le parti e si è conclusa in data 31 marzo. Immediatamente a seguire si è provveduto alla integrale restituzione alle quattro associazioni massoniche del materiale originale in sequestro.
I dati complessivi evidenziano come nelle due regioni prese in esame, nel periodo di tempo considerato, risultino complessivamente censiti 17.067 nominativi ripartiti in 389 logge attive. La maggiore incidenza riguarda gli iscritti al Goi (n. 11.167 pari al 65,4 per cento). Seguono a distanza la Gli e la Glri rispettivamente con 3.646 (21,4 per cento) e 1.959 (11,5v per cento) soggetti censiti e, infine, con numeri molto più limitati la Sgli con soli 295 aderenti nelle due regioni (1,7 per cento).
Quanto alla ripartizione su base regionale, il numero dei soggetti censiti in logge calabresi (n. 9.248) supera di circa 1.400 unità gli iscritti alle logge siciliane (n. 7.819). Da un confronto tra le due regioni risulta infatti una complessiva prevalenza degli iscritti calabresi rispetto a quelli siciliani, ad eccezione della Glri dove il numero di massoni in Sicilia è più del doppio di quelli iscritti in Calabria nella medesima obbedienza.
In merito all’iscrizione alle varie logge, va poi fatto presente che negli elenchi estratti presso le quattro associazioni per ogni iscritto è stata rilevata, ove possibile, la sua ultima posizione all’interno dell’obbedienza, se, cioè, è un membro a pieno titolo dell’associazione alla data del sequestro (1° marzo 2017) oppure se ha cessato di farvi parte prima di tale data per vari motivi.
Va premesso, a tal riguardo, che ogni obbedienza utilizza una propria specifica tassonomia nell’indicare le diverse posizioni in cui può trovarsi un fratello all’interno dell’associazione massonica.
Per quanto rileva ai fini della presente inchiesta, può tuttavia affermarsi, in linea generale, che oltre ai membri effettivi propriamente detti, vi sono i soggetti sospesi, quelli in predicato di appartenere all’associazione massonica e quelli che, per varie ragione, vi hanno cessato.
Gli elenchi estratti, tuttavia, non offrono profili di sufficiente affidabilità circa l’effettivo aggiornamento della posizione dei singoli massoni presenti negli stessi. Non di rado, è stato riscontrato, per alcune obbedienze, che la posizione di un soggetto indicata nell’elenco estrapolato non coincidesse con quella rilevata nella documentazione cartacea sequestrata o negli atti rinvenuti nella copia forense dei relativi server.
Per una ricostruzione puntuale della carriera massonica di un soggetto e della sua ultima posizione all’interno dell’associazione (se “bussante”, “attivo”, “sospeso” o “depennato”) sarebbe stato necessario accedere anche ai singoli fascicoli di loggia o addirittura personali, misura, questa, che è stata ritenuta esulare dai fini della presente inchiesta che, si ribadisce, non è sulla massoneria in sé ma sui rapporti esistenti tra mafia e massoneria.
Per tale ragione, tale indagine più accurata è stata limitata alle sole logge sciolte e limitatamente agli atti analizzati presenti e rinvenuti nelle sedi centrali delle rispettive obbedienze.
Ne consegue, che laddove nella presente relazione si fa riferimento alla “posizione” di un determinato massone (bussante, attivo, sospeso e depennato), tale dato ha carattere meramente indicativo e deve essere valutato con ogni possibile cautela.
Le logge “abbattute” 138, ma senza poter conoscere mai le motivazioni
La Commissione si è posta, tra gli altri, l’obiettivo di approfondire il tema delle logge massoniche abbattute nelle regioni della Sicilia e della Calabria e la ragione effettiva del loro scioglimento, essendosi rilevato che, in alcuni casi, come quello relativo alla loggia del GOI “Rocco Verduci” di Gerace (RC) di cui si tratterà, le cause di cessazione erano state esternate con motivi di natura formale e non con le reali motivazioni inerenti l’accertata infiltrazione mafiosa.
Sulla base di quanto rilevato dallo SCICO della Guardia di Finanza, delegato dalla Commissione alle operazioni esecutive del sequestro, le quattro obbedienze hanno provveduto nel complesso a sciogliere 138 logge, di cui 86 in Sicilia e 52 in Calabria.
- In particolare, 25 logge sono appartenenti al Grande Oriente d’Italia [di cui: 10 in Calabria (“Cinque martiri”, “Giovanni Mori”, Albert Pike”, “Vittorio Colao”, “Z ephyria”, “Lacinia”, “Silenzio e Obbedienza”, “Vincenzo De Angelis”, “Domenico Salvadori”, “Rocco Verduci”) e 15 in Sicilia (“Adelphia”, “Giosué Carducci”, “Francesco Paolo Di Blasi”, “XX Settembre”, “Giustizia e Libertà”, “Helios”, “Salvatore Spinuzza”, “Praxis”, “Bruno Stefano Guglielmi”, “L’Acacia”, “Luigi Domingo”, “La Fenice”, “Saverio Friscia”, “Mercurio”, “Il Melograno”).];
- 52 alla Gran Loggia d’Italia [di cui: 13 in Calabria (una “sciolta”: “Brutia”; due “demolite”: “Concordia”, “Giovanni Nicotera”; dieci “sospese”: “Skanderbeg”, “Eraclea”, “Iside”, “Eraclito”, “Febea”, “G. Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Logos”, “Polaris”, “Franco Franchi”) e 39 in Sicilia (di cui: due “sciolte”: “Calatafimi”, “Etna”; una “vuota”: “F. Crispi”; 14 “demolite”: “Abramo Lincoln”, “Armando Diaz”, “Dante Alighieri”, “Enea”, “Giuseppe Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Herea”, “Himera”, “Parthenos”, “Piraino di Mandralisca”, “Pitagora”, “Raffaele Bellantone”, “Salvatore Quasimodo”, “Tomasi di Lampedusa”; 22 “sospese”: “Ad Lucem”, “Athanor”, “Castore e Polluce”, “Eleuteria”, “Entopan”, “Ernesto Nathan”, “Federico II”, “Fiore della vita”, “Fra’ Pantaleo”, “G. Ghinazzi”, “G. Carducci”, “G. Garibaldi”, “Giordano Bruno”, “Memphis”, “Mozart”, “Nunzio Nasi”, “Selinon”, “Sicilia”, “Solidarietà”, “Sunshine”, “Trento e Trieste”, “Trinacria”).];
- 41 della Gran Loggia Regolare d’Italia [di cui: 16 in Calabria (“Brutium”, “Vittorio Colao”, “Bruno Amato”, “Arco Reale d’Italia Capitolo Gioacchino da Fiore n. 56 Cosenza”, “Keramos”, “Camelot n. 102 Soverato”, “Giovanni Andrea Serrao n. 179 Filadelfia (VV)”, “Silenzio ed Obbedienza n. 197 Scalea”, “Settimo Sigillo n. 221 Palmi (RC)”, “San Giovanni n. 228 Reggio Calabria”, “Schola Italica n. 241 Mirto”, “Federico II n. 245 Lamezia Terme”, “Amphisya n. 250 Roccella Jonica”, “Aulo Giano Parrasio n. 252 Cosenza”, “Numistro n. 259 Lamezia Terme”, “Araba Fenicie n. 98 Reggio Calabria”); e 25 in Sicilia (“Ruggiero II”, “Supremo Gran Capitolo dell’Arco Reale d’Italia Capitolo Cavalieri di Minerva n. 68 Messina”, “La Nuova Ragione n.67 Messina)”, “Rinascita e Libertà n.70 Messina”, “Mothia n. 82 Marsala”, “Athanor n. 96 Catania”, “Sirio n.97 Messina”, “L’Era d’Italia n.129 Naro”, “Giano Bifronte n.131 Catania”, “Hochma n. 182 Trapani”, “Kether n. 187 Catania”, “Giordano Bruno n. 190 Catania”, “La Concordia n. 191 Erice”, “Z ikkurat n. 192 Palermo”, “Ermete Trismegisto n. 202 Agrigento”, “Kore Kosmou n. 206 Palermo”, “Camelot n. 209 Catania”, “Haniel n. 210 Palermo”, “San Giacomo n. 219 Palermo”, “Anchise n. 222 Erice”, “Mirhyam n. 225 Palermo”, “Nicola Cusano n. 239 Acireale”, “Trinacria n. 243 Montevago”, “Pistis Sophia n. 260 Messina”, “San Giovanni di Scozia n. 38 Siracusa”.];
- e 20 alla Serenissima Gran Loggia d’Italia [di cui: 13 in Calabria (“Jacques De Molay”, “Rudyard Kipling”, “Antonio De Curtis”, “Magna Grecia”, “Nuova Luce”, “Giustizia e Libertà”, ”Fata Morgana”, “Mario Placido”, “Lucifero”, “Ermete Trismegisto”, “Al.Ba.Tros.”, “Fraternità”, “Fratelli Bandiera”) e 7 in Sicilia (“Aurora”, “Melita”, “Hervelius”, “Kairos”, “Akron”, “Stupor Mundi”, “Camelot”).].
Non è facile ricostruire in concreto i motivi degli scioglimenti. Nell’assoluta maggioranza dei casi, la documentazione rinvenuta sulle logge abbattute è infatti apparsa carente di taluni documenti essenziali. Sebbene, infatti, il provvedimento di sequestro prevedesse l’acquisizione dell’intero fascicolo di loggia, è accaduto non di rado che la polizia giudiziaria incaricata sia riuscita a rinvenire solo documentazione incompleta o parziale, ove talvolta mancano gli atti di fondazione delle logge, i decreti di “ abbattimento delle colonne” o di sospensione, nonché i piedilista di loggia riportano i nominativi degli iscritti senza indicazione dei relativi dati anagrafici degli iscritti così impedendone la compiuta identificazione.
Rarissimi, infine, sono i casi in cui nei fascicoli siano stati rinvenuti gli atti relativi ad una “ispezione massonica” da cui poter dedurre le reali motivazioni che hanno condotto allo scioglimento della loggia.
I segreti di Gerace e quei tesserati calabresi con precedenti per mafia
In realtà, tra i pochi casi (su 138 logge sciolte) in cui è stata rinvenuta documentazione pressoché completa si cita la loggia “Rocco Verduci” del Grande Oriente d’Italia.
Atteso il cospicuo numero di casi rilevati di logge abbattute, per un principio di economia dei tempi d’inchiesta, si è reso pertanto necessario limitare gli approfondimenti ad un campione selezionato di logge.
In primo luogo, sono state esaminate le logge del GOI abbattute nel reggino (logge di Gerace, Locri e Brancaleone), citate dal gran maestro Bisi nel corso delle sue audizioni quali logge sciolte in Calabria durante la sua granmaestranza per ragioni, a suo dire, di natura formale e organizzativa.
Sulla loggia di Gerace, la “Verduci”, si ritornerà più volte nel corso della relazione in quanto indicativa di plurime situazioni ritenute emblematiche ai fini della presente relazione, mentre, in questa sede, ci si limiterà alla questione della sua infiltrazione mafiosa.
Peraltro, parte delle vicende di questa officina massonica sono già note anche alla stampa atteso che, come si vedrà, la notizia della sospensione della loggia per infiltrazioni malavitose aveva avuto a suo tempo ampio risalto negli organi di informazione calabrese destando l’attenzione dell’opinione pubblica calabrese sull’interesse della ‘ ndrangheta ad infiltrarsi nella massoneria.
Le tormentate vicende di tale articolazione avevano avvio il 28 dicembre 2007 quando dieci appartenenti ad altra loggia del GOI (“I Figli di Zaleuco, n. 995” di Gioiosa Jonica) sottoscrivevano l’atto per fondare la “Rocco Verduci”.
Secondo quanto si legge nella documentazione in sequestro, ad avviso di un massone protagonista di quelle vicende, tra i fondatori di fatto della nuova officina vi sarebbe stato anche un undicesimo fratello, già appartenente alla “Figli di Zaleuco” e massone del GOI sin dal 1981, non risultante dagli atti.
Si trattava di un medico incensurato, impiegato presso la ASL di Locri, ma figlio di un notissimo esponente di primo piano della ‘ndrangheta della Locride, riconosciuto come uno dei capi storici dell’organizzazione mafiosa calabrese.
Per inciso, va detto che anche un altro figlio del medesimo capomafia, dipendente regionale, secondo i dati estratti dalla Commissione, è risultato presente negli elenchi della Serenissima Gran Loggia d’Italia, con il risultato oggettivo che una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta calabrese, ha goduto di un proprio presidio, tramite familiari incensurati, in due diverse organizzazioni massoniche.
A poco più di anno dall’atto di fondazione, la loggia veniva effettivamente costituita il 18 aprile 2009 (cd. innalzamento delle colonne) con decreto del gran maestro Gustavo Raffi che disponeva, altresì, il transito nella nuova articolazione dei medesimi dieci membri fondatori e, tra questi, pertanto, non appariva quell’undicesimo fratello, cioè il figlio medico del capomafia, che, invece risulterà formalmente iscritto nella loggia solo due anni dopo, ovvero a partire dal 7 giugno 2011.
Nel luglio 2013, un massone della “Rocco Verduci”, avvocato e magistrato onorario presso un ufficio giudiziario calabrese, denunciava al vertice calabrese del GOI il fatto che alla loggia appartenessero soggetti vicini alla malavita organizzata o comunque aventi stretti rapporti di parentela con esponenti della ‘ndrangheta e che questa situazione andava via via ad essere insostenibile tenuto anche conto che nell’ultima tornata di iniziazione di sei nuovi “ profani” erano stati presentati tre candidati (cd. bussanti) dal profilo a dir poco problematico: uno, infatti, era indicato come affiliato alla ‘ ndrangheta” , l’altro noto per essere il figlio di un soggetto arrestato per mafia nell’operazione “Saggezza” e, infine, il terzo era anche lui figlio di uno ‘ndranghetista arrestato per associazione mafiosa.
Per i primi due soggetti, il magistrato massone era persino in grado di documentarne le relative vicende, ed invero, affermava di aver prodotto ai suoi superiori massoni copia di specifici atti giudiziari di cui era potuto entrare in possesso in ragione della sua funzione di magistrato onorario.
Tali circostanze furono dapprima comunicate al responsabile e agli altri vertici della loggia (il maestro venerabile pro tempore e il “ consiglio delle luci” ) ma non sortirono l’effetto sperato di allontanare tali individui, tant’è che il massone-magistrato onorario si sentì costretto ad investire della questione direttamente il vertice regionale calabrese del GOI anche al fine di interrompere la procedura di iniziazione dei nuovi bussanti e di porre un freno al dilagare della presenza ‘ndranghetista nella loggia.
In questa nuova segnalazione, venivano riferiti ulteriori gravi fatti. In primo luogo, si descrivevano con dovizia di particolari tutte le occasioni d’incontro in cui il magistrato massone aveva messo in guardia i suoi superiori di loggia sui rischi di infiltrazione ‘ndranghetista, condividendo con costoro informazioni, a suo dire, assolutamente attendibili sui nuovi bussanti in quanto acquisite da un ufficiale delle forze di polizia operanti su Locri.
Peraltro, al fine di suffragare la veridicità delle proprie affermazioni, non esitava a chiamare in causa tra i testimoni in grado di confermare l’esistenza di tali incontri e circostanze, anche un dipendente amministrativo della Procura della Repubblica di Locri, anch’egli massone del GOI ma appartenente ad altra loggia.
In secondo luogo, venivano riferiti i nomi di quattro fratelli ritenuti contigui ad ambienti malavitosi, ovvero, due tra i massimi dignitari di loggia (uno dei quali era indicato quale legale di fiducia di familiari del predetto capomafia), nonché altri due, di cui uno era il citato figlio medico del capomafia e, l’altro, il figlio di un noto usuraio della locride poi assassinato.
Tentativi di corruzione per aggiustare i processi
Da ultimo, ed è forse l’aspetto più inquietante, dagli atti ispettivi della loggia emergevano elementi che inducono a ritenere che all’interno della “Rocco Verduci” , in almeno due circostanze, si fossero verificate situazioni sintomatiche di gravi tentativi di corruzione in atti giudiziari in relazioni a vicende processuali che intersecano il mondo della ‘ndrangheta calabrese. Ma di questo si tratterà più avanti.
Tali allarmanti segnalazioni davano luogo così ad una “ispezione massonica” disposta dal gran maestro Raffi nel corso della quale gli incaricati, oltre ad approfondire le vicende denunciate, raccoglievano una plastica dichiarazione di un massone di antica data secondo il quale, in conseguenza della presenza di soggetti aderenti o contigui alla ‘ndrangheta, diversi altri massoni calabresi avevano deciso di mettersi in sonno “per non avere a che fare con soggetti legati alla malavita” e che, anzi, egli stesso, già maestro venerabile di altra loggia della Locride si era sentito moralmente costretto, sin dal dicembre del 2012, a presentare una lettera formale di assonnamento.
Al di là degli accertamenti degli ispettori sulla loggia di Gerace, va detto che quei sospetti trovano un certo riscontro nell’analisi condotta dalla Direzione Investigativa Antimafia sul conto di tutti i membri della “Rocco Verduci” , gran parte dei quali ora in sonno o espulsi, altri invece tutt’ora nei ranghi del GOI in altre logge dell’alto ionico reggino. Su venti associati, tra membri allora attivi e bussanti, cinque risultano collegati con soggetti aventi precedenti di polizia per associazione mafiosa e, talvolta, anche per traffico di stupefacenti, altri due, invece, pregiudizi per riciclaggio di proventi illeciti ed uno per estorsione. Ulteriori tre aderenti alla loggia annoverano precedenti di polizia per associazione di tipo mafioso, omicidio volontario, estorsione e tra questi, in tempi risalenti, vi è anche chi ha scontato la misura di pubblica sicurezza dell’obbligo di soggiorno.
Si aggiunga che, alla loggia “Rocco Verduci” aderivano medici ospedalieri della disciolta ASL n. 9 di Locri, dipendenti pubblici, avvocati e imprenditori del luogo.
Un quadro dunque desolante, in cui i professionisti o erano contigui alla mafia o, tramite quella loggia, coltivavano vincoli di fratellanza con soggetti condannati o in odore di ‘ndrangheta, o inseriti nel narcotraffico o coinvolti nel riciclaggio di proventi illeciti.
