il dottor ANTONINO DI MATTEO e la strage di VIA D’AMELIO

 

 

 

1998 – Secondo il PM ANTONINO DI MATTEO la ritrattazione di SCARANTINO era “sicuramente falsa”


AUDIZIONE AL CSM 17.9.2018  Di Matteo: 

  • “Tutti abbiamo bisogno di un contributo di chiarezza rispetto alla ostinata reiterazione di falsità e ingiuste generalizzazioni che da tempo vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico…”  
  • “Siamo ad un passo dalla verità anche sotto il profilo del movente e della presenza di madanti esterni a Cosa nostrae ci siamo arrivati grazie e soprattutto al lavoro fatto a Caltanisetta nel Borsellino Ter e a Palermo nel processo Trattativa Stato-mafia”
  • “Siamo ad un passo della verità anche grazie a me e ad altri magistrati
  • “Il depistaggio non inizia con la collaborazione di Scarantino ma inizia con le prove oggi ritenute false che portano ad incriminare Scarantino
  • “I fatti vengono mistificati quotidianamente da parte di qualcuno
  • “Non ho mai saputo nulla dei colloqui investigativi con Scarantino”
  • “Scarantino aveva detto anche cose vere. Probabilmente gli sono state suggerite da qualcuno

Nell’audizione davanti al CSM il magistrato ha inoltre riferito sulle “anomalie” denunciate da  Fiammetta Borsellino

DI MATTEO: ”SULLE CHIAMATE DI NAPOLITANO ABBIAMO LA COSCIENZA A POSTO’

13.5.2021 INTERVISTA A LA7


“Depistaggi” Borsellino, CSM lunedì 17 settembre 2018 sentirà Di Matteo lunedì in seduta pubblicaL’ audizione del pm del processo sulla trattativa Stato-mafia, era slittata proprio per acconsentire alla richiesta del magistrato di essere sentito pubblicamente.  La Prima Commissione del Csm ha convocato per lunedì prossimo il pm del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo nell’ambito del fascicolo aperto su sollecitazione della figlia di Paolo Borsellino , Fiammetta, che ha chiesto di far luce sulle “disattenzioni” che ci sarebbero state sulle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino. Di Matteo doveva essere ascoltato la scorsa settimana, ma la sua richiesta che la seduta fosse pubblica, aveva fatto slittare l’audizione, ora fissata a lunedì.


CSM rinvia l’audizione di Nino Di Matteo  Diventa un caso il rinvio deciso dal Csm dell’audizione del pm del processo sulla trattativa Stato- mafia Nino Di Matteo. Di Matteo doveva essere ascoltato oggi dalla Prima Commissione, nell’ ambito del fascicolo aperto sulla base dell’ esposto di Fiammetta Borsellino sui depistaggi sulle indagini sulla strage in cui persero la vita suo padre Paolo e gli agenti di scorta. E aveva chiesto di parlare in una seduta pubblica. Proprio “a causa della sua richiesta, pervenuta solo lunedì, “é stato necessario il rinvio, spiega in una nota la Commissione, chiarendo che è stato dovuto solo a ragioni “tecniche e regolamentari”. Un concetto ribadito dal vice presidente Giovanni Legnini, che avverte: “Ogni altra ricostruzione dietrologia è destituita di fondamento”. Quando un magistrato chiede di essere ascoltato in seduta pubblica “il regolamento Interno del Csm (agli artt. 27 e 29) prevede precisi obblighi procedurali – sottolinea la Commissione, presieduta dal laico Antonio Leone – poiché le sedute delle commissioni di norma non sono pubbliche e solo eccezionalmente la Commissione ne può disporre la pubblicità”. La Prima Commissione si è “pronunciata favorevolmente sulla richiesta di Di Matteo, nella seduta di ieri ed ha trasmesso la decisione al Comitato di Presidenza. Inoltre, poiché per espressa previsione regolamentare, la stampa e il pubblico, possono essere ammessi a seguire le sedute solo in separati locali, attraverso impianti audio-visivi (Art.29 comma 2), ciò richiede misure organizzative adeguate”. “Le ragioni tecniche e regolamentari indicate dalla commissione, conseguenti alla richiesta del dott. Di Matteo, sono quelle che hanno determinato la necessità del differimento dell’audizione”, ribadisce a sua volta Legnini. “Se la Prima Commissione farà in tempo o no prima della fine della Consiliatura lo si valuterà in relazione alle attività ed adempimenti previsti dal regolamento”, conclude il vice presidente.


