VIDEO Il racconto di un agente penitenziario
avendo gia` ordinato l’approvvigionamento e il trasporto di scaffali, macchine da scrivere, carta e tutto quanto era necessario per lavorare. Lı` restarono per circa due mesi, anche se Giovanni volle assolutamente rientrare a Palermo, anche per un solo giorno, al fine di partecipare alla commemorazione in occasione dell’anniversario della morte del consigliere Rocco Chinnici.”
Il ricordo di LUCIA BORSELLINO riportato sul libro di Umberto Lucentini “PAOLO BORSELLINO 1992 – … La verità negata”
Certo, adesso chi mi incontra si accorge che sto bene. Ma chiunque legga un libro di medicina scopre che dall’anoressia si può guarire solo se si trova la forza per farlo e che in seguito non ci si ricade più.
Ma se questa forza non la si trova, è una malattia che può durare per anni e portarti alla morte. I veri motivi che mi hanno indotto a non mangiare più li ho scoperti solo a vent’anni, dopo averne parlato tanto con mio padre. Mi sono resa conto che per me quell’estate appena iniziata è la prima da “donna”, e che la sto sacrificando perché la vita di mio padre è in pericolo. Sono sempre stata una ragazza timida,
Quell’anno, invece, sento che sto cambiando, sto per diventare grande. Mi sono creata un gruppo di amici nuovi, ho tanti progetti di gite al mare e di feste.
Qualche giorno dopo il delitto Cassarà, invece, mio padre mi chiama in disparte: “Lucia, prepariamo le valigie: domani dobbiamo partire”.
All’inizio la prendo come una notizia tutto sommato bella. Da mesi mio padre fa la vita da recluso in ufficio, tutta la famiglia non va in viaggio ormai da troppo tempo.
Non mi pongo, non ancora, il problema di quale sia la meta. Gli domando, per istinto: “Lo hai deciso tu? La mamma e i fratellini lo sanno?”. “No, Lucia, forse è meglio se lo dici tu”.
Solo allora, quando realizzo che nessuno sa del viaggio, capisco che è una partenza forzata. Mi ci vuole poco, d’altra parte: so della morte di Cassarà, un nome che mio padre ha pronunciato spesso a casa parlando del suo lavoro; sono tornati da poco dal Brasile, per un’indagine legata al maxiprocesso. E così collego la partenza a un serio pericolo per l’incolumità di mio padre.
Il pomeriggio, a poche ore dalla partenza, con la massima ingenuità, gli chiedo: “Posso fare almeno una spaghettata a casa per salutare i miei amici e dire loro che parto?”. Mi guarda con un’occhiataccia, sento il desiderio di sprofondare, non riesco a capire del tutto perché reagisce in quel modo. “È una risposta che ti darò fra un paio d’ore”, fa lui. Me lo spiega in seguito, perché ha preso tempo prima di darmi il permesso: deve chiedere l’autorizzazione a Roma, al ministero degli Interni, e al consigliere Caponnetto. Mentre io e lui parliamo della spaghettata, senza accorgercene, la casa di Villagrazia viene circondata da carabinieri e polizia in assetto di guerra.
Arriva anche un mezzo corazzato, sembra un carro armato. Resteranno lì anche dopo la nostra partenza. Certo, non è il giorno adatto per acconsentire a una festa, ma pur di non far pesare ancora di più i rischi del suo lavoro, mi dice di sì.
Lo slargo di fronte alla villa è zeppo di auto blindate, ogni ospite viene controllato, non è usuale per dei ragazzi che vanno a una festa. È tutto così strano anche per me: nella notte, dopo che i miei amici saranno andati a casa, partirò per una destinazione ignota, senza poter spiegare loro cosa mi sta succedendo.
Durante il viaggio papà spiega cos’è accaduto, rivela i timori legati all’esito dell’istruttoria del maxiprocesso, le minacce di morte contro di lui e contro noi familiari.
