Gli Angeli custodi di Giovanni Falcone vittime a Capaci insieme al magistrato e a Francesca Morvillo

Rocco Dicillo  Antonio Montinaro  Vito Schifani

 

 

 

VIDEO dei VIGILI DEL FUOCO – CAPACI 23 maggio 1992

CAPACI, 23 maggio 1992 –  I Vigili del Fuoco durante le operazioni di recupero dei poveri resti dei corpi straziati dall’esplosione dei componenti della scorta ROCCO DICILLO, ANTONIO MONTINARO e VITO SCHIFANI


Gli agenti di scorta SOPRAVVISSUTI   Peppino CostanzaAngelo Corbo, Gaspare Cervello, Paolo Capuzza


Quel 23 maggio a Capaci


La STRAGE di CAPACI


 

 

Il racconto di GASPARE CERVELLO, capo scorta di Giovanni Falcone quel 23 maggio 1992

 

ANTONIO MONTINARO voleva seguire FALCONE a Roma


VI PERDONO MA INGINOCCHIATEVI

VIDEO 2

Le storie dimenticate degli agenti della scorta di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nei volti e i gesti delle loro madri, delle loro mogli, dei loro figli a ventuno anni dalla strage di Capaci. Vi perdono ma inginocchiatevi – il primo film per la tv mai prodotto da La7, in quest’occasione con Boniventofilm S.r.l. e la Regione Siciliana – racconta le vicende legate a una tragedia che non ha colpito solo le vittime ma anche i loro familiari. E’ intorno a loro che si snoda il racconto del regista, Claudio Bonivento, tratto dal libro di Rosaria Schifani e Felice Cavallaro. Tra i membri del cast Tony Sperandeo, che veste i panni di Cupane (il capo delle scorte di Falcone), un cammeo di Massimo Ghini in quelli del capo della Polizia Vincenzo Parisi, Lollo Franco è Paolo Borsellino. Accanto a loro Rosaria Schifani, interpretata da Silvia D’Amico (all’esordio come protagonista), e Raffaella Rea nel ruolo di Tina Montinaro; a impersonare i tre agenti della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo rispettivamente Antonio Vito Di Bella, Francesco Venditti e Lorenzo Roma. E ancora Vincenzo Crivello e Luigi Burruano.  


ROCCO DICILLO
«Rocco era l’uomo di scorta di padre Ennio Pintacuda, il sacerdote che avrebbe dovuto sposarci due mesi dopo, il 20 luglio, la nostra data, quella del primo incontro. Ma Pintacuda il giorno prima della strage era partito, e così Rocco quel sabato era a disposizione del servizio Scorte e tutela, nel turno di mattina. Dopo aver fatto colazione, uscì dalla nostra casetta in affitto nel paese di Pioppo, alle porte di Palermo, un nido minuscolo. Lui andò in caserma, io mi mossi per raggiungere il negozio dove facevo la cassiera, dopo il diploma in ragioneria. ‘Ti chiamo più tardi, amore’, mi disse mentre usciva tutto ben vestito. La cravatta se la tolse subito, la ritrovammo poi in macchina, adesso la tiene mia madre come ricordo. In mattinata mi chiamò al lavoro, mi raccontò che gli avevano cambiato il turno, dalla mattina al pomeriggio, perché due colleghi avevano marcato visita, ma non mi rivelò per chi era il servizio di scorta. Non me lo diceva mai, sia per tutelare la personalità che proteggeva, sia per non farmi preoccupare.»
«Si rifece sentire di nuovo alle 17.50, otto minuti prima dell’esplosione: Mi chiese se avevo mangiato, mi raccontò ancora del cambio turno che aveva subito, poi, mentre mi raccomandava di non fare tardi la sera, mi disse che i colleghi lo stavano chiamando. Ma sembrava che non volesse chiudere: “Ti mando un bacio. Ci vediamo stasera, amore’. ‘Amore’ fu l’ultima parola che ho sentito dalle sue labbra».
Telefonata strana. «Rocco era sempre affettuosissimo, ma quel tono accorato era del tutto inconsueto. Già la sera prima si era accoccolato mentre mi dava la buonanotte; mi sembrava piangesse, ma mi cingeva da dietro e non mi fece accorgere di nulla.»
Alba Terrasini, fidanzata di Rocco Dicillo , qui con lui nella foto, tratta da Vivi Libera. Rocco e Alba rimasero insieme per quattro anni, fino al 23 maggio 1992, dove Dicillo perse la vita nella strage di Capaci. da “L’altra storia” di Laura Anello, Sperling & Kupfer

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IMMAGINI

 

Il REPARTO SCORTE di Palermo e gli angeli custodi di Falcone e Borsellino

 

A “CARO MARZIANO” Giuseppe Costanza,sopravvissuto a Capaci e dato per morto da Andreotti

 

 

La TARGA della VERGOGNA a PISTOIA: il Sindaco non onora gli impegni

 

E loro ?

