Una denuncia clamorosa sulle stragi è caduta nel nulla. Riporto i dati salienti – Il Fatto Quotidiano
Pippo Giordano – 4
Clamorosa rivelazione nel video dal titolo: Bongiovanni: “La Cia e gli Stati Uniti d’America dietro tutte le stragi italiane”. Nemmeno l’attento e scrupoloso mio corregionale Leonardo Sciascia, – esperto conoscitore di cose di Cosa nostra – avrebbe previsto una selva di notizie capaci di cambiare totalmente, quel che i processi sulla Strage di Capaci, sinora ci hanno fatto conoscere.
In questi giorni, attraverso il video, sono state disvelate notizie che potrebbero dar la stura a nuove investigazioni per far luce – appunto – su quell’alone di mistero che regna sulla strage di Capaci, ma non solo: ammesso che di mistero si tratti. Il 27 maggio scorso, durante la cerimonia in ricordo della strage di via dei Georgofili a Firenze, tenutasi a Siena, uno degli oratori – noto giornalista antimafia, Giorgio Bongiovanni – ha riferito cose gravissime, che se fossero vere, potrebbero cambiare la storia delle strage compiute da Cosa nostra. La cosa anomala è che nessun organo di stampa, ha riportato la “denuncia” così forte e circostanziata. Riporto i dati salienti della summenzionata denuncia, peraltro condivisa con standing ovation dagli astanti. Il giornalista Bongiovanni, nel suo intervento, ha riferito due elementi nuovi: il primo riguarda il ruolo del noto mafioso Giuseppe Graviano; il secondo denuncia il fattivo ruolo e determinante degli americani nella strage di Capaci. Fornendo un dettaglio importantissimo, ovvero il coinvolgimento di agenti della Cia nella strage.
Ecco la denuncia: “I servizi segreti italiani sono controllati dalla CIA… è la CIA che opera in Italia, è la CIA che ha detto in una confidenza al criminologo palermitano, ‘noi eravamo a Capaci’. Poi – continua – dicendo: ‘Giuseppe Graviano non ha incontrato Dell’Utri e Berlusconi soltanto. Giuseppe Graviano, vestito a festa, ha girato l’angolo ed è andato all’Ambasciata americana perché Cosa nostra voleva garanzie se doveva uccidere cento carabinieri, cento carabinieri, non due, la strage più potente della storia d’Italia. Non è saltata la macchina. Cento carabinieri alla partita Roma-Udinese… altro che Dell’Utri o quello scemo di Berlusconi… ha girato l’angolo. Prima chiede garanzie all’Ambasciata’”.
Sin qui parte della denuncia di Bongiovanni.
C’è anche il signor Antonio Vassallo, il fotografo che intervenne dopo pochi minuti dalla strage di Capaci -, che da oltre 15 anni, anche nel 2023, afferma nel corso di interviste a giornali e tv, che la ventiquattrore di Giovanni Falcone, sarebbe stata fatta sparire immediatamente dopo la strage di Capaci, insieme alle agende. Lo stesso accosta il fatto, con le stesse modalità dell’Agenda rossa di Paolo Borsellino.
Le sue interviste contrastano in maniera inequivocabile con quanto affermato dall’ex procuratore Giammanco, che rispondendo al giornalista Rai, nell’immediatezza della strage disse: “Le borse di Falcone sono state ritrovate, repertate col suo contenuto e riposte nell’armadio blindato, per essere consegnate alla magistratura di Caltanissetta”. Più volte ho invitato Vassallo a pubblicare i documenti da dove trae il “furto” della ventiquattrore: ma non ho mai ricevuto risposta.
Concludo, invitando sia il giornalista Giorgio Bongiovanni, che Antonino Vassallo a varcare la soglia della procura della Repubblica di Caltanissettae presentare circostanziata denuncia su fatti in narrativa. Credo sia doveroso, per rispetto dei nostri martiri.
4 giugno 1992 Spettabile redazione de ilfattoquotidiano.it,
recentemente sono venuto a conoscenza che la vostra testata ha dato voce e spazio al Signor Giuseppe Giordano, ex ispettore dalla Dia ormai in pensione. Il Sig. Giordano, in un recente articolo del 4 Giugno pubblicato su un blog della vostra testata, mi ha messo in bocca delle affermazioni che io non ho mai detto: ovvero che a Capaci sia stata fatta sparire la borsa del Dottor Falcone,
affermando inoltre di avermi invitato a produrre le prove di quanto affermo e portarle in Procura.
Non ho mai affermato che la ventiquattro ore di Falcone sparì.