Sulla vicenda interviene una delle figlie del magistrato ucciso, Fiammetta Borsellino. «Per me è una questione marginale che Nino Di Matteo abbia chiesto al Csm di essere sentito in seduta pubblica. Più importante è invece che si trovi il modo di fare chiarezza, e anche al più presto, sui depistaggi e su ciò che è accaduto nella gestione dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio».  «Vedo – aggiunge Fiammetta Borsellino – che sulle procedure e sulle modalità degli accertamenti da fare vanno sorgendo polemiche collaterali. Sono del tutto secondarie rispetto al fine ultimo dell’obiettivo perseguito dalla famiglia: chiarire tutto quello che c’è da chiarire».


AUDIZIONE del PM Nino Di Matteo alla Commissione Parlamentare Antimafia – 13.9.2017

Per prima cosa volevo ringraziare il presidente e tutti membri della Commissione per aver accolto la mia richiesta di essere audito, motivata dal perseguimento di un duplice scopo: da una parte spero di poter fornire un contributo alla verità, dall’altra di stimolare quegli approfondimenti che ritengo necessari, anche in sede politica, sul probabile coinvolgimento nella strage di soggetti esterni a Cosa nostra. Sono convinto di poter fornire un contributo di chiarezza rispetto alle tante inesattezze, bugie e ingiuste generalizzazioni che da tempo, ed in ultimo in occasione dello scorso anniversario della strage, vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico. E ciò con riferimento generale ai processi per la strage di via d’Amelio, celebratisi a Caltanissetta tra il ’92-‘93 e il ‘99, ma ancor più in particolare alla mia attività in quel pool antimafia, nel tentativo di coinvolgermi in vicende di investigazioni ed indagini che non ho vissuto e delle quali nemmeno marginalmente sono stato protagonista.

In occasione dell’ultimo anniversario della strage si è parlato, scritto e commentato di 25 anni di depistaggi e silenzi, da parte di autorevoli strumenti della stampa. Di 25 anni persi nella ricerca della verità sulla strage. Ritengo, sulla base dei fatti che vi esporrò, che queste sono affermazioni profondamente ingiuste. E anche molto pericolose, paradossalmente utili a chi teme e ha da temere che il percorso di accertamento completo della verità possa andare avanti. 

Nell’ultimo periodo, anche grazie a indagini da me ed altri colleghi condotte a Palermo, sono emersi a mio avviso importanti elementi di prova che indicano che la strage non fu solo di mafia. Però, proprio in questo momento, e temo che non sia un caso, il dibattito e l’attenzione invece di concentrarsi sulla necessità di ulteriori approfondimenti in tal senso, si orientano a screditare e delegittimare il mio lavoro e la mia professionalità. Si finge di dimenticare, e da più parti sistematicamente si ignora, che tra il cosiddetto via d’Amelio bis e, ancora più importante, il cosiddetto via d’Amelio ter, ben 26 imputati sono stati condannati definitivamente per concorso in strage, per i quali l’affermazione di responsabilità è stata confermata fino alla Cassazione e mai messa in discussione, neppure dopo le acquisizioni più recenti che partono dalla collaborazione di Gaspare Spatuzza. Il nostro è stato definito il Paese delle stragi impunite, ma questo non mi pare un risultato così irrilevante. 
26 condanne definitive: non sono stati 25 anni persi nella ricerca della verità. Il processo di revisione ha riguardato, per quanto concerne le accuse di strage di imputati del cosiddetto via d’Amelio bis, 7 posizioni. Nessuno ricorda che già all’esito del processo di primo grado di quel troncone, via d’Amelio bis – sentenza di primo grado del 13 febbraio 1999 – 6 dei 7 soggetti successivamente revisionati erano già stati assolti dalla Corte d’Assise di primo grado. Tutti fingono di dimenticare che per 3 posizioni di quelle 6 erano stati gli stessi pubblici ministeri a chiedere l’assoluzione.