Il 20 settembre 2013, il gran maestro Raffi emetteva il provvedimento cautelare di sospensione della loggia motivandolo anche per “un possibile inquinamento, addirittura di carattere malavitoso, riconducibile all’ambiente circostante, che ingenera inquietudine e disarmonia anche tra i fratelli della Circoscrizione” .
Pochi mesi dopo, il 20 giugno 2014, Stefano Bisi, divenuto il nuovo gran maestro del GOI, revocava la sospensione della loggia sostenendo che “allo stato sono venute meno le ragioni che consigliarono l’adozione del provvedimento cautelare”.
Tuttavia, la gravità di quella situazione, lo costringeva più tardi, in data 21 novembre 2014, a sciogliere loggia, senza però esplicitarne in modo chiaro le ragioni ed anzi, concedendo la possibilità a molti di quegli stessi fratelli “malavitosi” iscritti alla “Rocco Verduci” di chiedere l’affiliazione ad altra loggia della stessa circoscrizione . Anche questo aspetto della vicenda sarà approfondito più avanti.
Quei fratelli della “Cinque Martiri” un po’ troppo vicini alla ‘Ndrangheta
Di seguito si continuerà la disamina delle logge sciolte indicate da Bisi, nonché quelle delle altre obbedienze. Si anticipa da ora che per molti degli appartenenti a tali articolazioni sono stati riscontrati, oltre che precedenti penali, anche “elementi di polizia”, consistenti in denunce o segnalazioni nei confronti di tali soggetti nonché controlli di costoro con soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta.
Si tratta, ovviamente, di dati che da un punto di vista giudiziario non assumono alcuna rilevanza, tuttavia, ai fini della presente inchiesta, assumono valenza in quanto notizie verosimilmente note in piccoli centri che avrebbero potuto costituire un primo sintomo di pericolo ed indurre i vertici, centrali e regionali, delle varie obbedienze all’intensificazione dei controlli (che saranno oggetto, in altra parte della relazione, di alcune riflessioni).
Vero è che, in concreto, poi quelle logge con quegli appartenenti sono state oggetto di scioglimento, ma è anche vero, da un lato, che non risultano attività ispettive disposte in tal senso, e dall’altro che nei decreti di scioglimento, qualora rinvenuti, non si fa alcun cenno a possibili inquinamenti della criminalità organizzata.
Proseguendo la disamina, circa la seconda loggia indicata da Stefano Bisi come sciolta per “motivi organizzativi” vi è quella dei “I Cinque Martiri” di Locri (la loggia di Locri).
Da una verifica di polizia eseguita dalla Direzione Investigativa Antimafia sugli aderenti alla predetta loggia, per un totale di 75 soggetti, sono emersi 18 massoni con elementi indicativi di una loro appartenenza, riconducibilità o contiguità alla ‘ndrangheta.
In particolare, cinque di questi sono gravati da significativi precedenti di polizia. Ben tre di essi hanno precedenti specifici per associazione mafiosa, uno per estorsione e un terzo, dipendente pubblico, è stato sottoposto agli arresti domiciliari nel 2007 per associazione per delinquere e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Altri 13 appartenenti alla loggia sono risultati in rapporti di frequentazione con soggetti aventi pregiudizi per associazione di tipo mafioso e, in taluni casi, anche per riciclaggio ed estorsione.
Nei confronti di due membri della loggia, indagati per reati di concorso esterno in associazione mafiosa, veniva emessa una tavola di accusa poiché avevano omesso di riferire tale circostanza al maestro venerabile della loggia di appartenenza. La notizia della loro sottoposizione a indagini veniva appresa da fonti di stampa.
Il tribunale massonico circoscrizionale, il 30 novembre 2013, emetteva sentenza con cui i due soggetti venivano assolti da ogni addebito, con la motivazione che dall’istruttoria svolta non erano emersi ”elementi neppure indiziari, per poter ragionevolmente sostenere che gli incolpati potessero essere a conoscenza dell’esistenza delle indagini a loro carico” e che dunque non avevano mentito ai loro superiori.
Si noti, dunque, come la questione riguardasse, non tanto il merito (cioè che i predetti erano sottoposti ad una inchiesta di mafia) quanto il mero fatto di non aver detto nulla ai propri superiori. Dagli atti del processo nessuno infatti chiede agli accusati, magari sotto giuramento massonico, se i fatti apparsi sulla stampa fossero o meno fondati.
Peraltro, si rileva che nei confronti di uno di loro veniva riconosciuta, a sua discolpa, la circostanza di non aver avuto alcuna comunicazione formale da parte dell’A. g. e che non riteneva che la fonte di stampa si riferisse a lui. In realtà, nel processo massonico risulta addirittura che era stata acquisita agli atti dell’obbedienza l’informativa dell’Arma dei carabinieri. Ma, si affermava, che a tale informativa della p.g. non era opportuno dare rilevanza in quanto “risulta(va) notevolmente retrodatata rispetto alla contestazione dell’addebito, per cui se vi fossero stati sviluppi e/o seguiti alla predetta informativa, gli stessi sarebbero emersi nel corso dell’odierno processo muratorio”.
La loggia è stata cancellata il 21 novembre 2014 disponendo, tuttavia, che i suoi appartenenti potessero continuare l’attività massonica affiliandosi ad altra articolazione del Goi calabrese. Poiché negli atti acquisiti dalla Commissione non vi è traccia del testo del decreto di abbattimento, non è possibile conoscere le ragioni formali del provvedimento.
Nella terza loggia indicata da Bisi (la loggia di Brancaleone), cioè la “Vincenzo De Angelis” di Brancaleone (RC), sono stati censiti 21 iscritti, quasi la metà di essi dipendenti pubblici (10), di cui sei dipendenti dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria e altri due appartenenti ai ministeri della giustizia e della difesa. Tra i soggetti impiegati nel privato prevale la professione di medico (3). Per poco meno della metà degli appartenenti alla loggia di Brancaleone (8) risultano frequentazioni con numerosi soggetti aventi gravissimi pregiudizi per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti ed estorsione. Sul conto di altri due aderenti alla loggia, entrambi dipendenti pubblici, risultano, in un caso, gravami per omicidio volontario, reati contro la pubblica amministrazione e truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e, nell’altro, per associazione per delinquere, truffa e reati contro la pubblica amministrazione.
La loggia è stata cancellata il 26 febbraio 2016. Nel relativo decreto di abbattimento veniva consentito a 17 iscritti, di cui uno sospeso, di continuare a frequentare l’obbedienza affiliandosi ad altra loggia. Il provvedimento richiamava le relazioni ispettive -non rinvenute tra gli atti acquisiti dalla Commissione- e la delibera di giunta del Goi dove si faceva chiaro riferimento, oltre a carenze di ritualità e all’esistenza di polemiche interne, al fatto che erano risultati procedimenti penali a carico di fratelli e che purtuttavia erano stati eletti alle più significative cariche di loggia.
La zona grigia, quelli che stanno in mezzo tra mafia e stato
Almeno sette dei suoi appartenenti sono, infatti, risultati collegati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese ed un altro annovera pregiudizi per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio.
Colpisce, in particolare, il profilo personale di un massone appartenente a tale loggia il quale, benché sostanzialmente incensurato, risulta essere stato, da precedenti di polizia, in rapporto di frequentazione con ben ventuno soggetti con precedenti per mafia e con altri soggetti indiziati di essere coinvolti nel traffico di stupefacenti.
A chiosa degli elementi di rischio emersi per questa loggia, va segnalato che nel relativo piè di lista compare altresì un figlio del citato capo ‘ndrangheta di Locri, fratello di altro massone presente nelle fila della loggia Goi “Rocco Verduci”.
Negli atti acquisiti nell’ambito dell’inchiesta, non è stato rinvenuto il decreto di abbattimento della loggia né le ragioni formali o di fatto che hanno condotto all’adozione di tale provvedimento da parte del gran maestro dell’obbedienza.
Sempre nel reggino è risultata, poi, attiva la loggia “Araba Fenice n. 98” di Reggio Calabria appartenente alla Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri) i cui iscritti risultano privi delle complete generalità, sia nell’elenco acquisito dalla Commissioni presso la sede centrale dell’obbedienza sia nel fascicolo cartaceo di loggia.
Tuttavia, si ha più che fondato motivo di ritenere che un iscritto alla loggia, tale “Giovanni Zumbo” (privo del luogo e della data di nascita), sia l’omonimo commercialista calabrese condannato ad 11 anni di reclusione con sentenza definitiva emessa dalla Corte di Cassazione nel 2016 in relazione all’operazione della Dda di Reggio Calabria denominata “Piccolo Carro” per concorso esterno in associazione mafiosa, in cui emerge chiaramente la sua appartenenza alla massoneria, al pari del carabiniere di cui si dirà in seguito.
La figura di Giovanni Zumbo appare emblematica sul ruolo di cerniera che la massoneria può assumere tra la ‘ndrangheta, da un lato, e gli apparati dello Stato, dall’altro.
L’audizione di Prestipino
Nel corso di un’audizione del 2012 presso questa Commissione nell’ambito della XVI Legislatura, l’allora procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria, Michele Prestipino, in relazione alle vicende della partecipata Multiservizi del capoluogo reggino ebbe modo di illustrare diffusamente ed efficacemente la figura del commercialista. «Il signor Zumbo, che fa da prestanome [alla cosca Tegano, n.d.r.] , è soggetto particolare: se volessimo scrivere un paragrafo sul manuale della zona grigia, il signor Zumbo sarebbe una figura scolastica di componente della zona grigia perché esercita una libera professione, ha uno studio che lo mette in contatto con tutto il mondo dei liberi professionisti, ha rapporti con la magistratura perché fa l’amministratore dei beni sequestrati e confiscati, amministrava patrimoni di mafia importantissimi non solo per la rilevanza economica, ma anche dal punto di vista dei nomi degli ‘ndranghetisti cui questi patrimoni appartenevano».
«Ma soprattutto Zumbo è quel soggetto – non dimentichiamolo – che a marzo 2010 va a casa di Giuseppe Pelle, il figlio di Antonio Pelle Gambazza, e gli rivela tutte le notizie che in quel momento erano segrete e che certamente non circolavano, o non avrebbero dovuto circolare sull’indagine “Crimine”. Zumbo riferisce a Pelle di essere in grado di consegnargli, anche qualche giorno prima, la lista di coloro che sarebbero stati arrestati e soprattutto gli dice, a marzo, i nomi dell’operazione, tutte le caratteristiche, le procure che collaborano e soprattutto gli riferisce che entro giugno sarebbero state arrestate 300 persone. Noi ne abbiamo arrestato 300 il 9 luglio. Questo è il personaggio».
Chiosa, dunque, l’audito delineando in sintesi il ruolo di tale professionista: «Quindi Zumbo è cerniera perché ha contatti con i mafiosi, fa il prestanome dei mafiosi e detiene un patrimonio” che “comprende una quota considerevole” della società partecipata di Multiservizi e, dall’altro lato, ha contatti anche con apparati dello stato».
L’audizione, si ricorda, risale al 5 dicembre 2012 e a quella data il magistrato calabrese si rammaricava del fatto che “nonostante tutti i nostri sforzi investigativi – e vi assicuro che ne abbiamo fatto tanti – non siamo riusciti a capire, sapere e scoprire chi avesse mandato il signor Zumbo a casa di Pelle a dare quelle notizie e proporre patti scellerati”, ma soprattutto “ chi gliele avesse fornite da offrire” .
A distanza di circa quattro anni dall’audizione, la citata sentenza della Corte ha, però, offerto una risposta al rammarico di un tempo del magistrato, dando contezza degli ambigui rapporti che intercorrevano tra lo Zumbo e alcuni appartenenti alle forze dell’ordine, tra cui un carabiniere, noto anche per aver svolto – scrive la Corte – “un ruolo determinante” nel ritrovamento dell’autovettura, carica di armi e ed esplosivo, a pochi passi dal luogo dove avrebbe dovuto passare il corteo presidenziale al seguito dell’allora Capo dello stato, Giorgio Napolitano, il 21 gennaio 2010.
Secondo le indagini, il ritrovamento era una messa in scena ordita dal boss Giovanni Ficara ai danni del cugino Giuseppe, suo rivale, al fine di far ricadere su di questi le responsabilità giudiziarie di tale azione, trama ordita con la complicità dello Zumbo.
Orbene, non appare dunque una semplice coincidenza il fatto che nel piedilista della loggia “Araba Fenice” della Glri sia stato rinvenuto, accanto al nominativo di “Giovanni Zumbo”, anche quello del carabiniere, beninteso, anche questo privo di luogo e data di nascita, e quindi anche questo “omonimo” del soggetto suindicato.
Quanto alle vicende della loggia “Araba Fenice”, da quel poco che è stato possibile ricostruire dagli scarni atti disponibili, si evince che lo scioglimento è stato disposto dal gran maestro Venzi nel giugno del 2011 per “inadempienze nella gestione della loggia” e per le “dimissioni da parte dei Fratelli a piè di lista”. Motivazioni, dunque, di stretto rito massonico, senza alcun cenno ad ipotesi di infiltrazione mafiosa. Né, d’altronde, vi è traccia, negli atti acquisiti, del fatto che le autorità centrali dell’obbedienza abbiano ritenuto necessario disporre un’ispezione interna alla loggia, iniziativa quanto mai necessaria data quella peculiare situazione ambientale.
L’esplorazione a campione è stata, infine, estesa anche ad alcune logge sciolte con sede in altre aree della regione Calabria.
Nel territorio di Crotone, è stata esaminata la loggia Goi “Lacinia” che si caratterizza, in particolare, per il fatto che nell’ambito dei soggetti che ne hanno fatto parte è stata individuata una dozzina di massoni con evidenze, risalenti al luglio 2007, attinenti al reato di cui all’art. 2 della legge 17/1982 sulle associazioni segrete, taluni dei quali peraltro in posizione di dipendenti pubblici (personale del ministero della giustizia, dell’agenzia delle entrate, dell’INPS, ecc.). Anche per questa loggia non mancano coloro per i quali gli elementi di polizia indicano rapporti di frequentazione con soggetti pregiudicati.
In un caso, un massone della loggia “Lacinia” è stato posto in relazione con tre diversi esponenti ritenuti appartenenti alla ‘ ndrangheta, due dei quali anche con pregiudizi per traffico di droga e l’altro per estorsione.
In un altro, vi è traccia di una frequentazione con un soggetto con precedenti per mafia, estorsione e usura. Per altri due membri della loggia sono emerse evidenze di polizia per il reato di estorsione e per corruzione.
La loggia risulta sciolta il 9 luglio 2010 dal gran maestro Raffi per contrasti all’interno della loggia e per altre violazioni di mero rito massonico.
Il medico palermitano della “Praxis” che aiutò i sicari di don Pino Puglisi
Nei piè di lista della “ Praxis” sono stati rinvenuti i nominativi di 17 appartenenti alla loggia, di cui 8 dipendenti pubblici (tra cui due medici Asp, un docente universitario e un dipendente delle forze armate), 7 tra liberi professionisti e impiegati nel settore privato e due pensionati.
Per due massoni della “Praxis” sono stati rilevati collegamenti con altrettanti soggetti controindicati, uno avente pregiudizi per associazione mafiosa, l’altro, per estorsione e trasferimento fraudolento di valori ex art. 12-quinquies D.L. 306/1992.
Particolarmente significative appaiono le vicende di un altro appartenente alla Praxis, peraltro presente nell’elenco dei massoni acquisito dalla Procura di Palmi nel 1993-94 ove risultava essere stato iscritto in precedenza nella loggia “Ermete Trismegisto” della Gran Loggia d’Italia – Centro Sociologico Italiano. Dagli elenchi estratti dalla Commissione, in effetti risulta un soggetto che ha aderito al Goi nel 1991, proveniente dalla Gli dove risultava in sonno a far data 1° luglio 1989. Questi rimane nella Praxis fino al 1997, allorché viene depennato.
Si tratta di un medico, ora presente come “non attivo” negli elenchi del Goi, tratto in arresto nel 1994 per concorso esterno in associazione mafiosa, scarcerato l’anno successivo e, infine, condannato con sentenza irrevocabile nel 1998 per associazione mafiosa, il quale aveva anche avuto il ruolo di fiancheggiatore dei killer di cosa nostra che uccisero barbaramente il sacerdote Giuseppe Puglisi, ed «il quale, come persona insospettabile, gli assassini avevano posto a controllo degli spostamenti del prete una volta deliberata la decisione di ucciderlo…».
Orbene, il massone in questione, il 23 giugno 1994, il giorno dopo essere stato raggiunto dall’ordinanza di custodia cautelare per i fatti sopra descritti, venne immediatamente sospeso dalla loggia con provvedimento adottato dell’allora gran maestro Gaito con la motivazione che l’emissione nei suoi confronti di una misura cautelare per concorso in associazione mafiosa e favoreggiamento denotava un “comportamento che arreca notevole nocumento all’immagine ed alla credibilità del Goi” in ossequio a quanto previsto dalle regole interne dell’obbedienza.
Non vi è però traccia, dopo tale grave fatto, di ispezioni disposte sulla Praxis volte a comprendere se si trattasse di un caso clamoroso, ma isolato, di contiguità a cosa nostra o se invece l’intera loggia fosse asservita a logiche mafiose.
Tuttavia, quasi misteriosamente, pochi mesi dopo l’arresto del medico dei Graviano, il 2 dicembre 1994 veniva emesso un decreto di scioglimento dell’intera loggia, secondo uno schema che si è visto essere ricorrente, per ragioni di carattere organizzativo: mancanza del numero minimo di fratelli e di un’azione di proselitismo. E ciò sebbene anche altri due massoni della loggia, oltre al medico, risultano aver avuto rapporti di contiguità con la mafia.
La seconda loggia sciolta in Sicilia oggetto di analisi è la “Giosuè Carducci” di Trapani. Vi risultava iscritto un soggetto arrestato nel 1996 per associazione mafiosa, poi riabilitato dal Tribunale di sorveglianza di Palermo nel 2001.
Dopo la riabilitazione, oltre a vari pregiudizi di natura penale non rilevanti ai fini della presente inchiesta, è stato colpito nel 2016 da una misura di prevenzione patrimoniale antimafia emessa dal Tribunale di Trapani. Un altro iscritto, invece, annovera un precedente, risalente al 1996, per il reato di scambio politico-mafioso.