Ciò che racconto è della relazione di servizio del vice sovrintendente della Polizia di Stato Santo Catani che, arrivato sul luogo della strage e dopo essersi fatto riconoscere dagli agenti sopravvissuti, ricevette da questi ultimi la borsa di colore marrone del Magistrato per poi, a sua volta, consegnarla ad Arnaldo La Barbera, allora dirigente della prima sezione della squadra mobile: proprio La Barbera è stato il responsabile della creazione ad arte, per la strage di via D’Amelio, del finto collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino; proprio La Barbera è oggi pesantemente sospettato di gravi responsabilità per la sparizione dell’agenda Rossa del Dott. Paolo Borsellino. In quel caso fu incastrato da una foto il Capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, immortalato mentre la portava via. Inoltre smentisco l’affermazione del Sig. Giordano secondo cui egli mi avrebbe invitato più volte a produrre le prove di quanto racconto, visto che non ho mai ricevuto nessun messaggio, chiamata o invito da parte sua. Richiesta alla quale – per altro – non mi sarei sottratto, dedicandogli il mio tempo come faccio con tutti. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che io quella soglia del palazzo di giustizia di Caltanissetta l’ho varcata spontaneamente già nel 1992. Trovo però singolare che tra le tante, gravissime falle investigative che racconto, l’Ispettore Giordano si concentri soltanto su questo episodio della borsa che tira in ballo La Barbera. Era doveroso scrivervi queste righe a tutela della Verità, della mia persona e del vostro organo di informazione.
Antonio Vassallo
Gentile signor Vassallo.
Ciò che ho scritto e cioè che lei ha dichiarato che sparì la ventiquattrore del Dr. Falcone non l’ ho sognato.
Forse lei dimentica un dibattito di una diretta facebook poi riportata anche su YouTube.
Ecco i relativi link:
https://www.facebook.com/share/v/1AbwyjxywD/
Nel suo intervento asserisce, dal minuto 48, testualmente: “Nessuno ha mai raccontato che anche a Capaci è stata sottratta la ventiquattrore di Falcone che di agende ne conteneva due, non so di che colore ma ne conteneva due”. Cosa identica rilevo da un articolo online del 23 maggio scorso: https://www.compaesano.it/blog
All’ interno, in una sua intervista, dichiara: “Anche a Capaci è stata sottratta la ventiquattro ore di Falcone che conteneva due agende. Però non c’è una fotografia che lo documenta”. Sono sue dichiarazioni. Io non mi sognerei di mettere in bocca a chicchessia parole che non siano state proferite. Il mio invito, pubblicato nel mio articolo da lei citato, era chiaramente riferito a mostrare i documenti da cui si evince la sparizione della ventiquattrore del Dr. Falcone. Visto che in nessuno atto, nessuna sentenza, si evince ciò. Per cui sarebbe uno scoop da portare a conoscenza della procura di Caltanissetta.
VIDEO
Ore 17,58: il 23 maggio di Antonio Vassallo
Scritto da Francesco Cipriano COMPAESANO.IT
Alle 17,58 del 23 maggio 1992 Antonio Vassallo aveva 24 anni e si trovava sul terrazzo della sua abitazione a Capaci che dista 300 metri dall’autostrada. Ancora non poteva sapere che nel giro di qualche secondo un evento epocale gli avrebbe cambiato per sempre la vita. Antonio aveva iniziato il suo impegno quattro anni prima, quando con un gruppo di coetanei aveva fondato il “Gruppo 88”, un’associazione che tra un’attività ludica e una passeggiata in bicicletta sollevava i problemi che attagliavano la nostra comunità, come la speculazione edilizia che si stava mangiando il territorio.
“Eravamo un gruppo di ragazzi innamorati del nostro territorio, e in quanto innamorati lo difendevamo” dice Antonio, che per farsi intervistare mi accoglie nel suo studio fotografico sul corso principale di Capaci. Una passione, quella della fotografia, iniziata dopo la leva militare e divenuta ben presto un mestiere. E proprio una fotografia sarà al centro di una vicenda inquietante che avrà Antonio come protagonista.
Tutto inizia il 23 maggio 1992, alle 17,58, quando una carica di 500 chili di tritolo esplode, distruggendo un pezzo di A29 e uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Schifani, Montinaro e Dicillo.
A 32 anni dalla strage, Antonio Vassallo ha raccontato a Compaesano la sua testimonianza del 23 maggio.
