“Nel covo di vicolo Pipitone veniva Faccia di mostro (il poliziotto Giovanni Aiello ndr), noi lo chiamavamo così perché ci faceva paura quando arrivava.
“Venivano Bruno Contrada, Arnaldo La Barbera e altri poliziotti”.
E’ il racconto del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, sentito come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra in Corte d’appello a Caltanissetta, riferendosi al periodo tra il ’90 e il ’91.
“In due occasioni mio zio Giuseppe si ritirò a parlare con La Barbera in uno scantinato. Veniva di sera e non di giorno.
Una di queste volte è entrato nel vicolo e uno dei miei cugini gli ha fatto segnale di andare avanti ma lui fece capire che già sapeva dove doveva andare. Nella mia famiglia si diceva che La Barbera era uno che ‘mangiava peggio degli altri’ ma che comunque era una persona a cui Nino Madonia teneva tantissimo”.
La deposizione di Galatolo si ricollega a quella del pentito Francesco Onorato che nell’ultima udienza aveva parlato di una presunta vicinanza tra l’ex questore Arnaldo La Barbera e alcuni esponenti di Cosa Nostra come Totò Riina e i Madonia. ANSA 16 gennaio 2024
16.1.2024 Pentito rivela: “Gli incontri di La Barbera nello scantinato”
(dall’inviata Elvira Terranova) L’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, “nei primi anni Novanta era a disposizione della famiglia mafiosa dei Madonia.
Mio zio Pino Galatolo lo incontrò più volte, da solo, in uno scantinato di vicolo Pipitone”.
La rivelazione arriva a metà udienza del processo d’appello sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, quando, per la prima volta, il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, ex ‘picciotto’ della famiglia mafiosa dell’Acquasanta, ascoltato, in videocollegamento, parla di un presunto incontro “in uno scantinato” tra lo zio, il boss mafioso Giuseppe Galatolo e l’ex capo della Mobile e poi Questore Arnaldo La Barbera. Davanti alla Corte d’appello di Caltanissetta si ritrovano nuovamente alla sbarra i tre poliziotti del gruppo ”Falcone e Borsellino” accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra. A rappresentare l’accusa sono i sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono.
E’ stato applicato dalla Procura anche il pm Maurizio Bonaccorso, che ha rappresentato l’accusa in primo grado, dopo l’addio di Stefano Luciani e Gabriele Paci, andati rispettivamente a Roma e Trapani.
Nella sentenza di primo grado, emessa il 12 luglio del 2022, era caduta l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo era stato assolto. Il poliziotto Ribaudo era stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Erano tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
Galatolo ha più volte ribadito di avere visto La Barbera “in vicolo Pipitone”, luogo dell’Acquasanta dove si riunivano i boss mafiosi negli anni Ottanta e Novanta. Ma non aveva mai parlato degli incontri “nello scantinato” tra lo zio, ai domiciliari, e La Barbera.
Il poliziotto era a capo del gruppo investigativo che indagava sulle stragi mafiose, di cui facevano parte i tre poliziotti oggi imputati. La Procura generale tenta di dimostrare che Arnaldo La Barbera avrebbe depistato le indagini su via D’Amelio per favorire Cosa nostra. Il pentito Galatolo, nella sua deposizione, ha confermato in videoconferenza quanto già aveva detto la scorsa udienza un altro collaboratore, Francesco Onorato: “Salvatore Biondino mi aveva ordinato di uccidere La Barbera, ma poi l’ordine fu ritirato, proprio perché quel poliziotto era vicino ai Madonia”, aveva detto.
Già in primo grado Onorato e Galatolo avevano ripetuto queste dichiarazioni ma i giudici del tribunale le avevano ritenute generiche e prive di riscontri.
Adesso la Procura generale ha chiesto e ottenuto di riascoltare i due collaboratori. “Quando io facevo la sentinella a Vicolo Pipitone, nel nostro covo, fino a a poco prima delle stragi del ’92, ricordo che venivano anche degli appartenenti alle istituzioni. Ricordo che c’era un maresciallo dei Carabinieri, che era al libro paga della famiglia dell’Acquasanta.
Era lui che ci avvisava delle cose che accadevano. Da noi veniva anche Giovanni Aiello ‘faccia da mostro’.
