16.9.1998 COMO – Il pentito-chiave ritratta salta il processo Borsellino?

 Il pentito chiave della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, ritratta e accusa. Lo fa a Como dove era stato chiamato per alcuni confronti con altri pentiti di mafia.  Ma il programma salta per l’ apparente e improvvisa decisione dell’ ormai ex pentito sulle cui accuse è stato in gran parte costruito l’ impianto accusatorio che ora rischia di essere gravemente compromesso. Tra primo, secondo e terzo processo sulla strage di via D’ Amelio, ci sono oltre 50 imputati. Tre sono stati già condannati all’ ergastolo e lo stesso Scarantino ha avuto inflitta una pena a 18 anni di reclusione. Ma ieri, come aveva provato a fare altre volte, ha ritrattato tutto e dietro questo clamoroso dietro fronte ci sarebbe la regia non tanto occulta di Cosa Nostra. Un professionista, forse un avvocato, avrebbe mediato con Scarantino per indurlo a ritrattare. Il “pentito” avrebbe già ricevuto un “acconto” di 40 milioni ed “assicurazioni” per la moglie ed i suoi due figli. E lui avrebbe accettato, Cosa Nostra gli avrebbe dato più “garanzie” dello Stato e così quando ieri mattina, dopo lo scontro in aula tra Brusca e Di Matteo, è stato chiamato per essere interrogato ha subito esordito: “Ho inventato tutto io assieme alla polizia e ai giornali. L’ unica cosa vera è la droga, perché io lavoravo con la droga. Sono quattro anni che (giudici e inquirenti ndr) mi minacciano, mi levano i figli, ed io ho paura di essere ammazzato dalla Polizia”. Scarantino è un fiume in piena e per sostenere il suo “ravvedimento”, per “pulirsi la coscienza”, fa la cronistoria della sua vicenda. Dice che in carcere gli davano da mangiare pasta con i vermi, brodo con l’ urina, che lo picchiavano selvaggiamente per costringerlo a pentirsi e ad accusare. E chiama in causa gli stessi pubblici ministeri del processo, Anna Palma e Antonino Di Matteo, i capi del gruppo “Falcone-Borsellino”, la squadra di poliziotti guidata prima dall’ attuale questore di Napoli, Arnaldo La Barbera e dal vicequestore Mario Bò. “I magistrati esercitavano pressioni psicologiche ed anche minacce, “aggiustavamo” le dichiarazioni, ma non era vero niente. Io – dice Scarantino – non so nulla della strage di via D’ Amelio, ho accusato persone innocenti ma perché mi ci hanno costretto ed a casa ho anche fotografie degli imputati”. Anche le accuse a Silvio Berlusconi sono false (aveva dichiarato che da Palermo i boss gli inviavano cocaina ndr):”Ho accusato Berlusconi perché lui era contro i pentiti e allora ho fatto quelle dichiarazioni”. Ma dalle domande dei pubblici ministeri emerge chiaramente che qualcuno – per conto di Cosa Nostra – negli ultimi mesi e anche l’ altro ieri, ha avvicinato Scarantino e l’ ha convinto a fare marcia indietro.  La Repubblica 

 


COMO – SCARANTINO RITRATTA: “SU BORSELLINO HO MENTITO” 

Davanti ai giudici del processo  che si sta svolgendo a Como, Scarantino si è rimangiato tutto. Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si è rimangiato tutto. “Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che è costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta. Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere. Immediata la replica del pubblico ministero. Che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non più come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità, pena l’incriminazione per falsa testimonianza. Ma l’accusa è andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia. “Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare. Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento. Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché le telecamere potessero riprenderlo. Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo. “Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”. Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso. Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesù. Poi l’arresto e subito dopo – è il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa.Passa più di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna. Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non è stato mai. Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo.Le sue dichiarazioni però reggono. I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità, diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi.   (15 settembre 1998) LA REPUBBLICA