“Allora abitavo – e abito tutt’oggi – a 300 metri da dove avvenne la strage, a metà strada tra quel pezzo di autostrada cancellata e la collinetta da cui fu azionato il telecomando che provocò l’esplosione. Il 23 maggio del 1992 mi trovavo a casa, sul terrazzo che si affaccia sulla parte a valle verso il mare, verso quell’autostrada, quando alle 17,58 ho sentito una fortissima esplosione. Non posso descrivere che rumore fanno 500 chili di esplosivo, so solo che la montagna che sovrasta Capaci riversò sia l’onda d’urto che il suono”.
I cittadini di Capaci pensarono che fosse successo qualcosa nel deposito esplosivi di un cava che in quegli anni era attiva e che più volte al giorno con delle piccole esplosioni estraeva pietre dalla montagna.
“A me bastò girare lo sguardo verso l’autostrada da cui proveniva questo nuvolone di fumo e detriti che si era alzato altissimo nel cielo. Afferro la macchina fotografica che era già pronta perché la sera avrei avuto un compleanno e salto sul mio scooter 50”.
Mentre percorre quei 300 metri che lo distanziano dal luogo della strage, con la macchina fotografica che gli sballottola sul petto e l’adrenalina che gli pompa dentro il petto, la sua mente si riempie di domande sulla causa dell’esplosione.
“Pensavo che fosse saltata in aria un’autocisterna piena di gas: non pensavo che per uccidere un uomo si progettasse di far saltare in aria un’autostra con 500 chili di tritolo. Lì accanto casa mia”.
L’esplosione è così violenta che oltre all’asfalto e ai guardrail, si sradicano pure gli alberi d’ulivo secolari, che con tutte le radici saltano in aria ricadendo al contrario.
“Sono costretto ad appoggiare il mio scooter al tronco di un albero e proseguo a piedi perché la strada era impraticabile e mi ritrovo davanti questo’autpstrada che non c’era più: c’era una voragine larga decine di metri. La mia attenzione è subito attirata da questa macchina bianca in bilico sull’orlo del cratere: sostanzialmente integra, solo con il vano motore danneggiato e con un principio di incendio. Decido di scalare la collinetta e da lì mi rendo conto che le macchine coinvolte sono molte di più”.
Quel 23 maggio è un bel sabato di primavera e i palermitani lasciano la città per raggiungere le zone di villeggiatura: saranno circa 20 i civili coinvolti nell’esplosione.
Circondato da feriti ancora storditi, l’attenzione di Antonio è sempre attirata da quella macchia bianca perché alla guida c’era un uomo incastrato gravemente ferito alle gambe e al torace. L’uomo ha il viso ricoperto di sangue ma Antonio si rende conto che è ancora in vita.
“Era cosciente e aveva gli occhi aperti: anche se distavamo cinque-sei metri, per un attimo ho incrociato quegli occhi e i suoi hanno incrociato i miei. Ci siamo cercati e ci siamo trovati. Ancora oggi, dopo tutti questi anni, mi chiedo cosa avrà pensato il Dottor Falcone in quegli istanti guardandomi: probabilmente ha pensato che fossi uno del comando pronto a finirlo”.
Non potremo mai sapere cosa ha pensato Falcone in quegli istanti, ma che Vassallo potesse essere un uomo del commando lo ha pensato anche qualcun altro: dalla seconda macchina di scorta, quella che finisce quasi per tamponare la Chroma di Falcone, scendono due dei tre agenti di scorta sopravvissuti all’esplosione. Sono storditi e confusi ma fanno scattare il dispositivo di protezione a “Monza 500”, il nome in codice di Falcone: mitra in mano, proteggono l’auto del giudice e intimano a Vassallo di non avvicinarsi.
“Fui costretto a scappare: uno di loro, agitandomi il mitra contro, mi urlò di allontanarmi , cosa che io feci istintivamente”.
Vassallo ritorna dopo dieci minuti: a quel punto non è più solo, è arrivata gente per prestare soccorso, in lontananza si sente il suono delle sirene delle ambulanze in arrivo. Ed è a quel punto che Antonio ricorda di avere al collo la macchina fotografica e in tasca il tesserino rilasciato dalla Polizia di Stato.
“Non ero un fotografo di cronaca nera, io ancora oggi faccio il fotografo di cerimonie, però in quel momento sento fortissimo il dovere di documentare il tutto fotograficamente. Comincio con delle fotografie panoramiche, poi mi avvicino sempre pia al luogo interessato dall’esplosione, fino a fotografe il folto gruppo di persone che intorno a quella Croma bianca avevano difficoltà a estrarlo fuori, perché i detriti erano caduti attorno alla macchina di Falcone rendendone difficoltosa l’apertura”.