 

 

SAMMARCO e TINDARELLI raccontano il loro giudice Giovanni Falcone

 

 

 

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I SOPRAVVISSUTI DI  GIUSEPPE GALEAZZO  – F.B.

GIUSEPPE COSTANZA è nato a Villabate, in provincia di Palermo, il 14 marzo 1947. Nel 1958 insieme alla famiglia si trasferisce a Palermo dove frequenta la quinta elementare alla scuola Verdi. Fin da piccolo ha fatto da “aiutante” prima di un barbiere de posto e poi di un parrucchiere di Palermo. Di ritorno dalla leva militare riprese l’attività di parrucchiere e nel 1970 si sposò. Sempre in quell’anno aprì una parruccheria, il lavoro andava bene ma lui tornava a casa distrutto e per di più, con i solventi e le soluzioni che si usavano per fare i capelli, si stava rovinando le mani. Nel 1982 conseguì la licenza media, facendo la scuola serale. Fece domanda di assunzione presso qualche ente pubblico, fra cui il Ministero di Grazia e Giustizia. Entrò in servizio mediante chiamata diretta nel ministero di Grazia e Giustizia nel novembre del 1984. La sua qualifica era “conducente di automezzi speciali” e la destinazione era l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Dapprima lo misero all’ingresso del Tribunale. Da lì entrava il pubblico al quale doveva controllare i documenti. Svolse questo lavoro per poche settimane, dopodiché un giorno un collega di nome Purpura gli chiese di accompagnarlo a sbrigare una commissione e, nell’occasione, di mettermi alla guida. Dal giorno dopo cominciò a sostituire I colleghi assenti. In quel periodo ha accompagnato vari giudici, come ricorda lui stesso “una volta Leonardo Guarnotta, un’altra Paolo Borsellino, un’altra ancora Gioacchino Natoli. Come ricorda nel libro “Stato di abbandono” (scritto da Riccardo Tessarini – dove è lo stesso Costanza che parla): “Verso la fine dell’anno, cominciò a spargersi la voce che Falcone non volesse più il suo autista personale, Paolo Sammarco, per cui tra gli autisti giudiziari si diffuse un certo timore. Nessuno, infatti, voleva prendere il suo posto perché significava trovarsi al fianco di un bersaglio della mafia. Un giorno, un collega venne da me e disse: «Costanza, deve andare dal dottor Falcone». Andai in una stanza del bunker, dove il Giudice mi aspettava. Bussai, mi accolse cortesemente e mi fece accomodare. «Costanza, lei dove abita?», mi chiese. «I suoi familiari cosa fanno? Da dove viene? Suo padre che fa?»… ma Falcone sapeva già tutto! Aveva già fatto una ricerca sul mio conto, e attraverso tutte quelle domande voleva semplicemente capire se gli dicevo la verità e, di conseguenza, se si poteva fidare di me. «Se la sentirebbe di guidare la mia auto?», mi disse. Non potevo rispondere di no… «Va bene», continuò, «allora domani mattina venga a prendermi in via Notarbartolo, 23». L’indomani, quindi, mi presentai puntuale sotto casa sua. Fino a quel momento, tutto tranquillo. A un tratto, sopraggiungono due auto della Polizia di corsa: una si piazza davanti alla mia, l’altra dietro. Scendono sei agenti, armi in pugno. Alcuni entrano nel condominio per andare a prenderlo di sopra, altri aspettano davanti all’ingresso. Intorno a noi, tutto bloccato: traffico, pedoni, ciclisti. Non me l’aspettavo… I primi due mesi furono duri. Quando mi mettevo alla guida, il sudore mi scendeva dalla fronte per la tensione. Non ero abituato a vedere pistole e mitra spianati, a sentire sirene, a sfrecciare per le strade della città. Tutto senza che il Ministero mi avesse mai fatto fare il corso di formazione che i miei colleghi più anziani avevano fatto. Imparai direttamente sul campo… Realizzai chi fosse Falcone solo dopo essere entrato in servizio, vedendo il sistema di protezione intorno a lui e, nonostante il pericolo, decisi di restare per due ragioni. La prima, perché mi ritrovai improvvisamente tra l’incudine e il martello e, quando te ne accorgi, sei già dentro. Solo “stando dentro” vieni a conoscenza di certe cose, tant’è che, se molli, per un qualsiasi motivo, e alla personalità succede qualcosa di grave, il primo a passare dei guai sei tu. La seconda, più umana se vogliamo, perché ti rendi conto della funzione che svolge quella persona nella società e del rischio che corre, non solo lui, ma anche gli altri che lo proteggono o che con lui