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ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO

18 Marzo 201827 Aprile 2025Admin_3009Documentazione
  • COMMISSIONE ANTIMAFIA SCARPINATO, NATOLI e l’audizione “aggiustata”

  • 26.10.2023 BORSELLINO: SCARPINATO querela SANSONETTI

 

Intercettazioni SCARPINATO/NATOLI 🟥 CONTE: se SCARPINATO ne fosse in possesso le pubblicherebbe lui


SCARPINATO/MONTANTE


Scarpinato: “Stragi ’92-’93 fatte per dare spazio a Forza Italia”

 

 

 

 

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Scarpinato e il falso su Wikipedia: non è mai stato nel pool di Falcone e Borsellino


La memoria depositata in commissione antimafia Roberto Scarpinato sulle stragi del 92-93

 


5.2.2023 “Scarpinato è considerato un eroe ma ecco come ha avuto i posti”

E insomma, chi ha ragione? Matteo Renzi, che chiede all’ex pm Roberto Scarpinato di spiegare i suoi rapporti con Luca Palamara? O Scarpinato, oggi senatore 5 Stelle, che nega di avere mai frequentato l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati? Unica soluzione: andarlo a chiedere a Palamara.

Qualcuno non la conta giusta. Chi è? «Scarpinato ha ragione su un punto: io e lui non ci siamo mai frequentati. Ma ho detto e ribadisco che nel 2012, quando ero presidente dell’Anm, mi sono adoperato affinchè lui potesse diventare procuratore generale di Palermo. L’operazione fu resa possibile convincendo il dottor Guido Lo Forte, che era un candidato assai forte, a revocare la sua richiesta».
Magari Scarpinato non lo sapeva, è stato aiutato a sua insaputa. «Dico solo che la nomina di Scarpinato faceva parte degli accordi nati in ambito correntizio tra Magistratura democratica e Unicost. Lui era molto sostenuto dalla componente siciliana di Md. Il problema era che a mettere a rischio la sua candidatura era il dissenso che tra molti colleghi circolava su alcune teorie giudiziarie che in questi anni hanno fato breccia sempre in una determinata parte politica e dell’informazione ma solo in una sparuta parte della magistratura».
Traduco: la famosa inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia. «A non condividere il lavoro di Scarpinato erano anche tanti importanti pm che con lui avevano condiviso l’esperienza palermitana. Proprio per questo per nominarlo procuratore servì un accordo tra le correnti. Io queste storie le ho spiegate già alla commissione Antimafia e, visto che il tema torna di attualità anche se si tratta di un magistrato in pensione, sono pronto a spiegarle in tutte le sedi istituzionali compreso il nuovo Consiglio superiore della magistratura. Quello precedente, di cui facevano parte i magistrati che stavano nelle mie chat, non le volle ascoltare».
Ma Scarpinato per un certo mondo di elettori e di lettori è una specie di eroe. «Quando parlo di egemonia culturale parlo proprio di questo, di un consenso ricercato attraverso teorie discutibili, e i cui riflessi abbiamo visto recentemente in occasione dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove sembrava che più del successo storico dei colleghi facesse audience dare la caccia ai misteri. Dietro c’è l’eterno problema dei magistrati che operano cercando un consenso esterno alla magistratura e che poi lo mettono a frutto. E si portano in politica non solo un bagaglio di esperienze ma anche conoscenze di fatti segreti o riservati che poi tornano utili. Bisogna capire come sono stati selezionati questi magistrati da parte della politica, quali erano i rapporti precedenti, cosa c’è in tante carte che non conosciamo. Questo è il loro valore aggiunto per avere posti blindati. Il politico pensa: questo è in grado di condizionare, lo porto da me così sono più tutelato».
Renzi ha detto che regalerà a tutti i senatori il suo libro Lobby e logge dove si parla delle frequentazioni di Scarpinato. «Il problema vero non sono le frequentazioni di Scarpinato con il sottoscritto. Le frequentazioni di cui parla Renzi è evidente che sono quelle con Montante».
Ovvero Antonello Montante, già presidente di Confindustria Sicilia, al centro di una rete tentacolare. Arrestato e condannato per associazione a delinquere. «Fermo restando che Montante era un imprenditore frequentato da tantissimi magistrati ricordo che durante una perquisizione a casa sua venne rinvenuto un appunto manoscritto che faceva riferimento a Scarpinato, al Csm e alla nomina di procuratore generale a Palermo. Su questa vicenda ci fu una archiviazione senza che venisse neanche ipotizzato un reato, da parte della Procura di Catania. Non venne svolto mai alcun serio accertamento anche da parte di quello stesso Csm di cui facevo parte. Io mi auguro che su quella vicenda, che riguarda diversi magistrati in servizio, si possa chiarire come siano realmente andate le cose. E da questo punto di vista credo che anche l’attuale ruolo che riveste Scarpinato gli imponga il chiarimento di una circostanza che ancora oggi rimane oscura. Come andò effettivamente quella nomina? A chi si rivolse Scarpinato? Chiese anche in quel caso degli appoggi esterni oltre a quello delle correnti?»

Luca Fazzo  5 Febbraio 2023 – IL GIORNALE


8.11.2022 “A Roma riaprirò le indagini sulla Gladio”: l’ultima confidenza di Falcone a Scarpinato.

 
“Venti giorni prima di saltare in aria a Capaci, ai primi di maggio del 1992, in un incontro al ministero della Giustizia, Giovanni Falcone confidò al collega Roberto Scarpinato l’intenzione di riaprire le indagini su Gladio una volta nominato Procuratore nazionale antimafia, circostanza di cui era convinto dopo avere appreso che al Csm si era formata una maggioranza favorevole al suo incarico.
Dopo averlo rivelato lo scorso anno nel processo per il depistaggio di via D’Amelio, il neo senatore Scarpinato ha ribadito lo scambio di confidenze con Falcone, intervenendo venerdì 28 ottobre scorso a Palermo alla presentazione del libro “Chi ha ucciso Pio La Torre?” di Armando Sorrentino e Paolo Mondani, edito da Castelvecchi.
“Nell’ultimo incontro a Roma – ha detto Scarpinato – Falcone mi disse: finalmente potremo riprendere le indagini che tu sai”.
Il riferimento è ai contrasti con l’allora procuratore Pietro Giammanco, sulle indagini da avviare sul ruolo della struttura Gladio nelle trame sanguinose in Sicilia.
“Sono stato presente allo scontro durissimo nella stanza di Giammanco – ha aggiunto Scarpinato – quando Falcone minacciò di dare le dimissioni dal Pool antimafia perché l’allora procuratore non gli voleva consentire, con vari stratagemmi, di fare queste indagini”.
E poi ha proseguito: “Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio fui chiamato al Csm e lì raccontai cosa c’era alla base di quello scontro: le indagini sui delitti politici. Quello era il punto’’.
Che quelle indagini fossero uno dei nodi investigativi irrisolti di Falcone lo testimonia anche Pino Arlacchi nel suo libro, Giovanni e io (Chiarelettere, 2022) del quale, durante la presentazione, Sorrentino ha letto alcuni passi in cui il sociologo cita le parole di Falcone: “Sono stato a Palermo da Paolo, c’è lo scompiglio ovunque, si sta preparando qualcosa di grosso. È chiaro che se vogliono sopravvivere devono ripetere quanto hanno fatto dieci anni fa quando si sono sbarazzati di La Torre e Mattarella. Stavolta è più difficile perché non hanno le coperture di allora.
La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta, gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza”.
Per Falcone, scrive Arlacchi, il delitto Mattarella “è stato un caso Moro-bis, l’esecuzione fu opera di killer mafiosi e di terroristi neri, inviati dalla P2, e sostenuti, forse anche ospitati, dalla base Gladio di Trapani.
Sto ancora cercando riferimenti però ho una buona fonte negli ambienti di destra”. di Giuseppe Lo Bianco sul Fatto del 8/11/2022


22.9.2022 – L’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato oggi candidato al Senato per il M5S ha dichiarato di “avere dato incarico ai processi miei legali di procedere in sede penale nei confronti di Piero Sansonetti, direttore del giornale Il Riformista, già peraltro da me in precedenza querelato e attualmente sottoposto a più processi penali presso diverse autorità giudiziarie per altri articoli diffamatori nei miei confronti, per avere pubblicato in data odierna articoli gravemente diffamatori nei miei confronti, insinuando il sospetto di interessi illeciti nella vendita nel lontano 1996 di un immobile ereditato da mia madre sito in Sciacca di cui ero comproprietario solo per 1/6, che fu effettuata tramite una agenzia immobiliare di quella città al prezzo corrente di mercato”. “La vicenda della vendita fu oggetto nel 1999 di una strumentale interrogazione parlamentare di un esponente politico di Forza Italia nel periodo in cui alla Procura di Palermo conducevamo indagini sui rapporti tra alcuni soggetti di vertice di Forza Italia e Cosa Nostra. A seguito della produzione da parte mia di tutta la documentazione concernente la vendita – ha continuato – il ministro della Giustizia escluse in radice qualsiasi sospetto di irregolarità. A distanza di ben 23 anni da quella vicenda e a pochi giorni dalle elezioni del 25 settembre nelle quali sono candidato al Senato per il Movimento Cinque Stelle, è evidente che taluni personaggi ed ambienti non hanno altri strumenti che le calunnie e la diffamazione per cercare di influenzare le votazioni. Il ricorso a tali squalificanti metodi, volti a tentare di appannare la mia immagine e credibilità di fronte ai cittadini elettori, è un ulteriore indice del processo di degradazione della vita politica che proprio in questi giorni ho più volte denunciato nei miei interventi pubblici”.


22.9.2022 Il Riformista in risposta alla querela di Scarpinato

 

A seguito dell’articolo pubblicato ierida “Il Riformista” in merito a una casa – della quale possedeva una quota l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato – che sarebbe stata venduta a oltre il doppio del suo valore reale, e la notizia della querela proposta dall’ex magistrato, il quotidiano torna sull’argomento con una nota che riportiamo integralmente, così come integralmente avevamo pubblicato la nota stampa che preannunciava la querela:

“C’ha riquerelato Scarpinato. Siamo terrorizzati! All’ex magistrato palermitano non piacciono né le notizie né le critiche. E se per caso dai qualche notizia o esprimi qualche critica che lo riguarda si infuria. E ricorre all’intimidazione. Siamo alla terza querela.

Scarpinato – si legge nella nota del giornale – ci ha riquerelato. Ha querelato il direttore di questo giornale perché abbiamo scritto di una casa di proprietà della sua famiglia, a Sciacca, che lui vendette alla bella cifretta di quasi 700 milioni a un signore che tempo prima era stato suo imputato ed era stato da lui archiviato. È un reato vendere la casa a un proprio imputato (che poi, da altri magistrati, fu condannato per altri fatti)? No. Pare che il codice penale non proibisca la compravendita di appartamenti tra magistrati e imputati e nemmeno proibisca pagamenti molto alti. Del resto che una casa a Sciacca, nel ‘96, valesse quasi settecento milioni quando a Roma trovavi un appartamento in zona semicentrale a 400 milioni non è un fatto così eccezionale.

Sciacca è una cittadina di una certa importanza e non è lontana da Agrigento. Le case costano.

Non è chiaro però per cosa ci quereli Scarpinato. Nel comunicato che ha diffuso alle agenzie conferma tutte le notizie che noi abbiamo dato. Sorvola solo sul fatto che l’acquirente della abitazione fosse un suo ex imputato, però neanche lo smentisce questo fatto. E allora? Dov’è la diffamazione da parte nostra? Nell’aver riportato una interrogazione parlamentare regolarmente presentata da un deputato della Repubblica? Non credo.

Nell’aver taciuto il fatto che questa interrogazione è vecchia di qualche anno? No, non lo abbiamo taciuto, lo abbiamo scritto bene bene in prima pagina. Nell’aver sostenuto che la vendita fu un reato? No, abbiamo spiegato e rispiegato che non c’è nessun reato. Abbiamo solo fatto notare che certo – ma questo è indiscutibile – se una cosa simile fosse successa a un assessore – non parliamo nemmeno di un deputato…- beh, quell’assessore avrebbe passato guai seri. Scarpinato non era un assessore e infatti – anche questo lo abbiamo scritto – la magistratura siciliana stabilì che non c’era niente su cui indagare e l’interrogazione del deputato – ed ex ministro della Giustizia – fu archiviata. Giusto. E infatti anche questo lo abbiamo scritto.

Dunque? Niente, le cose stanno così e noi siamo abituati. In Italia puoi scrivere quello che vuoi di chi vuoi, specie dei politici, ma dei magistrati o degli ex magistrati è meglio che non scrivi niente. Tacere, sopire, sopire, tacere. Così fan tutti.

Pensate all’oblio nel quale è stato lasciato dai grandi giornali e dai politici il libro di Palamara e Sallusti.

E vabbé, noi non ci adattiamo. Il nostro direttore ha già collezionato una ventina di querele dai magistrati. Si paga un prezzo alla libertà di stampa, no? La libertà dal potere dei magistrati è la più difficile.

L’importante è non spaventarsi per le intimidazioni” – conclude la nota del giornale. Redazione LA VALLE DEI TEMPLI 22.9.2022 


21.9.2022 Quella casa fu pagata più del doppio del suo valore?

 
La domanda nasce da quanto riportato nell’articolo di oggi sul Riformista, a firma di Aldo Torchiaro, dal titolo “PERCHÉ L’AMICO DEI SIINO PAGÒ COSÌ TANTO CASA SCARPINATO?”

Una vicenda che già nel ‘99, fu oggetto di un’interrogazione da parte dell’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso, che “sollevò il caso del magistrato antimafia siciliano, che vendette il suo immobile a un suo ex indagato per mafia, Salvatore Fauci”.

Stando all’interrogazione presentata in illo tempore – mai smentita nel merito, relativamente all’incongruenza tra valore e vendita, dall’allora guardasigilli Oliviero Diliberto – nel mirino degli investigatori c’era la vendita, fatta il 30 agosto del 1996, di un immobile a Sciacca e del quale Scarpinato Roberto era comproprietario con la sorella Lidia Maria Giulia e altri parenti.