Anche tale loggia veniva poi demolita l’8 febbraio 1997, con decreto dell’allora gran maestro Gaito, per “morosità degli iscritti”.
Anche in questo caso, come per la “Praxis” di Palermo, si riscontra la singolare coincidenza che lo scioglimento, formalmente avvenuto per motivi organizzativi, pare seguire temporalmente di poco l’arresto per mafia di uno dei suoi iscritti e il coinvolgimento di un altro in un reato tipico della contiguità mafiosa.
Sull’atteggiamento generalizzato di non esternazione di eventuali criticità di mafia esistenti all’interno delle logge sciolte, non sembrerebbe sottrarsi anche la Gran Loggia d’Italia. Ad esempio, nove logge risultano abbattute, a partire dagli anni Novanta in poi, con generici decreti di sospensione o di scioglimento tutti privi di qualsivoglia motivazione.
Le logge avevano tutte sede in luoghi ad alta densità mafiosa e risultano essere state frequentate da 14 iscritti che sono stati espulsi o messi in sonno, e solo in seguito colpiti da gravi pregiudizi penali, ivi inclusi quelli per associazione mafiosa.
A tale riguardo, non può escludersi che anche per tali logge l’obbedienza di riferimento avesse percepito all’interno delle stesse l’esistenza di particolari criticità, che hanno consigliato l’adozione di così gravi provvedimenti.
Anche in questi casi, l’eventuale infiltrazione mafiosa nelle logge, indirettamente testimoniata dai pregiudizi che hanno poi colpito i soggetti successivamente alla loro espulsione, non è mai stata esplicitata nei documenti formali di abbattimento.
A fattor comune di tutti i casi sopra accennati – dove ricorre con frequenza l’espediente di utilizzare la “morosità degli iscritti” , altri motivi bagatellari o, come riferito da Bisi, le questioni di mero rito massonico, quale ragione formale di abbattimento di una loggia “problematica” – giova qui riportare quanto detto in audizione dall’ex gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo in cui ricordava l’unico abbattimento di loggia sotto la sua granmaestranza, ovvero la loggia “Colosseum” di Roma, “costituita subito dopo la liberazione dell’Italia e dove affluivano gli agenti della Cia.
Era una loggia ad hoc e quando sono diventato gran maestro ho detto che non avrei potuto tollerare all’interno del Grande Oriente una loggia nata per queste ragioni ( … ).
Ho trovato il problema formale che non avevano pagato le capitazioni e ho chiuso la loggia”.
Come detto, i gran maestri non hanno mai fatto chiaro riferimento a logge che siano state dichiaratamente sciolte per infiltrazione mafiosa. Se, di fronte ad avvertiti rischi di presenze mafiose vi è stata un’opera di “pulizia” tra i propri ranghi, ciò sarà accaduto nel silenzio, come si confà ad un’associazione connotata, come si dirà, da uno spiccato regime di segretezza.
Mafiosi ma anche altro, tutti i “fratelli” con precedenti penali
Gli elenchi degli appartenenti alle quattro obbedienze, tratti dal materiale sequestrato, hanno evidenziato la presenza di circa 17 mila iscritti complessivi alle logge calabresi e siciliane, comprensivi dei soggetti tuttora attivi nelle varie logge, nonché di quelli ad essa appartenenti a partire dal 1990 e poi depennati o comunque usciti dalle obbedienze e, infine, dei cd. “bussanti” , cioè di coloro per i quali avendo chiesto l’iscrizione nelle logge non è stata completata la formale procedura di affiliazione nell’obbedienza (cd. “iniziazione” ).
Tale dato è stato elaborato al fine di verificare se risultassero a carico dei predetti iscritti, in senso ampio, condanne definitive e/o carichi pendenti per reati ascrivibili alle fattispecie di cui all’articolo 416-bis c.p. o aggravati ai sensi dell’articolo 7 del decreto legge n. 152 del 13 maggio 1991.
A tal fine, come detto è stata richiesta la collaborazione alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna) che, dopo un primo screening nel proprio sistema informativo, ha indicato 193 soggetti aventi evidenze giudiziarie per fatti di mafia. La loro appartenenza alle quattro obbedienze massoniche è così ripartita: GOI: 122; GLRI: 58; GLI: 9; Serenissima: 4.
Quale questione preliminare di metodo, va precisato che il dato acquisto deve essere vagliato attentamente, muovendo dalla considerazione che, in sé, non può essere esaustivo:
– la DNA ha indicato solo i soggetti iscritti per reati di mafia in senso stretto, restando pertanto non segnalati tutti i casi in cui il nominativo risulta essere stato, invece, indagato o condannato per altri reati, taluni certamente di non minore gravità. Ed invero, quando sono stati poi acquisiti, presso le procure competenti, i certificati penali e dei carichi pendenti dei soli 193 nominativi (non quindi dei 17 mila), sono emersi, a carico di taluni, anche precedenti e sentenze definitive per delitti “significativi” (come traffico di stupefacenti, bancarotta, falso, ecc.). Non può pertanto affatto escludersi che tra i 17 mila iscritti vi sia un ulteriore numero di soggetti con pregiudizi penali, di tipo diverso da quelli di cui all’articolo 416-bis c.p. o derivante da altri delitti aggravati dall’articolo 7 del cit. decreto legge;
– l’analisi della Dna risente dei notori ritardi nell’aggiornamento dei registri dei carichi pendenti e dei certificati penali da parte dei vari uffici periferici;
– l’analisi della Dna risente della correttezza delle generalità inserite nel sistema ai fini delle ricerche. A tal proposito, si segnala, come si dirà più analiticamente nel prosieguo, che un’alta percentuale di iscritti presenti negli elenchi acquisiti dalla Commissione presso le quattro associazione prese in esame, non sono compiutamente generalizzati o identificabili (circa il 17,5 per cento) e, pertanto, nei loro confronti non si sono potute acquisire notizie;
– è stato necessario avviare i necessari riscontri presso le Procure della Repubblica e i Tribunali interessati. L’operazione è stata alquanto difficoltosa, e in alcuni casi ancora in corso, anche per la difficoltà di reperire documentazione giudiziaria talvolta risalente nel tempo e non informatizzata,. Orbene, approfondendo la situazione dei 193 nominativi selezionati dalla Dnaa, e dei procedimenti giudiziari (oltre 350) complessivamente a loro carico, atteso che in molti casi i soggetti erano gravati da una pluralità di evidenze, è emerso che:
– per la gran parte dei predetti, i rispettivi procedimenti, per il delitto di cui all’articolo 416-bis c.p. o altri delitti aggravati dall’art. 7 del citato decreto legge 152/91, si sono conclusi con decreto di archiviazione per i più svariati motivi, sentenza di assoluzione o sentenza di proscioglimento per morte del reo o per prescrizione, rimanendo comunque il fatto, rilevante ai fini della presente inchiesta parlamentare, che un consistente numero di iscritti è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti;
– con riferimento alle annotazioni sul casellario giudiziario, sei soggetti hanno riportato sentenze definitive per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. (quattro con sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, quando ciò era ancora consentito dal nostro ordinamento);
– altri nove risultano condannati in via definitiva per reati vari, quali il traffico di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta, o destinatari, in via definitiva, di misure di prevenzione personali, come tali indicative di pericolosità sociale, semplice o qualificata;
– per altre quattro posizioni che vedono i soggetti imputati per il delitto di cui all’art. 416-bis del c.p. o aggravati ex art. 7 D.L. 152/1991, è in corso il processo in grado di appello. Di questi, per uno si procede in appello dopo una condanna in primo grado a 12 anni di reclusione; per un altro si procede in appello dopo una condanna in primo grado a 4 anni di reclusione;
– altri sette hanno in corso il processo di primo grado per 416-bis c.p. o delitti aggravati dall’art. 7 citato decreto legge;
– altri cinque hanno in corso, in primo grado e in appello, processi per reati gravi, diversi da quelli di mafia.
Pertanto, oltre ai sei destinatari di sentenze definitive per 416 bis c.p., vi sono ulteriori 25 posizioni per cui vi sono ancora processi pendenti.
Queste risultanze giudiziarie, comunque preoccupanti anche al di là dell’esito dei procedimenti, hanno indotto a svolgere un ulteriore approfondimento sui 193 soggetti, attraverso il materiale informatico sequestrato, al fine di verificarne quale fosse il ruolo ricoperto all’interno delle logge di appartenenza, nonché come queste ultime si fossero comportate una volta venute a conoscenza (qualora il fatto fosse divenuto notorio anche grazie alle notizie apparse sugli organi di stampa) che alcuni fratelli erano stati investiti da indagini per fatti di mafia o per gravi reati, atteso che, come sarà illustrato, tutti i gran maestri hanno affermato di esercitare rigorosi controlli interni, di richiedere, al momento della domanda di iscrizione, il certificato del casellario giudiziale ed il certificato dei carichi pendenti, alcuni anche gli aggiornamenti, e di perseguire ideali improntati ai principi di lealtà e legalità, nonché di rispettare le leggi dello Stato e la Costituzione.
Quell’azienda sanitaria di Locri piena di massoni e amici degli amici
Indicatori significativi appaiono rinvenibili nella vicenda che ha determinato il commissariamento della Asl n. 9 di Locri,67 disposto per accertata ingerenza della criminalità organizzata nell’amministrazione del predetto ente e per la rilevata permeabilità dell’azione amministrativa al condizionamento della ‘ndrangheta, nonché nelle risultanze dell’accesso ispettivo disposto ai sensi dell’art. 143 del D.lgs. 267 del 2000 (Tuel), presso l’azienda sanitaria provinciale (Asp) di Cosenza e nell’indagine giudiziaria condotto dalla Dda di Reggio Calabria, assurta alle cronache con il nome di “Onorata sanità”, di cui al procedimento R.G. N.R. 1272/07, che aveva delineato un sistema generale di gestione e controllo criminali degli appalti e servizi pubblici, in particolare nel settore della sanità.
La copiosa relazione redatta dalla commissione di accesso all’Asl n. 9 di Locri aveva evidenziato la presenza all’interno dell’azienda sanitaria di personale, medico e non, legato da stretti vincoli di parentela con elementi di spicco della criminalità locale o interessati da precedenti di polizia giudiziaria per reati comunque riconducibili ai consolidati interessi mafiosi, verificando non solo la presenza di un contatto tra le organizzazioni malavitose e l’azienda, bensì una vera e propria infiltrazione in quest’ultima. Sull’amministrazione sanitaria si erano concentrati gli interessi della criminalità ed era stata perpetrata una diffusa compressione dell’autonomia dell’ente stesso.
Tale compromissione era risultata altresì evidente nei settori della spesa e quindi dell’utilizzo delle risorse pubbliche; in particolare, alcune pratiche amministrative mostravano un discutibile approccio alla gestione dei fondi pubblici.
Fra i soggetti a vario titolo menzionati nella relazione della commissione di accesso e nell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Reggio Calabria, figurano 306 nominativi. Di questi, 17 risultano censiti in logge massoniche. Tra essi, 12 soggetti figurano negli elenchi sequestrati dalla Commissione il 1° marzo 2017; 4 figurano solo negli elenchi sequestrati dalla procura della Repubblica di Palmi nel 1993-94 (uno nel frattempo è deceduto); mentre un altro è presente in entrambi gli elenchi. Appare significativo che i 4 soggetti presenti negli elenchi del 1993-94 ma non in quelli del 2017, risultano essere stati raggiunti da provvedimenti cautelari personali o a carattere detentivo, uno dei quali per il reato di cui all’art 416-bis c.p..
Il dato, ancorché non particolarmente consistente sul piano quantitativo, assume ulteriore rilevanza sotto il profilo qualitativo in ragione della posizione ricoperta da costoro all’interno dell’amministrazione pubblica, per il rapporto di parentela e per le frequentazioni che questi hanno avuto con soggetti inseriti all’interno della ‘ ndrangheta.
Si tratta di iscritti a logge del GOI e della GLRI, tutti segnalati per frequentazioni con personaggi che sono stati indagati, imputati o addirittura condannati per fatti di mafia. In particolare, uno dei soggetti è il figlio di un noto capo mafia; un altro, il nipote di un controverso personaggio ritenuto molto influente nell’ambiente mafioso; un altro ancora, figlio di un condannato in primo grado per mafia ma assolto in appello e, comunque, indicato come referente di una nota cosca calabrese, nonché in stretti rapporti con un capo indiscusso di una cosca del mandamento ionico della provincia reggina.
Sempre da una lettura della relazione d’accesso all’Asl di Locri ed incrociando i dati con le informazioni acquisite dalla Commissione, deve ritenersi non occasionale, la significativa presenza di massoni in posti apicali dell’azienda sanitaria, nelle società presso la medesima accreditate e nelle pubbliche amministrazioni interessate dall’indagine penale. Di rilievo è il fatto che tali personaggi, di cui si è accertata l’appartenenza a logge massoniche regolari, hanno interagito con altri “fratelli” della stessa loggia o di altre per affari riconducibili a persone indagate e, in taluni casi, condannate per associazione mafiosa.
Emblematica la vicenda che può essere ricostruita sulla base dell’ordinanza cautelare di cui al procedimento 1272/07 Rgnr. Si è scoperto, infatti, che tre soggetti, indagati per avere facilitato una procedura di rilascio per un’autorizzazione amministrativa, appartengono alla stessa obbedienza e due, anche, alla medesima loggia.
Oltre ai direttori amministrativi, dirigenti, medici, responsabili dei vari settori e dipendenti di uffici pubblici, sono risultati iscritti alla massoneria anche alcuni soci e alcuni componenti degli organi di controllo di quattro società accreditate dall’ente sanitario commissariato, peraltro proprio quelle società a cui erano state riconosciute complessivamente prestazioni di servizi per importi superiori alla soglia comunitaria, senza che fosse stata mai acquisita la prescritta documentazione antimafia (nello specifico le informative di cui all’art.10 DPR 252/98, così come è stato evidenziato nella relazione conclusiva della Commissione di accesso alla Asl n. 9 di Locri).
Quanto agli accertamenti condotti con riferimento alla Asp di Cosenza (va qui ricordato che gli esiti della commissione di accesso non hanno condotto al suo commissariamento), i dati e le analisi delle posizioni confermano, se pur con diversa valenza qualitativa, ma con maggior coinvolgimento quantitativo, quanto emerso nel caso prima riferito.
Su 220 nominativi individuati, presenti a vario titolo nella relazione conclusiva della Commissione di accesso presso l’azienda sanitaria provinciale di Cosenza del 10 giugno 2013, 23 persone risulterebbero iscritte a logge massoniche. In particolare, tra queste, 13 sono oggi censiti negli elenchi del Goi, e 7 a quelli della GLI. Dei restanti 3, già presenti negli elenchi sequestrati a suo tempo dalla Procura di Palmi, uno era iscritto al Goi e gli altri a logge non ricomprese nella presente indagine.
In entrambi i casi esaminati è dato rilevare che non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti dalla Commissione nel 2017 alcuni nominativi che risultavano presenti negli anni 1993-94, ancorché l’estrazione dei nomi sia stata disposta con riferimento agli iscritti a partire dall’anno 1990.
Castelvetrano e i suoi “fratelli muratori” eletti in consiglio comunale
Le vicende connesse al comune di Castelvetrano, di cui già si è riferito, dove accanto alla presenza consistente nel consiglio comunale di soggetti iscritti alle varie massonerie era stato rilevato l’arresto per delitti di mafia di un consigliere in un territorio in cui continua ad avere centralità criminale il latitante Matteo Messina Denaro, hanno imposto la necessità di eseguire una verifica sulle compagini di alcune amministrazioni comunali sciolte per infiltrazione mafiosa o comunque inserite in territori ad alta densità mafiosa per accertare se e in che misura vi siano iscritti a logge massoniche qui di interesse, pur consapevoli che tali obbedienze, tuttavia, non esauriscono il panorama complessivo di tutte le massonerie presenti nel paese, formato da una galassia dai contorni indefiniti di numerose associazioni che si definiscono massoniche (sarebbero almeno 198 secondo un censimento citato in audizione dal gran maestro della GLI Antonio Binni).
Peraltro, così come ha riferito il gran maestro della SGLI Massimo Criscuoli Tortora vi sarebbe una diffusione generalizzata di tali associazioni nel centro-sud.
Fatte queste debite premesse, la Commissione ha ritenuto opportuno partire dalla nota vicenda di Castelvetrano, di cui vi è ampio cenno nella premessa di questa relazione, eseguendo un rilevamento sulle ultime consiliature, a partire da quella 2007-2012.
In tale consiliatura, 8 consiglieri su 30 appartenevano, o avevano chiesto di entrare in logge massoniche delle obbedienze in questione (4 GOI, 4 GLRI). Nella giunta insediatasi il 28 giugno 2007 era presente un appartenente ad una loggia della GLI, verosimilmente ancora iscritto.
Peraltro nascita, già iscritto in una loggia di Castelvetrano della GLRI e depennato nel 2009.
In data 20 marzo 2009, il sindaco di Castelvetrano revoca l’incarico a tutti i componenti della giunta e il 23 marzo successivo nomina nuovi assessori. Anche in questa compagine, parzialmente variata rispetto alla precedente, è presente un’iscritta nella loggia di Ragusa della GLI.
In data 3 gennaio 2011, il sindaco revoca nuovamente l’incarico a tutti gli assessori e nomina una nuova giunta. Anche in questo caso, vi è un iscritto ad una loggia della GLRI; un omonimo di un soggetto depennato dagli elenchi di loggia sempre della medesima obbedienza; e infine un iscritto, verosimilmente ancora attivo, in una loggia GOI di Castelvetrano.
Il 1° agosto 2011, vengono avvicendati due assessori. Uno dei nuovi è presente nei piè di lista di una loggia della GLI.
Tra i componenti del consiglio comunale eletto nel 2012, vi sono 11 iscritti ad associazioni massoniche (anche diverse da quelle in esame), uno dei quali è stato anche assessore e componente della giunta comunale, quest’ultima poi revocata il 28.01.2015. Sei degli iscritti compaiono negli elenchi estratti nella posizione di “attivo”; due risultano come “depennati” in data antecedente o prossima all’assunzione dell’incarico pubblico; uno invece risulta aver presentato a una delle quattro obbedienze una “domanda di regolarizzazione”: si tratta cioè di un soggetto che, già iscritto ad una associazione massonica, chiede di transitare in un’altra.