Su quell’aereo ci ritroviamo noi Borsellino, Giovanni Falcone con Francesca Morvillo e la madre».
La prima impressione è positiva.
Il mare, il sole, la compagnia dei miei genitori, dei loro amici. La foresteria dove alloggiamo è accogliente. Ma, dopo una settimana, sento l’inquietudine crescere.
Voglio stare sola, mi ritrovo a piangere di nascosto e in continuazione. Sono l’unica ragazza dell’isola, ho sedici anni, e nessuna amica con cui parlare.
Il disagio resta latente ancora per qualche giorno».
L’unica persona che vedo veramente rilassata e divertita, come non è mai accaduto prima, è proprio Giovanni.
Quando non lavora vuole divertirsi ogni secondo, cerca di fare tutto ciò che le inchieste e la vita blindata gli impediscono.
Fosse stato solo, avrebbe potuto rilassarsi, divertirsi un po’ anche lui.
Quante volte in vita mia mi sono pentita di quella passeggiata: nell’attimo in cui metto un piede fuori del giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati, cercando di non farsi vedere da noi. Mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.
«Falcone e Borsellino in esilio perché erano nel mirino dei clan»
La testimonianza di LUCIA BORSELLINO – VIDEO
Maxi processo alla mafia, quei giudici isolati all’Asinara. MANFREDI BORSELLINO racconta la storia del trasferimento forzato nell’isola dove il padre e Giovanni Falcone istruirono il maxi processo ai capi di Cosa Nostra
Ricordo di avere trascorso quasi un mese in una sorta di paradiso terrestre e di essermi sentito protetto come poche volte nella vita. Credo che questa sensazione fosse comune anche ai miei genitori e alle mie sorelle. Non avevo ancora compiuto 14 anni per cui, rispetto a Lucia, avvertii meno il peso di quella vacanza forzata, direi quasi di deportazione. É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».
Qual’era lo stato d’animo?
«Ci adattammo presto all’isolamento e capimmo che (allora) le istituzioni, soprattutto quelle romane, ci erano vicine. Mi piace ricordare la figura di Nino Caponnetto (il capo del pool antimafia, ndc), senza il quale quello che passerà alla storia come il maxiprocesso non si sarebbe mai celebrato. Ma soprattutto nostro padre e Giovanni Falcone avrebbero perso la vita già allora. Fu lui, infatti, a volere (e organizzare) fortemente quel tempestivo trasferimento sull’isola, proteggendo i due giudici come fossero suoi figli. Questa figura non è più esistita e chi nell’estate del 1992 avrebbe potuto – oltre che dovuto – adottare decisioni drastiche per salvare la vita a nostro padre e non solo, non le adottò ma non fece nulla perché altri le adottassero».
Accadde tutto in fretta, vi trovaste nell’insolita situazione di convivere in un’isola-carcere popolata anche di mafiosi…«É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».
Qual’era lo stato d’animo?
«Ci adattammo presto all’isolamento e capimmo che (allora) le istituzioni, soprattutto quelle romane, ci erano vicine. Mi piace ricordare la figura di Nino Caponnetto (il capo del pool antimafia, ndc), senza il quale quello che passerà alla storia come il maxiprocesso non si sarebbe mai celebrato. Ma soprattutto nostro padre e Giovanni Falcone avrebbero perso la vita già allora. Fu lui, infatti, a volere (e organizzare) fortemente quel tempestivo trasferimento sull’isola, proteggendo i due giudici come fossero suoi figli. Questa figura non è più esistita e chi nell’estate del 1992 avrebbe potuto – oltre che dovuto – adottare decisioni drastiche per salvare la vita a nostro padre e non solo, non le adottò ma non fece nulla perché altri le adottassero».
Suo padre e Falcone non presero bene quel trasferimento. Lo considerarono una perdita di tempo che poteva mettere a rischio il maxiprocesso. É vero?