Una casa che stando all’interrogazione, così come riportato nell’articolo, avrebbe avuto il valore di 300 milioni di lire, che venne invece “venduta per 690 milioni alla società Cesa – riporta il Riformista – di cui era socia accomandataria gerente la signora Rosaria Di Grado, moglie di Salvatore Fauci, uno dei maggiori imprenditori siciliani specializzato nella produzione di laterizi, che nel 1992, fu indagato dalla procura della Repubblica di Palermo assieme a decine di altri imprenditori in seguito al dossier De Donno sui rapporti tra mafia, politica e appalti.  Attenzione: parliamo di Mafia e Appalti, l’inchiesta proibita costata qualche carriera e forse più d’una vita”.

Un articolo che ha suscitato la reazione di Scarpinato, candidato al Senato per il M5S, il quale querela il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti.

“Comunico di avere dato incarico ai miei legali – si legge in una nota – di procedere in sede penale nei confronti di Piero Sansonetti, direttore del giornale Il Riformista, già peraltro da me in precedenza querelato e attualmente sottoposto a più processi penali presso diverse Autorità Giudiziarie per altri articoli diffamatori nei miei confronti, per avere pubblicato in data odierna articoli gravemente diffamatori nei miei confronti, insinuando il sospetto di interessi illeciti nella vendita nel lontano 1996 di un immobile ereditato da mia madre sito in Sciacca di cui ero comproprietario solo per 1/6, che fu effettuata tramite una agenzia immobiliare di quella città al prezzo corrente di mercato“.

“La vicenda della vendita fu oggetto nel 1999 di una strumentale interrogazione parlamentare di un esponente politico di Forza Italia nel periodo in cui alla Procura di Palermo conducevamo indagini sui rapporti tra alcuni soggetti di vertice di Forza Italia e Cosa Nostra. A seguito della produzione da parte mia di tutta la documentazione concernente la vendita, il Ministro della Giustizia escluse in radice qualsiasi sospetto di irregolarità. A distanza di ben 23 anni da quella vicenda – prosegue Scarpinato – e a pochi giorni dalle elezioni del 25 settembre nelle quali sono candidato al Senato per il Movimento Cinque Stelle, è evidente che taluni personaggi ed ambienti non hanno altri strumenti che le calunnie e la diffamazione per cercare di influenzare le votazioni. Il ricorso a tali squalificanti metodi, volti a tentare di appannare la mia immagine e credibilità di fronte ai cittadini elettori, è un ulteriore indice del processo di degradazione della vita politica che proprio in questi giorni ho più volte denunciato nei miei interventi pubblici“.

Per correttezza e completezza dell’informazione, riportiamo il resoconto stenografico dell’Assemblea:

PRESIDENTE. Passiamo all’interrogazione Mancuso n. 3-04730 (vedi l’allegato A – Interrogazioni a risposta immediata sezione 8).

L’onorevole Mancuso ha facoltà di illustrarla.

FILIPPO MANCUSO. Signor Presidente, sono ansioso quanto il signor ministro di avere una risposta che possa smentire il caso che ho ipotizzato, ossia che un magistrato della procura della Repubblica di Palermo, Scarpinato, abbia venduto ad un proprio indagato un immobile di proprietà sua e di altri familiari ad un prezzo esorbitante; in realtà, anche se il prezzo fosse stato nummo uno, la cessione avrebbe ugualmente rappresentato uno scandalo. Spero che la sua risposta possa dissipare quanto nel mio animo di cittadino, di parlamentare e di ex magistrato si è insinuato a turbarlo attraverso questa notizia, cioè che la gloriosa procura della Repubblica di Palermo abbia fra i suoi paladini un magistrato capace di tanto.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Mancuso.

Il ministro della giustizia ha facoltà di rispondere.

OLIVIERO DILIBERTO, Ministro della giustizia. Signor Presidente, onorevole Mancuso, dalla documentazione acquisita dal procuratore generale, dal procuratore della Repubblica di Palermo, nonché dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, emerge in primo luogo che il dottor Scarpinato era nudo comproprietario per un sesto indiviso di un immobile a Sciacca pervenutogli in eredità dalla madre nel 1992. La decisione di vendere l’immobile fu assunta nel 1996 ad iniziativa degli altri comproprietari che sino ad allora ne avevano avuto effettiva disponibilità. Alla vendita per 690 milioni si provvide tramite una delle agenzie originariamente incaricate. Il dottor Scarpinato non partecipò alle trattative, ma alla stipula dell’atto, ovviamente, avvenuta nell’agosto 1996. Ad acquistare l’immobile fu la società Cesa di Di Grado Rosaria, moglie di Salvatore Fauci, già indagato in un procedimento instaurato a seguito di una informativa dei carabinieri del 1991 e alla trattazione del quale il dottor Scarpinato era stato designato nel maggio del 1992 con altri sette componenti del cosiddetto pool antimafia. Per il Fauci, come per altri venti dei complessivi ventisette indagati, fu chiesta l’archiviazione il 13 luglio 1992 con provvedimento a firma del procuratore Giammanco, del dottor Lo Forte e dello stesso Scarpinato. La richiesta fu accolta dal GIP il successivo 14 agosto.

Dagli atti trasmessi non risulta in alcun modo che il dottor Scarpinato sapesse che la signora Di Grado era moglie di quel Salvatore Fauci da lui indagato ben quattro anni prima dell’atto di vendita e nell’ambito di un procedimento estremamente complesso trattato insieme ad altri colleghi.

Dalla lettura degli atti, peraltro, non risulta che l’informativa dei carabinieri facesse riferimento ai congiunti o alla moglie del Fauci o che tale riferimento potesse essere dedotto dalle schede predisposte dagli stessi carabinieri.

Le affermazioni riportate dalle agenzie di stampa cui lei fa riferimento, sul rapporto tra l’indagine del 1991-1992 e la vendita dell’immobile del 1996, sono perciò prive di riscontro così come errate, in questo caso, sono le indicazioni della stessa agenzia relative alle presunte implicazioni di Salvatore Fauci nei procedimenti «Avana 1 e 2». Di questi procedimenti, in primo luogo, non si occupò il dottor Scarpinato, ma sua moglie, la dottoressa Principato, ma quel che più importa, il Fauci Salvatore, marito della Di Grado, non fu in esso mai coinvolto perché nel corso del procedimento stesso furono, infatti, disposte intercettazioni telefoniche ambientali che riguardarono persone rispondenti al cognome Fauci, ma Fauci Leonardo, Lorenzo e Antonino, nessuna delle quali era imparentata con il Salvatore Fauci suddetto. Dunque, nessun addebito di carattere deontologico e funzionale sembra poter essere rivolto al dottor Scarpinato. Peraltro ho provveduto a richiedere informazioni, come dicevo, anche alla procura di Caltanissetta. Questa ha riferito che non esistono indagini aventi ad oggetto il tema dell’interrogazione né alcun organo di polizia ha trasmesso comunicazione di notizia di reato attinente.

Il procuratore di Caltanissetta ha, anzi, precisato che dall’esame del testo dell’interrogazione e dallo stesso articolo di stampa non è dato individuare la precisa notizia di reato. Ha infine ricordato che non gli risulta che il collaboratore di giustizia Angelo Siino, approfonditamente interrogato negli anni scorsi, abbia mai (cito testualmente dalla risposta del procuratore di Caltanissetta) rilevato circostanze di fatto direttamente o indirettamente riconducibili al tema oggetto dell’interrogazione parlamentare.

Colgo l’occasione, onorevole Mancuso, per scusarmi per non aver potuto rispondere la settimana scorsa per una indisposizione sanitaria.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole ministro. L’onorevole Mancuso ha facoltà di replicare.

FILIPPO MANCUSO. Signor ministro, bentornato nel mondo dei sani, ma non nel mondo della verità. Non avevamo affatto parlato, nell’interrogazione, di intercettazioni o di indagini che non riguardassero i fratelli Fauci, uno dei quali è il marito della signora che ha stipulato l’atto con la famiglia Scarpinato. Sgombriamo, dunque, da questi fumogeni fastidiosi il caso nudo e crudo.

Il caso nudo e crudo è questo: che il dottor Scarpinato ha venduto alla società che era rappresentata dalla signora Di Grado, moglie del Fauci, un immobile della propria famiglia. Lo ha venduto per la somma esorbitante di quasi 700 milioni, quando ne valeva 300. Un immobile in Sciacca che oggi è assolutamente abbandonato e da nessuno frequentato. E il signor Fauci era ben noto – lui – allo Scarpinato, perché quest’ultimo, nel 1992, ne aveva chiesto il proscioglimento con il provvedimento che qui vi mostro. Soprattutto, nel 1996, anno della compravendita, con questa relazione che vi sto facendo vedere, egli, il dottor Scarpinato, aveva dato atto – mentre gli vendeva l’immobile a caro prezzo – che il Fauci, il suo compratore o comunque il marito della sua acquirente era un mafioso indagato!

Quella che vi sto mostrando è la relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documenta, anzi, come dire, confessa (data la situazione) che il compratore o il marito della compratrice del pubblico ministero Scarpinato era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!

Mentre sussisteva tutto questo, il dottor Scarpinato si elevava agli onori degli altari dell’antimafia, con un piglio che è ancora più grave dal punto di vista antropologico che da quello morale: un’indegnità comunque, in ogni caso Redazione LA VALLE DEI TEMPLI 21.9.2022 


19.8.2022 Rissa antimafia, Ingroia contro la candidatura di Scarpinato “Roberto, ripensaci”. E l’accusa di essersi schierato con Conte e Cafiero de Raho, nemici del pm Di Matteo

Le candidature dell’ex procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato non pacificano il fronte antimafia. Anzi esacerbano vecchi dissidi. E aprono nuove fratture, persino dove finora si riscontravano amicizia e solidarietà. «Roberto, ripensaci» è l’appello lanciato da Antonio Ingroia, che manifesta «profondo stupore» per la scelta «dell’amico e già collega Scarpinato che ho sempre stimato per impegno, coerenza e lucidità di visione».
Il rapporto tra Scarpinato e Ingroia è antico. Entrambi storici esponenti di Magistratura democratica a Palermo, nel 1992 all’indomani della strage di via D’Amelio erano due degli 8 pm firmatari (e Scarpinato estensore) di una clamorosa lettera per chiedere al Csm la testa del procuratore Giammanco. Non solo per questo furono tra i pm di punta della Procura nella gloriosa stagione Caselli, con i processi politici da Dell’Utri ad Andreotti. E poi paladini delle indagini e dei processi sulla trattativa Stato-mafia. Ingroia è fuori dalla magistratura da dieci anni e ci riprova ora con la politica, nella lista Italia Sovrana e Popolare, che spazia dal comunista Marco Rizzo a Gina Lollobrigida. Scarpinato è capolista del M5S al Senato in Sicilia e Calabria, uno dei quindici prescelti di Conte come Cafiero de Raho che è capolista alla Camera in Calabria ed Emilia Romagna.
Ingroia trova «sorprendente» la scelta di Scarpinato. Non è l’unico, tra i magistrati palermitani del fronte antimafia più rigorista, che ha come punta di diamante Nino Di Matteo, pm della Procura nazionale ora membro del Csm. «Conte vuole rifarsi una verginità», è la sintesi che uno di loro ha distillato commentando la candidatura di Scarpinato.
La verginità del M5S è persa da tempo, secondo Ingroia. Che rimette in fila i fatti.
Nel 2018 fu l’allora capo politico Di Maio a cercare Di Matteo prima delle elezioni, e per due volte. Nel primo colloquio, proponendogli un ruolo da ministro (giustizia o interni) in un eventuale governo a sua guida. Nel secondo, pochi giorni prima delle elezioni, ribadendo l’offerta ma stringendola sul ministero dell’Interno. Il suo nome fu fatto girare e rimbalzò sui media. Un mese dopo le elezioni, Di Matteo partecipò, acclamato, alla kermesse dell’associazione Casaleggio a Ivrea. Ma dell’offerta del ministero non si seppe più nulla. Di Maio non si fece più vivo. A governo Conte fatto, fu il ministro della Giustizia Bonafede a cercare nuovamente Di Matteo, per il cruciale ruolo di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dandogli 48 ore per decidere. Ma quando Di Matteo accettò, l’offerta fu ritirata, ancora una volta senza spiegazioni. Di Matteo esternò con i colleghi più fidati la sua delusione per l’irriguardoso trattamento. E ricostruì dettagliatamente l’episodio nel 2020, prima in tv e poi in Parlamento.
Perché, si chiede Ingroia, Scarpinato accetta la candidatura da chi era premier mentre Di Matteo veniva trattato così?
Ci sono altri due episodi. Nel 2019, Cafiero de Raho cacciò Di Matteo dal pool di magistrati della Procura nazionale antimafia impegnati sulle stragi del ’92-93. Il motivo – «perdita di fiducia» per un’intervista televisiva – era infondato se non pretestuoso, tanto che il provvedimento fu revocato un anno dopo, evitando un’imbarazzante censura del Csm. Nel frattempo, Di Matteo era stato eletto al Csm dove erano arrivate da Perugia tonnellate di chat di Palamara, tra cui quelle con lo stesso De Raho e con il suo sponsor politico Marco Minniti. Ma ciò – protesta Ingroia – non impedisce a Scarpinato di andare a braccetto con Cafiero, addirittura nella stessa regione.
Infine, c’è il recente avallo del M5S a una norma della riforma Cartabia considerata «contra personam». È il divieto per i membri togati del Csm (anche due anni dopo la fine del mandato) di candidarsi alle elezioni. Di Matteo la ritiene non solo incostituzionale, ma anche personalmente discriminatoria. Forse ignari della norma che essi stessi hanno votato, nelle ultime settimane diversi partiti l’hanno contattato per proporgli una candidatura impossibile. Ma in ogni caso, secondo Ingroia, Scarpinato offre «copertura politica a posizioni opache». LA STAMPA


19.8.2022 Rissa antimafia, Ingroia contro la candidatura di Scarpinato

“Roberto, ripensaci”. E l’accusa di essersi schierato con Conte e Cafiero de Raho, nemici del pm Di Matteo

19 Agosto 2022 alle 18:15

Le candidature dell’ex procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato non pacificano il fronte antimafia. Anzi esacerbano vecchi dissidi. E aprono nuove fratture, persino dove finora si riscontravano amicizia e solidarietà. «Roberto, ripensaci» è l’appello lanciato da Antonio Ingroia, che manifesta «profondo stupore» per la scelta «dell’amico e già collega Scarpinato che ho sempre stimato per impegno, coerenza e lucidità di visione».