Di tali 11 iscritti, quanto alle obbedienze di appartenenza, 5 consiglieri comunali sono o sono stati iscritti a logge della Gran Loggia Regolare d’Italia; 4 a quelle del GOI e 2 della Gran Loggia d’Italia.
Nella nuova giunta assessoriale nominata l’11.02.2015, il numero di assessori massoni aumenta considerevolmente, diventando cinque su dodici membri complessivi della giunta, cioè poco meno della maggioranza. Tre sono o sono stati censiti negli elenchi della GLRI (due figurano come “depennati”) e due (di cui uno con domanda di regolarizzazione) in quelli del GOI.
In sintesi, considerando le ultime due consiliature del comune di Castelvetrano hanno assunto cariche elettive o sono stati membri di giunta almeno 17 iscritti alle quattro obbedienze di cui si dispongono gli elenchi.
A questi potrebbero aggiungersene verosimilmente altri 4 – per un totale, dunque, di 21 amministratori pubblici.
Negli elenchi massonici di una obbedienza (GLRI), vi sono infatti omonimi di altri quattro consiglieri comunali di Castelvetrano tra i soggetti che risultano privi del luogo e della data di nascita in quanto depennati. Nel complesso, 6 sono presenti nell’elenco della GLRI (cui eventualmente aggiungere i 4 di cui sopra), 6 in quello del Grande Oriente d’Italia (GOI) e 5 nei piè di lista della Gran Loggia d’Italia (GLI), distribuiti in 11 logge quasi tutte presenti nella città di Castelvetrano e dintorni.
La banca di Paceco con presidente e dirigenti molto “obbedienti”
Il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa ha di recente registrato una significativa manifestazione all’interno del settore bancario.
Nel trapanese, infatti, è stata sottoposta ad amministrazione giudiziaria la Banca di credito cooperativo di Paceco ‘Senatore Pietro Grammatico’, dotata di cinque filiali, per effetto della misura disposta dalla sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Trapani nel novembre 2016.
La misura è stata disposta su richiesta della Dda di Palermo e fa seguito altresì a una serie di ispezioni disposte in precedenza dalla Banca d’Italia.
Negli atti giudiziari si riporta che all’interno dell’istituto c’erano 326 persone con evidenze giudiziarie, undici dei quali, dipendenti della banca, collegati con la criminalità organizzata.
La banca è stata cioè gestita da soggetti ritenuti vicini alla criminalità mafiosa; peraltro, nella misura adottata dal tribunale, si fa altresì menzione dell’appartenenza a logge massoniche di numerosi esponenti e dipendenti di istituti di credito.
Dalle verifiche effettuate dalla Commissione antimafia, emerge che 11 tra esponenti della dirigenza aziendale e dipendenti hanno tutti fatto parte della medesima loggia massonica del Goi denominata “Domizio Torrigiani” di Trapani; il presidente di uno dei passati consigli di amministrazione, inoltre, è risultato invece iscritto alla loggia del Goi “Giuseppe Mazzini” di Trapani.
Il pentito Leonardo Messina: «Nelle logge per avere coperture e più potere»
La lettura delle pagine precedenti dimostra, indubbiamente, l’esistenza di un persistente interesse delle associazioni mafiose verso la massoneria fino a lasciare ritenere a taluno che le due diverse entità siano diventate “ una cosa sola” .
Ciò, ovviamente, non consente alcuna criminalizzazione delle obbedienze in quanto tali che, nella loro qualità di associazioni di diritto privato, rimangono, sino a prova contraria, compagini sociali lecite meritevoli di tutela giuridica.
Ma se l’analisi lascia il campo delle occasionali devianze, del resto penalmente sanzionate, per spostarsi su quello della “normalità” dell’estrinsecarsi della massoneria, intesa, dunque, come una delle tante espressioni del legittimo associazionismo, allora diventa necessario chiedersi se essa si sia dotata di un sistema di “anticorpi” volto a salvaguardare la propria stessa sopravvivenza, oltre
che il prestigio, e se abbia forgiato le proprie caratteristiche in modo da evitare che possano risolversi in elementi di agevolazione all’infiltrazione mafiosa.
Il sistema dei controlli massonici
L’inchiesta parlamentare ha accertato che dei circa 17 mila iscritti alle quattro obbedienze, la gran parte di loro appartiene al mondo delle professioni (come medici, avvocati, ingegneri e commercialisti), dell’imprenditoria, ma anche del pubblico impiego, con una certa presenza anche di forze dell’ordine e, fino a diversi anni addietro, anche di taluni magistrati e politici.
Si è rilevato, inoltre, che diversi di tali professionisti massoni hanno svolto la propria attività presso enti pubblici “sensibili”, talvolta sciolti proprio per infiltrazioni mafiose.
Scarsa è, invece, la partecipazione alla massoneria delle categorie di soggetti riconducibili ai mestieri più umili o al novero dei disoccupati (salvo, ovviamente, una certa quota di giovani).
La massoneria rappresenta, dunque, un consesso in cui si ritrova l’élite delle professioni ed è il luogo, anche fisico, in cui è possibile incontrare alti burocrati, imprenditori, politici, e confidare, anche grazie al vincolo di fratellanza massonico, di trattare con costoro inter pares.
Lo diceva già il collaboratore di giustizia Leonardo Messina: “Molti uomini d’onore quelli che riescono a diventare capi, appartengono alla massoneria (..) perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra.”
Lo stesso concetto è stato ribadito alla Commissione, con riferimento ai primi anni del 2000, da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Campanella, nella sue pregresse qualità di politico, massone e mafioso.
Anche nelle più recenti indagini giudiziarie, calabresi e siciliane, ricorre la medesima affermazione che appare ancor più vera alla luce del mutamento delle mafie, ormai propense, come è noto, al metodo collusivo/corruttivo seppur collegato alla propria capacità di intimidazione, cioè a quella “riserva di violenza” accumulata in decenni di omicidi, stragi e crimini efferati.
Anzi, proprio in questo peculiare momento in cui la mafia tende più ad “accordarsi che a sparare”, deve altresì considerarsi il dato oggettivo del continuo aumento del numero degli iscritti alla massoneria, in Sicilia e Calabria, come emerso dalle audizioni e dagli atti acquisiti e come stigmatizzato anche dagli stessi appartenenti alla massoneria.
A fronte di questa invincibile vis attractiva della massoneria nei confronti della mafia, vis che, per di più, provoca un numero crescente di adesioni, si è chiesto, durante l’indagine parlamentare, se la stessa massoneria, “preda” secolare delle depredazioni mafiose, avesse finalmente adottato sistemi di prevenzione volti alla tutela della propria identità.
La situazione rappresentata dai gran maestri, nelle loro audizioni a testimonianza, potrebbe apparire del tutto rassicurante.
E’ stato evidenziato, infatti, che il massone può essere tale solo se è, al contempo, un buon cittadino, sottoposto in primis alle leggi statali e ai connessi doveri civici. Proprio per questo, è la stessa massoneria, così come affermato all’unisono, a svolgere serrate verifiche per selezionare, prima, i nuovi adepti in maniera rigorosa e per controllare, poi, che costoro mantengano, nel corso del tempo, le originarie qualità morali, presupposto indispensabile per l’accesso e la permanenza nelle associazioni massoniche.
Per tale ragione è stato sottolineato, anche attraverso la produzione degli statuti di ciascuna obbedienza, che, per ammettere un nuovo fratello, viene puntualmente accertato che costui non sia stato colpito da procedimenti penali e da sentenze di condanna per fatti di una certo allarme sociale, mentre, qualora si scopra che uno degli iscritti, nelle more della sua appartenenza ad una loggia, si sia reso responsabile di un reato di particolare rilievo, egli viene immediatamente sottoposto al “processo massonico” che può concludersi, finanche, con il depennamento.
Si è però constatato che, in concreto, il preteso rispetto delle leggi da parte della massoneria, con tutte le conseguenze che da ciò essa ne farebbe derivare in termini di ammissione e di espulsione, in diversi casi si è rivelato più apparente che reale.
Va detto, innanzitutto, che la richiesta dei certificati penali e dei carichi pendenti da parte di talune obbedienze, nonostante le gravi vicende del passato che hanno segnato la massoneria italiana e che avrebbero imposto una sua maggiore prudenza, si è risolta in una mera prassi priva di significato, posto che, di solito, non è previsto l’aggiornamento della certificazione.
Poiché, il rapporto massonico, di norma, si dissolve con la morte, è dunque garantita la permanenza sine die dell’associato che, però, nel corso degli anni, può ben mutare il suo status giuridico penale.
Gli stessi massoni, peraltro, hanno raccontato alla Commissione dell’allontanamento dalle obbedienze di cospicui gruppi di fratelli sia a causa di “un ingresso massiccio e massivo di persone, senza alcun apparente ed efficiente controllo” e, spesso, destinatarie di misure cautelari e di sentenze di condanna, sia a fronte dell’oggettiva incongruenza numerica posto che, nell’arco di pochi anni, era, stranamente, triplicato, o anche quadruplicato, il numero delle adesioni.
La giustizia massonica e i verdetti sull’onorabilità degli iscritti
Del resto, si è già detto nella parte della relazione inerente ai risultati sulle pendenze giudiziarie degli iscritti, come non tutti i massoni condannati per gravi fatti di reato, siano stati effettivamente depennati dalle rispettive associazioni. Da questo punto di vista, dalle audizioni dei gran maestri emerge anche il problema del coordinamento tra quanto accade a livello centrale e quanto accade in quello locale delle organizzazioni.
La circostanza che non sempre i gravi precedenti penali acquisiscano rilevanza massonica è anche confermata dall’analisi del materiale in sequestro.
A tale ultimo proposito, basti riportare la sintomatica vicenda del fratello che, quale direttore di noti complessi alberghieri palermitani, aveva consentito ad un uomo d’onore di curare gli interessi di varie famiglie mafiose proprio all’interno della importante struttura liberty di “Villa Igiea”. Per tali condotte, il direttore, nel marzo del 1999, veniva tratto in arresto con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e, nel successivo settembre, veniva condannato con sentenza di patteggiamento (allora consentita per tali gravi reati).
Di converso, dalla documentazione in possesso della Commissione, si è registrata una condotta altalenante da parte dell’obbedienza: in prossimità dell’arresto, il direttore veniva sospeso dalle attività massoniche; tre anni dopo, nell’aprile 2002, veniva tranquillamente reintegrato; più tardi, veniva investito di rilevanti cariche regionali e nazionali in seno all’associazione massonica.
Assumono consistenza, dunque, le parole dell’ex gran maestro Di Bernardo secondo cui “un massone viene condannato per un reato che ha compiuto nella società, però per la massoneria questo non è sufficiente per convalidare quel giudizio. La massoneria dà a se stessa l’autorità di fare la sua verifica per emanare il suo verdetto, che a volte può concordare con quello profano, altre volte no”.
Lo stesso sistema di controllo “apparente” è stato riscontrato per le ispezioni delle logge.
Si è appreso, nel corso dell’inchiesta, che le obbedienze dovrebbero svolgere puntuali controlli anche sulle proprie articolazioni territoriali e, qualora siano accertate connivenze con la criminalità organizzata, sono previsti provvedimenti sanzionatori fino a giungere al cd abbattimento.
A parte quanto già evidenziato in proposito allorché si è affrontata la questione dell’infiltrazione mafiosa nelle logge sciolte, si è inoltre constatato che, in diverse occasioni, da parte dei vertici massonici, invece, è stato coltivato l’interesse, del tutto opposto a quello ordinamentale, ad evitare l’accertamento e a salvaguardare la sopravvivenza di quelle articolazioni seppure ad alto rischio di connivenze con la criminalità.
Già la vicenda della citata “Rocco Verduci” appare particolarmente emblematica, fosse solo perché è stata rinvenuta una chiara prova documentale circa la volontà di tutela della loggia, sebbene irrimediabilmente inquinata. Si ricorderà, infatti, che dopo il decreto del 20 settembre 2013 con il quale Gustavo Raffi ne disponeva la sospensione a causa, anche, di “ un possibile inquinamento, addirittura di carattere malavitoso” , il nuovo gran maestro Stefano Bisi, nemmeno un mese dopo dal suo insediamento, affrontava, dunque come una priorità, la questione della revoca di quel provvedimento che, peraltro, finiva per concedere il 20 giugno 2014, con una motivazione del tutto generica (“allo stato sono venute meno le ragioni che consigliarono l’adozione del provvedimento cautelare”) ben presto smentita dagli accadimenti successivi.
Va qui rilevato, per completezza espositiva, che è proprio di quei giorni, la lettera del 27 maggio 2014, inviata dal massone del Goi, Amerigo Minnicelli, alla Commissione e allo stesso Stefano Bisi, in cui si rimproverava a quest’ultimo, che, in occasione della campagna elettorale per la sua elezione a gran maestro, aveva assunto un atteggiamento negazionista rispetto alle infiltrazioni mafiose in Calabria, forse per “captatio benevolentiae” verso “qualcuno” .
Solo dopo una serie di pressioni provenienti dalla stessa massoneria che chiedeva accoratamente, “al fine di… salvaguardare l’onorabilità” della obbedienza, un intervento del presidente del collegio circoscrizionale della Calabria, e dopo che l’ispezione, disposta da quest’ultimo con apparenti altre finalità, ribadiva la sussistenza delle medesime problematiche sottese al primo decreto di sospensione – solo, dunque, dopo tutto questo – il gran maestro Bisi disponeva, con decreto del 21 novembre 2014, lo scioglimento della loggia “Rocco Verduci”.
Il provvedimento, tuttavia, sebbene infine promulgato, non intendeva affatto penalizzare quella loggia. Intanto, veniva motivato con un mero e laconico richiamo ad atti pregressi (la relazione degli ispettori circoscrizionali della Calabria, del 29 luglio 2014, e quella del presidente del collegio della circoscrizione, del 3 settembre 2014) omettendo ogni riferimento alle criticità di natura mafiosa accertate; e, soprattutto, prevedeva la possibilità per gli iscritti alla “Rocco Verduci” di spostarsi in altre logge, così da vanificare, di fatto, l’effettività della grave misura disposta.
Gli ispettori e le finte indagini sulle “infiltrazioni” del crimine
L’inchiesta parlamentare ha accertato altri significativi episodi in tal senso che sarebbe ultroneo elencare partitamente.
Basti al riguardo rinviare a quanto verrà esposto a proposito del citato massone Minnicelli (da cui emerge che, insieme ad altri otto maestri venerabili, aveva sollecitato l’intervento della propria obbedienza, il Goi, a verificare quanto stesse accadendo in alcune logge calabresi a cui, peraltro, appartenevano taluni soggetti tratti in arresto per contiguità mafiose, ma che ciò non provocò alcun effetto; nonché a quanto riportato a proposito della loggia “Araba Fenice” della Glri (dove, in seguito agli accertamenti disposti dalla Digos e la condanna di uno dei suoi appartenenti per fatti di mafia, nessuna ispezione venne svolta e, anzi, si sanzionarono coloro che l’elenco degli iscritti avevano trasmesso alla forza di polizia richiedente).
Del resto, nemmeno l’allarmante vicenda di Castelvetrano, è riuscita a suscitare un particolare interesse del GOI. Si desume, infatti, da dichiarazioni rese, che il gran maestro Bisi, non solo aveva tardato ad assumere alcuna iniziativa formale o ispettiva (giustificato dalla circostanza che i fatti erano accaduti dopo il solstizio d’estate, quando cioè i lavori di loggia vengono sospesi per riprendere con l’equinozio di autunno) ma, programmando i suoi prossimi viaggi nella provincia
di Trapani si proponeva di procedere alla mera consegna di un certo materiale destinato ad opere di bene.
Ben riscontrate, allora, appaiono sul punto le dichiarazioni di uno dei soggetti ascoltati in audizione a testimonianza in ordine al fatto che gli ispettori di loggia effettuano ben poche relazioni in quanto, dopo la prima giunta Raffi, vi era stata una degenerazione, prevalendo l’interesse ad essere eletti quali ispettori con l’aiuto di chi detiene i pacchetti di voto per poi evitare o non fare le ispezioni.
In conclusione, non si vuole di certo affermare che sia demandato alla massoneria il compito di vigilanza sull’osservanza delle norme statali da parte dei singoli adepti (come è stato opposto in alcuni passaggi delle audizioni dei gran maestri), essendo le stesse tenute soltanto a non perseguire, in forma associativa, finalità illecite.
Stupisce, però, la circostanza che alcune compagini – che, peraltro, affondano le loro radici nella storia, contano un notevole numero di iscritti su tutto il territorio nazionale, compreso quello segnato dalla presenza mafiosa – non coltivino, nei limiti dei mezzi disponibili, il primario interesse alla loro impermeabilità dalla mafia.
Ciò specie perché si tratta di ambiti in cui, come si vedrà, si creano vincoli di subordinazione e di solidarietà molto marcati, sì da dar luogo a un sistema che, poiché avulso dai valori generali, fisiologicamente finisce, da un lato, per essere tollerante delle illegalità e, dall’altro, per facilitare le infiltrazioni criminali.
La segretezza rende “compatibile” la convivenza fra mafie e fratellanze
Nonostante la propria vis attractiva, certe obbedienze, non solo non si sono dotate di un serio sistema interno di controlli, ma hanno mantenuto, e anzi rafforzato, le loro originarie caratteristiche sebbene notoriamente similari a quelle delle associazioni mafiose e che, già solo per questo, possono creare un habitat favorevole alla colonizzazione mafiosa.
Tra queste peculiarità, un posto di primo piano va riconosciuto alla segretezza che permea il mondo massonico (e anche quello mafioso) posto che le altre caratteristiche finiscono per esserne un mero corollario.
Già dal punto di vista ordinamentale della massoneria, e al di là di quanto riscontrato nella prassi (che sarà oggetto dei prossimi paragrafi), il segreto costituisce il perno di alcune obbedienze.