collaborano. Umanamente, quindi, non me la sono sentita di mollarlo, perché vedevo che aveva bisogno di essere affiancato da persone di fiducia.” Giuseppe Costanza dal 1984 al 1992 fu l’unico conducente personale del Dott. Falcone, era sempre presente, tranne rare volte. Il 21 giugno del 1989, quando ci fu l’attentato, fortunatamente fallito, all’Addaura, Giuseppe Costanza era lì. Alla luce di quanto successo i suoi familiari volevano che lasciasse il posto, poiché era troppo pericoloso, ma lui non se la sentì di abbandonare il Dott. Falcone; e lo seguì anche quando, una settimana dopo, venne nominato Procuratore aggiunto. Giuseppe Costanza, in seguito al fallito attentato, decise di tenere un diario. C’è un parte del diario, che è contenuta nel libro di cui prima, che mi ha colpito maggiormente: l’8 novembre 1989 scrisse “[…] così, dopo cinque anni, mi ritrovo ancora con lui. Ogni uscita potrebbe essere l’ultima, senza che mi sia riconosciuto niente. Se succederà qualcosa, non voglio tutte quelle messinscene che si ripetono per ogni omicidio di Stato. Da morto, non mi servono. Da vivo, non mi riconoscete. Questa è ipocrisia!” Il 22 maggio 1992 il Dott. Falcone lo chiamò (quella fu l’ultima chiamata) a casa, di mattina presto, e gli disse che sarebbe arrivato l’indomani, ma riservandosi di comunicargli l’orario di arrivo in un secondo momento. Lui allertò nel frattempo il servizio scorta. Il giorno della strage, il 23 maggio, alle sette, Giuseppe Costanza va a prendere l’auto di servizio in via Lo Jacono e si reca in tribunale. Chiama il Dott. Falcone e lui gli comunica che sarebbero arrivati alle 17.45, così lui richiama l’Ufficio scorte, comunicando al responsabile di turno l’orario.
Di seguito vi riporto direttamente il ricordo dello stesso Costanza, riportato nel libro, di quel maledetto 23 maggio 1992:  “Quel 23 maggio, era un sabato, andai a prendere la Croma bianca in via Lo Jacono, posteggiata come al solito dietro casa del Giudice e sorvegliata da agenti della Polizia. L’appuntamento con la scorta era alle 17.45 nell’aeroporto di Punta Raisi. Lungo la strada non notai nulla di sospetto, o quasi: una Fiat 131 blu posteggiata fuori della galleria di Isola delle Femmine, sull’altro lato dell’autostrada. Dentro non c’era nessuno. Arrivai alle 17.30 ed entrai con l’auto nella pista di atterraggio, dove erano appena arrivati anche gli agenti Antonio Montinaro (capo scorta), Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello, Angelo Corbo e Paolo Capuzza, con altre due Croma (una marrone e l’altra azzurra). Falcone e sua moglie atterrarono puntuali con un piccolo aereo, un Falcon 10 del Sisde, al che ci avvicinammo con le auto all’aereo. Non avevano valigie, perché dovevano restare solo un giorno. Lui teneva due borse, che ripose nel bagagliaio, ma notai che non aveva con sé il suo inseparabile computer. Ci salutammo con un cenno, dato che non amava i convenevoli. La moglie mi sorrise. Dato che lei soffriva di mal d’auto, salì davanti, al posto del passeggero. Falcone comunicò la direzione a Montinaro e si mise alla guida, com’era già accaduto altre volte. Quindi io mi sedetti dietro, al centro. Loro non allacciarono le cinture di sicurezza. Non lo facevano mai, anche per evitare ritardi in caso di fuga dall’abitacolo. Erano di buon umore. Per strada si parlava del più e del meno e del fatto che non c’erano stati segnali d’allarme in città. Lei guardava fuori, in silenzio. «Dottore, le ho comprato quella cosa», esclamai. «Eccole il resto». E presi dalla tasca 60.000 lire. La settimana prima, a Palermo, mi aveva chiesto di comprargli un cric per l’auto della moglie e mi aveva dato addirittura 90.000 lire. Prese i soldi, li infilò nella tasca della giacca e disse sorridendo: «Aveva un pensiero? Non poteva aspettare più?», come per voler dire che glieli avrei potuti restituire tempo dopo. Poi mi spiegò che la gita che avevamo in programma di fare insieme a Favignana, in occasione della mattanza dei tonni, era stata rinviata. La guida del Giudice era quella di un comune automobilista, andava ai 120/130 chilometri orari e non “copriva” la carreggiata, nel senso che non adottava la tecnica abituale di noi conducenti, quella cioè di tallonarsi lateralmente. La tecnica di occupare tutte le corsie