Il rapporto tra Scarpinato e Ingroia è antico. Entrambi storici esponenti di Magistratura democratica a Palermo, nel 1992 all’indomani della strage di via D’Amelio erano due degli 8 pm firmatari (e Scarpinato estensore) di una clamorosa lettera per chiedere al Csm la testa del procuratore Giammanco. Non solo per questo furono tra i pm di punta della Procura nella gloriosa stagione Caselli, con i processi politici da Dell’Utri ad Andreotti. E poi paladini delle indagini e dei processi sulla trattativa Stato-mafia. Ingroia è fuori dalla magistratura da dieci anni e ci riprova ora con la politica, nella lista Italia Sovrana e Popolare, che spazia dal comunista Marco Rizzo a Gina Lollobrigida. Scarpinato è capolista del M5S al Senato in Sicilia e Calabria, uno dei quindici prescelti di Conte come Cafiero de Raho che è capolista alla Camera in Calabria ed Emilia Romagna.

Ingroia trova «sorprendente» la scelta di Scarpinato. Non è l’unico, tra i magistrati palermitani del fronte antimafia più rigorista, che ha come punta di diamante Nino Di Matteo, pm della Procura nazionale ora membro del Csm. «Conte vuole rifarsi una verginità», è la sintesi che uno di loro ha distillato commentando la candidatura di Scarpinato.

La verginità del M5S è persa da tempo, secondo Ingroia. Che rimette in fila i fatti.

Nel 2018 fu l’allora capo politico Di Maio a cercare Di Matteo prima delle elezioni, e per due volte. Nel primo colloquio, proponendogli un ruolo da ministro (giustizia o interni) in un eventuale governo a sua guida. Nel secondo, pochi giorni prima delle elezioni, ribadendo l’offerta ma stringendola sul ministero dell’Interno. Il suo nome fu fatto girare e rimbalzò sui media. Un mese dopo le elezioni, Di Matteo partecipò, acclamato, alla kermesse dell’associazione Casaleggio a Ivrea. Ma dell’offerta del ministero non si seppe più nulla. Di Maio non si fece più vivo. A governo Conte fatto, fu il ministro della Giustizia Bonafede a cercare nuovamente Di Matteo, per il cruciale ruolo di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dandogli 48 ore per decidere. Ma quando Di Matteo accettò, l’offerta fu ritirata, ancora una volta senza spiegazioni. Di Matteo esternò con i colleghi più fidati la sua delusione per l’irriguardoso trattamento. E ricostruì dettagliatamente l’episodio nel 2020, prima in tv e poi in Parlamento.

Perché, si chiede Ingroia, Scarpinato accetta la candidatura da chi era premier mentre Di Matteo veniva trattato così?

Ci sono altri due episodi. Nel 2019, Cafiero de Raho cacciò Di Matteo dal pool di magistrati della Procura nazionale antimafia impegnati sulle stragi del ’92-93. Il motivo – «perdita di fiducia» per un’intervista televisiva – era infondato se non pretestuoso, tanto che il provvedimento fu revocato un anno dopo, evitando un’imbarazzante censura del Csm. Nel frattempo, Di Matteo era stato eletto al Csm dove erano arrivate da Perugia tonnellate di chat di Palamara, tra cui quelle con lo stesso De Raho e con il suo sponsor politico Marco Minniti. Ma ciò – protesta Ingroia – non impedisce a Scarpinato di andare a braccetto con Cafiero, addirittura nella stessa regione.

Infine, c’è il recente avallo del M5S a una norma della riforma Cartabia considerata «contra personam». È il divieto per i membri togati del Csm (anche due anni dopo la fine del mandato) di candidarsi alle elezioni. Di Matteo la ritiene non solo incostituzionale, ma anche personalmente discriminatoria. Forse ignari della norma che essi stessi hanno votato, nelle ultime settimane diversi partiti l’hanno contattato per proporgli una candidatura impossibile. Ma in ogni caso, secondo Ingroia, Scarpinato offre «copertura politica a posizioni opache».



21.8.2022 L’errata profezia del Procuratore Scarpinato su Montante

Non finiscono le polemiche a seguito della candidatura di Roberto Scarpinato con il Movimento 5 Stelle. Dopo Ingroia che ha pesantemente criticato la scelta dell’ex procuratore generale di Palermo, e l’articolo non meno critico di Matassa sulla scelta di magistrati ed ex tali di mettersi in politica, c’è chi ancora  ricorda di come Scarpinato “facesse il tifo” per Antonello Montante, l’ex apostolo dell’antimafia che intervenne anche in favore di diversi magistrati. Tra i tanti articoli critici reperibili in rete, c’è anche questo pubblicato da ItalyFlash.
“Questi sono fatti che attestano, nero su bianco – si legge nell’articolo – come Roberto Scarpinato, da magistrato, aveva pubblicamente tirato la volata ad Antonello Montante, schierandosi a suo favore, come se si trattasse di uno sfegatato tifoso di calcio. Si tratta di un atto pubblico dal titolo: <> di Roberto Scarpinato – 2011 – Retecamere Scrl [società della Camera di Commercio di Roma] – Finito di stampare nel mese di aprile 2011. Stando alla documentazione custodita in un caveau segreto, rinvenuta dalla squadra mobile di Caltanissetta a casa del Montante, Scarpinato gli avrebbe chiesto, l’anno successivo all’intervento che potete leggere in coda, e cioè nel 2012, una raccomandazione per diventare procuratore generale di Palermo. Ricordiamo che l’ex falso paladino dell’antimafia Montante è stato condannato in appello, col rito abbreviato, l’8 giugno scorso ad 8 anni di reclusione, per associazione a delinquere, corruzione, accesso abusivo ai sistemi informatici dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia e spionaggio”.

Quello riportato al termine dell’articolo è l’intervento pubblico di allora a favore di Montante e degli allora vertici di Confindustria Sicilia:

La parola a Scarpinato:

“… Mi riferisco alla svolta maturata da Confindustria Sicilia a partire dal 2006 e portata avanti da Antonello Montante, presidente di Confindustria e della Camera di commercio di Caltanissetta; Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia e della Camera di commercio di Siracusa; Giuseppe Catanzaro, presidente di Confindustria Agrigento; Marco Venturi e altri. Questa classe di giovani imprenditori ha avuto il coraggio di operare quella linea di frattura alla quale ho fatto riferimento prima, aprendo uno scontro interno al mondo imprenditoriale senza precedenti. La Sicilia, come sempre è avvenuto in passato, si rivela in questo momento un laboratorio politico di portata nazionale che ha innescato un movimento che ha assunto un respiro nazionale e sta propagandosi, seppure a fatica, anche in altre regioni meridionali. Non mi dilungo sulle tappe di questo processo che sono certo conoscete benissimo e nel quale mi pare si possano distinguere più fasi. La prima fase è consistita nella conduzione di una guerra vittoriosa iniziata a Caltanissetta contro la componente imprenditoriale in quel distretto fortissima che faceva capo al costruttore Di Vincenzo, già presidente dell’Ance regionale, poi sottoposto a misura di prevenzione antimafia. Una fase che si è conclusa con l’emanazione di un codice etico che sanciva l’espulsione di tutti gli operatori economici che non denunciavano alle forze di polizia di avere subito richieste estorsive, segnale di una netta presa di distanza dalla cultura della connivenza e della rassegnazione passiva all’esistente.
La seconda fase, maturata più lentamente, è consistita nell’espulsione di imprese ritenute contigue con la mafia. …”

Un percorso pieno di insidie

“… Sono a conoscenza dei tentativi che sono stati svolti ad alto livello per isolare e delegittimare Ivan Lo Bello, Antonello Montante e altri alfieri della primavera confi ndustriale palermitana. E dobbiamo essere tutti consapevoli con sano realismo che questi risultati non sono irreversibili. Che proprio per la forza sociale e politica della borghesia mafiosa la partita resta sempre aperta e a rischio e richiede per questo vigilanza, consapevolezza e mobilitazione permanenti. …”>>

Redazione  LA VALLE DEI TEMPLI  21.8.2022


21.8.2022 Scarpinato nel 2011 tifava per Montante: ecco un suo intervento pubblicato dalla Camera di Commercio di Roma. Comunicato di Palamara sui magistrati in pensione candidati alle Nazionali

 
Questi sono fatti che attestano, nero su bianco, come Roberto Scarpinato, da magistrato, aveva pubblicamente tirato la volata ad Antonello Montante, schierandosi a suo favore, come se si trattasse di uno sfegatato tifoso di calcio. Si tratta di un atto pubblico dal titolo: <> di Roberto Scarpinato – 2011 – Retecamere Scrl [società della Camera di Commercio di Roma] – Finito di stampare nel mese di aprile 2011.

Quello che riportiamo al termine di questa nota, è quel suo memorabile intervento pubblico a favore di Montante e degli allora vertici di Confindustria Sicilia.

Stando alla documentazione custodita in un caveau segreto, rinvenuta dalla squadra mobile di Caltanissetta a casa del Montante, Scarpinato gli avrebbe chiesto, l’anno successivo all’intervento che potete leggere in coda, e cioè nel 2012, una raccomandazione per diventare procuratore generale di Palermo.
Ricordiamo che l’ex falso paladino dell’antimafia Montante è stato condannato in appello, col rito abbreviato, l’8 giugno scorso ad 8 anni di reclusione, per associazione a delinquere, corruzione, accesso abusivo ai sistemi informatici dei Ministeri dell’Interno e della Giustizia e spionaggio. A tal proposito l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, proprio in questi giorni, dopo quello che ha rivelato nei libri ‘Il sistema’ e ‘Lobby &Logge’, ritorna  anche su questo argomento, quello relativo ai rapporti tra Montante ed i magistrati del distretto nisseno. Com’è ormai noto tale vicenda è approdata, nel 2016, sul tavolo del procuratore della repubblica di Catania che scrisse a modello 45 i dieci magistrati indagati. Tale procedura consente di archiviare le indagini,  senza passare al vaglio del Tribunale. Cosa che il procuratore Zuccaro fece nei confronti dei suoi colleghi, compreso Scarpinato ovviamente, con questa motivazione:
Contestualmente, sempre Zuccaro, inviò una copia del relativo incartamento al CSM, per gli eventuali provvedimenti disciplinari. Da allora ad oggi, su questa storia, si registrano soltanto degli imbarazzanti silenzi.
Ecco perché Palamara lancia un appello e cerca di scuotere Scarpinato, neo candidato alle Nazionali dei 5 Stelle:
Nel 2011, ma anche dopo, l’ex procuratore generale di Palermo sul conto di Antonello Montante, purtroppo non sapeva niente. Non si era accorto, come tanti del resto, che in realtà era un falso paladino dell’antimafia. Non sappiamo se si è reso conto di questo bluff quando nel 2014 il giornale ‘I SicilianiGiovani’ pubblicano le foto che ritraggono Montante con i suoi compari mafiosi dentro la sede di Sicindustria ed il suo atto di matrimonio. Documenti peraltro rinvenuti nel 2009 a casa del compare mafioso di Montante, dal colonnello Letterio Romeo, attualmente sotto processo a Caltanissetta. Nessuno si è reso conto che gli imprenditori mafiosi Paolino e Vincenzo Arnone, assieme ad altri capimafia nisseni, avevano favorito la scalata dentro e fuori Confindustria di Antonello Montante, debitamente travestito da antimafioso di professione.
Il Procuratore Scarpinato forse non sapeva, per lo meno sino al 2014 che, alcuni collaboratori di giustizia accusavano Montante di essere stato vicino alla mafia,  addirittura a partire dagli anni Novanta. Otto di loro sono stati citati dai pubblici ministeri nel nuovo processo a suo carico, la cui prossima udienza si terrà il 12 settembre prossimo. Ma andiamo adesso ad analizzare quello che, alla luce dei recenti fatti giudiziari e delle recenti sentenze, si è rivelato uno dei più vistosi errori di valutazione di Scarpinato. Ci riferiamo all’avere accreditato quali antimafiosi dei falsi professionisti dell’antimafia come Montante che, in realtà, come detto, era compare di quei mafiosi che gli hanno consentito di scalare i vertici di Confindustria e, da quella postazione, condizionare qualsiasi attività, non solo economica ma anche politica, sociale e, per così dire, culturale…

La parola a Scarpinato:

“… Mi riferisco alla svolta maturata da Confindustria Sicilia a partire dal 2006 e portata avanti da Antonello Montante, presidente di Confindustria e della Camera di commercio di Caltanissetta; Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia e della Camera di commercio di Siracusa; Giuseppe Catanzaro, presidente di Confindustria Agrigento; Marco Venturi e altri. Questa classe di giovani imprenditori ha avuto il coraggio di operare quella linea di frattura alla quale ho fatto riferimento prima, aprendo uno scontro interno al mondo imprenditoriale senza precedenti. La Sicilia, come sempre è avvenuto in passato, si rivela in questo momento un laboratorio politicodi portata nazionale che ha innescato un movimento che ha assunto un respiro nazionale e sta propagandosi, seppure a fatica, anche in altre regioni meridionali. Non mi dilungo sulle tappe di questo processo che sono certo conoscete benissimo e nel quale mi pare si possano distinguere più fasi. La prima fase è consistita nella conduzione di una guerra vittoriosa iniziata a Caltanissetta contro la componente imprenditoriale in quel distretto fortissima che faceva capo al costruttore Di Vincenzo, già presidente dell’Ance regionale, poi sottoposto a misura di prevenzione antimafia. Una fase che si è conclusa con l’emanazione di un codice etico che sanciva l’espulsione di tutti gli operatori economici che non denunciavano alle forze di polizia di avere subito richieste estorsive, segnale di una netta presa di distanza dalla cultura della connivenza e della rassegnazione passiva all’esistente. La seconda fase, maturata più lentamente, è consistita nell’espulsione di imprese ritenute contigue con la mafia. …”