Sono stato chiamato in causa, anche da molti articoli di stampa, per quello che non ho fatto. Allora devo ricordare il contributo minimo che ho dato a queste indagini, e a questo accertamento dei fatti che continua e continuerà per sempre a rimanere uno dei punti principali del mio impegno. Io sono orgoglioso, e la considero un’esperienza professionale e umana unica, di un dato oggettivo. Ho seguito, tra quelli per la strage, un solo processo dall’inizio dell’indagine alla conclusione della sentenza di primo grado: il cosiddetto Via d’Amelio ter. In quel processo sono state irrogate 20 condanne per concorso in strage. Quel processo prescinde completamente dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino che non era stato chiamato neppure a testimoniare. Nelle sentenze e negli atti del processo non c’è alcun suo riferimento. Quelle 20 condanne per strage sono state il frutto di un lavoro particolarmente complesso e delicato, sia nella fase delle indagini che in dibattimento, presieduto con una professionalità e un impegno eccezionali dal presidente Zuccaro. Quelle indagini e quel processo, in primo grado conclusosi con sentenza del 9 dicembre del ’99, sono stati la sede dove per la prima volta sono emerse con un grado di approfondimento notevole molte e concrete circostanze che anche oggi mi inducono a ritenere che la strage non fu solo di mafia, e che il movente non è stato esclusivamente mafioso. 

L’allora giovane pubblico ministero ha fatto emergere in quella sede le piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimimo-Ros dei Carabinieri. Qui, per la prima volta, Salvatore Cancemi, pentito già appartenuto alla commissione provinciale di Cosa nostra, affermò che nello stesso contesto temporale, giugno ’92, nelle stesse riunioni in cui Riina di fronte agli altri membri della commissione si assumeva la responsabilità e la paternità di uccidere subito, a meno di 60 giorni di distanza da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare ora e in futuro, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga un bene per tutta Cosa nostra, anche per i soggetti già all’epoca detenuti.

Sono solo due spunti, ma ce ne sono tanti altri recentemente alimentati da numerose altre acquisizioni, che a mio avviso dovrebbero portare ad una immediata riapertura delle indagini sui mandanti esterni a Cosa Nostra e a un rinnovato impegno collettivo di tutte le istituzioni nel completamento del percorso di ricerca della verità.
Da magistrato e uomo delle istituzioni mi preoccupa il fatto che molti vogliono concentrare il dibattito e l’interesse esclusivamente sulla questione Scarantino, che nel compendio del lavoro dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, nel periodo ’92-’99, è questione solo inizialmente centrale, e via via sempre più marginale. Affermare che tre processi sono stati fondati sulle dichiarazioni di Scarantino è un falso, ed è assolutamente infondato. 
Affermare che anche il via d’Amelio bis si sia fondato esclusivamente sulle dichiarazioni di Scarantino è un altro dato falso, tanto è vero che molte condanne inflitte da quella Corte – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – sono state confermate e mai successivamente messe in discussione nonostante le dichiarazioni di Spatuzza. Ecco perchè nel fare questa affermazione significa non conoscere gli atti, adeguarsi ad una prospettazione che molto abilmente qualcuno sta instillando, anche nella mente di persone in buona fede. Significa non avere letto la requisitoria, fingere di non ricordare che lo stesso pubblico ministero, già nel via d’Amelio bis, aveva sostenuto che le dichiarazioni di Scarantino erano state inquinate dopo i primi 3 interrogatori, e che potevano essere utilizzate solo se confortate in maniera particolarmente significativa da altri e forti elementi di prova. Per questo motivo lo stesso pubblico ministero, in assenza di altri elementi di prova diversi dalle propalazioni di Scarantino, già nel via d’Amelio bis chiese ed ottenne l’assoluzione per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati perchè altre fonti di prova in appello – in processi che non seguivo io né la Procura di Caltanissetta, ma l’organo inquirente della procura nissena – e le assoluzioni si trasformarono poi in condanne, ecco il perchè della revisione.