A partire dalle formule ufficiali previste per il giuramento/promessa solenne utilizzati per l’adesione alla massoneria, emerge un impegno a “non palesare giammai i segreti della Libera Muratoria; di non far conoscere ad alcuno ciò che verrà svelato (..) durante le Tornate Rituali e di Formazione Massonica, né in relazione alle Cerimonie di Iniziazione ai Gradi della Libera Muratoria” ciò, addirittura, “sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, fatto il mio corpo cadavere in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria ed infamia eterna”.
Ancora più chiara è, in tal senso, la formula della Gran Loggia d’Italia degli Alam – Obbedienza Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi: “Il primo dovere è un silenzio assoluto su tutto ciò che vedrete e saprete in seguito, su tutto ciò c he potrete udire e scoprire tra noi”.
Per quanto possa trattarsi di “retorica drammaticità” puramente “evocativa, considerata nella sua sola valenza simbolica”, come da taluno sostenuto, molte condotte, però, sono forgiate, già dal punto di vista ordinamentale, ad un senso di riservatezza a dir poco esasperato.
Sono infatti previste, talvolta negli stessi statuti, alcune pratiche di dissimulazione, come il criptico saluto tra massoni in presenza di terzi, la mancata conoscibilità, all’esterno, delle sedi delle logge, l’accesso nel tempio con modalità di riconoscimento convenzionali che conducano a un alone di mistero.
Soprattutto si rinvengono talune barriere alla trasparenza interna ed esterna (peraltro, proprio quelle individuate dalla legge 17/1982 quali caratteristiche sostanziali delle associazioni segrete) come i divieti, in capo a ciascun fratello, di conoscere (in assoluto o previa autorizzazione) l’identità degli associati di altre logge della medesima obbedienza, di apprendere, preventivamente, ciò che avviene negli altri livelli dell’ordine, di rendere noto agli estranei il nominativo di altri massoni.
Divieti o limitazioni che, inoltre, comportano, per taluni ordinamenti massonici, ulteriori restrizioni, quali ad esempio, la colpa massonica grave dell’iscritto che partecipa ad incontri rituali con altre logge o l’interdizione al fratello di rilasciare dichiarazioni alla stampa, rimesse, invece, al solo gran maestro.
Si ricordi, a tale ultimo proposito, la singolare posizione assunta da Stefano Bisi, nel corso della sua prima audizione, a proposito dei due assessori di Castelvetrano iscritti alla sua obbedienza i quali, a suo dire, a differenza di altri politici locali, non avevano assunto una pubblica posizione contro Matteo Messina Denaro, perché spettava al gran maestro rilasciare dichiarazioni alla stampa, cosa del resto avvenuta poiché egli stesso aveva dichiarato che “avrebbe dato la sua vita” per la cattura del latitante.
Le restrizioni sono dunque tali fino a pretermettere la qualità di massone a quella di pubblico amministratore e ai suoi doveri civici.
Questa segretezza strutturale, inoltre, risulta amplificata da una serie di altri vincoli: quello gerarchico, quello di solidarietà incondizionata tra fratelli, quello dell’indissolubilità dell’appartenenza, che impongono al massone, peraltro destinato a rimanere tale per tutta la vita, a rispettare gli ordini superiori e a non tradire i fratelli.
L’effettività del coacervo di queste regole viene, infine, sugellata da una sorta di supremazia riconosciuta alle leggi massoniche rispetto a quelle dello Stato, come già emerge, e non tanto timidamente, dagli stessi giuramenti in cui si chiede, innanzitutto, l’impegno assoluto “di conformarvi alle nostre Leggi”. Solo nel passaggio successivo, viene data garanzia, da parte del cerimoniere, che le leggi massoniche “non contengono nulla di contrario alle Leggi dello Stato né alle convenienze sociali” : il fratello, quindi, aderisce venendo sollevato da ogni dubbio, grazie all’assicurazione ricevuta, che il rispetto dell’ordinamento della massoneria è in linea con quello dello Stato .
Peculiare appare un altro giuramento, quello del Goi, in cui l’affiliato, tenuto a rispettare il regolamento interno, assume altresì l’onere, con riferimento allo stato, di osservare la Costituzione e le leggi che ad essa si conformino, quasi che ci si riservi un giudizio di legittimità costituzionale massonico sulle leggi che, dunque, non sono da rispettare sic et simpliciter ma solo se da loro stessi ritenute conformi al dettato costituzionale.
In sostanza, si tratta di un sistema di prevalenza ordinamentale che, come si constaterà attraverso i casi concreti, legittima il segreto agli occhi dei fratelli e ne sanziona la sua violazione. Questa segretezza strutturale, già da sola, è sufficiente per creare, da un lato, un rapporto di incompatibilità con l’ordinamento giuridico, e dall’altro, un rapporto di compatibilità con le mafie, risolvendosi in un meccanismo di pacifica convivenza e di tutela reciproca.
Negli elenchi soggetti non identificabili e “anagraficamente inesistenti”
Una serie di altre concrete applicazioni del dovere del segreto, accertate dalla commissione, dimostrerà, nei paragrafi che seguono, il pericoloso sconfinamento dai principi di salvaguardia della propria e della altrui riservatezza fino a dar luogo a entità occulte allo stato e in conflitto con il suo ordinamento.
Sin dalla prima audizione, la Commissione aveva domandato a Stefano Bisi, il quale si era presentato spontaneamente proprio per offrire la propria collaborazione all’inchiesta parlamentare, di trasmettere gli elenchi degli iscritti, ma, già da allora, si era colta la sua ritrosia.
La medesima istanza veniva estesa a tutte le quattro obbedienze e reiterata più volte, sia durante le audizioni a testimonianza dei gran maestri che attraverso formali missive.
Nessuno, però, finiva per adempiere, mentre, al contrario, tutti adducevano ragioni ostative, più o meno articolate, ma sostanzialmente riconducibili alla legge sulla privacy: la pretesa di conoscere i nominativi degli iscritti, addirittura, si sarebbe risolta secondo alcuni in una sorta di istigazione a delinquere da parte della stessa Commissione verso coloro che, invece, erano tenuti ex lege al rispetto della riservatezza dei loro sodali.
Non sorprendeva, di certo, il tentativo di difesa innanzi ad un organo istituzionale, delle proprie ragioni, reali o solo supposte, rientrando ciò nei meccanismi del sistema democratico. Però, sorprendeva la palese pretestuosità delle argomentazioni addotte, posto che i gran maestri e i loro consiglieri, soggetti sicuramente non sprovveduti, ben avrebbero dovuto conoscere la più volte invocata legge sulla privacy anche laddove questa espressamente prevede la sua non applicabilità alle inchieste delle commissioni parlamentari (cfr. art. 8, comma 2 lett. C, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), così come ben avrebbero dovuto sapere che, in ogni caso, nel bilanciamento dei diritti di rango costituzionale, quello alla riservatezza, come ormai consolidato, è destinato a cedere di fronte all’interesse dell’accertamento giudiziario (artt. 13, 14, 15 Cost.), e delle inchieste parlamentari di pubblico interesse (art. 82 Cost.).
Il successivo sequestro probabilmente ha fatto luce su quei rifiuti sorretti da inverosimili argomentazioni giuridiche.
Si è accertato, infatti, che gli elenchi sequestrati, presso le sedi ufficiali delle quattro obbedienze, non possono definirsi tali: sebbene acquisiti attraverso lo strumento della perquisizione – strumento che avrebbe dovuto assicurarne sia il ritrovamento che una loro certa genuinità – essi hanno rivelato caratteristiche tali da indurre a ritenere o che gli elenchi completi siano stati custoditi altrove ovvero che quelli ritrovati siano stati tenuti in maniera da impedire la conoscenza, sia all’esterno che all’interno, di alcuni nominativi la cui identità rimane nota solo ad una cerchia ristretta.
Di seguito, pertanto, ci si soffermerà su tali risultanze.
Anzitutto, occorre un riepilogo del metodo di lavoro seguito dopo l’adozione del decreto di perquisizione e sequestro del 1° marzo 2017.
L’esame è stato circoscritto al materiale sequestrato presso quattro associazioni massoniche, con riguardo agli elenchi degli iscritti nelle regioni Calabria e Sicilia appartenenti al Grande Oriente d’Italia (GOI), alla Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI), alla Serenissima Gran Loggia d’Italia – Ordine Generale degli Antichi Liberi Accettati Muratori (SGLI), e alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori (GLI).
L’acquisizione del materiale, sia cartaceo sia soprattutto informatico, si è svolta nel più scrupoloso rispetto delle norme del codice di procedura penale, ampliando al massimo i profili di garanzia delle parti destinatarie dei provvedimenti, ben oltre le prassi in materia.
La fase di duplicazione dei dati – la cosiddetta copia forense – è stata svolta prevedendo il contraddittorio tra le parti e si è conclusa in data 31 marzo. Immediatamente dopo si è provveduto alla integrale restituzione alle quattro associazioni massoniche del materiale originale in sequestro.
Dati mancanti e parziali
Si è detto che i dati complessivi evidenziano come nelle due regioni prese in esame, nel periodo considerato, risultino complessivamente censiti 17.067 nominativi ripartiti in 389 logge attive.
Tuttavia, per uno su sei nominativi presenti negli elenchi estratti dalla Commissione (circa il 17,5%) non è stato possibile procedere alla completa identificazione in quanto si trattava di soggetti non univocamente identificabili ovvero carenti di alcuni dati anagrafici essenziali.
Si tratta complessivamente di 2.993 nominativi su un totale di 17.067 massoni, di cui 1.515 della sola GLRI pari al 77,3% del totale dei soggetti risultati iscritti a tale obbedienza. Inferiore, ma comunque significativa, l’incidenza dei non identificabili presenti nelle altre obbedienze oggetto d’inchiesta: 35 della Serenissima Gran Loggia d’Italia (11,9%), 1.185 del GOI (10,6%) e 258 del GLI (7,1%).
Più in dettaglio, 1.030 soggetti, dei circa 3 mila, sono risultati anagraficamente inesistenti (cioè nominativi con dati anagrafici cui non corrisponde all’anagrafe tributaria l’attribuzione di un codice fiscale); altri 1.883 nominativi risultano privi di generalità complete; infine, vi sono 80 soggetti indicati con le sole iniziali del nome e del cognome (spesso con l’annotazione che si tratta di soggetti cancellati).
Significative si rivelano al riguardo, per meglio comprendere la portata di quanto accertato dalla Commissione, le citate dichiarazioni del collaboratore di giustizia Campanella, circa l’assonnamento di due noti politici siciliani, entrambi poi coinvolti in fatti di mafia, i cui nominativi, effettivamente, non sono stati ritrovati all’interno dei file gestionali.
Deve anche segnalarsi che taluni soggetti risultanti aliunde (ad esempio nella carte processuali o nelle dichiarazioni di alcuni gran maestri o di collaboratori di giustizia) come appartenenti alla massoneria, non risultano indicati negli elenchi.
Ad esempio, nelle parti segretate dell’audizione del gran maestro Venzi emergevano, in seguito alle domande della Commissione, due nominativi di appartenenti alla sua obbedienza con precedenti penali per fatti di mafia. Entrambi, però, risultavano anagraficamente inesistenti (anche se un soggetto con generalità, cioè soltanto con nome e cognome, corrispondenti ad uno dei due predetti fratelli, attraverso l’esame del materiale informatico sembrerebbe essere stato nominato da Venzi, il 25 febbraio 2006, quale “assistente gran direttore delle cerimonie onorario”).
Si tratta, comunque, in via generale, di casi che non hanno un significato complessivo univoco posto che non sempre si è avuta la certezza che i nominativi emersi da altri atti abbiano fatto parte delle quattro obbedienze di cui si dispone degli elenchi o di altre delle quali non si hanno i relativi dati.
Si è anche proceduto, nei limiti del possibile trattandosi di bacini in parte diversi, a un raffronto tra gli elenchi del 2017 con quelli degli anni 1993-1994 allora trasmessi alla Commissione dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Palmi (Rc).
In particolare, pur nella consapevolezza di non poter ottenere un risultato statistico in termini di valore assoluto, determinato in primo luogo dall’eterogeneità delle fonti di acquisizione dei dati, sono state elaborate comparazioni tra i nominativi degli elenchi di iscritti a sodalizi massonici – per le regioni Calabria e Sicilia – acquisite nel 1993-1994 e quelli degli elenchi sequestrati dalla Commissione nell’inchiesta del 2017.
A tal proposito appare necessario rammentare che le liste del 1993-1994, riguardavano gli elenchi degli iscritti al Grande Oriente d’Italia (Goi), Grande Oriente Italiano (Muscolo), Gran Loggia d’Italia (Centro Sociologico Italiano) e altre obbedienze minori, in possesso di quell’A.G.; mentre i nominativi degli iscritti alla massoneria acquisiti nella recente inchiesta della Commissione hanno riguardato le citate quattro obbedienze.
È necessario inoltre osservare che i nominativi sui quali è stato possibile effettuare una comparazione riguarda unicamente quelli identificati compiutamente (con almeno nome, cognome e data di nascita).
Pertanto, con riferimento alle liste del 1993-1994 sono stati utilizzati per il confronto 4.256 nominativi (2.043 per la Calabria, 2.213 per la Sicilia) a fronte dei 5.743 nominativi riportati negli elenchi della Procura della Repubblica di Palmi (2.752 per la Calabria, 2.982 per la Sicilia), ossia il 74,22 per cento.
In altri termini, anche allora, una quota significativa dei nominativi riportati negli elenchi non era precisamente identificabile.
Premesso che gli elenchi agli atti della Procura di Palmi nel 1993-1994 riguardavano un novero di obbedienze in parte diverso e più ampio rispetto a quelli oggetto di esame da parte di questa commissione, va rilevato che vi è una parziale discordanza tra di essi nella misura in cui non sono stati rinvenuti negli elenchi acquisiti nel 2017, come noto riferiti ad un arco di tempo che va dal 1990 ad oggi, taluni nominativi di soggetti all’epoca censiti e poi coinvolti in fatti di mafia.
Vedi, ad esempio, le situazioni riferite nella parte II, §. 6.3) con riguardo all’Asl di Locri. Non possono certamente trarsi, dai dati sopra riportati, significati univoci, non potendosi escludere in maniera aprioristica fenomeni di mera superficialità nella tenuta degli elenchi.
Il numero dei non identificati e dei non identificabili è tuttavia consistente; del pari è rilevante il numero di 193 soggetti iscritti in procedimenti penali di cui all’art. 51 comma 3-bis del c.p.p.; ancora, è cospicuo il numero di soggetti che pur non essendo indagati, imputati o condannati per delitti di natura mafiosa, hanno diretti collegamenti, parentali o di altro genere, con esponenti mafiosi, sì da potere costituire, almeno in astratto, un anello di collegamento tra mafia e massoneria (così come, del resto, verificato da questa Commissione in altre inchieste, circa la formazione delle liste elettorali o degli enti pubblici infiltrati dalla mafia).
In ogni caso, rimane il dato oggettivo del rifiuto a consegnare gli elenchi, in parte inattendibili, in parte celanti l’identità di taluni iscritti, in parte contenenti affiliati con precedenti penali per mafia; dato che, nella sua scarna obiettività, non può non destare allarme.
Segreti e divieti della loggia, proibito parlare fuori di fatti interni
Oltre alla segretezza degli elenchi, che riguarda, come visto, la non conoscibilità di un’alta percentuale di nominativi di massoni, in talune obbedienze, se ne è riscontrata un’altra forma più ampia che coinvolge, cioè, gli iscritti tout court sebbene annotati nelle liste in modo palese.
Si è già detto, infatti, di quelle regole ordinamentali che vietano la rivelazione a terzi dell’identità dei fratelli. Tale divieto, tuttavia, come si è potuto accertare, riguarda anche la pubblica autorità.
Ci si riferisce, in particolare, alla questione del dovere dei dipendenti pubblici di dichiarare, all’amministrazione di appartenenza, l’eventuale affiliazione “ad associazioni od organizzazioni, a prescindere dal loro carattere riservato o meno, i cui ambiti di interesse possano interferire con lo svolgimento dell’attività dell’ufficio”.
Orbene, quando, nel corso della sua prima audizione, è stato domandato al gran maestro Bisi se gli affiliati alla sua obbedienza assolvessero al dovere e se il GOI ne verificasse o ne sollecitasse l’adempimento, egli lasciava intendere che, nella sua obbedienza, non era ancora chiaro come procedere tant’è che “i nostri fratelli hanno chiesto ai loro superiori che cosa debbano fare”. La risposta era, dunque, sorprendente: i pubblici dipendenti anziché informarsi presso le proprie amministrazioni, attendevano le disposizioni dei superiori massoni prima di uniformarsi al dettato normativo.
Nella successiva audizione a testimonianza si ritornava sull’argomento e, stavolta, Bisi, dopo essersi maggiormente documentato, sosteneva che, siccome il dovere del pubblico impiegato è quello di riferire se appartenga a una associazione che interferisca con l’attività professionale, non vi è alcun obbligo di dichiarare l’adesione alla massoneria.
In sostanza, in ambito massonico, era stata recepita questa interpretazione attraverso cui, con un preventivo giudizio di non interferenza, sostitutivo di quello dell’ente pubblico, si consente ai fratelli-pubblici impiegati di mantenere la segretezza sulla propria affiliazione massonica. Viene anche da pensare che le esigenze del segreto, evidentemente ritenute prevalenti rispetto a quelle dell’ordinamento dello Stato, hanno portato una certa massoneria, che pur pretende dagli affiliati l’impegno ad “adempiere fedelmente i doveri ed i compiti relativi alla mia posizione e qualifica nella vita civile”, a confinare quell’obbligo tra il novero delle disposizioni che “non si conformino alla Costituzione”.
Un altro caso emblematico, che dimostra l’esattezza della suddetta chiave di lettura è quello della loggia “Araba fenice” della GLRI.
Accadeva, infatti, che essendovi in corso verifiche da parte della Digos, uno dei fratelli aveva consegnato a tale organo di polizia, previa richiesta scritta, gli elenchi della loggia “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria e, previa richiesta orale, quelli della loggia “Araba Fenice”.