dell’autostrada, compresa quella di emergenza, impedisce ad altri di intromettersi tra un’auto e l’altra; per cui, se quel giorno avessimo proceduto come di consueto, chi azionò la bomba avrebbe visto tre auto avanzare l’una accanto all’altra, e di certo saremmo stati tutti investiti in pieno dall’esplosione. Falcone, invece, guidava normalmente e si teneva a distanza di sicurezza dalla prima Croma, quella marrone, mentre quella azzurra, a sua volta, stava più lontana perché la sua guida, fondamentalmente, era imprevedibile. Poi ci fu il “fatto” delle chiavi. Mi disse che, appena arrivato a casa, aveva un incontro con dei colleghi riguardante la Direzione nazionale, per cui mi chiese di accompagnare la moglie su a casa e che lui avrebbe continuato da solo, con la scorta. «Mi venga a prendere lunedì mattina a casa alle sette», concluse. Non che ci fossero motivi particolari, semplicemente ebbe la cortesia di lasciarmi il tempo per organizzare il ricevimento per la comunione di mio figlio Alessandro, che si sarebbe tenuto il giorno dopo. Dato che i mazzi di chiavi erano due (una copia la teneva lui e l’altra io) e che le mie in quel momento erano attaccate al cruscotto, dissi: «Allora, quando arriviamo a casa, mi dia il mio mazzo di chiavi, così lunedì posso riprendermi la macchina». Non so perché, forse era soprappensiero, fatto sta che, in un attimo, sfilo il mazzo di chiavi dal cruscotto, mise la mano nell’altra tasca della giacca, prese il suo mazzo, lo infilò nel cruscotto e riaccese l’auto, ancora in trazione. In quell’istante, l’auto si spense e rallentò perché la marcia inserita era la quarta. «Ma che fa?», urlai, «così ci andiamo ad ammazzare!». Lui, girando il capo verso la moglie, che annuiva stupita, disse: «Scusi, scusi!». Vedo il cartello autostradale dello svincolo di Capaci e poi un lampo. Dopodiché, il nulla. Escludo categoricamente che volesse farci uno scherzo, anzi sono certo che in quel momento non fosse lì con la testa, forse perché stava pensando alla riunione. Il fatto di aver sfilato le chiavi provocò lo spegnimento immediato del motore, facendo rallentare l’auto quel poco sufficiente per salvarmi la vita, perché, se non l’avesse fatto, la bomba sarebbe detonata proprio sotto di noi. Esplose, invece, sotto la prima Croma, quella che trasportava Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, scaraventandola a sessantadue metri di distanza e riducendola, sebbene fosse un mezzo blindato, in mille pezzi. Noi ci schiantammo contro un muro di terra, asfalto e cemento, e un’onda d’urto provocata da oltre cinquecento chili di tritolo. Gli agenti Cervello, Corbo e Capuzza, invece, che ci seguivano dentro la Croma azzurra, subirono un duro colpo, ma si salvarono, tant’è che accorsero subito in nostro aiuto.” Dopo qualche ora, quando arrivarono i soccorsi e lo presero, Giuseppe Costanza era svenuto e disteso tra i sedili anteriori e posteriori, nel centro della canaletta. Furono trasportati in elicottero al Pronto soccorso dell’ospedale Cervello. Falcone e la moglie erano ancora vivi. Dopodiché li trasferirono nel reparto di Neurochirurgia del Civico. Il Dott. Falcone e la Dott.ssa Morvillo morirono poche ore dopo in ospedale, i ragazzi della prima Croma, gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani morirono sul colpo, mentre si salvarono, pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali, lo stesso Giuseppe Costanza e gli agenti della terza Croma, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. A metà giugno Giuseppe Costanza viene dimesso dall’ospedale e il 26 novembre dello stesso anno venne insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione:  “Fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone, dal quale non aveva voluto mai separarsi, pur consapevole del gravissimo rischio cui si esponeva in ragione del suo incarico, continuava a svolgere le mansioni di autista con attaccamento al dovere, altruismo e grande coraggio. Coinvolto, a bordo dell’auto di servizio, nel feroce e proditorio agguato di stampo mafioso nel quale perdevano la vita il magistrato e la consorte, sfuggiva fortunosamente alla morte rimanendo gravemente ferito. Splendido esempio di elette virtù civiche e di nobile spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.”  