In questi anni si è detto di tutto, a proposito del movente e delle motivazioni del depistaggio, presunto o reale non spetta a me dirlo. Per prima cosa è stato scritto, da parte di tutta la stampa e degli orientamenti politici e culturali, che coinvolgere Scarantino nell’inchiesta e pilotare il suo pentimento fosse stato finalizzato a tenere fuori i fratelli Graviano (in foto) e il mandamento di Brancaccio dalla fase esecutiva del delitto. Questa ipotesi, contrabbandata ormai come una certezza, cozza con un dato obiettivo: Scarantino nelle sue dichiarazioni obiettivamente false in gran parte, indicò subito i Graviano e loro principali uomini come Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello, come partecipi alla fase esecutiva della strage. Non è possibile, quindi, che il depistaggio Scarantino abbia avuto la finalità di tenere fuori i Graviano perchè erano i detentori principali di determinati rapporti di tipo politico.

Ancora, si è ipotizzato che arrestare Scarantino e pilotare le sue dichiarazioni possa essere stato finalizzato ad escludere ogni possibile coinvolgimento di apparati deviati dei servizi nella preparazione ed esecuzione della strage. Anche questo dato cozza con un altro: Scarantino fu il primo ad accusare nella fase di preparazione della strage Gaetano Scotto, che secondo molti collaboratori di giustizia ritenuti ora attendibili ha costituito per molti anni il principale punto di collegamento tra le cosche mafiose più sanguinarie di Palermo, i Madonia di Resuttana e i Galatolo dell’Acquasanta, e apparati deviati dei Servizi. Recentemente anche uno degli avvocati costituitosi parte civile nel cosiddetto Borsellino quater ha affermato che il ruolo di Scotto come membro di collegamento tra mafia e servizi sia particolarmente evidente, ed io sono assolutamente d’accordo. L’indagine che partì dalle dichiarazioni di Scarantino coinvolgeva Scotto, tanto che quest’ultimo fu condannato per concorso in strage, ma non solo sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Oggi Scotto è tra i soggetti revisionati ed è tornato in libertà a Palermo.

Non si tratta di difendere le dichiarazioni di Scarantino, smentite inequivocabilmente da Spatuzza e dalle successive indagini. Ma di capire qualcosa di più difficile: come mai queste dichiarazioni, false perchè fatte da un soggetto non coinvolto nella strage, in parte coincidono con quelle, ritenute attendibili, di Spatuzza?
Per esempio, nel coinvolgimento della fase esecutiva della strage del mandamento di Brancaccio, dei fratelli Graviano, di Francesco Tagliavia, di Lorenzo Tinnirello, nel ruolo attribuito a questi soggetti da Scarantino e Spatuzza c’è una sostanziale ed incredibile coincidenza. Il che lascia ipotizzare che alcune informazioni vere erano arrivate a chi, per sfruttarle, ha fatto un errore gravissimo mettendo in bocca a un soggetto che non sapeva nulla informazioni che chi le aveva ricevute riteneva attendibili. 

Il dato di fatto è che Scarantino è un soggetto sottoposto a ordinanza di custodia cautelare per concorso in strage con ordinanza del gip di Caltanissetta il 26 settembre 1992. Quindi le presunte indagini depistanti vengono condotte dal 19 luglio, un minuto dopo l’esplosione, al 26 settembre. Scarantino non è un soggetto che dal nulla si presenta ai magistrati per farsi arrestare. Quelle indagini che portarono al suo arresto mossero da dichiarazioni e indagini precedenti. Quindi si tratta di capire chi condusse quelle indagini e i motivi degli errori o dei possibili depistaggi dal 19 luglio al 26 settembre ’92. 