L’ottemperanza del fratello all’ordine dell’Autorità, almeno per quanto riguarda la richiesta orale, venne considerata colpa massonica che determinò la sua sospensione in attesa della espulsione. Tale decisione venne stigmatizzata dagli iscritti alla “Araba fenice”, rimasti increduli per la circostanza che il rispetto delle autorità avesse potuto comportare l’emissione di un sì grave provvedimento e, dunque, in massa, rassegnarono le proprie dimissioni, così determinando il naturale scioglimento della loggia.
Particolarmente significativi sono gli atti inerenti a tali vicende.
Risulta infatti che, la dirigenza della Gran Loggia regolare di Italia comunicava al suddetto fratello di avere “manifestato una scorretta gestione dei dati sensibili dei membri di Loggia” e che, pertanto, veniva sospeso “con richiesta di espulsione”.
L’incolpato, a sua volta, ribatteva, “vista la gravità e contrarietà alle norme di legge che la S.V. avrebbe voluto che ponessi in atto, non esibendo un documento legittimamente richiesto dall’autorità di polizia” rassegnando le proprie dimissioni.
Dal loro canto, gli altri componenti della loggia, dimettendosi, rimarcavano “che l’aver consegnato ad un ispettore di polizia, delegato dall’autorità giudiziaria, un semplice elenco dei dati anagrafici degli aderenti alla Loggia Araba Fenice, non possa considerarsi una incauta divulgazione di dati sensibili ed anzi si configura quale condotta lecita ed ottemperante dei doveri che ciascun aderente ad ogni Organizzazione Massonica deve osservare ai sensi della legislazione vigente”.
Se non si hanno elementi di sorta per affermare che la reazione dell’obbedienza tendesse a ostacolare le indagini e a salvaguardare gli iscritti in rapporto con la mafia (che, come si è visto, appartenevano alla loggia), quantomeno un tale atteggiamento non può che leggersi nella ricorrente ottica della tutela della segretezza, anche verso le istituzioni, del nominativo degli appartenenti alla massoneria.
Una serie di accertamenti evidenzia, altresì, un generalizzato dovere di segretezza che riguarda, parallelamente, anche gli accadimenti interni alla massoneria e ciò anche quando essi assumano pubblico interesse.
Una prima vicenda in tal senso, è quella relativa all’Avv. Amerigo Minnicelli, massone di lungo corso e per discendenza, maestro venerabile della Loggia Luigi Minnicelli di Rossano.
Attraverso la sua audizione a testimonianza del 31 gennaio 2017 e le missive dallo stesso inviate o prodotte alla Commissione, è stato possibile verificare che egli, insieme ad altri otto maestri venerabili calabresi, con una lettera del 10 ottobre 2011, sollecitava i vertici del GOI a prestare maggiore attenzione nella scelta dei profani stante il concreto pericolo di infiltrazioni ‘ndranghetiste. Inoltre, quale direttore del sito web www.goiseven.it, prendendo spunto dall’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, di un fratello accusato di avere intrattenuto rapporti con la mafia, aveva pubblicato un articolo, in cui si sosteneva che si stava “seduti su un braciere ardente” posto che “nei piè di lista delle logge vicine ai territori ‘ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più».
L’unico risultato prodotto da queste segnalazioni fu che, nell’ottobre 2012, il Minnicelli veniva espulso dal Grande Oriente d’Italia e, per di più, a suo dire, a differenza di altri iscritti che, sebbene colpiti da misure cautelari o coinvolti in reati gravissimi, non avevano subito alcun procedimento disciplinare massonico.
Orbene, ciò che rileva in questa vicenda, certamente caratterizzata da un clima conflittuale tra le parti, sono le ragioni sottese al provvedimento di espulsione.
Poiché non risulta che gli altri otto firmatari dell’esposto abbiano subito eguale trattamento, è allora nella denuncia pubblica, tramite il web, che va individuata la colpa del massone il quale, appunto, aveva divulgato, nonostante il dovere di segretezza, i fatti interni all’obbedienza.
Ciò emerge, per altri versi, anche dalla pretestuosità della motivazione formale del decreto Minnicelli, in sostanza, non veniva accusato della rivelazione di vicende compromettenti, bensì, attraverso un contorto ragionamento, di avere, con la pubblicazione dell’articolo su internet, accessibile ai profani, leso l’onore e la reputazione dei maestri venerabili così accusati, implicitamente, di omessa vigilanza sulle logge calabresi.
Divieto di parlare in pubblico, dunque, specie se si tratti di mafia.
L’audizione del Venerabile sulla fratellanza infiltrata dalla ‘Ndrangheta
Il dovere di tacere vale probabilmente anche nei confronti delle stesse Istituzioni, come plasticamente avvenuto proprio di fronte a questa Commissione parlamentare antimafia allorché veniva domandato a Stefano Bisi, e cioè al gran maestro di una delle obbedienze di maggiore rilievo numerico tra quelle operanti in Italia, di illustrare le ragioni dello scioglimento della citata loggia calabrese “Rocco Verduci” di Gerace.
In particolare, nella sua prima audizione, in forma libera, del 3 agosto 2016, il gran maestro così si esprimeva:
- “BISI. Quando ci sono logge, non in cui ci sono infiltrazioni della malavita organizzata, ma che non si comportano ritualmente – non tengono l’anagrafe degli iscritti, non tengono i verbali come dovrebbero essere – si abbattono le colonne, come è stato fatto nel caso di tre logge, una a Locri, una a Brancaleone e l’altra a Gerace.
- PRESIDENTE. Ci racconta che cosa c’era in queste logge?
- BISI. Abbiamo fatto delle verifiche. Non c’era la ritualità necessaria, ragion per cui siamo intervenuti per abbattere le colonne di queste logge. Facciamo così perché abbiamo un’organizzazione interna di controlli ferrei su tutte le officine sparse dal Nord al Sud. (..)
- PRESIDENTE. Cosa significa «irritualità»?
- BISI. Quando si iniziano i lavori, si indossa il grembiule e si indossano i guanti. ( ..)
- PRESIDENTE. Può essere sciolta una loggia perché non ci si mette il grembiule e non si indossano i guanti?
- BISI. Sì .
- PRESIDENTE. Perché lo considerate un sintomo di altro, spero.
- BISI. Può essere un sintomo di altro”.
- Nella successiva audizione, avvenuta nella forma della testimonianza, del 18 gennaio 2017, Bisi ribadiva le medesime dichiarazioni:
- “BISI. Da quando, da due anni e mezzo o poco più, sono io gran maestro, mi pare siano state abbattute le colonne di tre logge o quattro, ma potrei sbagliarmi. La demolizione delle colonne può avvenire per più motivi, come è scritto sempre nel libro della costituzione e del regolamento dell’ordine. ( ..) Sì , sono state tre logge in Calabria, che abbiamo demolito,( ..) Quanto ai motivi, erano logge che non si riunivano come ci si deve riunire, non avevano una condotta regolare rispetto agli antichi doveri e rispetto ai regolamenti e alle costituzioni dell’ordine. Abbiamo, quindi, demolito queste logge. (..)
- PRESIDENTE: Le logge che sono state soppresse – Locri, Gerace e Brancaleone, se non sbaglio… ( … ) Le colonne sono state abbattute per problemi rituali, sostanzialmente?
- BISI: Per problemi organizzativi, (..).
In sostanza, nonostante le sollecitazioni in tal senso, il gran maestro, in entrambe le audizioni, non faceva alcun riferimento ad eventuali rapporti con la ‘ndrangheta da parte della “Rocco Verduci” che, in base al suo racconto, era stata da egli sciolta per questioni rituali.
La documentazione cartacea in sequestro, invece, come visto, rappresentava una diversa realtà.
Dalla sequenza degli atti della loggia e dal loro contenuto, infatti appare evidente che il gran maestro sapeva quali fossero le reali problematiche di quella articolazione ciò sia perché aveva, in un primo tempo, revocato il provvedimento di Raffi, ritenendo cessato “l’inquinamento malavitoso” (che, quindi, quantomeno vi erano stato), e sia perché, richiamando, a sostegno del suo successivo
provvedimento di scioglimento, la relazione e l’ispezione della circoscrizione calabrese, evidentemente aveva dato atto, seppure implicitamente, della questione dell’infiltrazione mafiosa a cui tali note si riferivano.
Si potrebbe sostenere che le ragioni rituali ben possono coincidere con quelle sostanziali (ad esempio, l’ingresso nella massoneria di un fratello vicino alla mafia, dunque privo dei requisiti di moralità richiesti per l’adesione, è anche una questione formale) ma rimane il fatto che il gran maestro Bisi non ha nemmeno accennato, nonostante le plurime domande al riguardo, che lo scioglimento era avvenuto sì per un vizio massonico ma cagionato nella sostanza dalle possibili infiltrazioni mafiose. Egli, invece, ha preferito parlare di grembiuli e di guanti evitando di riferire il fulcro degli accadimenti.
Non è certamente questa la sede per valutare se le dichiarazioni di Stefano Bisi rese alla Commissione parlamentare antimafia possano avere penale rilevanza, tuttavia la condotta del gran maestro appare egualmente di particolare rilievo ed allarme.
Emerge, infatti, una chiara riluttanza a riferire i fatti, proveniente dal gran maestro di una delle obbedienze più importanti, e manifestata nei confronti di un organo previsto dall’art. 82 della Costituzione, evidentemente percepito come un’entità esterna, priva di qualunque titolo per conoscere le segrete vicende della massoneria
Una loggia calabrese, i favori e le pressioni per avvicinare magistrati
Il silenzio di Stefano Bisi non può ritenersi un fatto isolato, essendosi riscontrati altri atteggiamenti similari, piegati al silenzio, e, per di più, anche quando i fatti nascosti abbiano assunto astratto rilievo penale.
Nel contesto dell’ispezione disposta dal gran maestro Raffi sulla “Rocco Verduci”, infatti, era emerso, come accertato dalla documentazione in sequestro, che un magistrato onorario, appartenente alla predetta loggia, aveva chiaramente denunciato, ma soltanto in ambito massonico, una prima vicenda, risalente al dicembre 2010, riguardante le pressioni da egli subite ad opera di due suoi confratelli affinché si adoperasse per intervenire sul giudice monocratico del tribunale di Locri al fine di ottenere, in favore dei figli di uno dei due, sottoposti a un procedimento penale per ricettazione, la derubricazione del reato.
Vale la pena aggiungere che il massone che sollecitava l’intervento del magistrato onorario in favore dei propri figli indagati, era un medico della Asl di Locri, poi sciolta per mafia, nonché figlio di un noto boss ‘ndranghetista, mentre il massone che lo accompagnava, per sostenerne la richiesta, era un soggetto che, all’epoca di fatti, svolgeva un ruolo direttivo nell’ambito della “Rocco Verduci”.
Più tardi si verificava un similare episodio, ancor più significativo. Dai documenti ispettivi risulta infatti che, intorno al mese di aprile 2012, il predetto magistrato onorario fu ulteriormente sollecitato, da un altro dei suoi fratelli di loggia, affinché intervenisse ancora, riservatamente, presso i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria al fine di perorare la causa di un terzo massone, già consigliere della Regione Calabria, avendo questi saputo che, in quel momento, nell’ambito di una indagine antimafia, naturalmente coperta dal più rigoroso segreto, si stava vagliando la sua posizione.
Vale la pena aggiungere, anche in questo caso, che il massone che si stava prodigando, presso il magistrato onorario, in favore del politico, già si era prestato, nei confronti di quest’ultimo per far ammettere nella loggia un nuovo bussante, figlio incensurato di un soggetto tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Saggezza” della Dda di Reggio Calabria.
Non vi è dubbio che la sollecitazione non andò in porto o non diede i frutti sperati, atteso che, da lì a un mese, nel maggio 2012, nell’ambito dell’operazione “Falsa politica”, l’ex consigliere regionale fu tratto in arresto unitamente ad altri 13 soggetti a vario titolo accusati di essere contigui alla “locale” di ‘ndrangheta di Siderno, e poi condannato a 12 anni di reclusione per il reato di cui all’art. 416-bis c.p. con sentenza non ancora definitiva.
Orbene, coerentemente con quanto evidenziato nei paragrafi precedenti, rileva l’atteggiamento della gerarchia calabrese e nazionale del Goi dinanzi alla segnalazione di tali gravi fatti. Vero è che sotto la granmaestranza di Raffi queste vicende, a differenza di quanto accaduto con l’avvento di Bisi, contribuirono alla sospensione della “Rocco Verduci” per “ inquinamento malavitoso”. Tuttavia, né gli ispettori dell’epoca, né il responsabile calabrese, né la struttura centrale del Goi ritennero opportuno, anzi doveroso, informare le autorità civili – non vi è traccia di alcuna forma di segnalazione – degli evidenti indizi di violazione delle norme penali. E nemmeno da parte del magistrato onorario risulta alcuna denuncia, nonostante la sua qualifica di pubblico ufficiale.
Il vincolo di solidarietà, dunque, non solo consentiva agli esponenti mafiosi di potere contare, in quanto massoni, perfino dei servigi contra legem del confratello magistrato, ma anche sul silenzio di questi e degli altri venuti a conoscenza delle vicende.
Tutto doveva rimanere all’interno del circuito della massoneria e l’agire massonico si è qui atteggiato pericolosamente ad ordinamento separato dello Stato.
Le circostanze accertate, peraltro solo una parte del compendio probatorio, conducono necessariamente ad una conclusione.
Quando la segretezza massonica, con i suoi corollari, finisce per sconfinare dai rituali esoterici, per atteggiarsi ad ostacolo alla conoscenza da parte dello stesso Stato, non solo si mina, in un sistema democratico, il pilastro della trasparenza intesa come anticamera del controllo sociale, ma si crea un humus particolarmente fertile all’infiltrazione mafiosa.
Se la realizzazione, o il tentativo di realizzazione, dei programmi criminosi, infatti, avviene in un contesto riservato, chiuso ad ogni interferenza statale, ciò non può che agevolare i disegni mafiosi che rimangono fisiologicamente sottotraccia e, per di più, ammantati dai valori massonici e tutelati dalla privacy riconosciuta alle associazioni di diritto privato.
Ma vi è di più. Quando la massoneria, nonostante la consapevolezza del pericolo che, nel suo seno, possano trovare composizione interessi di dubbia liceità, mantiene la propria chiusura, evitando la pubblica denuncia di chi alla massoneria attenta, conserva talune usanze, consone ai momenti storici in cui furono introdotte e invece inaccettabili con l’avvento della democrazia, che consentono la strumentalizzazione di chi nella massoneria persegue finalità diverse da quelle filantropiche; non si preoccupa di opporsi alla colonizzazione mafiosa con un sistema di controlli reali, non può che ritenersi che essa è tollerante nei confronti della mafia.
Probabilmente, un atteggiamento diverso, magari accompagnato da una modernizzazione degli ordinamenti massonici, attraverso un’apertura all’esterno e, soprattutto, un rapporto non conflittuale con le leggi dello Stato, gioverebbe già alla stessa massoneria perché si abbatterebbe quel diffuso pregiudizio nei suoi confronti e, soprattutto, ridurrebbe il rischio della formazione nel suo stesso ambito di pericolose zone grigie.
Lo stato, la P2 e quella legge del 1982 ignorata
La legge 25 gennaio 1982, n.17, recante “Norme di attuazione dell’art.18 Costituzionale e scioglimento dell’associazione denominata Loggia P2” (cd. legge Spadolini) rappresenta la prima riprova, seppur involontaria, del fatto che il necessario dibattito giuridico e politico sulle associazioni segrete è stato da sempre eluso.
Infatti, soltanto a distanza di ben quasi quarant’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, e soltanto in seguito al grave scandalo dovuto alla scoperta della Loggia Propaganda 2, si trovò l’occasione per iniziare a pensare all’attuazione dell’art. 18, comma 2, Cost. Inoltre, la normativa, rivolta a colpire, in quel particolare momento storico, i fenomeni di deviazione, ha finito, in realtà, per non disciplinare le associazioni segrete.
Va in primo luogo sottolineato che la legge è rimasta sostanzialmente disapplicata, essendosi risolta, di fatto, in una legge ad societatem condannata all’ineffettività sia per il principio dell’irretroattività (non potendo estrinsecarsi sulla vicende della loggia P2 per le quali era stata emanata); sia perché, comunque, non è stata in grado di rispecchiare le dinamiche associative che si sviluppano occultamente in ambito socio-politico tant’è che le relative indagini, negli anni, non hanno di solito prodotto alcun esito o, più spesso, si sono avvalse del diverso strumento dell’art. 416- bis del c.p.; sia perché l’irrisoria pena edittale prevista dall’art. 2 della legge per il delitto di partecipazione ad associazioni segrete incide, comunque, sulla concreta perseguibilità delle stesse.
L’inoperatività della suddetta legge si evidenzia anche con riferimento al suo art. 4 che, anche per la macchinosità di alcune previsioni, ha fatto da sponda ad una volontà generalizzata di disapplicazione. Così, la commissione competente a giudicare i rilievi disciplinari per i dipendenti iscritti ad associazioni segrete, dopo essere stata nominata per un primo triennio, non è stata più costituita. Allo stesso modo, le Regioni chiamate ad emanare per i dipendenti regionali, secondo lo stesso art. 4, «leggi nell’osservanza dei principi dell’ordinamento espressi nel presente articolo», nella gran parte dei casi non hanno dato attuazione all’obbligo legislativo.
Di converso, la legge 17/1982, rivelatasi improduttiva degli effetti che si proponeva, ne ha determinati altri.
Innanzitutto, ha dato luogo ad una nozione di società segreta, diversa da quella concepita in sede costituzionale, che ha consentito finora l’attività di compagini sociali che andavano diversamente regolate.
In particolare, l’art. 1, definendo le associazioni segrete, le qualifica in quelle che, sebbene operanti all’interno di associazioni palesi, presentino talune caratteristiche (analiticamente indicate e alternative tra loro) consistenti: nell’occultamento dell’esistenza dell’associazione, ovvero nel tenere segrete congiuntamente le finalità e le attività sociali, ovvero ancora nel rendere sconosciuta, in tutto o in parte, all’esterno o all’interno del sodalizio, l’identità degli associati.