Era stato mio zio Giuseppe Galatolo a dire chi era e che Aiello lavorava per lo Stato. Ma finché non ho collaborato non sapevo chi fosse, lo chiamavamo ‘faccia da mostro’ perché ci faceva paura”, ha proseguito. Giovanni Aiello era un ex poliziotto della Squadra Mobile di Palermo con passato nei servizi, conosciuto alle cronache come “Faccia da mostro” e finito al centro di alcune vicende controverse. E’ morto d’infarto nel 2017.
Giovanni Aiello era stato iscritto nel 2015 nel registro degli indagati con i boss Gaetano Scotto e Salvino Madonia.
Per i capi mafia la procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il giudice respinse l’istanza ordinando nuove indagini tra le quali il confronto fra il padre della vittima e Aiello.
“Faccia da mostro”, funzionario dei servizi segreti in attività a Palermo negli anni Ottanta, fino alle grandi stragi del 1992, era stato riconosciuto nel febbraio del 2016 da Vincenzo Agostino, padre del poliziotto di Palermo, Antonino, ucciso con la moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989. “E’ lui, è quello che mi sta guardando”, avrebbe detto Agostino, che dal giorno dell’omicidio di suo figlio non si è mai più tagliato la barba.
L’ex agente segreto sarebbe colui che prima del delitto sarebbe stato visto vicino alla sua abitazione. Uscendo Agostino confermò di averlo riconosciuto “anche se era ben truccato”. Giovanni Aiello “faceva parte dei servizi segreti deviati. Io l’ho visto più volte in vicolo Pipitone, all’Acqusanta. Veniva spesso nel periodo tra l’84 e l’85, fino all’arresto di Madonia”, ha poi aggiunto Galatolo.
Poi, Galatolo ha citato anche altri esponenti delle istituzioni che avrebbero frequentato la famiglia mafiosa dell’Acqusanta. “Veniva anche Bruno Contrada. Poi c’erano personaggi che venivano a cercare latitanti, venivano due poliziotti, tali Agostino e Piazza, che venivano a cercare chi entrava e usciva. Il nostro compito da sentinelle era avvisare e farli scappare”.
In particolare, parlando di Arnaldo La Barbera, Galatolo sottolinea che “venne diverse volte in vicolo Pipitone a Palermo, quando mio zio Giuseppe Galatolo era agli arresti domiciliari”. “In due occasioni, mio zio Giuseppe si ritirò a parlare con La Barbera in uno scantinato.
Veniva di sera e non di giorno. Una di queste volte è entrato nel vicolo e uno dei miei cugini gli ha fatto segnale di andare avanti ma lui fece capire che già sapeva dove doveva andare.
Nella mia famiglia si diceva che La Barbera era uno che ‘mangiava peggio degli altri'”.
La Barbera era a disposizione dell’Acquasanta e del mandamento dei Madonia“, ha proseguito. E ha ricordato la morte del giovane Girolamo Fasone, morto nel 1991 mentre tentava una rapina nel centro di bellezza in cui si trovava allora La Barbera.
E del tentativo di uccidere La Barbera, tentativo che però venne bloccato dai vertici di Cosa nostra.
“Nel 1991, dopo che Arnaldo La Barbera uccise il mio amico Mimmo Fasone nella rapina nel centro di bellezza, noi volevamo dargli un colpo di legno, volevamo punirlo ma fummo bloccati.
Ci hanno mandato a dire di non pensarci completamente. Perché Madonia ci teneva a lui”. “Mi ricordo che Mimmo Fasone era un ragazzo in gamba.
Tra il 22 e il 23 dicembre del ’91 ci eravamo scambiati gli auguri di Natale poi, ai primi di gennaio del ’92, successe questa cosa che fu ucciso dal dottor La Barbera”, ha detto Galatolo.
All’epoca La Barbera era il dirigente della Squadra Mobile. “Quando il giornale pubblicò la notizia che Arnaldo La Barbera aveva ucciso Mimmo Fasone ci fu tanta rabbia, perché comunque un ragazzo giovane era stato ucciso.