Ed è qui che crolla miseramente l’assunto di chi a tutti i costi, per screditare il mio lavoro di oggi, vuole coinvolgermi in vicende che non ho vissuto e di cui altri sono stati protagonisti. Quando vennero avviate le prime indagini dopo la strage non avevo nemmeno la funzione di magistrato. In quel momento ero un uditore giudiziario presso la Procura della Repubblica di Palermo. Divenni sostituto procuratore a Caltanissetta a fine settembre ‘92, proprio nei giorni in cui il gip sottoponeva a custodia cautelare Scarantino. Essendo neo arrivato, mi occupavo solo di procedimenti ordinari fino al dicembre del 1993. Solo il 9 dicembre ‘93 entrai a far parte della Direzione distrettuale antimafia, ma con il compito esclusivo, che ho mantenuto fino al novembre del ‘94, di inchieste e processi che riguardavano la mafia e la stidda di Gela. Entrai a far parte per la prima volta del gruppo di magistrati che seguivano le indagini e i processi per le stragi solo nel novembre del ‘94: 2 anni e 4 mesi dopo la strage, 2 anni e 2 mesi dopo l’arresto di Scarantino avvenuto sulla base di accuse di pentiti – Candura, Valenti e Andriotta – che io non ho mai interrogato, e di intercettazioni telefoniche che all’epoca non ho mai avuto modo di leggere o ascoltare. Sono entrato a far parte del pool che si occupava delle stragi del ’92 sei mesi dopo l’inizio della collaborazione di Scarantino, ben dopo quei colloqui investigativi della polizia che solo nei mesi scorsi, dalle cronache processuali, ho appreso che avevano anticipato e accompagnato quei primi interrogatori.

Questa è la verità oggettiva. Non mi sono mai a nessun titolo occupato del primo processo per la strage di via d’Amelio, nel quale era imputato Scarantino. Nel processo Borsellino bis ho rappresentato l’accusa solo in dibattimento, ed anche nell’udienza preliminare i magistrati che rappresentavano l’accusa erano altri. L’unico troncone che ho seguito in ogni fase è quello del ter. Questi sono dati di fatto che mi dispiace vengano sistematicamente ignorati.

Cito alcuni dati su delle questioni, come la lettera della dottoressa Boccassini, che nell’ottobre ‘94 esprimeva al procuratore di Caltanissetta le proprie perplessità sull’attendibilità delle prime dichiarazioni di Scarantino. Io dell’esistenza di questa lettera ho appreso quattro, cinque o sei anni fa nel momento in cui, svolgendo indagini a Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, avevamo avviato un collegamento investigativo con Caltanissetta, e ho avuto modo di sapere prima dai colleghi e poi di leggere il suo contenuto tra il 2011 e il 2012. Quando è stata redatta non ero nemmeno entrato a far parte del pool stragi. Come ho già detto in occasione della mia testimonianza al processo Borsellino quater io, giovane magistrato di allora appena arrivato, non ho mai parlato di indagini sulle stragi o di nessun tipo con la dottoressa Boccassini. Lei era l’autorevole esponente del pool, io non ne facevo ancora parte. Nè la Boccassini ha mai parlato con me di Scarantino. Non ho mai partecipato a nessuna riunione della Direzione distrettuale antimafia a cui partecipò la dottoressa Boccassini. La vedevo spesso gli ufficiali di polizia più importanti ed autorevoli di allora, e con il dottor La Barbera, che neanche mi salutava. Non ho mai parlato con lui di vicende relative ad indagini. 
Se a settembre ‘92 si arriva ad un arresto in base ad un’indagine errata o addirittura depistata, chiamare in causa il dottor Di Matteo che inizia ad occuparsi dal novembre ’94 è un fuor d’opera, che certe volte temo sia volontariamente portato avanti sfruttando anche la buona fede e la comprensibile sete di verità di molte persone. 
So che è stata posta la questione del cosiddetto mancato tempestivo deposito agli atti del processo Borsellino bis, che ho seguito in fase dibattimentale, dei confronti che nel gennaio ‘95 assieme ad altri colleghi disposi e feci effettuare tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Mario Santo Di Matteo. 
Per questi mancati depositi siamo stati oggetto di una denuncia penale alla Procura di Catania, poi chiusa con un’archiviazione, da parte di alcuni avvocati. Ma tutti quei confronti sono stati da noi depositati, a disposizione dei difensori degli imputati, e prodotti alla Corte d’Assise ben prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale del processo. Il processo si è concluso con la piena e legittima consapevolezza e conoscenza di tutte le parti processuali dell’esistenza e dei contenuti di quei confronti. Tanto è vero che oggetto di quel confronto era la partecipazione, assunta da Scarantino e negata dagli altri tre collaboratori, ad una riunione preparatoria della strage a casa di Calascibetta. Tanto abbiamo depositato quei confronti, e tanto eravamo convinti nella fase valutativa che Scarantino su quel punto avesse mentito, che per Calascibetta, accusato solo di partecipazione in questo segmento preparatorio, abbiamo chiesto l’assoluzione. 