«Mio padre all’inizio subì maggiormente quello spostamento improvviso, sapeva delle ripercussioni negative che avrebbe esercitato sulla primogenita e non avrebbe mai voluto strapparci ai nostri giochi e ai nostri amichetti. Con il passare dei giorni però si creò un clima speciale, ci sentivamo come a casa.
Il luogo d’improvviso ci sembrò familiare e accogliente. E questo grazie all’allora direttore del carcere Francesco Massidda e a un agente di custodia, un ragazzo allora, Gianmaria Deriu, che non smetteremo mai di ringraziare per l’amore, la spontaneità e la professionalità con cui si prese cura di tutti noi. Nascondendo i suoi stessi disagi derivanti dalla lontananza dalla famiglia».
Alla fine il meno triste fu proprio lei?
«Gianmaria mi fece conoscere il mondo delle motociclette, ci salii sopra per la prima volta, abbozzai qualche percorso. Ero un bambino (lo sono ancora oggi per certi versi) molto curioso, ogni giorno che trascorrevo su quell’isola per me era un giorno nuovo, mai uguale agli altri.
Ero affascinato dalla natura, dagli animali e dalla poca gente che l’abitava: persone semplici, schiette, che sul continente è difficile incrociare».
Non furono facili però quei giorni sull’isola-carcere, anche con Falcone…
«É vero, ma con Giovanni Falcone a parte qualche screzio iniziale vi fu un rapporto di complicità, tanto che mio padre si assentò per qualche giorno rientrando con Lucia a Palermo e lui sentì quasi di farne le veci. Giovanni forse non era abituato per così tanti giorni a dividere lo stesso tetto e convivere con dei bambini, penso che poche volte nella vita si sentì di fare parte di una famiglia allargata come in quell’estate».
Lo Stato presentò il conto del soggiorno, 415.800 lire , lo ricorda?
«Nostro padre ci scherzava sù, raccontava l’episodio con ironia. Non mi meraviglia se non chiese il rimborso. D’altra parte era solito pagare di tasca propria il carburante delle autovetture blindate di Stato che, tra l’altro, sovente guidava di persona non avvalendosi di autisti».
Due ricordi su tutti, il più bello e il più brutto che si porta dietro a distanza di trent’anni…
«Il più bello quando eravamo riuniti intorno ad un tavolo per pranzo e cena, regnava una grande armonia e pareva veramente che ci si fosse dati appuntamento in un paradiso terrestre. Un paradiso dei giusti. Il più brutto lo anticipo al momento in cui fummo prelevati dalla villa dei nonni materni per essere portati in aeroporto e partire poi per l’Asinara. Eravamo frastornati, i vicini di casa piangevano come se non ci dovessero mai più vedere.
Mio padre stesso, che pareva tenere sempre ogni situazione sotto controllo, lo vedevamo per la prima volta non padroneggiare l’evento. Insomma, brutti momenti, solo in parte compensati dai giorni che seguirono sull’isola». La Nuova Sardegna 8 .11.2015 Gianni Bazzoni
“ERA D’ESTATE”, IL FILM DI FIORELLA INFASCELLI CHE RACCONTA I 25 GIORNI TRASCORSI NEL 1985 DALLE FAMIGLIE DI PAOLO BORSELLINO E DI GIOVANNI FALCONE SULL’ISOLA DELL’ASINARA, UN TRASFERIMENTO AFFRETTATO PER RAGIONI DI SICUREZZA.
Manfredi Borsellino, ora commissario di polizia a Cefalù, allora era adolescente. Da quell’estate non è più tornato all’Asinara. “Purtroppo”, dice. “Perché so per certo che mi farebbe ripiombare in un momento della mia vita tanto drammatico quanto gioioso”.