In quel momento giunge la notizia del ritrovamento della prima Croma, quella che apriva il corteo, con a bordo i tre agenti di scorta Schifani, Montinaro e Dicillo. Se inizialmente si era pensato che l’auto fosse scampata all’esplosione riuscendo a raggiunge la città per chiamare aiuto, ben presto ci si dovette ricredere: l’auto blindata con i tre agenti di scorta, infatti, fu quella investita in pieno dall’esplosione, che la proiettò in aria facendola atterrare a una distanza di circa 80 metri nelle campagne circostanti. L’auto atterrò sottosopra, con l’abitacolo ridotto a uno spessore di dieci centimetri. I tre saranno tirati fuori da lì a pezzi.
“Io mi mantengo a distanza e faccio due o tre scatti con la mia macchina fotografica. A questo punto vengo avvicinato da due uomini in abiti civili che mi dicono essere poliziotti. Mi sventolano in faccia un tesserino così velocemente da non farmi capire se fosse della Polizia o della piscina, chiedendomi di consegnare il rullino fotografico. Allora io con orgoglio esibisco il tesserino da fotografo chiedendo solo di completare quel rullino di 36 pose. Loro se ne fregano, mi afferrano il braccio esercitando una leggera violenza e rinnovandomi l’invito a consegnare il rullino: a quel punto l’ho consegnato”.
Ancora non gli è chiaro quello che sta succedendo e a cui sta assistendo. Non sarà fino al suo ritorno a casa, guardando l’ennesima edizione speciale del telegiornale, che scoprirà che quell’uomo con cui aveva incrociato lo sguardo era Giovani Falcone. Poi, arriverà la notizia della morte del giudice e della moglie.
C’è una naturale conseguenza alle brutture della Storia, alla miseria umana, all’orrore della carneficina: una naturale, spontanea e necessaria ribellione, un atto di resistenza per rompere il silenzio. Nelle ore successive Antonio si riunisce con gli altri del Gruppo 88 per discutere e decidere cosa fare. Non ci stanno, vogliono reagire, vogliono far sapere che Capaci non è solo la tomba di Falcone, Capaci è anche riscatto e voglia di cambiamento. Discutono tra di loro finché notano che la Statale 113 che attraversa Capaci era completamente intasata a causa dell’esplosione in autostrada: una lunga colonna di auto proprio al centro del paese. Recuperano quindi dei cartelloni e dei pennelli che avrebbero dovuto usare per una iniziativa che si sarebbe dovuta tenere alcuni giorni dopo e istintivamente iniziano a scrivere frasi contro la mafia.
“Frasi banali, ma che onoravano la figura di Falcone. Frasi che mandavano a quel paese i mafiosi. Cartelloni che ricordavano quanto fossero merde i fiancheggiatori e i sostenitori che ruotano intorno alla mafia. Riempimmo tutti i sessantaquattro ficus bellissimi che fanno da cornice alla Statale 113 che attraversa Capaci con questi cartelli. Il giorno dopo Antonino Caponnetto arrivò da Roma con il cuore a pezzi: alle prime luci dell’alba attraversò Capaci e si rincuorò alla vista dei cartelli appesi agli alberi del paese. Giunto a Palermo incontrò Paolo Borsellino e gli raccontò dei cartelli. Un mese dopo fu Borsellino a chiamare Caponnetto per dirgli che attraversando Capaci aveva visto anche lui i cartelli, fortunatamente ancora appesi. Questo lo abbiamo letto in un libro dello stesso Caponnetto, quindi da allora, ogni anno, riempiamo i sessantaquattro ficus con dei cartelli. È un impegno che ci siamo presi e che rispetteremo finché ci saremo e che speriamo di tramandare ai giovani”.
La reazione di Antonio e degli altri del gruppo non si manifesta solamente simbolicamente, ma vuole essere concreta e di aiuto alle indagini. D’altronde, oltre a conoscere il paese e aver notato strani movimenti nelle settimane precedenti il 23 maggio, Antonio non ha dimenticato quel rullino sequestratogli quel pomeriggio dai due uomini identificatisi come poliziotti.
“Per lungo tempo ho pensato che le mie fotografie avrebbero fatto un percorso normale finendo nelle mani degli investigatori e rivelandosi utili per le indagini. Magari mi avrebbero pure chiamato per ringraziarmi. Invece non chiamò nessuno”.
Questa vicenda cade quasi nel dimenticatoio finché sette mesi dopo i ragazzi del Gruppo 88 decidono di recarsi a Caltanissetta per rendere dichiarazioni spontanee a Ilda Boccassini, magistrata e amica di Falcone che si era fatta trasferire presso quella procura per seguire le indagini sulla strage di Capaci. Ed è proprio durante questa chiacchierata alla procura di Caltanissetta, sette mesi dopo la strage, che Antonio Vassallo scopre che le sue fotografie, sulla scrivania della Boccassini, non sono mai arrivate.