Tuttavia, accanto a tale condivisibile nozione sostanziale di segretezza, conforme alla volontà dei Costituenti, il medesimo art. 1 ha inteso subordinare la rilevanza giuridica dell’associazione segreta, così come definita, all’integrazione di un ulteriore requisito: deve cioè svolgere attività diretta a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche. In sostanza, mentre l’art. 18 Cost. proibisce, nel secondo comma, le associazioni segrete in quanto tali, al contrario la legge 17/1982 somma tale requisito a quello stabilito, in maniera del tutto indipendente, nel primo comma del medesimo art.18 (che vieta le associazioni che perseguano fini vietati ai singoli dalla legge penale).
Inoltre, il previsto legame tra la segretezza sostanziale e l’interferenza sull’esercizio delle funzioni pubbliche, oltre ad essere affetto da evidenti profili di incostituzionalità, rende comunque privo di significato il divieto di segretezza.
Infatti, se, da un lato, la suddetta interferenza spesso può tradursi nella programmazione di reati contro l’organizzazione dei pubblici poteri, sicché già tali condotte trovano sanzione penale indipendentemente dalla segretezza delle associazioni da cui provengano, di converso, tutte le associazioni per delinquere, sono segrete, con la conseguenza che il divieto di segretezza sancito in via autonoma dall’ultimo comma dell’art. 18 Cost. si rileverebbe superfluo.
Vi è altresì da osservare che, anzi, la legge 17 del 1982, accorpando i due diversi elementi, cioè il modo di essere dell’associazione e suo il fine illecito, ha di fatto aumentato il coefficiente di segretezza delle logge ufficiali che, proprio perché perseguono finalità lecite e, dunque, esulano dal divieto legislativo, hanno potuto mantenere, in concreto, le barriere invalicabili alla conoscenza esterna ed interna.
Probabilmente la formulazione dell’art. 1 della legge Spadolini risente sia dell’esigenza di determinatezza e di selettività ai fini della costruzione della fattispecie penale di cui all’art. 2 della medesima legge sia di quella, cogente, di rispondere all’emergenza costituita dalla scoperta della Loggia P2 e sulla quale le norme si sono dovute permeare.
Secondo tale impostazione, è quindi il programma di influenza, ulteriore rispetto alla segretezza ed in grado di esprimere un maggiore disvalore, che può legittimare il ricorso alla sanzione penale.
Come correttamente osservato, però, «il divieto di segretezza costituzionalmente rilevante non implica, in linea generale, la necessità che l’ordinamento debba reagire comunque, con una risposta di carattere penale. Il fatto che il programma dell’associazione sia intrinsecamente lecito, non può considerarsi irrilevante allorquando si tratti di individuare le conseguenze sanzionatorie, applicabili in caso d’inosservanza del limite di cui all’art.18/2 Cost. L’interesse alla base del divieto costituzionale potrebbe, infatti, risultare adeguatamente soddisfatto anche attraverso il mero scioglimento dell’associazione, sufficiente in quanto tale ad eliminare il disvalore insito nell’esercizio in forma occulta della libertà associativa. (..) (Mentre) la giustificazione della previsione di sanzioni penali presuppone l’incidenza su interessi ulteriori e meritevoli di più intensa proiezione rispetto a quello del metodo democratico della trasparenza che, come si è visto, deve ritenersi sotteso al divieto costituzionale».
Quando gli eccellenti giudici erano anche fratelli muratori
È pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che il vincolo associativo massonico, per la sua stessa portata, si pone in evidente contrasto con i principi costituzionali di indipendenza del potere giudiziario e dei singoli magistrati, di soggezione dei giudici soltanto alla legge, di terzietà del giudice nell’esercizio della funzione giudiziaria […]. Del resto, come sottolineato dalla stessa Corte costituzionale, “i magistrati, per dettato costituzionale (..), debbono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità nell’adempimento del loro compito”.
Nessuna norma, però, per oltre 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione aveva mai previsto, per i magistrati ordinari, il divieto di iscriversi ad associazioni segrete o, comunque, particolarmente vincolanti. L’art. 18 del R.D.Lgs. n. 511 del 1946 (Guarentigie della magistratura), invero, si era limitato a sancire la responsabilità disciplinare del magistrato che “manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario” utilizzando, dunque, una formula abbastanza generica.
Solo nel 1990, il Consiglio superiore della magistratura, con la risoluzione del 22 marzo, provò ad esprimersi sull’iscrizione e/o appartenenza dei magistrati alla massoneria e/o ad associazioni “vincolanti”, evidenziando l’incompatibilità della doppia appartenenza. Così, a partire dal 1993 il CSM, alla luce di quella risoluzione, iniziò ad applicare sanzioni disciplinari ai magistrati iscritti a logge massoniche mentre, a sua volta, la Suprema Corte confermò la rilevanza disciplinare sottolineando che l’iscrizione di un magistrato alla massoneria, anche non segreta, si traduce nella menomazione dell’immagine di organo assolutamente indipendente ed imparziale e nella conseguente perdita di prestigio del magistrato e dell’ordine giudiziario: non può, infatti, il magistrato condividere il suo impegno civile con l’adesione ad un sodalizio che indebolisce il giuramento di fedeltà allo Stato e che, essendo articolato in gradi, è indicativo di una dipendenza degli affiliati verso coloro ai quali l’associazione riconosce un livello di autorità e prestigio superiore.
Tuttavia, proprio per l’assenza di un percorso normativo chiaro, la Corte europea dei diritti dell’uomo, sia con la sentenza “NF c. Italia” del 2 agosto 2001 che con quella successiva “Maestri c. Italia” del 17 febbraio 2004, aventi ad oggetto l’applicazione di sanzione disciplinare a magistrati iscritti alla massoneria, affermò che l’Italia aveva agito in violazione della convenzione EDU. Infatti, l’ingerenza dello Stato nella vita privata altrui, e dunque nel libero diritto di associarsi, è ammissibile ma solo a) se essa sia prevista per legge e sia, comunque, prevedibile, b) se persegua finalità legittime, c) se è contenuta nei limiti delle misure strettamente necessarie ad assicurare la realizzazione delle predette superiori finalità. Nel caso di specie, invece, mancava il primo requisito della prevedibilità: l’art. 18 del R.D.Lgs. n. 511 del 1946 da un lato, e la direttiva del CSM del 1990, dall’altro, non contenevano termini sufficientemente chiari in ordine alla possibile rilevanza disciplinare dell’adesione ad una loggia massonica diversa dalla P2. Si tratta di decisioni che, evidentemente, affermano tutt’altro rispetto a quanto sostenuto dalle obbedienze.
Solo più tardi, con la riforma dell’ordinamento giudiziario, il d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109, all’art. 3 ha espressamente qualificato come illecito disciplinare la partecipazione del magistrato “ad associazioni segrete o i cui vincoli sono oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni giudiziarie”.
La questione, però, è lungi dall’essere stata risolta. Infatti, la locuzione “associazioni segrete” rimane ancorata alla definizione di cui all’art. 1 della legge 17/1982 con la conseguente inutilità della previsione disciplinare per il caso del magistrato che faccia parte di associazioni segrete in senso sostanziale, e dunque vietate dalla Costituzione. A sua volta, la locuzione “vincoli oggettivamente incompatibili con l’esercizio delle funzioni giudiziarie” appare non di facile interpretazione non essendo esplicitato in base a quali criteri oggettivi essi si individuano. Ed ancora, non sono previsti strumenti di natura generale che, da un lato, obblighino alla verifica e, dall’altro, che consentano la effettiva verificabilità dell’appartenenza di un magistrato ad una loggia massonica specie se, questa, si atteggi come segreta.
Nessuna disposizione di legge è stata invece introdotta per la magistratura onoraria (sebbene sempre più numerosa nell’ordinaria amministrazione della giustizia) alla quale, pertanto, il CSM ha cercato di estendere il principio di incompatibilità tra esercizio delle funzioni giudiziarie e affiliazione massonica.
Anche per i giudici amministrativi e contabili, ai quali non si applica il d.lgs. del 2006 n. 109 previsto solo per la magistratura ordinaria, non esiste una previsione di legge che impedisca loro l’adesione ad associazioni segrete o “vincolanti”.
Può solo segnalarsi che, per i magistrati amministrativi, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa ha adottato la delibera del 13 gennaio 1994 che in termini di assoluta chiarezza ha vietato la doppia appartenenza e che lo stesso è accaduto attraverso i codici di condotta dei magistrati amministrativi.
Per i magistrati della Corte dei conti, invece, non risultano nemmeno deliberazioni dell’organo di autogoverno, il Consiglio di Presidenza, ma solo il codice deontologico adottato dai magistrati il 23 gennaio 2006 in cui si prevede, all’art. 7, che “il magistrato non aderisce ad associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati”.
L’osservanza della Costituzione e le giustificazioni dei Venerabili Maestri
Il tema delle infiltrazioni mafiose nella massoneria si rinviene da tempo in una pluralità di fonti, provenienti da inchieste parlamentari (P2, IX legislatura; Antimafia, XI legislatura), atti processuali, indagini giudiziarie, attività delle prefetture e delle forze di polizia.
Nel corso della propria attività durante la XVII legislatura, la Commissione parlamentare antimafia ha rilevato, in alcuni contesti siciliani e calabresi, ulteriori situazioni indicative di forme di infiltrazione e condizionamento dell’attività di logge massoniche da parte delle organizzazioni criminali di tipo mafioso, e più in generale, un profilo di particolare rischio connesso ai nuovi modi di agire delle mafie, che si muovono oggi soprattutto attraverso reti di relazioni sociali, non in forme violente, ma strumentali al perseguimento dei propri fini illeciti.
La Commissione ha pertanto convenuto di avviare un approfondimento specifico, dedicato non alla massoneria in generale, ma alla presenza di esponenti di organizzazioni criminali di tipo mafioso all’interno delle logge massoniche siciliane e calabresi, allo scopo di verificarne la natura, accertare la congruità delle misure adottate in base alla disciplina vigente e formulare le opportune proposte normative per contrastare il fenomeno.
La Commissione ha individuato in piena autonomia obiettivi e strumenti del lavoro di inchiesta. In primo luogo, vi è una finalità generale di conoscenza del fenomeno, coerente con la funzione politico-legislativa dell’inchiesta parlamentare, non concentrata dunque su singole situazioni o condotte personali; in secondo luogo, un metodo fondato sulla collaborazione istituzionale e sulla cooperazione da parte di tutti i soggetti chiamati a dare il proprio contributo e, in mancanza, sull’impiego dei poteri attribuiti alla Commissione dalla Costituzione e dalla legge istitutiva.
Tale impiego ha riguardato in particolare l’esigenza, propedeutica ad ogni possibile approfondimento, di acquisire gli elenchi degli iscritti ad alcune associazioni massoniche – individuate sotto diversi profili tra quelle maggiormente rappresentative, sebbene non esaustive, all’interno di una galassia di ben oltre un centinaio di associazioni che si dichiarano dotate di tale carattere – a fronte del reiterato rifiuto di collaborare, motivato da parte delle obbedienze con ragioni di privacy dei singoli, per legge evidentemente non opponibile alle Commissioni di inchiesta e più in generale nei confronti dell’autorità.
È stato pertanto necessario acquisire gli elenchi con forme non collaborative, mediante un sequestro, utilizzando i poteri dell’autorità giudiziaria attribuiti alla Commissione.
Una volta estrapolati dal materiale sequestrato, tuttavia, gli elenchi dei nominativi registrati si sono rivelati verosimilmente incompleti, o quanto meno sprovvisti, in molti casi (pari a circa il 17,5% del totale), di tutti i dati identificativi, propri di un’anagrafe degli appartenenti all’organizzazione.
La disamina degli iscritti – o meglio della parte di essi identificata univocamente – è stata effettuata in collaborazione con la DNAA in base a evidenze giudiziarie solo per fatti di mafia.
La disamina ha rivelato la presenza di un non trascurabile numero di iscritti alle logge (circa 190), coinvolti in vicende processuali o interessati da procedimenti di prevenzione, giudiziari o amministrativi.
Le risultanze illustrate nella relazione hanno fornito conferme in ordine alla rilevanza del fenomeno, a fronte di una sua negazione da parte dei gran maestri, indice o di un’inconsapevolezza o di una sua sottovalutazione, se non di un rifiuto ad ammettere la possibile permeabilità rispetto a infiltrazioni criminali.
È infatti emerso come tali obbedienze massoniche, il cui status giuridico è quello delle associazioni non riconosciute, siano strutturate al loro interno secondo un principio di riservatezza estrema, caratteristica di un ordinamento che si fonda in modo ontologico su tale presupposto (adottando rituali allegorici anche molto espliciti sulle punizioni per chi trasgredisca il segreto interno) e inoltre si propone ai propri adepti e ai “profani” con caratteri di specialità, quasi di alternatività, rispetto a quello giuridico generale, comprese forme di giustizia interna che esclude il ricorso a quella esterna.
Viene rivendicata l’osservanza “della Costituzione e delle leggi che ad essa si ispirino”, come se fosse possibile un sindacato discrezionale, del tutto individuale e diverso da quello previsto dalla Costituzione stessa, sulla legittimità delle norme di legge, tale da giustificarne l’inottemperanza, all’occorrenza, e la disapplicazione, nei casi concreti, così come del resto è avvenuto rispetto alle richieste formulate dalla Commissione.
Quando capita che la massoneria vuole assomigliare alla mafia
L’analisi condotta nelle pagine precedenti non consente di affermare che la mafia e la massoneria siano un unicum né che -come disse, alla fine dell’Ottocento, il deputato Felice Cavallotti- “non tutti i massoni sono delinquenti ma tutti i delinquenti sono massoni”.
Gli esiti dell’inchiesta parlamentare, tuttavia, hanno evidenziato gravi elementi di criticità e, dunque, di incompatibilità, in seno all’ordinamento giuridico, tra talune forme associative -o, meglio, tra l’estrinsecarsi di talune forme associative- e lo Stato democratico.
Per quanto concerne la prospettiva di questa Commissione, è emerso che la mafia -o, comunque, le sue più pericolose espressioni rappresentate da Cosa nostra siciliana e dalla ‘ndrangheta calabrese- da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni, nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria.
Ma se le associazioni mafiose sono quelle descritte dal comma 3 dell’art. 416-bis del c.p., e cioè le consorterie criminali dirette ad “acquisire (..) la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici” e “a impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o altri in occasione di consultazioni elettorali”, non può che ricavarsi, di conseguenza, che la mafia individua nella massoneria uno strumento che le permette di raggiungere le finalità descritte dalla norma che la definisce. E, ciò anche perché, come si è detto, rappresenta il luogo di dialogo, diretto e solidale, con l’aristocrazia delle professioni. Il luogo privilegiato dove trattare affari, ottenere incarichi, pilotare appalti e, talvolta, “aggiustare” i processi.
Ciò nonostante, dalla parte delle associazioni massoniche, si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia, né potrebbe essere diversamente data la costanza e la reiterazione nel tempo del fenomeno infiltrativo.
Ma, se la ratio dell’ingresso della mafia nella massoneria si coglie, come detto, nell’essenza stessa dei suoi scopi così come descritti nell’art. 416-bis cit., il fenomeno inverso -l’accoglienza della massoneria nei confronti della mafia- non può giustificarsi attraverso le finalità statutarie, di ben altra natura rispetto a quelle mafiose, perseguite dalle associazioni massoniche ufficiali.
È nella posizione assunta da determinati fratelli o da gruppi di fratelli, più o meno numerosi, che può essere ricercata la ragione dell’incontro con il mondo mafioso, ma ovviamente, in tal caso, potrebbero individuarsi interessi o atteggiamenti diversificati, difficili da aggregare sotto un unico comune denominatore.
Può nondimeno affermarsi che qualora il massone sia, al contempo, un mafioso, come non di rado è accaduto, si realizza una coincidenza di appartenenza e, dunque, di intenti nel senso che il programma criminale mafioso intraprende la sua realizzazione (anche) nei gangli massonici.
Si può anche registrare l’intersezione dei diversi intenti (come, ad esempio, potrebbe accadere in occasione di elezioni massoniche per cariche autorevoli, peraltro lautamente retribuite, in cui la mafia può ben assicurare un certo numero di voti) che, dunque, si traduce in una reciproca convenienza, peraltro ipotizzata dagli stessi appartenenti alla massoneria.
Sono tuttavia i casi, certamente più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza -frutto di un generalizzato negazionismo dell’infiltrazione mafiosa (magari volto a salvaguardare il prestigio internazionale dell’associazione massonica o le sue fondamentali regole di segretezza), e a sua volta, causa di carenze in termini di prevenzione- che, paradossalmente, si rivelano più preoccupanti.
Ed invero, l’ordinamento giuridico, che ben dispone di strumenti in grado di prevenire e di reprimere le deviazioni e i patti intercorsi con le mafie, -e dunque la duplice appartenenza e la convenienza- non gode di altrettanti mezzi nel caso della tolleranza, cioè in assenza di fatti penalmente rilevanti dal lato massonico e, pertanto, assiste inerme ad un fenomeno che, benché necessariamente generato dall’incontro tra due entità, consapevole una e più o meno inconsapevole l’altra, può essere impedito solo per metà.
Tale pericolosa tolleranza si realizza, in primo luogo, laddove, nonostante il continuo allarme di inquirenti, giuristi, storici e organi di stampa, non sono state ancora assunte dalla massoneria ufficiale determinazioni ferme e definitive volte a rendersi impermeabile rispetto agli interessi criminali.
Si è già evidenziato, infatti, che nonostante la consapevolezza dei rischi, il sistema dei controlli massonici si è rivelato spesso inefficace, e ciò non tanto per la carenza di strumenti, come si è pure obiettato, ma soprattutto per la mancanza di volontà in tal senso. Ed invero, quando le infiltrazioni malavitose sono state accertate a livello organizzativo la scelta dello scioglimento delle logge non ha impedito, anzi ha favorito, il transito dei membri in altre articolazioni della medesima obbedienza. Allo stesso modo, le accorate segnalazioni dei fratelli più avveduti si sono risolte nell’espulsione di costoro. Le sentenze penali di condanna per fatti di mafia, a loro volta, sono rimaste spesso ignorate dalle obbedienze massoniche che non hanno riconosciuto in esse la segnalazione di un pericolo.