Un percorso pieno di insidie

“… Sono a conoscenza dei tentativi che sono stati svolti ad alto livello per isolare e delegittimare Ivan Lo Bello, Antonello Montante e altri alfieri della primavera confi ndustriale palermitana. E dobbiamo essere tutti consapevoli con sano realismo che questi risultati non sono irreversibili. Che proprio per la forza sociale e politica della borghesia mafiosa la partita resta sempre aperta e a rischio e richiede per questo vigilanza, consapevolezza e mobilitazione permanenti. …”>> Tratto da  Quaderni_Sviluppo  ITALY FLASH 21.8.2022

 

10.2.2022 ROBERTO SCARPINATO: “STRAGI E DEPISTAGGI: COSA RESTA DA FARE”

 
 
I TENTATIVI DI SVIARE LE INCHIESTE SONO TUTTORA IN CORSO. PRIMA DI ANDARE IN PENSIONE HO TRASMESSO UNA RELAZIONE SULLE MIE ULTIME INDAGINI. TOCCA A CHI RESTA ACCERTARE LA PARTE DI VERITÀ RIMASTA CELATA
Di Roberto Scarpinato
 
Ho vissuto la mia esperienza in magistratura in un’epoca tragica della storia d’Italia segnata da una sequenza ininterrotta di omicidi politici e di stragi che non ha uguali in nessun altro Paese europeo di democrazia avanzata, e che ha falcidiato tante vittime innocenti insieme ad alcuni degli uomini migliori del nostro Paese. Decisi di trasferirmi a Palermo nel 1988 perché in quel tempo era una trincea avanzata ove era in corso un corpo a corpo tra una esigua avanguardia di uomini dello Stato che si stavano spingendo laddove nessuno aveva mai osato, e poteri criminali – di cui la mafia militare era solo la componente più visibile e appariscente – che reagivano con furia omicida e con sotterranee manovre di Palazzo per fermarli.
Ho avuto l’onore di lavorare con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di essere testimone del loro progressivo isolamento e della loro discesa agli inferi senza ritorno. Dopo che Falcone decise di andare via da Palermo perché gli veniva impedito di svolgere le indagini sui livelli dei poteri criminali superiori alla mafia militare, che egli aveva individuato e che non a caso aveva definito “menti raffinatissime”, coniando l’espressione “gioco grande” per definire l’occulto gioco di potere che si celava dietro tanti delitti eccellenti, decisi di andare via dalla Procura di Palermo e feci domanda di trasferimento in altro ufficio. Con Falcone ci rivedemmo a Roma poco prima della strage di Capaci, mi confidò che riteneva di avere buone probabilità di essere nominato Procuratore nazionale antimafia e mi invitò a presentare domanda per la Procura nazionale, dicendomi che avremmo potuto finalmente svolgere le indagini che sino ad allora gli erano state impedite.
Dopo la strage di via D’Amelio, decisi di revocare la domanda di trasferimento e redassi un documento che fu sottoscritto da altri sette sostituti procuratori, con il quale minacciavamo di dare le dimissioni se non veniva trasferito il Procuratore capo che aveva emarginato prima Falcone e poi Borsellino. Il Csm aprì una inchiesta convocando tutti i magistrati dell’ufficio.
Nel corso della mia audizione del 29 luglio 1992, raccontai con dettagli come e perché Falcone e Borsellino erano stati ridotti all’impotenza. Ho appreso anni dopo che, ciononostante, si stava formando una maggioranza favorevole a mantenere al suo posto il Procuratore Capo, con conseguenze negative per i “ribelli”, come venimmo definiti.
La situazione si sbloccò a nostro favore perché quel Procuratore decise all’improvviso di fare domanda di trasferimento. Credo che abbia svolto un ruolo importante l’imponente mobilitazione della società civile.
Migliaia e migliaia di persone che scesero in piazza per chiedere giustizia e che gridavano parole di sdegno furono il segnale che non si poteva tirare oltre la corda, restaurando il passato. Iniziò così una corsa contro il tempo. Sapevamo che si preparavano altri omicidi e altre stragi. Si lavorava giorno e notte per raccogliere prove sufficienti per individuare e neutralizzare con ordini di cattura i mafiosi stragisti più pericolosi, togliendoli dalla strada. Contemporaneamente iniziammo a svolgere con il nuovo Procuratore Gian Carlo Caselli le indagini che Falcone e Borsellino, e prima di loro Rocco Chinnici e altri valorosi magistrati, non avevano avuto la possibilità di svolgere e che avevano segnato la loro via crucis. La stagione degli intoccabili sembrava finita. I collaboratori di giustizia iniziarono a rivelare tutto ciò che avevano sempre taciuto per timore di rappresaglie da parte di un sistema di potere che sino ad allora era apparso invincibile e che in quella fase sembrava stesse collassando.
Furono sottoposti a giudizio presidenti del Consiglio, ministri, vertici dei Servizi segreti e delle Forze di Polizia, alti magistrati, uno stuolo di uomini politici nazionali e regionali, di imprenditori, taluni dei quali a capo di holding nazionali con proiezioni internazionali, di banchieri e via elencando. La reazione non si fece attendere. A poco a poco, in modi e in tempi diversi, i principali protagonisti di quella stagione fummo progressivamente esclusi dalle indagini più scottanti e dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi operativi ritenuti strategici. Per Caselli fu addirittura varato nel 2005 un emendamento ad hoc alla legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (dichiarato poi incostituzionale) per impedirgli di fare domanda per il posto di Procuratore nazionale antimafia. Quando io a mia volta nel 2012 manifestai l’intenzione di presentare domanda per quel posto che di lì a poco si sarebbe reso vacante, mi sentii dire che non avevo alcuna speranza perché ero un magistrato “troppo caratterizzato”. Un componente del Csm, tra il serio e il faceto, mi disse: “Non possiamo nominare una sorta di Che Guevara in un posto simile!”. Nonostante ciò, non ho mai smesso di proseguire le indagini sul complesso progetto di destabilizzazione politica sotteso alle stragi del 1992/1993 e sui mandanti occulti, che avevamo iniziato alla Procura di Palermo nel 1996 con il processo “Sistemi Criminali”. Da Procuratore Generale di Caltanissetta mi sono occupato della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, approfondendo la conoscenza di tutti gli atti di quella complessa indagine. Da Procuratore Generale di Palermo ho partecipato dal maggio 2019 a riunioni di coordinamento con tutte le Procure distrettuali competenti per i processi sulle stragi, a seguito di indagini svolte dal mio ufficio per l’omicidio di un agente della Polizia di Stato che aveva scoperto collusioni tra mafiosi e settori dei Servizi segreti.
Ho così avuto la possibilità di comprendere che le stragi del 1992 e del 1993 non appartengono al passato, ma sono ancora tra noi in tanti modi. Le indagini su queste stragi sono state caratterizzate da una serie impressionante di depistaggi realizzati mediante la sottrazione di documenti essenziali, la creazione di false piste, l’eliminazione di mafiosi depositari di segreti scottanti poco prima che iniziassero a collaborare con la magistratura, e altro ancora. È stato fatto di tutto e di più per impedire che venissero alla luce verità indicibili. Il fatto che i tentativi di depistaggio si siano ripetuti sino a tempi recenti e siano ancora in corso, dimostra la pericolosa e attuale operatività di chi ha timore che quei segreti possano ancora venire alla luce. Prima di andare via, ho trasmesso una relazione sulle ultime indagini che ho svolto in questo campo. Chiudendo la porta alle mie spalle, sentivo di avere compiuto il mio dovere sino all’ultimo giorno della mia carriera. Ora tocca a chi resta proseguire il difficile compito di accertare la parte di verità rimasta sino a oggi celata, e di rendere piena giustizia a chi ha sacrificato la propria vita per difendere la nostra democrazia.
9 Febbraio 2022 ANTIMAFIA DUEMILA
 

9.2.2022 Quegli strani rapporti tra Scarpinato e il dottor Montante

È storia nota che tra gli appunti di Antonello Montante, l’ex presidente della Confindustria siciliana condannato per associazione mafiosa e per aver organizzato un’attività di dossieraggio, sono emersi rapporti non proprio limpidi con dieci magistrati in quegli anni stavano a Caltanissetta. Tra di loro campeggia il nome di Roberto Scarpinato, fino a poco tempo fa capo della procura generale di Palermo.

Nel nuovo libro intervista “Lobby e Logge”, Palamara rivela il perché scattò l’operazione “salviamo il soldato Scarpinato” e, a detta sua, per logica conseguenza, tutti gli altri. Dagli appunti emerge che Montante ebbe rapporti molto intensi con Scarpinato e compaiono diverse richieste di raccomandazione da parte di quest’ultimo. Ma, fra gli appunti di Montante,salta all’occhio quello datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». E c’è pure la stampa del documento con la composizione del Csm con appunti manoscritti, in cui per ciascun componente è indicata la corrente di appartenenza, e per quelli eletti dal Parlamento il partito di appartenenza, e sul margine sinistro del foglio annotata la seguente scritta: «Due alternative, o Lari procuratore generale a Caltanissetta e non fa concorrenza».

Alla domanda di Alessandro Sallusti sul fatto che tale richiesta di Scarpinatosa tanto di richiesta di raccomandazione a una persona esterna alla magistratura – che poi si scoprirà essere a capo di una lobby mafiosa – ritenuta in grado di interferire con le decisioni del Csm, Palamara rivela come si è attivato il meccanismo di protezione nei confronti del magistrato ritenuto membro del Gotha dell’antimafia siciliana. La procura di Catania è quella deputata ad indagare i magistrati di Caltanissetta. Ma archivia tutto. La parte più interessante che rivela Palamara nel libro, è il finale delle motivazioni: « (…) In conclusione resta accertato che in ambito di rapporti più o meno istituzionali del presidente di Confindustria di Caltanissetta con molti magistrati del distretto nisseno, questi ultimi hanno chiesto l’interessamento dell’imprenditore per una possibile sistemazione lavorativa di parenti e amici, o l’interessamento per la propria carriera, e ciò sia in considerazione delle amicizie altolocate di Montante, numerose sono le annotazioni di incontri con ministri o altri soggetti politici di vertice, sia in relazione al suo ruolo di imprenditore e presidente degli imprenditori, ma tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può certo ritenersi illecita».

In sintesi, emerge chiaramente che solo se ci sono di mezzo alcuni magistrati, i fatti sono difficili da accertare. «E nessuno fiata», aggiunge Palamara. Ma non solo. A differenza dei politici o cittadini normali, a distanza di un anno dallo scoppio del caso Montante, della vicenda dei magistrati l’opinione pubblica non sapeva nulla.
«Quando c’è da mantenere un segreto in Sicilia sanno bene come fare», chiosa Palamara. Poi accade che la pratica arriva al Csm e prontamente, in un articolo del 22 dicembre del 2016 a firma diGiovanni Bianconi, esce la notizia dei magistrati coinvolti nel fascicolo. Cosa accade? Entra in gioco la “ragion di Stato”.
Palamara rivela che scoppia il panico, perché «se un collega importante come Scarpinato o uno come Lari, tanto per essere chiari, dovesse apparire vicino a un imprenditore legato ad ambienti mafiosi, travolgerebbe tutto, e lo Stato non se lo può permettere». A detta di Palamara, a facilitargli il lavoro di archiviazione sarebbero stati gli allora capi della procura di Cataniae Caltanissetta stessi. «Facciamo – rivela sempre Palamara -, come è ovvio che sia, le audizioni dei due procuratori, quello di CataniaCarmelo Zuccaro e quello di Caltanissetta Amedeo Bertone. Tra imbarazzi e frasi di circostanza non si cava un ragno dal buco, ma anche perché nessuno in realtà vuole cavarlo».

Ma non è tutto. Palamara mette in campo una ipotesi sconvolgente. Lui stesso è testimone del fatto che, su forte pressione della corrente di sinistra, le nomine dei nuovi procuratori di Catania e Caltanissetta sarebbero state funzionali alla gestione del «problema dei colleghi coinvolti nel caso Montante, che evidentemente loro sapevano sarebbe scoppiato ben prima che diventasse noto non solo all’opinione pubblica, ma anche al Csm».
E sempre nel libro, emerge che è la stessa “ragion di Stato” per cui Palamara – da direttore dell’ufficio studi del Csm – decise di non rendere pubblici i verbali del Csm del 1992, dove si riportano le audizioni fatte nei confronti dei magistrati della procura di Palermo subito dopo la strage di Via D’Amelio. «Questo avrebbe potuto riaccendere vecchie e mai sopite polemiche, e io in quella fase ero fermamente convinto che si dovesse evitare. Quel verbale non verrà mai inserito nella pubblicazione fatta in memoria diPaolo Borsellino», rivela Palamara.