Il giorno dopo l’incontro con la Boccassini, Vassallo viene convocato da Arnaldo La Barbera, il poliziotto nominato Questore di Palermo dopo le stragi ma al contempo uomo dei servizi segreti deviati con il nome in codice “Ruttilius”, al centro della sparizione dell’agenda rossa di Borsellino e della “creazione” del falso pentito Scarantino.
“Il Questore La Barbera sostanzialmente si scusa con me, dicendomi che le mie fotografie erano state dimenticate in un cassetto per sette mesi. Non me le fa vedere, ma mi assicura che proprio in quelle ore erano state mandate agli investigatori della procura di Caltanissetta. Ma quando si aprì il processo per la strage di Capaci scopro che le mie fotografie non erano agli atti. Mi amareggio ancora di più e mi incuriosisco, volevo sapere perché le mie fotografie erano di nuovo sparite. Da piu parti venni invitato alla prudenza, perché probabilmente avevo fotografato qualucuno o qualcosa che non dovevo fotografare: ancora oggi mi chiedo chi.
Forse quelle persone che sono già sul posto, si fingono soccorritori e devono fare un altro mestiere, per esempio uccidere i feriti fingendo di soccorrerli oppure fare sparire dei documenti importanti come è accaduto in Via D’Amelio. Anche a Capaci è stata sottratta la ventiquattro ore di Falcone che conteneva due agende. Però non c’è una fotografia che lo documenta.”
Vassallo racconta di aver svolto delle ricerche durante la pandemia e di aver scoperto una relazione di servizio datata 23 maggio 1992 e firmata dall’Ispettore Santo Catani, tra i primi ad arrivare a Capaci.
“In questa relazione l’Ispettore Catani dice di ricevere dai tre agenti sopravvissuti la ventiquattro ore di Falcone e che a sua volta la consegna ad Arnaldo La Barbera. Probabilmente ho fotografato tutto questo”.
Chissà se le fotografie di Vassallo spunteranno mai fuori da qualche archivio rimasto chiuso per tutto questo tempo.
Tempo in cui Antonio è diventato uomo, ha messo su famiglia, ha continuato a lavorare come fotografo di cerimonie ma anche come attivista.
Quelli successivi alla strage sono anni di maggiore impegno e di rinnovata speranza che investe diversi comuni siciliani: Antonio si candida al consiglio comunale di Capaci dove farà il consigliere di opposizione per 25 anni (“Perdendo orgogliosamente tutte le tornate elettorali”, specifica con un sorriso). Dopo aver smesso con la politica si è dedicato ad accogliere le scolaresche in visita a Capaci e raccontare loro la sua testimonianza.
Un lavoro di memoria che ogni giorno diversi volontari di Capaci trasmettono alle nuove generazioni. Sarà proprio questo esercizio sulla memoria a permettere ad Antonio di recuperare un pezzo del puzzle che per anni aveva completamente rimosso. Si tratta di un episodio che lo aveva visto protagonista quel 23 maggio: il momento in cui uno degli agenti di scorta sopravvissuti, con il mitra in mano, gli urlò di allontanarsi dall’auto di Falcone.
“Per lungo tempo ho rimosso questa storia, forse perché traumatica. La rimuovo per 17 lunghissimi anni”.
Finché proprio nel diciassettesimo anniversario della strage, nel maggio 2009, viene organizzato un raduno motociclistico in un parco cittadino confiscato al boss Tano Badalamenti e a cui vengono invitati i tre agenti di scorta della Quarta Savona Quindici sopravvissuti: Gaspare Cervello, Antonio Capuzza e Angelo Corbo.
Quando arriva lì Antonio vede tanta gente e dal palco sente Gaetano Curreri cantare quella che secondo lui è una delle canzoni più belle su quella stagione di bombe: “Per la bandiera”, scritta insieme a Francesco Guccini.
Antonio allora si avvicina ai primi due agenti di scorta: vuole capire se anche loro si ricordano di lui. Ma entrambi allargano le braccia perché nessuno dei due si ricorda di Antonio, che a quel punto si avvicina al terzo agente, Angelo Corbo. Bastano poche parole di Antonio che Corbo collega subito, lo interrompe e gli dice: “Antonio, sono diciassette anni che mi chiedo chi era quella persona presente sul luogo della strage negli istanti successivi all’esplosione, con un oggetto nero in mano. Tu oggi mi dici che era una macchina fotografica, ma in quel momento di stordimento non potevo saperlo. Quel giorno hai fatto bene a scappare: avevo il dito sul grilletto che aveva già fatto mezza corsa”.