Purtroppo, come è accaduto per gli altri sopravvissuti, anche Giuseppe Costanza venne abbandonato dalle istituzioni (e non solo), e solo dopo suoi innumerevoli sollecitazioni e dopo lungi mesi, inviando anche una lettera al Presidente della Repubblica, gli vennero riconosciuti, a lui e alla sua famiglia, alcuni diritti che gli spettavano per legge. Dopo un periodo di aspettativa e una lunga riabilitazione rientrò in servizio nell’ottobre del 1993. Ma lo misero a fare fotocopie o a dividere documenti ai vari uffici. La mattina del 23 maggio 1994, amareggiato dalle tante, troppe delusioni che aveva subito in quei due anni successivi alla strage si incatenò alla cancellata del tribunale di Palermo, con un cartello appeso al collo sul quale c’era scritto: «Vittima della mafia e dello Stato». Giuseppe Costanza ricorda che: “Mentre là sotto, nell’aula-bunker, si ricordavano i caduti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, io, sopravvissuto a una di queste, ero fuori a protestare. Arrivò tanta gente: funzionari, colleghi e giornalisti ai quali rilasciai delle dichiarazioni. Mi fece eco Giovanni Paparcuri dicendo: «Ha ragione. Anch’io, da anni, mi occupo del Servizio informatico della Direzione distrettuale antimafia ed ho la semplice qualifica di autista». Dopo un po’, mi raggiunse Maiorca, con un cellulare. Dall’altra parte c’era Caselli, al quale chiesi di essere ricevuto dal ministro della Giustizia Biondi, in visita quel giorno a Palermo. Acconsentì. Mi sciolsi dalle catene e mi recai in Prefettura, dove più tardi parlai con Biondi. Da lui ottenni la promessa che la questione dei sopravvissuti civili sarebbe stata portata in Consiglio dei ministri. Quel gesto fu una vittoria e una mortificazione al tempo stesso. Una vittoria perché, nonostante mi avessero messo i bastoni tra le ruote, riuscii a ottenere l’attenzione che speravo e, anni dopo, ciò che mi spettava; ma fu anche una mortificazione per il modo in cui dovetti agire. Incatenarmi in una pubblica piazza per rivendicare un diritto…” Il 19 febbraio del 1995 Giuseppe Costanza consegue il diploma presso l’istituto tecnico commerciale Jacques Maritain. Il 21 marzo partecipa alla prova di dattilografia e, finalmente, a fine marzo viene trasferito al Cei dove svolge compiti di assistenza informatica. L’11 maggio dello stesso anno viene formalmente retrocesso a commesso e sarà riassegnato al livello precedente e qualificato retroattivamente come dattilografo, sempre dopo le sollecitazioni dello stesso Costanza, soltanto nel 1998, dopo 3 anni! In questi anni Giuseppe Costanza è stato abbandonato da tutti, in primis dalle istituzioni, né ha subite tante, come è accaduto purtroppo a tutti i sopravvissuti. Io in questo post ho scritto solo alcune cose. Post, ci tengo a sottolineare, che non avrei potuto scrivere senza consultare il libro “Stato di abbandono – Il racconto di Giuseppe Costanza: uomo di fiducia di Giovanni Falcone”, che vi consiglio di leggere. Da quel maledetto 23 maggio ha dovuto lottare per vedere affermare dei propri diritti. Come ha detto lui stesso in questi anni, è stato abbandonato dallo stato e non solo. La prima volta in cui è stato invitato a commemorare l’anniversario della strage è stato nel 2014, da parte della Scuola di formazione del Corpo di Polizia penitenziaria di Roma. Soltanto dal 2015 è spesso invitato in qualità di ospite d’onore da funzionari di Stato, docenti, giornalisti, esponenti delle Forze dell’Ordine, delle imprese e dell’associazionismo per raccontare la sua storia in tutta Italia.  Giuseppe Peppino Costanza è un grande uomo, che conscio del grande pericolo non si è mai tirato indietro, ha sempre seguito il Giudice Falcone e non lo ha mai abbandonato. Io ho letto tutto il libro di cui parlavo prima e ci sono stati momenti in cui mi sono emozionato, il racconto di Giuseppe Costanza è qualcosa di indescrivibile. In questi anni è stato abbandonato dallo stato, è diventato quasi un peso…lo so che può essere poca cosa, ma io non lo dimenticherò mai, ricorderò sempre il suo sacrificio giornaliero, il suo essere vittima se pur sopravvissuto, perché lui in quel pezzo di autostrada ha perso parte della vita e ci sono delle ferite che non si rimargineranno mai, quelle dall’anima. GRAZIE GIUSEPPE COSTANZA!!  