E si cominciò a dire di ‘andare a rompere le corna’ a questo La Barbera’. Dicevamo ‘ma come si è permesso a uccidere questo ragazzo?’. Ma poi mio cugino Angelo e i miei zii disse che non si poteva fare perché Madonia teneva a lui”. Non sono mancati i momenti di tensione tra il pentito Vito Galatolo e l’avvocato Giuseppe Seminara, legale dei poliziotti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Il legale ha contestato al collaboratore delle dichiarazioni divergenti rispetto a quelle rese nel processo di primo grado. E Galatolo si è più volte lamentato. Il Presidente Giovambattista Tona ha ripreso sia il difensore che il collaboratore, l’avvocato Seminara ha risposto: “Presidente, non siamo sullo stesso piano il signor Galatolo e io, io sono l’avvocato”. In particolare, il legale ha contestato al pentito di avere cambiato versione sulla decisione di uccidere Arnaldo La Barbera. In primo grado aveva detto che lo stop era arrivato dallo zio Giuseppe Galatolo “che era ai domiciliari”. Oggi, invece, ha ribadito che lo zio era “in carcere”. Dopo la contestazione, ha detto: “Mi sono confuso, ma confermo quello che ho detto oggi. In quel momento mio zio era in carcere. E da lì arrivò il divieto di uccidere La Barbera”. A inizio udienza il pentito Galatolo ha ricordato la sua escalation criminale, spiegando di avere iniziato a fare parte di Cosa nostra “fin da bambino”. “Sono stato ‘combinato’ nel carcere Pagliarelli nel 2010, mentre ero detenuto. All’epoca il capomandamento Rosario Lo Bue reggeva Corleone. Eravamo tutti in carcere. Già all’eta di 11 anni facevo la ‘sentinella’ al vicolo Pipitone di Palermo, per vedere se arrivavano macchine della Polizia. Era il nostro covo. Da piccolini eravamo sempre a disposizione. Nella nostra famiglia non c’era bisogno che diventassi uomo d’onore per reggere la famiglia”, ha detto. “Sono stato Capomandamento di Resuttana che comprende le famiglie mafiose di Acquasanta, Arenella e Vergine Maria- ha detto – Nella mia famiglia eravamo famiglia di sangue ma anche famiglia e di Cosa nostra. Mio zio, Giuseppe Galatolo era un libro aperto, se fosse stato per lui potevamo fare gli uomini d’onore anche a 15 anni. Si faceva di tutto. Nel vicolo Pipitone si nascondevano armi, poi nel 1990 si sapeva chi pagava le estorsioni, avevamo interessi al mercato ortofrutticolo, ai cantieri navali”. Alla fine dell’udienza, dopo le ore 20, arrivano le scuse del collaboratore al Presidente della Corte, Giovambasstita Tona, per il comportamento durante la deposizione. “Presidente chiedo scusa però quello che ho capito io è che gli avvocati sanno che sono un pochino frizzantino e lo fanno apposta a farmi arrabbiare”, ha chiosato. La prossima udienza si terrà il 30 gennaio, per ascoltare l’ex funzionario di Polizia Gioacchino Genchi. —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)
“Volevamo ammazzare La Barbera, ma ci dissero che era a disposizione del clan Madonia”: il racconto del pentito Galatolo
di Saul Caia| 16 Gennaio 2024 FQ
“Ho visto Arnaldo La Barbera dentro vicolo Pipitone con i miei occhi, due volte, la prima quando mio zio Giuseppe Galatolo era ai domiciliari, a giugno 1990, e poi a metà del 1991. Mio zio scendeva, perché non lo faceva salire a casa, e si mettevano a parlare nello scantinato, una mezzoretta”. A raccontarlo è il collaboratore di giustizia Vito Galatolo, appartenente alla famiglia mafiosa dell’Acquasanta di Palermo, durante il processo di appello sul depistaggio della strage di via d’Amelio, che si celebra a Caltanissetta. Imputati sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, all’epoca guidati da Arnaldo La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage di via d’Amelio. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
“Figure istituzionali nel vicolo Pipitone”- Durante le oltre tre ore di udienza, il collaboratore ha risposto alle domande formulate dal sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso, applicato al processo insieme ai sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono, spiegando il suo ruolo all’interno della famiglia mafiosa e quali figure istituzionali avevano rapporti con la mafia. “Quando facevo la sentinella a vicolo Pipitone, nel nostro covo, ricordo che venivano appartenenti delle istituzioni. Il maresciallo Sarzana era a libro paga della famiglia dell’Acquasanta, ci avvisava delle operazioni e di quello che succedeva, da noi veniva anche Aiello, ‘Faccia da mostro’, lo chiamavo così perché da bambini ci faceva paura quando lo vedevamo. Me lo disse mio zio Giuseppe Galatolo che lavorava per lo Stato. Poi veniva Bruno Contrada, e qualche volta anche La Barbera, nei primi anni ’90. La Barbera l’ho poi visto spesso nella nostra borgata e in via d’Amelio. Veniva anche due poliziotti, Piazza e Agostino, a cercare latitanti, e il nostro lavoro era quello di far scappare i latitanti nei cunicoli”, racconta Galatolo.