“Dopo questa parole” spiega Vassallo “Angelo Corbo è diventato il fratello che non ho mai avuto. Ma soprattutto realizzai che grazie al dito sul grilletto che si era fermato, da quel 23 maggio avevo della vita avanzata. Ed è per questo che quando qualcuno me lo chiede, ritaglio un pezzo di quella vita avanzata e racconto la mia storia, la mia verità di contrabbando di un 23 maggio poco rassicurante”.
Strage di Capaci: “non hanno perquisito il casolare dove scioglievano i corpi”
Foto rubate, depistaggi, mancate perquisizioni e troppe ombre. La rabbia del fotografo Antonio Vassallo

Una memoria di plastica, nessuna verità “certa” a 29 anni dall’esplosione sull’A29. A poco meno di 6 giorni dalla commemorazione della Strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anch’essa magistrato, gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, abbiamo riascoltato il racconto di un supertestimone. Antonio Vassallo, di professione fotografo, quel 23 Maggio 1992 alle 17.58, si trovava a pochi metri da quel pezzo di Autostrada fatto saltare in aria ed è stato uno dei primi ad accorrere sul luogo della strage. Salì sulla sua Vespa 50 Special, macchina fotografica a tracolla e, facendosi largo fra fango e detriti, arrivò fino alle autoblindate distrutte. Antonio Vassallo ricorda lo scenario apocalittico, da film di guerra in cui, sconvolto, si aggirò, fra quei resti. Il suo racconto odierno ridelinea alcuni passaggi già ribaditi anche in trasmissioni TV come “Non è l’Arena” di Massimo Giletti e getta nuove ombre su alcune leggerezze investigative più o meno “volute”.
Vassallo, mancano pochi giorni al 29° anniversario della strage di Capaci. Lei, in un recente post pubblicato dal noto giornalista antimafia Attilio Bolzoni, ha commentato non senza una nota polemica, tutte le inadempienze compiute durante i rilievi nei giorni successivi della strage. “Io dico che oltre al dovere della memoria che dobbiamo avere tutti i giorni e non solo per quelle che io chiamo le “Falconiadi”, dobbiamo coltivare il nostro diritto alla verità. Io voglio sapere chi ha premuto il vero telecomando e voglio sapere che fine hanno fatto le foto che io ho scattato quando sono arrivato come primo fotografo anche perché abito a pochi metri dall’accaduto”.
Lei più volte ha raccontato del rullino che si sono fatti consegnare 2 persone sul luogo della strage che si sono presentate come poliziotti dicendo che l’avrebbero consegnato al “Superpoliziotto” Arnaldo La Barbera. “Io continuo a farmi delle domande sul ruolo che ha avuto Arnaldo La Barbera sull’intera vicenda. Quando mi sono recato, quasi spontaneamente, dalla giudice Ilda Boccassini che indagava a Caltanissetta per raccontare quanto avevo visto quei pochi minuti dopo l’esplosione, le ho detto che avrebbe potuto avvalersi, per compiere le indagini, delle mie foto scattate e che mi erano state requisite e consegnate al poliziotto Arnaldo La Barbera. La Boccassini mi disse che non sapeva nulla di queste foto e che non ne sapevano nulla neanche i suoi collaboratori. L’indomani mi chiamò l’Ufficio di Arnaldo la Barbera che allora era a capo di una squadra che indagava proprio su questa strage e mi disse che le foto erano state dimenticate nella tasca della divisa di uno dei poliziotti. Io feci notare che erano in borghese entrambi ma le stranezze non finiscono qui”.
In che senso? “Mi disse che le foto, in mattinata, erano state mandate a Caltanissetta e mi invitò a non alzare polveroni perché era giusto in quei giorni “fare quadrato” intorno allo Stato messo sotto attacco. Quando pochi mesi dopo iniziò il processo, scoprii che le foto non erano state messe agli Atti. Ricordo a me stesso che Arnaldo La Barbera arrivò fra i primi a Capaci e prese in consegna la borsa del magistrato che viaggiava nella Fiat Croma accartocciata”.
Come sa queste cose? “E’ scritto nel verbale stilato dal poliziotto che tirò fuori la borsa di Falcone e che scrisse di averla consegnata nelle mani di Arnaldo La Barbera”.
Lei crede che le sue foto contenessero qualcosa di strano, un dettaglio rivelatore? “Forse ho fotografato qualcosa che non doveva essere reso noto”.