Quei verbali non sono mai stati secretati, ma mai resi pubblici appositamente. Solo dopo quasi 30 anni, sono stati tolti dai cassetti grazie alla richiesta dell’avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori, nel processo d’appello sulla trattativa, e depositati dall’avvocato Simona Giannetti nel processo per diffamazione avviato su querela di Lo Forte e Scarpinato per una serie di articoli pubblicati sul Dubbio sulla vicenda dell’archiviazione dell’indagine mafia e appalti dopo la morte di Borsellino. Anche nel libro intervista si fa cenno alla vicenda del dossier archiviato. A detta di Palamara, si tratta di una vicenda devastante che ci portiamo dietro ancora oggi. IL RIFORMISTA 9 febbraio 2022 Leonardo Berneri

 


11.2.2022 Corruzione: Montante, ‘querelerò Palamara, mai commesso reati con magistrati

(Adnkronos) – Palamara che nel libro dice: “Sul caso Montante il Csm, dove io stavo all’epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati”. “La magistratura è una istituzione che io rispetto e che rispetterò sempre – dice Antonello Montante – poi, certo, i magistrati sono uomini e in quanto tale… Ma della magistratura non posso che parlare bene”. Sempre in riferimento al libro di Palamara parla dei paragrafi dedicati all’ex Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. L’ex giudice parla nel libro di una “cartellina verde con la dicitura ‘Scarpinato’ . Tra le altre cose c’è una planimetria di un immobile di Caltanissetta, con allegate fotografie, con la scritta a mano ‘Consegnatemi da Scarpinato il 13 diembre 2012”. “La casa non è mai stata venduta – dice oggi Scarpinato, scrivendo sul Fatto -Nel 2012 incaricai un’agenzia immobiliare di venderla. Montante mi chiese la planimetria per conto di un conoscente interessato all’acquisto”. E l’ex magistrato parla di una “insinuazione malevola” di Palamara. Oggi Montante dice, irritato: “L’interessamento per la casa di Scarpinato? Non vedo dove ci siano delle irregolarità…”.E, ancora, sui rapporti con i magistrati citati nel libro di Palamara, Montante dice: “Se ci fosse stata una ipotesi di reato l’avrei raccontata, io ho conosciuto solo persone per bene, e basta. Lo avrei detto in aula, o nella memoria scritta”. E aggiunge abbassando la voce: “Io non seguo la stessa linea di Palamara che prima mangia e poi sputa nel piatto in cui ha mangiato”. Spiega anche di sentirsi “vittima di un sistema”. Ha parole di elogio anche per il rappresentante dell’accusa, il sostituto procuratore generale Giuseppe Lombardo: “Io lo devo ringraziare perché è sempre stato disponibile e non mi ha mai negato problematiche inerenti alla mia salute. Va rispettato per questo”.



11.2.2022
ROBERTO SCARPINATO:
”Falsità e insinuazioni malevole contro i magistrati non allineati”


11.2.2022 “IL DINAMITARDO DELLA GIUSTIZIA» di Roberto Scarpinato


 

 


17.6.2021- ROBERTO SCARPINATO / STRAGI, I MANDANTI POLITICINell’agenda rossa di Paolo Borsellino, incredibilmente sparita, c’erano di sicuro le prove sui mandanti esterni delle stragi di Capaci e via D’Amelio. La prova che ‘menti raffinatissime’ hanno coordinato la strategia stragista, che il rapporto tra mafia e politica era diventato ormai organico e che spesso e volentieri la mafia era il braccio armato per eseguire copioni di stampo politico.

E’ il senso delle fresche dichiarazioni rese dell’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, davanti alla commissione regionale antimafia che indaga sul depistaggio delle indagini per la strage di via D’Amelio, culminate con il taroccamento del ‘pentito’ Vincenzo Scarantino e oggi al centro del processo che vede come imputati tre poliziotti mentre le posizioni di due magistrati (Anna Maria Palma e Carmelo Petralia) che avevano per primi svolto le indagini sono state archiviate.

Ecco alcune tra le più significative dichiarazioni di Scarpinato. 

  • “Non bastava uccidere Borsellino, si doveva far sparire l’agenda rossa, perché se fosse stata trovata sarebbe finito tutto, visto che dentro c’erano chiavi in grado di aprire scenari che colpivano i mandanti esterni”.
  • “La bomba la fanno esplodere i mafiosi, ma l’agenda la fanno sparire soggetti insospettabili che possono agire sfruttando la loro veste istituzionale. Nella borsa di Borsellino c’erano due agende. Una viene lasciata, l’altra sparisce. Si capisce che non è un’operazione protocollare dei Servizi”.
  • “Il capitano Arcangioli (Giovanni Arcangioli, indagato per la sparizione dell’agenda rossa ma subito prosciolto, ndr) prende la borsa dalla macchina di Borsellino e si allontana, poi torna indietro e la rimette nell’auto. La borsa a quel punto resta integra, nonostante un nuovo incendio si fosse sviluppato nell’abitacolo, solo perché un vigile spegne il fuoco”.

Poi Scarpinato parla di un’altra misteriosa sparizione, stavolta relativa ad alcuni documenti che Giovanni Falcone custodiva nel suo ufficio al ministero della Giustizia dove aveva iniziato a lavorare (guardasigilli, all’epoca, Claudio Martelli). Osserva l’ex procuratore generale di Palermo: “Dopo la strage di Capaci, nella stanza di Falcone entrano alcuni sconosciuti che accendono il pc del magistrato e guardano alcuni file. Dalla perizia fatta si vide che furono aperti solo i documenti relativi all’omicidio Mattarella e a Gladio”.

Scarpinato rammenta un dialogo avuto con Falcone, nel corso del quale gli disse che “se avesse fatto il procuratore nazionale Antimafia avrebbe fatto cose che nessuno si aspettava grazie a nuove collaborazioni che stavano maturando”.

Sulla decisione di anticipare la strage di via D’Amelio, Scarpinato la motiva con il fatto che Totò Riina “aveva preso accordi con soggetti esterni”.

Osserva ancora: “Negli omicidi Dalla Chiesa, La Torre e Mattarella la mafia è il braccio armato di altri che hanno usato la causale mafiosa per occultare causali politiche che se svelate avrebbero destabilizzato il sistema”.

“Borsellino venne travolto dal grande gioco, ma quello che mi angoscia è ciò che continua ad accadere e che mi fa pensare che la storia continui ancora”.

Entrando ancor più nel vivo, Scarpinato sottolinea che “Paolo Borsellino forse aveva capito che c’erano dei pezzi esterni a Cosa Nostra invischiati nella strage di Capaci. Lui capisce che sarà la mafia a ucciderlo, ma che al contempo ci sono entità superiori che lo decideranno prima. Borsellino è inquieto, sua moglie ricorda che aveva dei conati di vomito. Acquisisce altre notizie con cui capisce che c’era un continuo colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato”.

“Prima della strage di via D’Amelio c’è la morte di Vincenzo Milazzo, che evidenzia la costante presenza di soggetti appartenenti a settori deviati in tutta la stagione stragista. Sono soggetti che portano interessi convergenti all’organizzazione. Ma nella strage di via D’Amelio questi interessi sembrano addirittura sovrapporsi a quelli mafiosi. Riina dice che non può aspettare 19 giorni e che la strage va eseguita prima. Riina non dà spiegazioni che siano coerenti con gli interessi di Cosa Nostra, taglia corto e dice di assumersi la responsabilità. Viene ritenuto pazzo dai suoi, ma la verità è che aveva preso un impegno con soggetti esterni e stava sacrificando gli interessi della sua organizzazione. Ma la vera domanda è: cosa poteva fare Borsellino in 19 giorni di così pericoloso tanto da far sacrificare a Riina gli interessi di Cosa Nostra?”.

La strage di via D’Amelio – secondo Scarpinato – “continua ad essere un affare di Stato, un war games. La storia di via D’Amelio non è finita, è ancora tra noi, il depistaggio continua, anche mettendo in giro falsità. La sparizione dell’agenda rossa è stato il colpo da maestro che dimostra che c’è un apparato che si muove. Il depistaggio parte da là. E ciò che è avvenuto e continua ad avvenire sono i silenzi”.

Una solo domanda. Come mai, nella sua lunga ricostruzione, Scarpinato – a quanto pare – non ha fatto alcun cenno ad una delle piste più credibili come movente per le stragi, quella “Mafia-Appalti” sempre indicata, per fare un solo nome, da Fiammetta Borsellino, l’indomita figlia di Paolo che continua a puntare l’indice contro i magistrati incaricati delle indagini durate tanti anni e che hanno portato al processo farsa costato 16 anni di condanna a degli innocenti? E come mai nessun componente della commissione Antimafia regionale ha pensato bene di chiedere qualcosa in proposito a Scarpinato? Giugno 2021 di: PAOLO SPIGA – voci delle voci


16.6.2021 – SCARPINATO, L’EX PG IN COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS “Stagione dei depistaggi mai finita ”BORSELLINO AVEVA CAPITO COSA C’ERA DIETRO CAPACI“  Per capire perché è stato ucciso Paolo Borsellino e soprattutto perché l’attentato venne deliberato e realizzato in tutta fretta, la domanda da farsi è cosa poteva fare Borsellino non cosa avesse fatto. Borsellino ha capito cosa c’era dietro la strage di Capaci e che dietro l’eccidio c’erano entità esterne. E aveva annotato tutto questo nell’agenda rossa scrivendo che c’erano entità superiori dinnanzi alle quali capì lui stesso di non avere scampo”. Lo dice l’ex procuratore generale Roberto Scarpinato audito dalla commissione regionale Antimafia che indaga sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio.

“Il pentito Gaspare Mutolo – prosegue – anticipò a Falcone che avrebbe parlato di Contrada (ex numero due del Sisde poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ndr) e il braccio destro di Borsellino, Carmelo Canale, ha raccontato di essere stato presente a un incontro tra Falcone e Borsellino in cui era stato detto che appena Mutolo avesse deciso di collaborare avrebbero messo le manette a Contrada”.

Sulla decisione di anticipare la strage di Via D’Amelio Scarpinato ha detto: “era in ballo, dopo Capaci, la conversione della norma sul 41 bis e in Parlamento c’era una dialettica molto forte e una maggioranza garantista. Nonostante ciò Riina decide che la strage deve essere seguita prima del 7 agosto, data di conversione del decreto, rischiando quel che poi è avvenuto e cioè che la norma sull’onda di ciò che era accaduto fosse approvata”. Una fretta che Scarpinato giustifica solo alla luce di quel che dicono alcuni pentiti e cioè che Riina “aveva preso accordi con soggetti esterni”.

“Era facilissimo – ha continuato – uccidere Falcone a Roma, visto che girava senza scorta. Ma si decide di cambiare il piano, Riina stabilisce che Falcone deve essere ucciso in modo eclatante a Palermo con una bomba. Il boss cambia idea dopo un incontro con persone importanti estranee a Cosa Nostra, questo perché non soltanto i mafiosi volevano morto Falcone. Si diceva che per impedire ad Andreotti di diventare presidente della Repubblica ci sarebbe stato un bel botto. E così sarà. E le ingerenze di personalità non mafiose nella strage di Capaci sono confermate da recenti risconti, ma su questi c’è il segreto istruttorio“.

STAGIONE DEPISTAGGI MAI FINITA“La storia dei depistaggi purtroppo non è finita. Capisco che Giuseppe Graviano vuole difendersi ma perché si fa carico di Aiello(ex agente dei Servizi deviati ritenuto killer di Stato ndr) e indica come possibile esecutori delle stragi soggetti morti o parla dell’agenda rossa che sarebbe stata trafugata da un magistrato? Graviano sembra scriva sotto dettatura dei Servizi“, aggiunge Scarpinato.

“Anche all’interno della magistratura è stato difficile indagare su Aiello. Borsellino venne travolto dal grande gioco, ma quello che mi angoscia è ciò che continua ad accadere e che mi fa pensare che la storia continui ancora”.

“Da un lato – aggiunge – abbiamo questo, dall’altro Avola (dichiarante catanese che ha escluso che gli attentati del ’92 videro coinvolti apparati deviati dello Stato ndr), poi ci sono altri elementi di cui non posso parlare, ma tutto questo mi fa pensare che c’è qualcosa che si sta muovendo oggi”.

“Questa è la cosa drammatica – spiega – e chi sa i segreti non parla. E del resto con la nuova sentenza della Corte Costituzionale che apre all’uscita dal carcere agli ergastolani mafiosi anche senza la collaborazione con la giustizia, si apre una nuova stagione. Cosa accade se il Parlamento non approva in tempo una nuova legge sull’ergastolo ostativo? La strage è tra noi e i tentativi di depistaggio sono complessi e non sono mai finiti”.


16.6.2021 EVERSIONE NERA, MAFIA E STRAGI“A marzo del 1992 Elio Ciolini, un uomo vicino ai Servizi e alla estrema destra viene arrestato e gli trovano un’agenda con numeri della Cia, della Dea americana. A un certo punto scrive una lettera al giudice istruttore di Bologna annunciando una nuova strategia della tensione e annunciando l’omicidio di un politico della Dc e che da maggio a luglio ci sarebbero state una serie di esplosioni finalizzate alla creazione di un nuovo ordine deviato massonico. Otto giorni dopo, viene ucciso Salvo Lima”.

Lo racconta l’ex PG di Palermo Roberto Scarpinato audito dalla commissione regionale Antimafia parlando del contesto in cui maturarono le stragi del ’92 e riferendo di un progetto eversivo finalizzato a destabilizzare le istituzioni che avrebbe visto come protagonisti mafia e apparati deviati dello Stato.

“Ciolini – spiega – disse che il piano era della mafia, della Ndrangheta, della massoneria e della destra eversiva e aggiunse che ci sarebbe stata una seconda fase per distogliere l’opinione pubblica dall’ impegno contro la mafia. E arrivano le stragi del 93”. 

MAFIA BRACCIO ARMATO DI ALTRI “Negli omicidi Dalla Chiesa, La Torre e Mattarella – aggiunge – la mafia è il braccio armato di altri che hanno usato la causale mafiosa per occultare causali politiche che se svelate avrebbero destabilizzato il sistema. E’ possibile che ancora non si sa chi siano stati i killer di Mattarella?”, prosegue.

BORSELLINO AVEVA SCOPERTO PIANO DESTABILIZZAZIONE “Se Borsellino fosse andato a Caltanissetta con l’agenda rossa sarebbe scoppiata la bomba. Era un catalizzatore, sarebbe bastato che dicesse ‘qui c’è un piano di destabilizzazione’ e cosa sarebbe accaduto? I pentiti si fidavano di lui, bisognava fermarlo”.