Si è riconosciuto nel bambino Manfredi? “Mi sono riconosciuto in quel prendere la vita “dal verso giusto”, nel cogliere di quella stranissima e sorvegliatissima vacanza gli aspetti positivi. Ero consapevole delle ragioni per le quali ci trovavamo su quell’isola, ma ero altrettanto consapevole di vivere una esperienza unica, circondato dall’affetto e dalla protezione di istituzioni che, allora, avevano a cuore la vita di due dei loro servitori migliori”. Il film le ha evocato spunti di verità su quell’esperienza di convivenza forzata? “Era d’estate” è il film che meglio e più di tutti, ad esempio, indugia sul particolare rapporto tra nostro padre e Giovanni Falcone, anche sul rapporto tra quest’ultimo e me o tra mia madre e Francesca Morvillo, insomma ne esce fuori un quadro di famiglia allargata”. Ricorda il primo incontro con Falcone? “Lo conobbi all’inizio degli anni Ottanta, non avevo neanche 10 anni; ma i suoi tratti caratteriali più nascosti vennero fuori proprio durante quel soggiorno forzato all’Asinara, dove evidentemente proprio questa “famiglia allargata” lo portò ad essere assai diverso da quella persona austera che conoscevo “. È vicino alla realtà il legame bello tra lei e Falcone che si vede nel film? “Sì, posso dire che lui, durante quel breve periodo in cui mio padre si assentò per i primi problemi di salute di mia sorella, si affannò quasi a farmi da secondo padre, o da zio, risultando talvolta anche comico ai miei occhi ma terribilmente umano”. Borsellino e Falcone insieme, un’intesa, un sodalizio fortissimi. “Nostro padre, confortato dalla presenza di chi considerava un fratello, riusciva a tenere alto il morale di tutti, anche quello di Giovanni che talvolta “finiva sotto i tacchi”. Quei due insieme erano una forza della natura”. Lei ha scritto un racconto dallo stesso titolo del film. “Sì, “Era d’Estate” è il titolo di una raccolta di racconti di uomini e donne che in quella terribile estate del ’92 erano poco più che ventenni (Ed. Vittorietti, autori Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi). Tra questi c’è è anche il mio: credo rimarrà l’unica volta in cui ho trovato la forza di raccontare quei 57 giorni tra Capaci e Via d’Amelio, in cui lo Stato ha perso i suoi figli migliori e noi un padre meraviglioso che immaginavamo immortale”. Da La Repubblica
IL MOTORINO
Nell’Agosto del 1985 le famiglie Falcone e Borsellino, come tutti ricorderete, vennero “esiliate” all’Asinara, isola blindatissima, carcere di massima sicurezza quindi una botte di ferro. Però per ragazzi di 14,15,16 anni di sicuro era una noia mortale, bellissimo paesaggio ma nessun possibile divertimento; e così i divertimenti bisognava cercarseli.. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone lavoravano fino a tardi e di notte, perchè di giorno faceva molto caldo per cui il pomeriggio Falcone era solito schiacciare il suo riposino, dalle 14 alle 15/16 non c’era per nessuno. Un pomeriggio mentre stava sonnecchiando sentì- “Brrrrr,brrrrr,brrrr,bbrrrrbrrr,”. Un motorino sgangherato e smarmittato che passava e si fermava sotto la sua finestra accelerando per farsi sentire. Pensò fosse un caso. Alla sera a tavola, mentre erano tutti insieme,il giudice raccontò la cosa- “Non ho potuto chiudere occhio..c’è uno che si è divertito a passarmi sotto la finestra con un motorino e accelerava, per me la fa apposta..”