Subito dopo la terribile esplosione, gli investigatori che perquisirono il luogo, trovarono 51 mozziconi di sigarette di almeno 3 marche diverse, la maggior parte, 43 complessivamente appartengono al tipo Merit, uno di marca Muratti e 7 MS. Tutti questi mozziconi sono stati trovati nel luogo che è servito da punto di osservazione ai sicari appostati per controllare l’autostrada A29 ed essere in grado di premere il telecomando nell’attimo preciso in cui le blindate dovevano saltare in aria con il tritolo accuratamente collocato in un viadotto sottostante. Lei, più volte, ha parlato di mancata perquisizione ad un casolare che si trova a 30 metri dal luogo in cui molto probabilmente erano appostati i sicari. “Sì, certo, è quello di Giovanni Battaglia che fumava proprio le Merit, lo so per certo. Tutti parlano di luoghi, traiettorie perfette, pietre spostate, alberi potati per vederci meglio ( Attilio Bolzoni nel suo Editorialedomani Blog Mafie ndr) e nessuno pensò a perquisire un casolare che invece doveva essere “smontato” per trovare altri fondamentali dettagli. Invece, non l’hanno perquisito nemmeno 7 mesi dopo l’arresto di Giovanni Battaglia. A pensarci bene, non mi sorprendo neanche che non l’abbiano perquisito: quando hanno arrestato Totò Riina, non sono andati neanche nella sua casa di via Bernini”.
Poi però il casolare l’hanno perquisito, Vassallo. “Sì, dopo 4 anni grazie alle indicazioni di un pentito. Nel casolare hanno scoperto le vasche dove scioglievano i corpi. Emanuele Piazza e altri casi di “lupara bianca”, sono stati portati lì”.
Lei che idea si è fatto in questi anni? “Che è stata la manovalanza locale a premere il telecomando ma, conoscendo Giovanni Battaglia (era mio vicino di casa) e gli altri sicari, tutti semianalfabeti, non credo abbiano potuto architettare un piano così ingegneristicamente perfetto. Sono in tanti a chiedersi questo, anche il magistrato Nino Di Matteo, se l’è chiesto”.
Bastava premere un tasto di telecomando, no? “Bisognava colpire una macchina che passava a 140/150 Km orari, calcolando i tempi di reazione di un telecomando posto a circa 900 metri e il tutto con la tecnologia di quasi 30 anni fa. Mi pare difficile”.
Lei non ha paura a raccontare queste cose? “Continuo a vivere in quel territorio, come lo vivevo il giorno in cui è successa la strage, quella è casa mia. Non ho paura della mafia che a me, comunque, non mi ha fatto mai niente. La paura è un sentimento che quando sei giovane, non conosci e nel ’92 io ero un giovane. Oggi io sono arrabbiato”.
Perché? “Mi hanno deluso uomini dello Stato e continuano a farlo. Questa storia che racconto dovrebbe essere presa in considerazione da chi fa le indagini ed invece preferiscono fare le commemorazioni, portare avanti una memoria di plastica che non porta a nulla”.
Lei continua a fare da guida portando specialmente le scolaresche sulla collinetta da dove venne premuto il telecomando. “Sì, sempre. Quest’anno con la pandemia purtroppo no e non ho mai chiesto 1 euro per farlo, sono e resto libero, ecco perchè creo imbarazzo quando parlo, sono un cane sciolto, non ho padroni. In 12 anni, ho accompagnato almeno 30 mila ragazzi”.
Prima Pagina Marsala
Strage di Capaci, testimone rivela: “La Quarto Savona 15 era integra dopo l’esplosione”
Il fotografo Antonio Vassallo abita a due passi dal luogo dell’attentato. Si catapultò tra le macerie pochi minuti dopo le fatidiche 17,58, fotografando forse qualcosa che non avrebbe dovuto. E’ convinto che sulla Croma blindata che precedeva l’auto di Falcone non tutto sia stato detto

E’ ancora forte l’odore di sangue e gomma bruciata di quel 23 maggio 1992. La morte di Totò Riina ha evocato i fantasmi della strage di Capaci, che costò la vita a Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ricordi, testimonianze, confessioni di chi quel giorno era presente sul posto, pochi attimi dopo che mille chili di tritolo disintegrarono un pezzo di autostrada.Il fotografo Antonio Vassallo abita ancora a due passi dal luogo dell’esplosione. Si catapultò tra le macerie pochi minuti dopo le fatidiche 17,58, fotografando – forse – qualcosa che non avrebbe dovuto. Ha raccontato più volte la storia del rullino che gli fu sottratto da quelli che si presentarono come due poliziotti in borghese, negativi spariti nel nulla, nonostante i suoi tentativi di recuperarli. Ma quello di cui non si è mai parlato, è del ricordo nitido che Vassalo ha della Quarto Savona 15, la Croma blindata su cui viaggiavano gli agenti della scorta di Falcone, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, che morirono nell’esplosione.