Si chiude con la indicazione del movente dell’accelerazione della strage di Via d’Amelio la lunga audizione dell’ex pg di Palermo Roberto Scarpinato, sentito dalla commissione regionale Antimafia che indaga sul depistaggio delle indagini sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e della scorta. IL SICILIA 


16.6.2021 Strage di via D’Amelio, Scarpinato alla Commissione antimafia siciliana: “Il depistaggio è ancora in corso, Graviano scrive sotto dettatura. Borsellino fu ucciso perché aveva capito troppo”

DI MANUELA MODICA| 

“Quel che mi angoscia non è solo ciò che è successo allora, ma ciò che succede ancora: il depistaggio è ancora in corso”. Parla così Roberto Scarpinato – ex Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo, e ancor prima membro del pool di cui fecero parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – di fronte alla Commissione antimafia siciliana presieduta da Claudio Fava, che indaga sugli aspetti politico-istituzionali del depistaggio di via D’Amelio. E dice la propria su Maurizio Avola, il pentito che si auto-accusa della strage in un libro firmato insieme al giornalista Michele Santoro e diventato un caso. “Avola, adesso, dice che via D’Amelio sta dentro Cosa nostra e nient’altro che Cosa nostra. Ho letto il libro di Santoro e sono rimasto molto colpito: Avola è quello che sin dall’inizio della sua collaborazione ha rivelato di Enna (dove avvenne nel 1991 l’incontro tra ‘ndrangheta, Cosa nostra, massoneria e servizi segreti deviati, in cui si deciderà, secondo Scarpinato, la strategia di destabilizzazione attraverso le stragi, ndr), mentre nel libro parla di un altro incontro. Com’è possibile che non racconti quello che ha messo a verbale da sempre? La sua versione fuga ogni dubbio di interventi al di fuori di Cosa nostra, compresa la presenza di infiltrati, perché lui era lì travestito da poliziotto, quindi il cerchio si chiude. C’è da chiedersi: è un’operazione ingenua o qualcuno ha deciso di far suicidare processualmente Avola? Quello che colpisce è che questa storia non è finita”.

“Graviano? Scrive sotto dettatura dei servizi” – A portare avanti il depistaggio, secondo il magistrato, c’è anche il boss Giuseppe Graviano: “Capisco voglia difendersi, ma perché si fa carico di Aiello (ex agente dei Servizi deviati ritenuto killer di Stato, ndr) e indica come possibili esecutori delle stragi soggetti morti, o parla dell’agenda rossa che sarebbe stata trafugata da un magistrato? Questa sembra la riedizione del Corvo, Graviano sembra scriva sotto dettatura dei servizi“, accusa. Sono tanti gli interrogativi il magistrato solleva di fronte alla Commissione, ma ancor di più sono le informazioni che fornisce ripercorrendo il contesto storico e politico in cui avviene l’attentato del 19 luglio 1992. Iniziata alle 14, l’audizione di Scarpinato è durata poco più di tre ore: un fiume in piena fatto di dettagli, episodi, processi, intercettazioni. Il frutto di una lunga carriera alla procura di Palermo, dove rimase dopo il 19 luglio, nonostante avesse chiesto il trasferimento: “Ritirai la richiesta di trasferimento alla procura nazionale per restare lì dove si moriva”, dice.

La “supercosa” – L’intervento ripercorre nei particolari ciò che Scarpinato già aveva ipotizzato nell’inchiesta Sistemi criminali, archiviata nel 2001, la madre di tutte le indagini sulla Trattativa. Ricordando interrogatori, indagini e intercettazioni l’ex pm parte dalla caduta del muro di Berlino e quindi delle protezioni di cui alcuni apparati dello Stato avevano goduto fino ad allora. Venute meno quelle, un gruppo, una “supercosa” come l’ha chiamata Riina, composta da ‘ndrangheta, Cosa nostra, massoneria, destra eversiva e servizi segreti deviati avrebbe messo in campo un vero e proprio “War game”, all’interno del quale è rimasto risucchiato Paolo Borsellino. Lui come altri – Dalla Chiesa, Mattarella, La Torre, Falcone – ma la vicenda di Via d’Amelio più di altre mostra, nel contesto di un sistema che puntava a destabilizzare lo Stato per evitare il pericolo di un governo con la sinistra, come Cosa nostra si fosse fatta braccio armato di altri interessi. “Fino ad allora gli interessi di tutti convergevano, nel caso di Via D’Amelio manca invece l’allineamento degli interessi”, spiega Scarpinato.

“Borsellino ucciso perché aveva capito” – In quel momento, infatti, “in Parlamento era prevalente una maggioranza garantista contraria a convertire in legge quel decreto (il decreto antimafia voluto da Falcone che introdusse l’ergastolo ostativo, ndr) che scadeva il 7 agosto. Calò aveva comandato a tutti di stare ad aspettare, perché era probabile che il decreto non fosse convertito. Riina decide che non può attendere e che (Borsellino, ndr) deve essere ucciso prima”. Il progetto della strage di Via D’Amelio subisce un’accelerazione improvvisa, di cui Riina si assume la responsabilità ma che non riesce a spiegare: ed è qui, secondo Scarpinato, che è evidente come Cosa nostra si sia mossa per ordini altrui, di fatto contravvenendo ai propri interessi. Ma perché questa fretta di uccidere Borsellino prima del 7 agosto? “Perché Borsellino aveva capito. E se avesse messo uno dietro l’altro le cose che aveva capito, lì scoppiava la bomba. Aveva capito tante di quelle cose. Se (Borsellino, ndr) avesse detto, guardate che qui c’è un piano di destabilizzazione che non è stato voluto da Cosa nostra ma da altri”, cosa sarebbe successo in Italia? Doveva essere ucciso in fretta prima che rivelasse il piano eversivo. Falcone, invece, poteva essere ucciso con facilità a Roma, mentre si preferì una strage molto più complessa, sempre per creare un clima di destabilizzazione”.

Vittime del “War game” – L’omicidio di Falcone, poi, matura perché il giudice “indagava su Gladio: il suo ufficio era sotto sequestro dopo la strage di Capaci, nella sua stanza al Ministero si introducono ignoti che accendono pc e guardano file, solo alcuni però, che riguardavano Gladio e l’omicidio Mattarella: posso testimoniare in prima persona che Falcone aveva concentrato attenzione su Gladio e sull’assassinio del fratello del presidente della Repubblica, ma anche du quello di Pio La Torre”. La “supercosa” era fatta di “apparati dello Stato che si sono mossi in base a interesse non solo nazionali ma anche internazionali”, ha sottolineato il magistrato. Dopo la caduta del muro di Berlino “si tratta di una difficile mediazione, difficile governare tutto questo, aprendo scontro interno con armi di ricatto molto potenti. Credo che Borsellino e Falcone siano rimasti vittime di un gorgo grande, di un War game”. Un War game che il magistrato ucciso da un’autobomba aveva capito: “Sapeva ci fossero entità esterne a cosa nostra, pezzi deviati dello Stato dinnanzi ai quali capisce di non avere scampo e annota nell’agenda rossa”.

Il mistero delle due agende – A rivelare la consapevolezza di Borsellino è Leonardo Messina, “a conoscenza di tutto il piano di Enna, tra i primi che lo illustra nei dettagli. E Messina ammette di avere rivelato a Borsellino nelle linee essenziali il programma di Enna”. Per questo Borsellino chiederà alla moglie, di abbassare le tende “per non essere spiato da Castello Utveggio, sede dei servizi segreti, e come racconta Agnese avrà i conati di vomito, per avere saputo che Subranni (Antonio, ex comandante dei Ros, ndr) era ‘punciutu’ (affiliato a Cosa nostra, ndr)”. E ripercorre quel 19 luglio, poco dopo l’esplosione: “Il capitano Arcangioli (indagato e poi prosciolto per non avere commesso il fatto, ndr) prende la borsa e percorre 60 metri fino a via Autonomia siciliana, quello che è inspiegabile è che ritorna indietro con la borsa, dalla macchina arriva un ritorno di fiamma, e rimette la borsa dentro, una volta spento il fuoco. Di certo l’agenda viene sottratta nei pochi minuti dopo l’esplosione con un coordinamento perfetto, ma non è un’azione protocollare dei servizi: c’era l’agenda rossa e quella marrone, per esigenze di Stato si prende tutto e poi si vede, mentre l’agenda marrone resta al suo posto”.  FQ 16.6.2021


30.1.2021 – ‘Storia al bivio: o classe dirigente si responsabilizza o sarà il fallimento”  Roberto Scarpinato*   


E’ ancora presto per misurare l’impatto delle conseguenze economiche della crisi pandemica sull’evoluzione delle fenomenologie criminali che caratterizzano il nostro distretto giudiziario e sulla capacità di risposta degli uffici del Pubblico Ministero che si trovano in prima linea nell’azione di contrasto nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento.
I dati statistici relativi al decorso anno giudiziario appaiono poco eloquenti perché si fermano alla data del 30 giugno 2020, quando la crisi era nella fase iniziale e non aveva ancora stabilizzato i suoi effetti negativi, proiettandosi nel lungo periodo.
II numero complessivo di nuovi procedimenti iscritti a carico di noti nel periodo 1 luglio 2019 – 30 giugno 2020 (47.201) non presenta uno scarto percentuale significativo rispetto all’anno precedente (48.497). Si tratta di appena 1296 iscrizioni in meno.
Il decremento in tale periodo dei reati predatori da strada come furti in appartamento -38,19 % e rapine – 8,54%, è stato compensato dall’aumento percentuale di altre tipologie di reato come, ad esempio, i reati informatici contro il patrimonio + 30,46%, i reati di usura + 57,55, i reati di corruzione + 31,58%.
Inoltre occorre considerare che proprio a fine giugno 2020, immediatamente dopo la lunga pausa del primo lockdown, sono riprese a pieno ritmo varie attività criminali tra cui l’attività estorsiva di Cosa Nostra con incendi posti in essere nel giro di poche ore in diversi cantieri, che hanno causato danni a macchinari per centinaia di migliaia di euro.
Ciò premesso quanto ai dati statistici, vari segnali provenienti dall’analisi della realtà dei territori, alimentano preoccupazioni sul pericolo di possibili evoluzioni negative.
Il primo dato di realtà che si può estrapolare è che sussistono le condizioni per una rilevante crescita delle aree della c.d. illegalità di sussistenza e della illegalità diffusa.
I dati economici ed il giudizio unanime di tutti gli osservatori sociali, attestano che il Covid ha ampliato le disuguaglianze economiche esistenti e sta scavando profonde linee di frattura sociale tra coloro che hanno la garanzia di un reddito e il numero crescente dei tanti che ne sono privi, soprattutto nei territori meridionali caratterizzati da cronico sottosviluppo, insicurezza economica e da contesti di lavoro fragile.

A fronte di circa 100.000 persone che a Palermo galleggiano ai limiti della sopravvivenza grazie all’erogazione del reddito di cittadinanza e di altre forme di sussidi temporanei, ve ne sono altre decine di migliaia rimaste prive di mezzi di sostentamento, tra cui tanti che vivono di lavori irregolari tipici della c.d. economia informale.

In assenza di fonti alternative di reddito, vi è il concreto rischio di uno scivolamento progressivo di quote significative di questa massa della popolazione nella c.d. illegalità di sussistenza che si declina in una ampia e variegata tipologia di reati che già oggi, nel loro sommarsi, costituiscono una quota molto rilevante delle statistiche giudiziarie dei reati in carico alle Procure del distretto: dai furti in danno di aziende che erogano energia elettrica, gas, acqua, ai furti in danno di supermercati e molti altri ancora.

Quanto al pericolo della crescita della illegalità diffusa, è elevato il rischio che un numero non irrilevante di operatori economici a fronte della decurtazione dei propri introiti e delle perdite subite, ceda alla tentazione di tagliare i costi della legalità, mediante l’incremento dell’evasione fiscale e contributiva, lo smaltimento illegale dei rifiuti, la violazione di norme in materia di igiene e di sicurezza ed altre condotte illegali.

La crisi pandemica non ha certo prodotto questi fenomeni che sono tipici di una risalente economia criminale del sottosviluppo, ma li ha aggravati in misura rilevante, rendendo ancor più evidenti tutti i limiti della c.d. “illusione repressiva”, della illusione cioè di potere utilizzare la risposta penale per governare complessi problemi socioeconomici la cui soluzione va invece ricercata nella pianificazione ed attuazione di politiche di risanamento sociale e di sviluppo che eliminino o riducano a monte le cause sociali che alimentano a valle la riproduzione incessante di talune forme di illegalità.

Una illusione repressiva che continua ad impegnare ancor oggi quote rilevanti di energie e di risorse degli apparati giudiziari per produrre un prodotto finale il cui esito sociale è in buona misura evanescente in termini di deterrenza e di recupero dei condannati alla cultura della legalità.

Le sentenze di condanna al pagamento di pene pecuniarie risultano infatti ineseguibili in un numero rilevante di casi a causa della indigenza e della conseguente insolvibilità dei condannati.

Le pene detentive e le misure alternative non sono in grado di assolvere alcuna reale funzione rieducativa perché – come di anno in anno continua a ripetere nelle sue relazioni il Presidente del Tribunale di Sorveglianza – a causa dei tagli delle risorse all’amministrazione penitenziaria scarseggiano le proposte formative relative a corsi scolastici e a corsi professionali, sono sempre più deficitarie le offerte riguardanti il lavoro, il numero degli educatori è insufficiente e “i contatti dei singoli detenuti con gli operatori di tale categoria professionale sono rari e rimangono così deluse le molteplici esigenze personali dei diversi condannati’.

Sicché dopo la conclusione dei processi, i soggetti condannati vengono nella maggior parte dei casi restituiti alle stesse condizioni di degrado economico e ambientale che costituiscono l’habitat ideale per il riprodursi di una illegalità di sussistenza che alimenta anche un inesauribile serbatoio di consenso sociale e di manovalanza per la criminalità organizzata mafiosa.

Le indagini svolte dalla Direzione distrettuale antimafia continuano ad evidenziare il notevole tasso di consenso popolare riscosso dalle famiglie mafiose in tanti quartieri della città caratterizzati da elevati tassi di povertà quali lo Zen, Borgo Vecchio, la Kalsa, l’Arenella, Vergine Maria ed altri.

Per citare un esempio emblematico tra i tanti, basti considerare che – come è emerso nell’ambito delle indagini condotte dalla Dda di Palermo – quando è stato scarcerato Gaetano Scotto, importante capo della famiglia mafiosa dell’Arenella, ha trovato ad attenderlo un intero quartiere con atteggiamento di “devozione”.

Devozione documentata anche nel corso della festa di Sant’Antonio di Padova, patrono della borgata marinara dell’Arenella, quando lo Scotto e la sua fidanzata sono stati invitati a salire a bordo del peschereccio dove era posizionata la statua del Santo per essere trasportata via mare, e dove, secondo le regole della processione, era vietato in maniera categorica fare salire persone diverse dal sacerdote che officiava la funzione e dalla banda musicale.