. Sentendo ciò Paolo Borsellino, sotto al tavolo, dava calci a Manfredi nelle gambe, e questi si tratteneva a stento dal ridere…Continuò sta tiritera col motorino per qualche giorno ma Falcone si era già accorto che si trattava di Manfredi e l’aveva “dolcemente” rimproverato.. Ma niente, Manfredi, indomito, continuava a passare e spassare sotto la finestra. Così, la sera, i calci sotto al tavolo glieli dava Falcone perchè Manfredi, al padre, aveva promesso che non si sarebbe ripetuto e il giudice non voleva che l’amico si accorgesse che il figlio gli aveva disobbedito. Si era creata una complicità tra Falcone e Manfredi, impazziva per Manfredi…lo adorava. Però il motorino ad un certo punto sparì. Va beh che lo adorava ma aveva pur bisogno di riposare. Chissà chi fu a farlo sparire. Fatto sta che sull’Isola quel motorino non si trovò più e pensare che era piccola e con un carcere di massima sicurezza. E questo è parte di quell’episodio che la signora Agnese raccontò nel suo libro. “Fino a quando, una mattina, Manfredi si alzò e non trovò più il suo cavallo di battaglia. Che risate, Giovanni e Paolo. Credo che in quei mesi caldissimi Giovanni realizzò anche un piccolo sogno: Manfredi diventò il figlio che non aveva mai avuto. Giocavano spesso, a pranzo si davano persino i calci sotto il tavolo. Sembravano due fratellini monelli. Manfredi non rinunciò comunque a fare le sue indagini per ritrovare il motorino: convocò addirittura gli agenti della scorta e quelli della polizia penitenziaria che stavano a guardia dell’isola, chiese ai familiari. Ma niente. Sospettò persino che la moto fosse finita in mare. Quasi sento le sue voci di protesta. E sento Giovanni che lo prende in giro, mentre Paolo sorride.” La fine di quel motorino non la conosceremo mai.
FIAMMETTA BORSELLINO: “La mia vita all’ASINARA”
Che percezione avevate del pericolo derivante dalle attività di suo padre?
“Certo sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.
Dall’8 al 30 agosto 1985 Falcone e Borsellino furono portati coattivamente assieme alle famiglie sull’isola-penitenziario dell’Asinara perché suo padre e Falcone dovevano preparare la requisitoria per il maxi-processo a Cosa Nostra. Come avete vissuto quel periodo?
“Sia mio padre che Giovanni Falcone hanno vissuto quel periodo attraversando stati d’animo diversi: eravamo lì perché loro dovevano istituire il maxi processo, il processo più grande realizzato in Italia sino ad allora e quindi c’era una mole di lavoro da fare che richiedeva un grandissimo impegno.
I primi giorni in cui siamo arrivati all’Asinara attendevano ancora che arrivassero gli incartamenti e ricordo che si sentivano come dei leoni in gabbia, impotenti, sentivano di avere le mani legate senza poter far nulla, ma sono stati anche i giorni in cui si sono goduti una sorta di “vacanza obbligata”, forse almeno per qualche ora, da quello che era diventato il loro obiettivo primario.
Quando arrivarono i faldoni invece si gettarono anima e corpo su quegli incartamenti e furono totalmente assorbiti da tutto ciò che comportarono.
Per quanto riguarda noi familiari, sicuramente mia mamma, mio fratello Manfredi e mia sorella Lucia avranno avuto una percezione diversa rispetto a me che ero più piccola, ma ad ogni modo la percezione di pericolo si avvertiva.
Il 6 agosto 1985 i corleonesi avevano ucciso a Palermo Ninni Cassarà, vicecapo della Squadra Mobile e capo della sezione investigativa. Più di un collaboratore prezioso per mio padre e per Falcone.
Da quella tragedia in poi il loro lavoro all’Asinara proseguì con un altro ritmo”. Tratto da intervista del 30.5.2021 del Giornale
L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara
Salire su un aereo per lui è un incubo. Si affida sempre a riti scaramantici. Sono in quattro, in Brasile. C’è Falcone. C’è il sostituto procuratore Giuseppe Ayala e c’è anche Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della squadra mobile.
La sentenza ordinanza del maxi processo nell’estate del 1985 è quasi conclusa. Ma, a pochi mesi dall’inizio del dibattimento, Ninni Cassarà muore ammazzato. Una settimana prima hanno ucciso anche Giuseppe Montana, il suo collega che dà la caccia ai latitanti.
Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone.
I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Borsellino, la moglie Agnese, i tre figli. Falcone, la compagna Francesca e la madre di lei. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. Li rinchiudono in un carcere di massima sicurezza. Sono al sicuro soltanto in mezzo al mare.
La tragedia pubblica di Palermo per Paolo Borsellino è anche una grande tragedia privata.
Lucia, la figlia più grande, si ammala. Non mangia più. Da molti mesi è scivolata in un malessere profondo. È una ragazzina, la vita blindata del padre la sta devastando. La sera prima dell’Asinara, nella loro casa sul mare di Villagrazia irrompono all’improvviso gli agenti dei corpi speciali. C’è anche un mezzo blindato per trasportare la famiglia Borsellino fino all’aeroporto.Dal libro “Uomini Soli” di Attilio Bolzoni
La famiglia BORSELLINO
FILM
I protagonisti sono interpretati da Massimo Popolizio e Giuseppe Fiorello, rispettivamente nei ruoli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È stato girato all’Asinara nei luoghi dove avvennero i fatti. Asinara, estate 1985. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono trasferiti sull’Asinara, un’isola nel mar di Sardegna insieme alle loro famiglie. La situazione è più grave del solito poiché Cosa Nostra, date le indagini e gli imminenti processi e arresti di molti dei suoi componenti, minaccia di uccidere i due giudici e le loro famiglie. Falcone e Borsellino vivranno tutti i giorni isolati dal mondo esterno, sapendo di essere nel centro del mirino della Mafia. Ma il timore di Giovanni Falcone è quello di essere stati allontanati dall’ufficio per bloccare il processo che stanno istruendo. Tramite la collega Liliana Ferraro che garantisce, via mare, il contatto con la Procura di Palermo, dopo un lungo braccio di ferro, riescono a ottenere finalmente le carte del maxiprocesso su cui stavano lavorando. Dei figli di Paolo Borsellino soltanto la più grande, Lucia, non accetta la situazione fino a essere ricoverata in ospedale. Mentre il fratello Manfredi, allontanandosi furtivamente lungo una scogliera, risalendola trova un gruppo di detenuti presso cui viene successivamente rintracciato proprio da Falcone. Quest’ultimo in un momento in cui, violando il regolamento per una seconda volta, si reca in paese per prendere un caffè, viene scambiato dal barista per il collega. Poco dopo aver ottenuto le carte e cominciato alacremente a lavorare, possono far ritorno a Palermo.
Quando Falcone e Borsellino pagarono il conto all’Asinara: “Raffaele Cutolo la sera cantava canzoni napoletane”
Ricordando la strage di via D’Amelio. L’estate di lavoro “obbligato” all’Asinara di Borsellino e Falcone.
Dove, nel 1994, verrà portato Totò Riina, subito dopo l’arresto. In questo 19 luglio, 24 anni dopo la strage di via D’Amelio, è bello pensare che chi si trova a passare da Cala d’Oliva si fermi un attimo a ricordare quei due uomini soli, costretti a portare avanti un compito immane e fatale in uno scenario da sogno, dove oggi ci si rilassa e si prende il sole, sforzandosi al massimo di sfogliare qualche rivista. Alla fine, lo Stato presentò pure il conto del soggiorno. Come a due turisti qualsiasi. “Pagammo, noi e i familiari – ricordò Borsellino – diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, avevamo cose più importanti da fare”. MARCO BIROLINI Avvenire
Ritorno all’Asinara 37 anni dopo: Borsellino, il viaggio del ricordo
Il figlio Manfredi è tornato nei luoghi che nel 1985 accolsero il padre e Giovanni Falcone
Porto Torres La prima volta 37 anni fa, era un ragazzino, aveva 13 anni. Un viaggio improvviso, un soggiorno imposto perchè in quell’estate del 1985 – era agosto come oggi – si doveva fare subito qualcosa per tutelare i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, minacciati di morte dalla mafia mentre scrivevano l’ordinanza del primo vero maxi-processo a Cosa nostra. Non c’era tempo per pensare alle ripercussioni negative per i familiari. E poi era importante restare uniti, insieme.