Gli incontri con La Barbera – Il magistrato Bonaccorso chiede al collaboratore di spiegare quando vide La Barbera recarsi nel vicolo, considerato luogo operativo della famiglia. “A giugno 1990, e poi a metà del 1991, mio zio Giuseppe ci chiamava, dandoci disposizione su dove metterci, io conoscevo di vista La Barbera, e mio zio mi disse che era uno della squadra mobile-polizia, e noi ci mettevamo a blindare tutto il vicolo, per controllare che non passasse nessuno”, dice Galatolo. Il magistrato chiede di spiegare minuziosamente gli eventi. “Le posso dire che è venuto di sera e non di giorno, in entrambe le occasioni – precisa Galatolo -. Ha posteggiato fuori dal vicolo, a piedi è entrato e uno dei miei cugini gli faceva cenno di andare avanti, ma lui rispondeva che sapeva dove andare. Quindi mio zio scendeva, lo seguiva nello scantinato. L’ho visto da solo, non con altre persone. Non posso escludere che arrivava da solo in auto o con qualcuno”. Poi, incalzato, il collaboratore aggiunge: “Non so di cosa parlassero con mio zio”.
“Volevamo spaccare le corna La Barbera” – In seguito, le domande vengono spostate sull’omicidio di Mimmo Fasone, avvenuto il 4 gennaio 1992 in un centro estetico di Palermo ad opera di La Barbera. “Fasone era un ragazzo di borgata, era rapinatore, bravo ragazzo per noi, in base alla mentalità criminali, non parlava e si faceva i fatti suoi, quando abbiamo saputo che lo avevano ucciso, parlando con i miei cugini, ci è scappato dalla bocca di spaccare le corna a La Barbera”, dice Galatolo. Perché però non lo fanno, domanda il pm Bonaccorso. “Tramite Angelo Galatolo, figlio di mio zio Giuseppe, parlavamo di fare un’azione criminale, un attentato, ma dopo una ventina di giorni durante il primo colloquio con il figlio, non ricordo se Angelo o Stefano, mio zio Giuseppe ci ha mandato a dire di non permetterci minimamente a pensarlo”, risponde Galatolo. Perché? “Ho saputo in famiglia che La Barbera era a disposizione della famiglia Madonia e dell’Acquasanta, mio zio Giuseppe mi disse che La Barbera ‘mancia mancia peggiu ri lautri’ (mangia peggio degli altri ndr), ma Nino Madonia ci teneva tantissimo a questo signore, e che era nel loro libro paga”.
Botta e risposta coi legali – L’avvocato Giuseppe Seminara, difensore di Mattei e Ribaudo, ha sottoposto il collaboratore diverse contestazioni, facendo emergere delle discrepanze tra le versioni raccontate sulla gestione della cassa della famiglia. “Gestivo i soldi di mio padre e dei miei zii insieme a mio cugino, nel 2000 gestivo tutto io perché ero rappresentante”, dice Galatolo. Il legale lo ha incalzato, e il collaboratore ha perso le staffe: “Ho risposto avvocato! L’avvocato mi fa delle domande ma non mi fa rispondere”. A quel punto il presidente Giovanbattista Tonaè intervenuto: “Ha risposto avvocato Seminare”. Poi ha bacchettato il collaboratore: “Galatolo deve attendere che gli altri finiscono di parlare, lei cerchi di stare tranquillo e non mettersi a tu per tu con l’avvocato. Non si deve lamentare dell’avvocato, che sta svolgendo il suo lavoro, è compito del giudice gestire le contestazioni”. “Posso ripetere la domanda”, ha chiesto l’avvocato. “No, la corte capisce molte più cose, non si preoccupi – ha replicato il presidente Tona -, la invito nel controesame solo a fare le domande e non le sue personali considerazioni”. La prossima udienza sarà martedì 30 gennaio, e in aula comparirà l’avvocato Gioacchino Genchi, già poliziotto della questura di Palermo durante gli anni delle non si preoccupi – ha replicato il presidente Tona -, la invito nel controesame solo a fare le domande e non le sue personali considerazioni”. La prossima udienza sarà martedì 30 gennaio, e in aula comparirà l’avvocato Gioacchino Genchi, già poliziotto della questura di Palermo durante gli anni delle stragi.
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VIA D’AMELIO – DEPISTAGGIO DELLE INDAGINI – processo d’appello in corso