Non si tratta di episodi isolati. Le indagini della Dda di Palermo documentano che vicende similari si verificano in altre zone della città e nella provincia.

Quali sono i motivi del perpetuarsi di un consenso sociale ancora così diffuso in ampie fasce popolari per esponenti della mafia?

Nei quartieri dove non arriva lo Stato arriva il Welfare State mafioso che in cambio di consenso e di fedeltà offre risposte immediate a bisogni elementari di sussistenza destinati altrimenti a restare insoddisfatti.

Risposte che consistono nel reperimento di posti di lavoro presso imprese ed esercizi commerciali di soggetti taglieggiati o collusi, oppure nell’inserimento di soggetti bisognosi nelle catene produttive dell’economia criminale quali semplici pusher o fiancheggiatori, o, ancora, nella distribuzione di generi alimentari durante la fase acuta del lock down, come è emerso in recenti indagini della DDA di Palermo.

A questo riguardo credo siano meritevoli di attenzione i molteplici segnali di allarme lanciati da accreditate associazioni da tempo impegnate nei territori sul fronte dell’antimafia sociale.

Mi riferisco, ad esempio, ad un comunicato del 10 gennaio 2021 nel quale l’Associazione Addio Pizzo, in prima linea nel sostegno a commercianti e imprenditori per la denuncia di estorsioni, pur plaudendo all’ incessante attività repressiva posta in essere dalla magistratura e dalle Forze di Polizia, ha evidenziato il rischio di una vanificazione del proprio impegno e di quello dell’autorità giudiziaria perché i vuoti creati dall’azione repressiva continuano a restare tali e senza risposte politiche, concludendo: “Se l’emergenza abitativa cresce, l’occupazione è ai minimi storici, la dispersione scolastica aumenta e il diritto alla salute si assottiglia, i fenomeni criminali […] sono destinati a perpetuarsi, divenendo l’unico ammortizzatore sociale in grado di assicurare la sopravvivenza”.

Come accennavo prima, il Covid ha accelerato e drammatizzato nel meridione una crisi economica le cui cause strutturali sono molto risalenti nel tempo ed ascrivibili ad una pluralità convergente di complessi fattori.

Fattori che chiamano in causa non solo responsabilità politiche, ma anche la rapace e predatoria illegalità praticata da segmenti portanti delle classi dirigenti che, a fini di arricchimento personale, hanno sistematicamente sottratto miliardi di euro destinati allo sviluppo economico dell’isola, compromettendo così il riscatto sociale e l’emancipazione economica delle masse popolari.

Le statistiche giudiziarie del decorso anno giudiziario attestano che se la stasi forzata imposta dal Covid ha determinato un decremento dei reati predatori di strada – furti e rapine – non ha sortito lo stesso effetto per i reati predatori dei colletti bianchi.

I delitti contro la Pubblica amministrazione registrano nel distretto un incremento di circa l’8 % che raggiunge il picco del 32% circa per i reati di corruzione.

Le relazioni dei Procuratori della Repubblica del distretto su tale tipologia di reati offrono un campionario agghiacciante di un ininterrotto ladrocinio – praticato da soggetti che occupano postazioni strategiche all’interno di vari apparati istituzionali – di importi ingentissimi di fondi pubblici destinati alla formazione professionale, agli investimenti in settori strategici, allo sviluppo industriale ed ad altri servizi essenziali.

Particolarmente colpita la Sanità, persino in questa fase di emergenza, come emerge anche da una recente inchiesta della Procura della Repubblica di Palermo che ha condotto all’arresto, tra gli altri, anche del Coordinatore della struttura regionale per l’emergenza Covid-19, per corruzione e induzione indebita a dare o promettere utilità.

Nella relazione del Procuratore della Repubblica di Palermo si legge: “Il quadro complessivo emerso è a dir poco allarmante, poiché il settore degli appalti pubblici della Sanità siciliana appare essere affetto da una corruzione sistemica che permette il conseguimento di ingentissimi illeciti profitti, in danno di tutta la collettività, a beneficio di pubblici amministratori infedeli, faccendieri, aziende, imprenditori, manager e loro collaboratori destinatari di custodia cautelare in carcere”.

Alla proliferazione dei fenomeni corruttivi nel paese ha contribuito una lunga stagione legislativa che per circa due decenni ha in vari modi depotenziato la forza deterrente e l’efficacia repressiva della risposta penale, stagione alla quale ha posto fine la più recente politica legislativa mediante un articolato ventaglio di innovazioni normative: dalla riforma della prescrizione, all’esclusione dalle misure alternative per i condannati per i più gravi reati contro la P.A, all’innalzamento delle pene, alla estensione della disciplina delle intercettazioni prevista per i delitti di criminalità organizzata ai procedimenti per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni.

E, tuttavia, il cambio di politica legislativa in tale settore cruciale rischia di essere in buona misura compromesso da altre leggi di segno opposto.

La necessità di fronteggiare la crisi economica determinata dalla pandemia velocizzando e snellendo al massimo le procedure di erogazione dei sussidi, di finanziamenti, di misure di accesso al credito, ha prodotto infatti una legislazione di emergenza che ha privilegiato l’urgenza e l’ampliamento della discrezionalità a scapito dei controlli, aprendo così pericolosi ed ampi varchi alle manovre corruttive e truffaldine nonché alle infiltrazioni mafiose.

Si consideri al riguardo la pericolosa smagliatura nel sistema di prevenzione e di repressione creata con la riforma del reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) introdotta dal D.L. 16.7.2020 n. 76 in vigore dal 17.7.2020 che ha ulteriormente ridotto l’area degli abusi di ufficio penalmente rilevanti, già significativamente ridotta in passato dalla Legge di riforma del 16 luglio 1997 n. 234 che aveva depenalizzato l’abuso di ufficio non patrimoniale.

Il D.L. in parola ha infatti ristretto la punibilità solo agli abusi commessi mediante la violazione di regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge dalle quali non residuino margini di discrezionalità, con esclusione delle fonti primarie prive di tali caratteristiche nonché di tutti i regolamenti attuativi che costituiscono una parte importante delle normative in materia di appalti e di erogazione della spesa pubblica.

Si tratta di una liberalizzazione dell’uso della discrezionalità ammnistrativa che incrementa il rischio di degenerazioni incontrollate.

A ciò si aggiunga che il medesimo Decreto legge n. 76 del 16 luglio 2020 ha limitato l’azione delle Procure della magistratura contabile sino al 31 dicembre 2021 solo ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta, escludendo così – secondo le prime interpretazioni – una serie di condotte quali l’affidamento di incarichi in modo arbitrario, le condotte di chi fa debiti fuori bilancio e di chi usa impropriamente i contributi pubblici.

Tali smagliature si aggiungono a tante altre già aperte in precedenza – sempre per sbloccare i fondi da destinare alla ripresa economica – prima con il decreto Sblocca cantieri e poi con il Decreto Semplificazioni.

Per citare solo un esempio, si consideri che per l’affidamento diretto – un appalto pubblico che può essere indetto senza gara e senza che la stazione appaltante debba dare conto di questa scelta – le soglie minime sono state elevate a 150 mila euro per i lavori e a 75 mila euro per i servizi.

In tante inchieste è stato accertato come il ricorso a tale tipologia di appalto costituisca uno degli strumenti più frequenti per attuare favoritismi e manovre corruttive, spesso anche mediante l’artificioso spacchettamento di appalti di ingente valore in più appalti di minor importo, in modo da restare sotto la soglia che consente di evitare di indire una gara pubblica, giustificando il ricorso a procedure di affidamento diretto. L’anno che ci attende è un anno determinante.

I 222 miliardi di euro del Recovery Plan rappresentano una occasione unica e imperdibile per rilanciare il paese e rimetterlo in corsa verso il futuro, mediante la pianificazione e la concreta messa in opera di un articolato piano strategico di investimenti di largo respiro e di lungo periodo.

Siamo dinanzi ad un bivio della storia e ad una sfida che chiama in causa la responsabilità di tutta la classe dirigente nelle sue varie articolazioni.

Se questa sfida dovesse essere perduta anche a causa del prevalere degli interessi particolari, personali e corporativi, sugli interessi generali, e del perpetuarsi della predazione di quote consistenti delle risorse destinate alla ripresa, attuata nelle forme più svariate anche approfittando dell’affievolimento dei controlli imposti dall’emergenza, ci troveremmo più che dinanzi ad una mera sommatoria aritmetica di responsabilità individuali, dinanzi ad un fallimento collettivo.

In tal caso le future statistiche giudiziarie potrebbero essere lette come la metafora e lo specchio fedele di un paese immobile che galleggia nel presente, prigioniero dei vizi del suo passato e dei suoi limiti.  Antimafia Duemila  *Procuratore Generale di Palermo


5.7.2020 Dall’intervento del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato alla “Festa del Fatto Quotidiano” alla Versiliana del 5 settembre 2020.

 
«Giovanni Falcone utilizzava l’espressione “Gioco Grande” per definire il gioco del potere. Un gioco che in Italia è stato condotto con stragi, con omicidi ininterrottamente. Perché si depista? Per celare la causale politica. Tutte le stragi italiane, comprese quelle del ’92-’93, hanno un unico comun denominatore: i depistaggi. Le indagini della magistratura vengono depistate da apparati deviati dello Stato con varie tecniche: soppressione di documenti essenziali, costruzione di false piste investigative, eliminazione di testi importanti. Non si tratta di dietrologia: si tratta di sentenze definitive passate in giudicato. […]
Tutto il repertorio dei depistaggi è stato replicato puntualmente nelle stragi del 1992 e del 1993. Perché si depistano le indagini sulle stragi di mafia? Perché non sono soltanto stragi di mafia. Perché, oltre i mafiosi, ci sono altri, ci sono altri mandanti che devono restare coperti. Perché altrimenti non c’è motivo perché apparati dello Stato entrino sistematicamente in campo dall’inizio e per tutto il corso delle indagini per impedire di andare oltre il livello. E quindi abbiamo una storia che continua. Ma che cosa c’è dietro queste stragi del ’92 e del ‘93? C’è il braccio armato di Cosa Nostra ma ci sono altri soggetti, che sono la mente politica dello stragismo del ’92 e del ’93, che finalizzano le stragi di mafia a un progetto più ampio, politico, di destabilizzazione del paese per impedire un evento che si riteneva esiziale. Il sistema di potere italiano, che aveva garantito per tutta la prima repubblica, all’interno dell’anticomunismo e del bipolarismo internazionale, protezione ed impunità non soltanto alla mafia ma a entità criminali come la P2, a lobby affaristiche, a soggetti degli apparati dello Stato che avevano coperto le stragi degli anni ’70 e ’80 per ragioni di carattere internazionale. Improvvisamente tutti questi soggetti si trovano ad avere un destino comune: quel sistema di potere sta crollando, si annuncia come ineluttabile in quella fase storica l’avvento delle sinistre al potere, si parla della “gioiosa macchina da guerra” – la coalizione tra la sinistra Dc e l’ex Pci – si immagina che se la gioiosa macchina da guerra arriva al governo ci sarà il regolamento di conti col passato, e quindi sarà la fine non soltanto per Riina, ma anche per gli esponenti della P2, per gli uomini della Gladio, che hanno fatto le stragi, che hanno fatto gli affari. E quindi si viene a creare una convergenza di interessi, e un hardware mafioso e un software da parte di specialisti della destabilizzazione e della comunicazione di massa, che indicano la tempistica degli attentati e delle stragi e gli obiettivi da colpire. Questa causale politica viene celata ai capi di Cosa Nostra e agli esecutori ed è conosciuta soltanto da un ristretto nucleo di capi: Riina, Graviano, Matteo Messina Denaro, Bagarella e altri capi che nel secondo semestre del 1991 si riuniscono ad Enna, dove in vari mesi decidono, appunto, di accettare di porre in essere questa strategia di destabilizzazione che doveva realizzarsi in due tempi: fare delle stragi che dovevano essere rivendicate tutte con la sigla “Falange Armata”, destabilizzare il paese, creare una sfiducia collettiva, delegittimare le istituzioni e aprire uno spazio per l’entrata in campo di un nuovo soggetto politico che era in corso di formazione, che avrebbe raccolto un paese in ginocchio e sarebbe andato al potere.
E dopo di che quello che succede è che ci sono tanti processi e c’è un’opinione pubblica nazionale che è convinta che le stragi del ’92-’93 siano opera dei soliti brutti, sporchi e cattivi, che si chiamano Riina, che si chiamano Provenzano, persone che hanno difficoltà ad esprimersi in un corretto Italiano. […]
In questi casi mi ritorna in mente quella frase di uno dei più grandi romanzieri dell’occidente, Honoré de Balzac, il quale diceva che esistono due storie, la storia che leggiamo nei libri di scuola, che è menzognera, e la storia reale, che non si può raccontare, perché chiama in causa il potere e la criminalità del potere. E l’Italia è un paese da questo punto di vista, unico, che forse può essere paragonato a certi paesi dell’america latina, perché è il paese che ha avuto la classe dirigente credo più violenta d’Europa. In nessun paese europeo si è verificata una sequenza di stragi come quella che ho detto, a cui vanno aggiunti l’enorme sequenza di omicidi eccellenti e di suicidi misteriosi.
È stato un genocidio, compiuto da pezzi di classe dirigente che hanno sistematicamente usato l’omicidio, la strage, come strumenti per falsare il gioco politico e credo che questo “Gioco Grande”, purtroppo, resterà ignoto alla maggior parte dei cittadini, perché il sapere non è innocente. La costruzione del sapere è uno dei terreni su cui si combatte da sempre la lotta per il potere. Uno dei più grandi intellettuali della storia dell’Occidente, il cardinale Mazzarino, soleva ripetere al re di Francia: “Maestà, il potere si conquista con le spade e con i cannoni ma si conserva con i dogmi e le superstizioni”.
La falsificazione del potere nel settore della mafia e del grande crimine del potere è un terreno su cui, purtroppo, noi siamo ancora oggi perdenti».
 