Oggi Manfredi Borsellino, commissario della polizia di Stato, ha deciso di tornare all’Asinara e lo ha fatto nel trentennale della morte di suo padre e di quello “zio” acquisito che è stato Giovanni Falcone. È arrivato con il suo stile, in silenzio, per fare conoscere alla moglie e ai tre figli (il maschio che porta il nome del nonno Paolo, e le due ragazze) gli spazi che furono utilizzati dal nonno, da Falcone e da tutto il gruppo familiare. «Ma questa era la mia stanza, qui dormivo io. Il corridoio me lo ricordavo più lungo»: sono state le prime parole appena entrato nella foresteria, la casa rossa di Cala d’Oliva, oggi stazione del corpo forestale dell’Asinara e intitolata ai due giudici.
È il momento forse più emozionante della visita al Parco nazionale sede di ricordi mai rimossi e simbolo della lotta per i diritti e la legalità, così come avrebbero voluto Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Manfredi si muove come una persona che torna a casa dopo una lunga assenza, guarda, prova a immaginare i luoghi, i profumi, i colori di allora. E ritrova Gianmaria Deriu, ex ispettore della polizia penitenziaria e oggi collaboratore del Parco nazionale, un po’ il cuore e l’anima di un ambiente originale, perchè le bellezze ci sono anche da altre parti ma sono le storie, gli esempi e le vite – quelle che restano per sempre – che fanno la differenza. Va avanti il figlio di Paolo Borsellino, entra nella grande stanza dove si mangiava tutti insieme, esce sul terrazzo dove i due giudici amavano fumare e dove si spostavano per discutere di qualche fascicolo delicato.
Sorride Gianmaria Deriu, nasconde a fatica l’emozione per un incontro annunciato e che ha avuto bisogno dei suoi tempi per essere realizzato. «Ero fresco di corso sottufficiali – racconta – quando mi assegnarono a seguire i giudici e i loro familiari. Manfredi aveva 13 anni e l’esuberanza di un adolescente che voleva scoprire un luogo affascinante e misterioso come l’Asinara. Mi faceva domande a raffica, chiedeva di ogni cosa». È rimasto legato all’isola Manfredi, ma non aveva avuto finora la forza di tornare. Bisognava elaborare un percorso e il momento è arrivato in questi giorni. Insieme a Gianmaria Deriu hanno ripercorso i momenti di 37 anni fa, storie e aneddoti sul filo dei ricordi, episodi che hanno trasmesso commozione e regalato qualche sorriso. Il pensiero va alla dolcezza di mamma Agnese affacciata alla finestra sul mare e la sensibilità delle sorelle Fiammetta e Lucia. Alle pareti le foto, i lavori dei ragazzi, i pensieri (anche i suoi diventati patrimonio di tutti).
Fuori, dall’altra parte c’è quella targa con una delle frasi di suo padre: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». La ammira con orgoglio. Si toglie gli occhiali, alza lo sguardo, spiega ai figli le immagini del piccolo museo dedicato al nonno e a Falcone: ci sono le foto del processo, il funerale del padre dove Manfredi si riconosce tra la folla, le emozioni scritte dai ragazzi della scuola Borgona di Porto Torres che avevano fatto una ricerca per Monumenti aperti. Poi il grande rammarico: non essere riuscito a riportare all’Asinara mamma Agnese perchè c’era una sorta di blocco emotivo che ha superato grazie alla moglie e ai figli. Infine la promessa: tornerà sull’isola e accompagnerà anche le due sorelle Lucia e Fiammetta. In fondo è anche casa loro. LA NUOVA SARDEGNA 8.8.2022