Al contempo, come si è constatato in diverse occasioni, non state adottate posizioni di netta collaborazione massonica, rivelatrici di una convergenza di scopi, con le Autorità impegnate nella repressione del fenomeno. Questa Commissione è diretta testimone di tale atteggiamento, verificato tanto nel corso delle reticenti audizioni, tanto nel rifiuto di consegna degli elenchi. Ma ne sono testimoni altresì i membri della loggia “Araba Fenice” che si dimisero per protestare contro l’espulsione di un fratello reo di avere collaborato con la Digos.
La tolleranza si riscontra altresì nella miope ostinazione della massoneria a mantenere, nonostante quanto la storia italiana ci abbia insegnato, quelle caratteristiche strutturali e organizzative, del tutto similari a quelle della mafia, che, nella loro concreta attuazione, ben valicante ogni innocuo rituale, si pongono quali fonti di alimentazione per la creazione, in ambito massonico, di un humus particolarmente fertile per la coltivazione degli interessi mafiosi.
Tra queste, va segnalato soprattutto il dovere di segretezza, su cui è improntato l’associazionismo massonico, con tutti i suoi corollari dei vincoli gerarchici e di fratellanza, della legge e della giustizia massoniche intese come ordinamento separato da quello dello Stato e prevalente rispetto a quest’ultimo.
Con grande evidenza è emerso un segreto interno, già di per sé inconcepibile in uno Stato democratico, a cui fa eco, soprattutto, quello esterno, anche verso le pubbliche Autorità.
Nemmeno con il provvedimento di sequestro, per citare solo uno dei tanti esempi riportati, è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono e, comunque, quelli che ci sono non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti rimasti occulti grazie a generalità incomplete, inesistenti o nemmeno riportate.
Il vincolo di solidarietà tra fratelli, a sua volta, consente, perfino, come visto in uno dei casi di estrema gravità affrontati, il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia; dialogo che non solo legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi, ma impone il silenzio di chi quelle richieste riceve.
La prevalenza dell’ordinamento massonico, ancora, impedisce allo Stato la conoscenza perfino dei reati consumati nonché il controllo dell’applicazione delle proprie leggi sui dipendenti pubblici; consente lo spregio delle regole e dei doveri civici da parte dei massoni con l’assoluzione preventiva del cerimoniere il quale garantisce che l’osservanza delle norme interne include automaticamente quella delle altre; toglie la parola agli assessori comunali, seppure impegnati nelle terre martoriate dalla mafia, per farne muti servitori della massoneria.
I vincoli di obbedienza gerarchica, di converso, inducono al silenzio anche sulle infiltrazioni della mafia perché altrimenti, come è accaduto, si offende implicitamente la dirigenza massonica, che tutto vede e tutto fa, di non aver visto e di non aver fatto nulla.
Tuttavia è proprio il segreto, con tutte le sue appendici, che consente, peraltro “fisiologicamente”, l’incontro tra le due formazioni, una illecita e l’altra lecita, al di fuori di qualunque controllo esterno e, per di più, con la parvenza della liceità (ricavabile dalla collocazione della massoneria tra le associazioni previste dall’ art. 36 del c.c. tutelate, dunque, dall’art. 18 della Cost.), così dando luogo ad una zona grigia della quale ben poco è dato sapere.
Ma vi è di più. Se, da un lato, i singoli massoni sono menomati nella libertà di esternare la zona grigia, dall’altro lato, viene a crearsi, l’asservimento, anche rispetto a fini non massonici o addirittura mafiosi, pure da parte di coloro che, essendo chiamati a svolgere funzioni al servizio dello Stato, devono improntare le loro condotte all’assoluta trasparenza e all’incondizionata lealtà verso le Istituzioni.
Lo stato non ha mai affrontato davvero la questione delle logge segrete
Non può dimenticarsi, al riguardo, che, dall’entrata in vigore della Costituzione, è sostanzialmente mancato un dibattito culturale, tanto sotto il profilo storico-politico che sotto quello tecnico-giuridico, sia riguardo al divieto costituzionale, previsto nell’art. 18, delle associazioni segrete, sia, più in particolare, riguardo all’associazionismo massonico italiano degli ultimi decenni. Né tale dibattito può essere colto in quello scaturito dallo scandalo della cd Loggia Propaganda 2 che diede luogo alla promulgazione della legge 17/1982, poiché si riferiva all’aspetto macroscopico della devianza massonica, rientrante nelle competenze dell’Autorità giudiziaria, e non anche al funzionamento del sistema. L’insigne giurista Massimo Severo Giannini parlò pertanto di particolare “esiguità degli studi”. Né può dimenticarsi, ancor meno, che la storia di questo Paese, unica nel panorama europeo, è stata costellata dalla prevaricazione della mafia, soprattutto nel Sud ma con sempre crescenti fenomeni di espansione, che ha rappresentato, dunque, una delle emergenze più importanti con cui ci si è dovuti confrontare e con cui, tuttora, ci si confronta. L’Italia, colpita dalle stragi di mafia e dalle migliaia di morti, compresi innumerevoli servitori delle Istituzioni, è riuscita a dotarsi di una legislazione sempre più specializzata e attenta che potesse contrastare un così devastante fenomeno; una legislazione all’avanguardia, poi mutuata da altri Paesi, che ha permesso, insieme all’impegno della magistratura e delle forze dell’ordine, di costringere la mafia sanguinaria ad operare in contesti di sommersione in cui viene privilegiato il metodo collusivo-corruttivo rispetto alle tradizionali condotte improntate a forme eclatanti di violenza. Va considerato anche, al riguardo, come ulteriore segno di allarme e di urgenza, l’elevato numero, in continuo aumento, degli iscritti alle logge massoniche calabresi e siciliane. Il dato è certamente giustificabile con il fatto che centinaia di persone, specie nel Sud, possano cercare, all’interno della massoneria, risposte alla crisi economica o, anche solo, a quella dei valori. Ma può altresì essere collegato, magari solo in parte, e soprattutto nelle zone ad alta densità mafiosa, al mutamento della strategia criminale della mafia che, ora, mira a sedersi nei tavoli degli accordi piuttosto che impugnare le armi per le strade.
In questo peculiare momento, dunque, se dovessero sfuggire al controllo istituzionale e normativo le zone grigie che anzi, proprio perché dissimulate dalla legalità, si trasformano in zone franche, si vanificherebbero gli enormi sforzi compiuti negli ultimi decenni.
La risoluzione della questione, finora rinviata o ignorata, dunque, non appare più procrastinabile. Ed è nei principi della Carta costituzionale e della Convenzione dei diritti dell’uomo riportati nelle pagine precedenti che va ricercata la stella polare che consenta il bilanciamento del diritto dell’individuo ad associarsi liberamente con l’interesse preminente dello Stato alla tutela della società dalle mafie.
Va premesso che le norme sulle associazioni segrete e su quelle comunque “vincolanti” sono finora state rimesse, come si è detto, ad una legislazione regionale, a macchia di leopardo, priva di uniformità, mentre trattandosi di temi volti a salvaguardare i principi fondamentali della Costituzione, tali valori richiederebbero una normativa statale con una portata generalizzata.
Sarebbe pertanto necessaria, innanzitutto, una previsione di legge che, per quanto già esposto nell’ultima parte di questa relazione, chiarisca definitivamente, tipizzandone le caratteristiche sostanziali già illustrate, che, ai sensi dell’art. 18, comma 2, della Costituzione, le associazioni sostanzialmente segrete, anche quando perseguano fini leciti, sono vietate in quanto tali, poiché pericolose per la realizzazione dei principi della democrazia e vieppiù così rivelatesi nel concreto della realtà italiana.
Una tale norma, soprattutto, attuerebbe, finalmente, la volontà dei Costituenti finora rimasta ignorata anche dalla legge 17/1982 sebbene intitolata “Norme di attuazione dell’art. 18 della Costituzione”.
Certamente, il fatto che il programma dell’associazione sia intrinsecamente lecito, come già evidenziato, “non può considerarsi irrilevante allorquando si tratti di individuare le conseguenze sanzionatorie, applicabili in caso d’inosservanza del limite di cui all’art.18/2 Cost. L’interesse alla base del divieto costituzionale potrebbe, infatti, risultare adeguatamente soddisfatto anche attraverso il mero scioglimento dell’associazione, sufficiente in quanto tale ad eliminare il disvalore insito nell’esercizio in forma occulta della libertà associativa”.
Sarebbe possibile ipotizzare, dunque, un provvedimento amministrativo prefettizio di scioglimento (sottoposto alla possibilità di impugnazione) dell’obbedienza o di una sua articolazione territoriale, e, solo per il caso di persistenza, sotto qualsiasi forma della medesima associazione disciolta, la sanzione penale.
E’ opportuno aggiungere che una norma che vieti, erga omnes, la segretezza di tutte quelle formazioni sociali, massoniche e non, che celino all’esterno e/o all’interno la loro essenza, e dunque così presentando profili di incompatibilità con il libero esercizio dei diritti assicurato dalla nostra Costituzione, non potrebbe ritenersi discriminatoria e nemmeno persecutoria nei confronti della massoneria, come più volte dalla stessa paventato.
Una previsione simile colpirebbe sì quelle associazioni massoniche che non proveranno a rivedere il loro ordinamento e ad adattarlo a quello dello Stato, ma non sarebbero soltanto queste, come è ovvio, gli obiettivi di una norma generale. In ogni caso, non può non riconoscersi la peculiarità italiana in tema di massoneria che, in diverse occasioni, si è ben differenziata da analoghe associazioni operanti in altri Paesi, per il grave fatto di essere stata la sede di interessi criminali, eversivi e mafiosi.
Una tale norma, del resto, sarebbe conforme alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, nonostante quanto inopinatamente affermato in proposito dai gran maestri, non salvaguarda il diritto alla segretezza bensì il diritto all’associazione; diritto, quest’ultimo, che, secondo la normativa europea, può certamente essere sacrificato in presenza di una espressa previsione legislativa, del perseguimento di finalità di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, della proporzionalità della sanzione rispetto ad enti che abbiano finalità lecite, della assenza di pratiche discriminatorie individuabili nel trattare in modo diverso situazioni materialmente paragonabili e senza una giustificazione obiettiva ragionevole.
Infine, una norma di rango superiore che vieti concretamente, e non solo come postulato, le associazioni segrete in senso sostanziale, sarebbe risolutiva, a monte, di tutte quelle altre problematiche prima evidenziate riguardo ai soggetti che, a vario titolo, svolgono attività al diretto servizio dello Stato per i quali, spesso, la sanzione disciplinare è correlata alla (improbabile) esistenza di un’associazione ex art. 2 della legge 17/1982 e non all’evidente disvalore di partecipare ad agglomerati segreti, incompatibili con i nostri principi di democrazia.
Le proposte della commissione Antimafia per contrastare le infiltrazioni
Con riferimento all’ulteriore questione delle associazioni “vincolanti”, sebbene non segrete, cioè che presentino caratteristiche tali da generare comunque vincoli di particolare cogenza nei confronti dei loro aderenti sì da potere interferire negativamente con lo svolgimento di un’attività a carattere pubblicistico, sembra possibile, anche alla luce delle indicazioni della Corte Edu riportate nell’ultima parte di questa relazione, individuare situazioni diversificate.
Preliminarmente, però, va segnalata la necessità che le auspicate norme chiariscano espressamente in cosa debbano consistere le situazioni di incompatibilità.
Innanzitutto, il nostro ordinamento, se consente, all’art. 98 della Cost., la possibilità di vietare a talune categorie di soggetti (i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti consolari all’estero) il diritto all’iscrizione ai partiti politici, che sono formazioni tutelate dalla stessa Costituzione, a fortiori può estendere tale divieto ai medesimi soggetti con riguardo ad associazioni che richiedano, per l’adesione, la prestazione di un giuramento o di una promessa con contenuto contrastante con i doveri di ufficio ovvero impongano vincoli di subordinazione gerarchica in opposizione con il loro dovere di assoluta fedeltà alle Istituzioni repubblicane.
A maggior ragione, può ben prevedersi per le categorie di altri soggetti che instaurano un legame di natura diversa con la Nazione (incaricati di cariche pubbliche e pubblici dipendenti) il mero dovere di comunicare, a pena di decadenza, la propria adesione a tali associazioni, e ciò in virtù dell’obbligo di trasparenza nei confronti della collettività che rappresentano o al cui servizio esercitano le proprie funzioni.
Disposizioni con tale portata sarebbero, anch’esse, conformi ai principi della Convenzione europea.
Per la parte inerente il divieto di appartenenza, infatti, è lo stesso art. 11, comma 2 della Convenzione Edu, a prevedere, conformemente al nostro art. 98 della Costituzione, che l’esercizio del diritto di riunione e di associazione può essere sottoposto a legittime restrizioni in relazione ai membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato.
Per la parte inerente il dovere di comunicazione della propria appartenenza a talune associazioni si è visto, alla luce dei criteri evidenziati nella decisione Siveri e Chiellini c. Italia, del 3 giugno 2008, che un tale onere, poiché finalizzato a perseguire interessi superiori, non viola la libertà di associarsi né la privacy e, riguardando certe categorie di associazioni, e non solo quelle massoniche, non potrebbe essere discriminatorio.
Come già si è accennato, però, in assenza dell’effettività della verifica da parte dell’ente pubblico di appartenenza del soggetto (al quale è imposto il divieto di partecipazione ad associazioni segrete e/o vincolanti o il dovere di comunicazione della partecipazione), le norme, sia quelle prima ipotizzate ma già quelle esistenti, si risolverebbero/risolvono in mere enunciazioni prive di efficacia.
Non si vuole di certo auspicare il ripristino delle disposizioni fasciste sopra riportate, seppure, non va dimenticato che, accanto a coloro che perseguivano evidenti volontà illiberali, insigni giuristi apprezzavano tali normative che, per l’eterogenesi dei fini tipica delle leggi, garantivano comunque un sistema di conoscenza e di trasparenza.
Né, all’opposto, il sistema può fondarsi sull’affidamento alle dichiarazioni/autocertificazioni dell’appartenente all’ente pubblico e dell’associazione privata eventualmente richiesta di fornire informazioni, non potendo permettersi che le verifiche sul rispetto dei principi costituzionali possano essere affidate ad un mero postulato di lealtà.
Una soluzione intermedia potrebbe essere individuata nell’introduzione, innanzitutto, del dovere dell’ente pubblico di effettuare periodicamente tali verifiche, a cui deve corrispondere un dovere specifico di risposta, veritiera e tempestiva, dell’associazione, prevedendosi, per quest’ultima, in caso di inadempimento o di mendacio, la possibilità di un controllo da parte delle prefetture e, quindi, l’eventuale avvio della procedura di scioglimento dell’associazione qualora se ne constatino i caratteri della segretezza.
Un’ulteriore riflessione merita la legge 17/1982 che, come evidenziato, non ha offerto uno strumento adeguato per perseguire il delitto previsto nel suo art. 2 nonostante si tratti di fattispecie associativa con rilevante disvalore sociale (volta a sanzionare associazioni segrete che, per di più, svolgono un’attività diretta a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche).
Da un lato, infatti, la pena edittale prevista (fino a 5 anni per il caso di promotori dell’organizzazione criminale, e fino a due anni nei casi di partecipazione), dà luogo sia a termini di prescrizione tali da non consentire indagini approfondite (che si rivelano invece di particolare complessità, anche per la difficoltà intrinseche nell’individuazione di un’associazione che è segreta per definizione), sia ad un sistema investigativo privo di strumenti fondamentali, come quello delle intercettazioni.
Del resto, una tale tipologia di fenomeno merita quantomeno di essere trattata in maniera non parcellizzata, poiché una singola risultanza probatoria, se non letta congiuntamente a quanto avviene nell’ambito di un più vasto territorio, non potrà mai rilevarsi idonea a dimostrare significative interferenze sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche. Sarebbe pertanto opportuno modernizzare la legge 17/1982 trattando la fattispecie associativa in essa contemplata al pari di altre associazioni per delinquere previste nel nostro ordinamento e inserendola tra i reati di competenza delle Procure distrettuali.
La conclusione di questo lavoro della Commissione parlamentare antimafia, merita alcune riflessioni finali.
È stato evidenziato dallo stesso mondo massonico come in Italia, e in particolar modo nelle regioni del centro-sud, sia presente un florilegio di numerose piccole obbedienze, con dichiarate finalità lecite, considerate alla stregua di massonerie irregolari o di logge spurie.149 Così come è stato segnalato che esistono canali di dialogo tra queste entità associative e la massoneria regolare.
L’insieme di queste dichiarazioni, dunque, proprio perché provenienti dall’interno del circuito massonico, e peraltro da chi lo rappresenta, acquistano particolare valenza in quanto pongono le premesse, unitamente ad altri elementi raccolti da questa Commissione, sulla necessità che il lavoro d’inchiesta avviato in questa Legislatura debba proseguire. Non potrà, infatti, essere trascurato l’approfondimento del mondo magmatico delle massonerie irregolari, del loro potenziale relazionale, dell’atteggiarsi delle mafie nei loro confronti.
Appare infine auspicabile che nella prossima legislatura il Parlamento valuti quanto prima, da un lato, come e quando inserire nel proprio programma dei lavori l’argomento oggetto della presente relazione, ai fini delle opportune modifiche alla legislazione vigente. Dall’altro, appare altresì utile una contestuale riflessione su come proseguire il lavoro di inchiesta della XVII legislatura, mediante un mandato da conferire alla prossima Commissione Antimafia, anche attraverso ulteriori coordinate della ricerca.
In seno al dibattito sono state avanzate proposte, infatti, che i tempi e le risorse disponibili non hanno consentito di mettere in atto in questa legislatura. Tra queste, rivestono particolare interesse: l’estensione dell’analisi del rischio di infiltrazione mafiosa nella massoneria anche alle restanti regioni d’Italia, senza limitarla solo a Sicilia e Calabria; l’estensione della verifica sulle situazioni giudiziarie non solo ai reati di cui all’articolo 51, comma 3 bis, c.p.p., di mafia in senso strettamente tecnico, ovvero alle misure di prevenzione del “codice antimafia” , ma anche ad una serie ulteriore di “reati spia”; l’estensione delle verifiche sui fattori di rischio derivanti dall’appartenenza alla massoneria o ad altre associazioni similari, in concreto, anche alla dimensione del fenomeno dell’iscrizione a logge massoniche da parte di politici, funzionari pubblici, appartenenti alle forze di polizia, militari, e categorie simili.