 

22.5.2019. ROBERTO SCARPINATO sul Fatto
STRAGI, LA VERITÀ UFFICIALE NON REGGE
Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico consegni alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché uomini simbolo di uno Stato che con le condanne inflitte con il maxiprocesso aveva sferrato un colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità.
I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta.
La tenuta di tale narrazione semplificata è di anno in anno sottoposta a dura prova, per le crescenti difficoltà di epurare il discorso pubblico da ogni riferimento alla pluralità di risultanze probatorie che, tra mille difficoltà e resistenze, si vanno accumulando nei processi (da ultimo il processo c.d. Borsellino quater, quello sulla “trattativa Stato-mafia” e quello sulla “’ndrangheta stragista) e che, nel loro sommarsi, lumeggiano una storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante, intessuta di segreti a tutt’oggi irrisolti a causa del pervicace silenzio di coloro che ne sono custodi e della sequenza di depistaggi – processualmente accertati – realizzati in vari modi per occultare l’emersione di verità che vanno oltre il livello mafioso.
Le complesse motivazioni della campagna stragista del 1992/1993 sono rimaste nella conoscenza esclusiva di un ristrettissimo numero di capi perché furono in buona misura tenute segrete sia agli esecutori materiali che alla quasi totalità degli stessi componenti della Commissione provinciale di Palermo, l’organo decisionale di vertice della mafia palermitana.
A costoro furono comunicate solo le causali interne all’organizzazione, cioè la necessità di vendicarsi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino perché artefici del maxiprocesso, e di punire i referenti politici che non avevano mantenuto la promessa di far annullare in Cassazione le condanne inflitte nel maxi.
Ad alcuni fu anche detto che si voleva costringere lo Stato a trattare.
A tutti furono taciute le causali esterne di quella campagna stragista, in parte coincidenti con gli interessi dell’organizzazione, in parte invece talmente divergenti da alimentare progressivamente in taluni capi e persino negli esecutori, la certezza che Riina e i suoi fedelissimi, tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, componenti di quella che Riina aveva definito la “Super Cosa”, non dicevano loro tutta la verità.
Nessuno dei numerosi collaboratori di giustizia della mafia palermitana, per esempio, ha mai riferito alcunché delle riunioni che nel 1991 si svolsero nelle campagne di Enna e nel corso delle quali i massimi vertici regionali della mafia discussero dell’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne. In quelle riunioni fu anche stabilito che gli omicidi e le stragi sarebbero stati rivendicati con la sigla “Falange armata”, così come in effetti poi avvenne.
Riina e i suoi fedelissimi non comunicarono nulla delle decisioni assunte in quella sede agli altri capi della Commissione provinciale di Palermo nella riunione svoltasi nel dicembre del 1991 nella quale – come hanno concordemente dichiarato i capi mandamento poi divenuti collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi e Antonino Giuffrè – l’unica causale esternata dell’avvio della sequenza di fatti di sangue programmati fu appunto solo quella interna della vendetta per l’esito del maxiprocesso che si sapeva già sarebbe stato infausto.
E neppure Riina spiegò in seguito perché aveva ordinato l’improvviso rientro da Roma del gruppo di fuoco capeggiato da Matteo Messina Denaro che si apprestava a uccidere Giovanni Falcone a colpi di arma da fuoco nella Capitale dove egli si muoveva spesso senza scorta, e aveva deciso di cambiare completamente strategia con l’esecuzione di una strage eclatante la cui realizzazione richiedeva complesse capacità tecniche in materia di esplosivi e che, proprio per questo motivo, presentava un rischio significativo di insuccesso; rischio invece pressoché inesistente o ridotto ai minimi termini se l’esecuzione dell’omicidio fosse stato eseguito a Roma da killer di micidiale e sperimentata abilità.
E neanche Riina spiegò agli altri capi perché nel luglio del 1992 aveva improvvisamente cambiato programma decidendo di dare esecuzione in tempi rapidissimi alla strage di via D’Amelio.
Una decisione irrazionale e assolutamente controproducente se valutata esclusivamente alla luce degli interessi di Cosa Nostra.
Il 9 agosto 1992 scadeva infatti il termine per convertire in legge il decreto legge n. 306 voluto da Falcone che aveva introdotto il famoso 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Come è stato accertato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, si aveva la certezza che il decreto legge non sarebbe stato convertito in legge perché in Parlamento esisteva una solida maggioranza garantista che riteneva quell’articolo in contrasto con i principi costituzionali.
Era evidente, dunque, che la decisione più conforme agli interessi di Cosa Nostra sarebbe stata quella di attendere l’esito del voto parlamentare del 9 agosto e incassare il risultato della vanificazione del 41 bis. Invece eseguire la strage prima del 9 agosto, cambiando i programmi, era assolutamente controproducente perché – come infatti puntualmente avvenne – era prevedibile che l’ondata di sdegno popolare conseguente alla seconda strage avrebbe indotto molti parlamentari a retrocedere dalla loro precedente decisione, convertendo il decreto legge.
Di fronte alle motivate perplessità degli altri capi, Riina tagliò corto assumendosi la responsabilità di quanto sarebbe accaduto.
E fu a quel punto che alcuni di loro capirono che Riina taceva qualcosa che evidentemente non poteva dire neanche a loro. All’uscita dalla riunione in cui era stato comunicato quel cambio di programma, Raffaele Ganci, prestigioso capo mandamento, aveva commentato: “Questo è pazzo, ci vuole rovinare tutti quanti”, come ha riferito il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi.
Lo stesso Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio, ha dichiarato: “Io ho capito che Riina aveva preso un impegno e doveva rispondere a qualcuno”.
In altri termini aveva capito che Riina stava assecondando interessi che non coincidevano con quelli di Cosa Nostra e anzi li ponevano in secondo ordine.
Come è stato rilevato nella motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l’intuizione di Cancemi è stata confermata dallo stesso Riina il quale nel corso di una conversazione intercettata il 6 agosto 2013 all’interno del carcere Opera di Milano, confidò al suo interlocutore che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio era stata invece “studiata alla giornata”, perché, come aggiunse in una successiva conversazione del 20 agosto: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh… Ma rici… macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io… rammi un poco di tempo ca…”. E cioè era arrivato qualcuno che aveva detto che bisognava fare quella strage “subito, subito” e Riina aveva chiesto di dargli un poco di tempo.
Erano dunque improvvisamente sopravvenute ragioni che non consentivano di attendere la manciata di giorni che mancavano al fatidico 9 agosto 1992; ragioni che Riina non poteva esternare ad altri capi e che lo indussero ad assumersi la responsabilità di quanto sarebbe inevitabilmente accaduto.
Assunzione di responsabilità che derivava dal fatto che, in ogni caso, l’organizzazione “aveva le spalle coperte”, come Filippo Graviano, organizzatore della strage e fedelissimo di Riina, assicurò al capo mandamento Vito Galatolo, il quale divenuto collaboratore di giustizia nel riferire tale circostanza ha poi aggiunto che gli uomini d’onore di livello detenuti in carcere erano pervenuti alla conclusione che “…non è stata Cosa nostra a volere queste Stragi, ma sono stati… è stato… sono stati dei pezzi dello stato deviati che hanno costretto cosa nostra a fare questi favori diciamo”.
Ma cosa si apprestava a fare Borsellino prima di quel 9 agosto di talmente irrimediabile e compromettente da “studiare la strage alla giornata” pagando l’elevatissimo prezzo dello scontato effetto boomerang che ne sarebbe conseguito?
In quei giorni Paolo Borsellino aveva programmato due appuntamenti importanti. Doveva ritornare dal collaboratore Gaspare Mutolo, braccio destro di Rosario Riccobono noto come “il terrorista” per i suoi rapporti con i servizi deviati, il quale gli aveva anticipato che avrebbe finalmente dichiarato a verbale quanto gli aveva in precedenza confidato informalmente sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e la mafia.
Inoltre doveva recarsi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta per dichiarare quel che aveva appreso sulla strage di Capaci sulla quale dal 23 maggio non aveva mai smesso di indagare, raccogliendo una serie di informazioni che lo avevano profondamente turbato.
Nel luglio aveva incontrato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, appartenente alla mafia di Caltanissetta, il quale era a conoscenza del piano segreto di destabilizzazione che era stato discusso a Enna dai vertici regionali della mafia nel 1991 e che aveva avuto il suo incipit con la strage di Capaci.
Anche lui, come Mutolo, aveva chiesto espressamente di parlare con Borsellino e non aveva ancora messo a verbale quanto sapeva. Da altre fonti rimaste sconosciute Borsellino aveva poi appreso notizie sulla complicità con la mafia di soggetti appartenenti ai massimi vertici delle Forze di Polizia, come confidò alla moglie Agnese, alla quale raccomandò significativamente di tenere abbassate in casa le tende delle finestre perché temeva di essere osservato dai servizi segreti che avevano una postazione al castello Utveggio di Palermo.
Ma non bastava uccidere Borsellino, occorreva fare sparire anche l’agenda rossa dove egli aveva annotato tutte le informazioni confidenziali che aveva acquisito e che gli avevano fornito chiavi di lettura della strage di Capaci e di quel che si preparava, tali da pervenire alla drammatica conclusione che accanto alla mafia si muovevano altre forze.
La stessa conclusione a cui sarebbe pervenuta nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia trasmettendo alla magistratura una informativa nella quale si comunicava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.
Se quella agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, Borsellino avrebbe provocato gravi danni anche da morto e lo scopo dell’accelerazione della sua uccisione sarebbe stato vanificato.
Era assolutamente consequenziale dunque che dopo l’esplosione di via D’Amelio soggetti che certamente non appartenevano alla mafia ma ad apparati istituzionali, intervenissero sul luogo con un un’unica mission: fare sparire l’agenda rossa.
Le pagine dedicate nella sentenza del c.d. Borsellino quater alla “caccia” all’agenda rossa che si scatena pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba, sono agghiaccianti.
Un pullulare di agenti segreti giunti sul luogo ancor prima delle Forze di Polizia, totalmente indifferenti ai feriti e ai cadaveri e freneticamente intenti solo alla ricerca dell’agenda che scomparirà dalla borsa di Paolo Borsellino lasciata all’interno dell’autovettura in fiamme.
Ed è altrettanto conseguenziale alla certezza dei vertici corleonesi di avere “le spalle coperte” che all’esecuzione della strage abbiano partecipato soggetti esterni.
Circostanza questa nota a Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santo Di Matteo, che – come viene ampiamente riportato nella sentenza citata – in un drammatico colloquio intercettato il 14 dicembre 1993, poco dopo il rapimento del loro figlio undicenne Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati della polizia” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio.
Infiltrati rimati senza volto ma uno dei quali fu ben visto in volto dal Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage, il quale ha rivelato che alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato un soggetto esterno la cui identità era stata tenuta segreta.
Lo stesso Spatuzza ha dichiarato che le stragi eseguite nel 1992 e nel 1993 gli erano apparse talmente anomale per le eclatanti modalità terroristiche prescelte (esplosione di autobombe collocate nelle pubbliche vie con la conseguente uccisione di cittadini innocenti) da avere avvertito la necessità di esternare i suoi dubbi sulla loro utilità per Cosa Nostra a Giuseppe Graviano il quale lo aveva rassicurato chiedendogli, significativamente, se lui sapesse qualcosa di politica, materia nella quale egli, a differenza dello Spatuzza, si era dichiarato abbastanza preparato.
A tutto ciò si aggiunge che nella motivazione della sentenza del processo Borsellino quater la Corte di Assise di Caltanissetta dopo avere accertato che “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, si è interrogata sulle finalità di tale depistaggio, lasciando aperti i seguenti interrogativi inquietanti: “….è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:
– ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;
– alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.
Interrogativi ancora senza risposta e che forse possono spiegare anche il pervicace silenzio mantenuto dai fratelli Graviano sui segreti delle stragi che coinvolgono centri di potere rimasti temibili e la straordinaria longevità della latitanza di Matteo Messina Denaro.

 


25.10.2011 DOPO  le rivelazioni del pentito spatuzza Strage via D’Amelio, il pg: «Indagini  falsate da ansia o depistaggio»

Lo scrive il procuratore di Caltanissetta, Scarpinato,
nella memoria consegnata alla Corte d’appello di Catania per chiedere la revisione dei due processi

Se il pentito Gaspare Spatuzza «dice la verità» sulla strage di Palermo in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta «siamo di fronte a un clamoroso errore investigativo prima e giudiziario poi, magari determinato dall’ansia di dare una risposta all’opinione pubblica, allarmata e disorientata dall’escalation stragista, ovvero il risultato di un vero e proprio depistaggio».
Lo scrive il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, nelle 1.140 pagine della memoria consegnata alla Corte d’appello di Catania per chiedere la revisione dei due processi celebrati per l’attentato di via D’Amelio del 19 luglio del 1992.

DEPISTAGGIO – Il magistrato, come pubblica il quotidiano La Stampa che riporta stralci del documento, a proposito di un eventuale depistaggio afferma che per «questa inquietante ipotesi, occorre cercare di capire se si fosse voluta coprire la responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra» e per questo «astrattamente riconducibili» a «apparati deviati dei servizi segreti, o a organizzazioni terroristiche eversive».
Sulla posizione di tre funzionari di polizia del pool investigativo Falcone-Borsellino diretto da Arnaldo La Barbera, deceduto, il Pg di Caltanissetta non ha tratto conclusioni, perchè, scrive nel documento non sono stati trovati «sufficienti elementi di riscontro alle accuse formulate nei loro confronti».

CHIESTA REVISIONE PROCESSI – La richiesta di revisione dei processi «Borsellino» e «Borsellino-bis» sulla strage di via D’Amelio, incardinata sulle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, è stata trasmessa due settimane fa alla Corte d’appello di Catania. Riguarda Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana (condannati all’ergastolo) e Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura, Salvatore Tomaselli e Giuseppe Orofino (condannati a pene fino a 9 anni). Per i condannati detenuti il Pg Scarpinato chiede la sospensione dell’esecuzione della pena; per Orofino, Tomaselli e Candura, che hanno già espiato la condanna, è stata chiesta solo la revisione.

25 ottobre 2011 Corriere del Mezzogiorno 

 
Scarpinato

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