30 settembre 1992 Stessi killer per Falcone e Borsellino. Abbiamo le prove obiettive e soggettive che Scarantino è in galera per giusta causa, per concorso in strage».

 

Si apre una nuova pista dopo l’arresto dell’artificiere.

Per le cosche è un colpo durissimo. Sarebbe la prima volta che un esecutore materiale di una strage della mafia viene individuato.
Gli inquirenti sono sicuri della sua colpevolezza e così ora Vincenzo Scarantino, 27 anni, è formalmente incriminato per concorso nella strage di via D’Amelio in cui il 19 luglio furono assassinati nell’esplosione di oltre 70 chilogrammi di tritolo Paolo Borsellino e cinque dei sei agenti della scorta. Già da domenica nel carcere di San Cataldo, a dieci chilometri da Caltanissetta, epicentro dell’inchiesta, Scarantino s’è visto convalidare l’arresto dal gip Salvatore Bongiorno, arresto chiesto prima dalla polizia di Palermo e poi dalla direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta.
Furiosa la madre del giovane, Giuseppa De Lisi, che a Palermo respingendo cronisti, fotografi e teleoperatori che bussavano alla sua porta nella borgata della Guadagna ha urlato: «Vincenzo è innocente».
La notizia del clamoroso sviluppo nelle indagini era circolata con insistenza già lunedì.
Gli inquirenti avevano provato a farla passare sotto silenzio perché il capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera aveva chiesto 24 ore di tempo per mettere le manette anche a un complice di Scarantino, quello che forse azionò il congegno da una distanza di circa 300 metri, provocando la strage. Ma quest’ulteriore passo in avanti non c’è stato e allora il procuratore della Repubblica Giovanni Tinebra ieri mattina in un’affollata conferenza stampa ha comunicato che «è stato con- seguito un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori materiali della strage di via D’Amelio». «Ci siamo riusciti – ha aggiunto – con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori che hanno lavorato in sintonia».
Il procuratore subito dopo ha confermato che Scarantino potrebbe essere interrogato oggi e ha ammesso che al giovane si è risaliti grazie a dichiarazioni verbalizzate. Di chi? A questa domanda Tinebra non ha volutamente risposto, appellandosi al segreto istruttorio.
A tutti comunque, è apparso chiaro che il nome di Scarantino è stato fatto da uno, due o tutti e tre i giovani arrestati il mese scorso per il furto della Fiat 126 poi riempita di plastico e fatta saltare in via D’Amelio. L’utilitaria l’avrebbero fornita a Scarantino proprio loro tre: Luciano e Roberto Valenti, di 28 e 20 anni, malgrado quasi coetanei, zio e nipote, e Salvatore Candura, di 31. Denunciati da una vetrinista di 26 anni, Cinzia, che il 29 luglio li accusò di averla drogata e seviziata, i due Valenti e Candura sono finiti nei guai anche per il furto della 126 di Pietrina Valenti, cugina di Roberto e Luciano.
La vettura, il 18 luglio, era in un’officina per un guasto. Era sabato, il meccanico aveva chiuso nel primo pomeriggio. Il furto fu roba da ragazzi. Il dottor La Barbera entrò in fibrillazione quando, attraverso il numero di telaio della 126, i suoi collaboratori scoprirono che la vettura era stata rubata il giorno prima della strage. Dunque un furto su commissione.
I tre sarebbero stati in buona fede, convinti di aver fornito un motore in buone condizioni in cambio di uno «fuso» di un amico, secondo quanto detto loro dal «ricettatore» che sarebbe appunto Vincenzo Scarantino il cui nome sarebbe stato infine fatto durante un confronto tesissimo fra i tre arrestati per violenza carnale e furto, tre balordi di borgata.
Gli investigatori sono convinti che, mentre i due Valenti e Candura ignoravano cosa sarebbe servita la 126, Scarantino ne era a conoscenza.
Vi sarebbero poi alcune compromettenti intercettazioni telefoniche e altre prove, le stesse alle quali il procuratore Tinebra si è richiamato nell’incontro, ieri, a Palazzo di Giustizia: (Abbiamo le prove obiettive e soggettive che Scarantino è in galera per giusta causa, per concorso in strage».
Tinebra si è anche richiamato alla possibilità che mandanti ed esecutori materiali siano gli stessi della strage del 23 maggio in cui, nei pressi dello svincolo di Capaci, sull’autostrada Trapani-Palermo, morirono dilaniati, in un’altra esplosione comandata a distanza, Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. «Stessa regia, unico disegno.
I punti di contatto sono tali e tanti ha osservato il procuratore – che, pur senza ancora poterlo provare processualmente, è possibile darlo come un elemento quasi acquisito». E a chi gli ha domandato se non ritenga improbabile che in un’azione così impegnativa difficilmente la mafia sarebbe ricorsa a un (poveraccio» come Scarantino, il magistrato ha replicato: «Se si guarda ai fatti più gravi degli ultimi anni, fino a un certo livello c’è il coinvolgimento di determinati elementi, ma per alcune incombenze si è fatto ricorso alla manovalanza».
E a sostenere l’ipotesi accusatoria dei «grandi nomi» delle cosche, i sostituti procuratori Giordano, Vaccara e Petralia che affiancano Tinebra, pur con parole diverse, sono ricorsi all’identica valutazione: delitti come quelli di Falcone e Borsellino non possono che essere organizzati dal vertice. Antonio Ravidà LA STAMPA