ANGELO CORBO nacque a Palermo il 3 luglio del 1965. Frequentò la scuola elementare “Edmondo De Amicis” e la scuola media “Principessa Elena di Napoli”. I suoi genitori, originari di Canicattì, temevano l’ambiente palermitano e tendevano ad “isolarlo”, ma al tempo stesso lo educarono a rigorosi valori morali e di legalità. Divenne agente di polizia nel 1987; durante un incontro con gli studenti della scuola media Salvemini-La Pira di Montemurlo ricorda il perché di quella scelta: “L’ho fatto per Claudio Domino, un bambino di 11 anni, ucciso dalla mafia perché forse aveva visto qualcosa che non doveva. Conoscevo bene questo bambino, figlio di un negoziante, con il quale ero solito giocare. Entrare in polizia significava dare qualcosa di concreto al mio ideale, cercare di portare la mia città a ritrovare dignità in quegli anni di piombo”. L’agente Corbo fu prima assegnato a sorvegliare l’abitazione di Sergio Mattarella. Successivamente, nel 1990 entrò a far parte della scorta del Giudice Giovanni Falcone. In un’intervista, rilasciata a “Il Tirreno”, ricorda proprio quel momento in cui entrò a far parte della scorta del Dott. Falcone: “Entrare in un servizio scorta non è una scelta che si fa a priori, ti viene chiesto. Io accettai subito di entrare nella scorta del giudice Falcone, perché per me lui era, anzi è, un’icona. Ma prendendo quella decisione, pur sapendo di non essere preparati adeguatamente, si ha la consapevolezza che si deve rinunciare alla propria vita privata. Sono scelte difficili, ma io ero orgoglioso di esserci.” Quel maledetto 23 maggio del 1992 Angelo Corbo è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Le auto si trovano all’altezza dello svincolo per Capaci, quando alle 17:58 un’esplosione li travolse. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Angelo Corbo, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. L’agente Angelo Corbo, durante l’udienza del 19 settembre 1995, ricorderà così quel tragico giorno: “Ho sentito solamente un grosso botto, uno spostamento d’aria, una deflagrazione e mi sono sentito solamente catapultare in avanti. Dopo l’esplosione con grossa difficoltà si è cercato di uscire dalla macchina, perché purtroppo eravamo anche pieni di detriti, di massi. Quindi con difficolta’ ho cercato di uscire dalla macchina. Niente, già uscendo si era capito della gravità della situazione perché la voragine purtroppo era ben visibile. Ci siamo avvicinati e mi sono avvicinato con gli altri alla macchina del dott. Falcone mettendoci intorno per non fare avvicinare o per controllare la situazione, e anche per non far sì che c’era magari qualche altra persona che si stava avvicinando all’autovettura sulla quale viaggiava il dott. Falcone, che era praticamente in bilico a quel cratere con la parte anteriore che sembrava mancante o potrebbe essere stata coperta da detriti. Dopodiché visto che non che non riuscivano ad uscire la persona del dott. Falcone e della dott.ssa Morvillo, abbiamo cercato insieme a delle persone che poi sono sopraggiunte di estrarre, appunto, il dott. Falcone e la dott.ssa Morvillo. Mi ricordo che non si riusciva ad aprire gli sportelli, specialmente quello del dott. Falcone che era bloccato. Dalla parte della dott.ssa Morvillo invece c’era questo vetro che si era riuscito a sradicare, infatti insieme ad altre persone si era proprio presa la dott.ssa Morvillo e uscita dall’abitacolo della macchina. Invece il dott. Falcone purtroppo non si riusciva ad aprire questo sportello. Fra l’altro poi la macchina stava anche prendendo fuoco, quindi c’era stato anche un cercare di spegnere questo principio d’incendio. Il dott. Falcone era in vita, ecco non so dire se era cosciente, chiaramente, perche’ purtroppo con il vetro blindato non si sentiva neanche un gemito, un qualche cosa, comunque era in vita. Addirittura si era pure rivolto verso di noi guardandoci, pero’, ecco, purtroppo noi eravamo impossibilitati ad un immediato soccorso. L’autista Costanza era messo nel sedile posteriore, se mi ricordo bene era coricato di lato nell’abitacolo della macchina.” Dopo la strage di Capaci, Angelo Corbo ottenne il trasferimento alla polizia scientifica. Angelo Corbo in un intervista, rilasciata al giornalista Paolo Borrometi, spiega cosa significa essere sopravvissuti: “L’essere sopravvissuti e’ stata una colpa. Sappiamo tutti quanti che per lo Stato fa piu’ piacere che, in casi del genere, non ci siano sopravvissuti, testimoni. Sembra quasi che lo Stato e le istituzioni vogliano nascondere di aver sbagliato, perche’ se noi siamo rimasti vivi hanno sbagliato. Il problema, comunque, e’ che noi ci sentiamo in colpa perche’ siamo vivi, mentre i nostri colleghi e la persona che dovevamo proteggere sono morti… Mai invitati e anche quest’anno, a 25 anni da Capaci, nessuno di noi ha ricevuto una telefonata per chiederci di partecipare a quelle che definiamo le ‘Falconiadi’, delle vere e proprie sfilate… Di noi non le e’ mai fregato nulla (riferendosi a Maria Falcone, sorella del Giudice Falcone). Non si e’ mai degnata di considerarci, e dire che siamo state le ultime persone che hanno visto in vita il fratello. E’ giusto che lei faccia di tutto per ricordare il fratello, ma dovremmo avere sempre presente che all’epoca fu abbandonato da tutti. Non potro’ mai scordare come in quegli anni il dottor Falcone venne denigrato e ostacolato in tutto, perche’ era diventato un personaggio scomodo: veniva trattato come una pezza da piedi. Oggi, invece, viene celebrato da persone che amici suoi sicuramente non lo erano e anche lei, Maria Falcone oggi ha accanto persone che tutto erano fuorche’ amici del dottore”. L’agente Angelo Corbo è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.” Quirinale Angelo Corbo ha pubblicato, nel 2016, il libro “Strage di Capaci. Paradossi, omissioni e altre dimenticanze”. Attualmente prosegue la battaglia contro la mafia parlando ai ragazzi delle scuole. Per non dimenticare mai la storia di Angelo Corbo, che con dedizione e alto senso del dovere ha servito lo Stato e protetto il Dott. Falcone, senza mai tirarsi indietro! Purtroppo Angelo Corbo viene spesso dimenticato, non menzionato, così come tutti quelli che sono sopravvissuti a delle stragi di mafia! È una cosa inaccettabile, anche loro rischiavano la vita ogni giorni, anche loro non si sono mai tirati indietro!! GRAZIE ANGELO CORBO