Il giallo della Quarto Savona 15
Ciò che resta dell’auto, adesso, è custodito in una teca e, dopo aver fatto il giro d’Italia, è esposto nella caserma “Lungaro” di Palermo. Si tratta ormai solo di un cumulo di lamiere, ma, secondo quanto ricorda Vassallo, la Croma blindata, catapultata tra gli ulivi dopo la deflagrazione, sarebbe rimasta pressoché integra. “La macchina era finita dall’altra parte dell’autostrada – rivela il fotografo a PalermoToday – era capovolta, ma ricordo di averla vista integra, non sicuramente come viene presentata oggi”.
Vassallo, candidato al Consiglio comunale di Palermo alle scorse amministrative e attivista che ogni giorno accompagna studenti da tutta Italia sui luoghi della strage, sembra ricordare bene i dettagli di quel pomeriggio infernale ed è convinto che sulla Quarto Savona 15 non tutto sia stato detto.
“Sappiamo che Falcone viaggiava sempre con la sua valigetta ventiquattrore, che conteneva due agende ed un’agendina elettronica – dice il fotografo – dunque il magistrato doveva averla con sé anche in quell’occasione. Di quella valigetta non se ne è saputo più nulla, come mai? E ancora, perché quell’auto prima era integra e adesso è ridotta un cumulo di lamiere?”.
Una delle ipotesi che traspare dal racconto di Vassallo è che l’auto sia stata “accartocciata” in un secondo momento, dopo averla “ripulita” di ciò che, verosimilmente, non si sarebbe dovuto trovare. “Nulla esclude – ipotizza il fotografo – che qualcuno abbia volutamente fatto sparire la ventiquattrore di Falcone, un po’ come è successo con la famosa agenda rossa di Borsellino, in via D’Amelio. Sono convinto che quell’auto non fosse ridotta così come ce la mostrano adesso. Perché nessuno ha spiegato cosa sia successo a quell’auto?”. Un particolare che salta fuori adesso perché – spiega il fotografo – è solo recentemente che i brandelli della Croma vengono mostrati in pubblico.
Quei rullini spariti nel nulla
Al giallo della Quarto Savona 15, si somma, poi, quello del rullino sparito. Una storia già raccontata in passato da Vassallo, ma sulla quale non è ancora stata fatta chiarezza. Dopo essere arrivato sul luogo della strage, a pochi minuti dall’esplosione, Vassallo racconta di essere fuggito via perché un uomo, che poi scoprirà essere Angelo Corbo, agente della scorta che viaggiava nell’altra auto, gli si avventa contro con un mitra. In quegli attimi deliranti, Corbo avrebbe scambiato l’obiettivo al collo di Vassallo per un’arma. Tornato qualche minuto dopo, il fotografo si aggira tra le macerie scattando a raffica, quando due uomini che si sarebbero presentati come poliziotti in borghese, avrebbero preso in consegna il rullino “Io ero in possesso di una regolare licenza rilasciata dalla questura – spiega Vassallo (nella foto a destra) – stavo scattando fotografie, ma vengo fermato da questi due uomini. Mi sventolano un tesserino in faccia e, strattonandomi per un braccio, mi obbligano a consegnargli il rullino. Cosa che faccio nella speranza che, in qualche modo, le mie foto sarebbero servite alle indagini. Invece, passano i mesi e di queste foto non si sa più nulla. Quindi decido di andare da Ilda Boccassini, che indagava sulla strage alla procura di Caltanissetta, e lei cade dalle nuvole, dicendomi che quelle foto non erano mai arrivate. Guarda caso – racconta ancora il fotografo – il giorno dopo vengo convocato dal questore Arnaldo La Barbera che sostanzialmente si scusa, dicendomi che gli agenti avevano dimenticato di consegnare le foto e che sarebbero state inviate subito a Caltanissetta. Bene, quelle foto non sono state messe agli atti del processo, né tanto meno sono più saltate fuori”. Il sospetto di Vassallo è che, senza volerlo, quel giorno abbia immortalato qualcosa che non avrebbe dovuto. Ipotesi questa che s’intreccia con i misteri ancora irrisolti di quel 23 maggio. Parallela al corso della giustizia, che ha inflitto dure condanne agli autori materiali della strage, corre – infatti – un’altra strada: quella delle presunte verità taciute, delle possibili complicità di apparati dello Stato e dell’ombra dei mandanti occulti. Segreti che, ancor più dopo la morte di Riina, sembrano perdersi tra le macerie di quel maledetto pomeriggio di maggio. PALERMO TODAY 25 novembre 2017