PAOLO CAPUZZA  è un Agente Scelto della Polizia di Stato. Quel maledetto 23 maggio del 1992 anche Paolo Capuzza è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Erano le 17:58 quando, all’altezza dello svincolo per Capaci, e un’esplosione li travolse. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Paolo Capuzza, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. Paolo Capuzza, sentito all’udienza del 9 ottobre 1995, ricorda così i primi momenti successivi a quella maledetta strage: «Io ero rivolto, diciamo, un po’ nella sedia della parte destra e guardavo un po’ sulla destra ed il davanti, ed ho sentito un’esplosione ed un’ondata di caldo e’ arrivata, ed in quell’attimo mi sono girato nella parte anteriore dell’autovettura, per guardare cosa accadeva, ed ho visto l’asfalto che si alzava nel cielo. Poi mi sembra che l’autista abbia sterzato l’autovettura sul guardrail destro per evitare di andare addosso all’autovettura del dottor Falcone; poi, quando siamo scesi ci siamo accorti che ci siamo ritrovati dietro proprio l’autovettura del magistrato. Mentre eravamo all’interno dell’autovettura, si sentivano, ricadere sull’auto tutti i massi ed una nube nera, cioè non si vedeva niente, polvere e nube nera che non riuscivamo a vedere niente. Dopodiche’ siamo usciti dall’autovettura con le armi in pugno, io ho cercato di prendere l’M12 in dotazione, oltre che le pistole che avevo addosso, ma non sono riuscito a prenderlo, perche’ appunto la mano… non riusciva a tenerlo in mano, non lo riuscivo a prendere, insomma; e, quindi, ho preso la mia pistola di ordinanza. Siamo usciti dall’autovettura e per guardarci intorno, perche’ ci aspettavamo, come si dice, qualche colpo di grazia. Poi abbiamo visto la voragine che c’era davanti all’autovettura del dottor Falcone, alla quale mancava il vano motore completamente; poi c’erano delle fiamme ed abbiamo preso l’estintore che era sulla nostra autovettura e le abbiamo spente. Le fiamme erano proprio davanti l’autovettura del dottor Falcone, che era proprio sul limite del precipizio, diciamo, dove si era creata la voragine, perché non c’era piu’ il vano motore e… ci siamo guardati intorno per proteggere, appunto, ancora la personalità, perché mi sembra che il Cervello Gaspare, si’ Cervello, abbia chiamato per nome il dottor Falcone, il quale non ha risposto pero’ si e’ girato con la testa come… poi abbiamo aspettato i soccorsi e non abbiamo fatto avvicinare nessuno».Paolo Capuzza il 23 settembre 1992 è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.”Nonostante fosse a conoscenza del pericolo, così come gli altri agenti di scorta, Paolo Capuzza non si è mai tirato indietro, ha sempre difeso il Dott. Falcone. Mi dispiace solo che in questi 29 lunghi anni molti si sono dimenticati dei sopravvissuti, e quindi anche di Paolo Capuzza, che sono quelli che per ultimi hanno visto il volto del Dott. Falcone e della Dott.ssa Morvillo. Così come ho scritto negli altri post, io non li dimenticherò mai, loro quel giorno hanno perso degli amici oltre che dei colleghi, hanno lasciato un pezzo della loro vita in quell’autostrada e non vanno dimenticati. GRAZIE PAOLO CAPUZZA!


GASPARE CERVELLO è un agente scelto della Polizia di Stato. Quel maledetto 23 maggio del 1992 Gaspare Cervello è di turno. Insieme agli altri agenti, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Paolo Capuzza e Angelo Corbo, e all’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, devono andare a prendere il Dott. Falcone e la Dott. Morvillo che tornano da Roma. Appena sceso dall’aereo il Dott. Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza, si sedette sul sedile posteriore. La Croma marrone è guidata dall’agente Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro l’agente Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra ci sono gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Aprì il corteo la Croma marrone, a seguire la Croma bianca guidata dal giudice Falcone, e in coda la Croma azzurra. Le auto lasciarono l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione pareva tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Ad un tratto Angelo Corbo ricorda che Gaspare Cervello disse: “cazzo, perche’ rallenta cosi’ tanto?” (Riferito alla Croma bianca, quella guidata dal Dott. Falcone)*; in quel momento le auto si trovavano all’altezza dello svincolo per Capaci e un’esplosione li travolse: erano le 17:58. La Croma marrone è quella investita con maggior violenza dalla deflagrazione di quella spaventosa carica di più di 400 kg di tritolo. L’impatto è talmente forte da far sbalzare il corpo dei tre agenti, sotto un uliveto che si trova a più di dieci metri di distanza dal manto stradale: i tre agenti moriranno sul colpo. Qualche ora dopo moriranno a causa delle gravissime ferite riportate anche il Dott. Giovanni Falcone e sua moglie, la Dott.ssa Francesca Morvillo. La Croma azzurra, quella dove c’era anche Gaspare Cervello, è quella meno investita dalla deflagrazione. I tre agenti, Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, si salveranno pur riportando gravi ferite sia fisiche che morali. Così come l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.L’agente scelto Gaspare Cervello, durante la deposizione del 19 settembre 1995, ricorda così quel tragico giorno: “Dopo il rettilineo, diciamo, all’inserimento del bivio di Capaci, ho visto dopo una deflagrazione proprio gigantesca, un’esplosione che neanche il tempo di finire un’espressione tipica che non ho visto piu’ niente, non so che fine ha fatto la macchina, cosa ha fatto in quel momento la macchina; non so il tempo che ho trascorso svenuto dopo quella deflagrazione. Dopo che ho ripreso i sensi dentro la macchina stesso, vedevo che non potevo aprire lo sportello; con forza riesco ad aprirlo. Non faccio caso neanche ai colleghi se stavano bene, cioè se erano vivi; l’unica cosa del mio istinto era quello di uscire dalla macchina e recarmi direttamente nella macchina del giudice Falcone. Mentre mi avvicinavo alla macchina ho visto quella scena proprio straziante, di cui mi avvicino un poco sopra, perche’ poi c’era il terriccio dell’asfalto che proprio copriva la macchina; c’era soltanto il vetro, quindi anche se volevamo dare aiuto non potevamo. Niente, l’unica cosa che ho fatto è di chiamare il giudice Falcone: “Giovanni, Giovanni”, però lui si è voltato, però era uno sguardo ormai chiuso, abbandonato, perché aveva tutto il blocco della macchina davanti, aveva soltanto la testa diciamo libera; no libera, che muoveva, diciamo, per quegli attimi che io l’ho chiamato. La dottoressa era chinata verso avanti come l’autista Giuseppe Costanza, di cui la prima sensazione, quella mia: “Ormai tutti e tre non ce l’hanno fatta”, mentre la macchina davanti, non l’ho vista… Ho pensato che ce l’avevano fatta, ce l’avevano fatta, che erano andati via… ho pensato sono andati via per chiamare i soccorsi, perche’ noi via radio non potevamo dare piu’ niente perche’ la macchina nostra era anche distruttissima». In un intervista per lo speciale di SkyTG24 sui 20 anni della strage di Capaci, Gaspare Cervello, ripercorrendo gli istanti immediatamente successivi alla strage, dirà: “Mi sono avvicinato nel lato guida della macchina del magistrato e in quel momento non ho potuto costatare…non ho chiamato neanche “Giudice Falcone” ma ho chiamato “Giovanni, Giovanni”, e lui essendo tutto…il blocco motore, la parte del motore l’aveva tutta dentro di sé, aveva soltanto libera la parte della testa, perché tutto il resto era incastrato, fra il sedile e il motore, si è voltato guardandomi, però era uno sguardo ormai senza risposta.” Il 23 settembre del 1992 è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile, con la seguente motivazione: “Preposto al servizio di scorta del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei rischi personali connessi con la recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell’ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con alto senso del dovere e serena dedizione, rimanendo ferito in un feroce e proditorio agguato di stampo mafioso. Splendido esempio di non comune coraggio e grande spirito di sacrificio. Palermo, 23 maggio 1992.” All’agente scelto Gaspare Cervello va il mio GRAZIE, perché nonostante i pericoli che correva non si è mai tirato indietro, ha sempre protetto il Giudice Falcone fino all’ultimo, anche dopo l’esplosione, nonostante fosse ferito, ha cercato di proteggere il Giudice Falcone da eventuali altri attacchi (così come gli altri due agenti, Angelo Corbo e Paolo Capuzza). Purtroppo in questi anni è stato spesso dimenticato, come gli altri agenti che sono sopravvissuti, ma io non lo dimenticherò mai! GRAZIE GASPARE CERVELLO!! Purtroppo su Gaspare Cervello non ho trovato molto, se non le sue testimonianze nelle interviste o durante i processi. Mi è dispiaciuto veramente tanto non trovare informazioni sull’Agente Scelto Gaspare Cervello, in questi casi spero sempre che sia stato io a “cercare male”.