Perchè non abbiamo depositato subito, ma solo dopo alcuni mesi, senza comunque pregiudicare alcun diritto di difesa? In quel momento avevamo la pendenza in dibattimento del via d’Amelio bis e in fase di indagine del ter, dove erano indagati anche Cancemi e Di Matteo, e avevamo dei motivi ben precisi per ritenere che anche loro fossero stati reticenti sulla strage di via d’Amelio. Cancemi aveva ammesso la sua partecipazione alla strage di Capaci, ma giurava di non sapere nulla su via d’Amelio, cosa che ritenevamo impossibile. Per noi era reticente, e solo a partire dalla seconda parte del 1996 Cancemi ammise la sua partecipazione alla strage di via d’Amelio, riferì di quelle circostanze sulla riunione a casa di Guddo e la citazione, da parte di Riina, di Berlusconi e Dell’Utri, e disse di non aver parlato prima perché troppo delicate erano le sue dichiarazioni su via d’Amelio.

In quel primo momento avevamo delle forti perplessità anche sulla reticenza di Mario Santo Di Matteo, che come Cancemi sosteneva di non sapere nulla di via d’Amelio. Ma nel dicembre del ‘93, poco dopo il rapimento del figlio del collaboratore di giustizia – il piccolo Di Matteo – su disposizione della Procura di Caltanissetta la Dia di Roma effettuò un’intercettazione del primo drammatico colloquio, successivo alla notizia del sequestro, tra Mario Santo Di Matteo e la moglie Francesca Castellese. In quel momento la moglie invocava il marito di non parlare di via d’Amelio perché erano coinvolti quelli che la signora Castellese definiva infiltrati della polizia. Quindi il mancato iniziale deposito di quei confronti dipendeva dal fatto che in relazione a questi elementi pendeva un’indagine che poi sfocerà nel via d’Amelio ter, per cui dovevamo capire chi avesse detto la verità e chi no. Quando siamo stati convinti che quella riunione a casa di Calascibetta non c’era stata non solo abbiamo depositato e prodotto, ma abbiamo chiesto in dibattimento un ulteriore confronto davanti alla Corte tra i pentiti che si contraddicevano.

La presidente Bindi interviene per chiedere al dott. Di Matteo quanto tempo sia passato tra la fase degli accertamenti e il loro deposito.

Credo un anno. Ma in questo anno non c’è stata una tappa processuale, non c’è stato alcun momento che abbia potuto pregiudicare il diritto di difesa degli imputati. Perchè, quando tutti dicono che i pm dovrebbero chiedere scusa per i revisionati, nessuno ricorda che per una parte di quei soggetti i pm già allora avevano chiesto l’assoluzione?

Si è parlato anche delle ritrattazioni di Scarantino prima della sentenza del Borsellino bis. Nelle occasioni in cui ho interrogato Scarantino in fase di indagine e dibattimento, non mi ha mai fatto cenno di essersi inventato alcunchè o di essere stato indotto da chicchessia a dire qualcosa. L’ho già riferito nella testimonianza a Caltanissetta: ho letto che lo stesso Scarantino, interrogato al dibattimento, ha detto che siccome il dottor Di Matteo manteneva un atteggiamento assolutamente formale e distaccato lui non gli ha mai detto questo. Addirittura ha detto – e ho dovuto smentirlo – che lui non aveva mai nemmeno telefonato all’utenza in uso al dottor Di Matteo per lamentare i modi in cui veniva gestita la protezione. L’ho smentito perché qualcuno aveva dato il numero dei sostituti procuratori a Scarantino, e in un’occasione ho ricevuto nella segreteria telefonica 8 chiamate di seguito da parte di questo soggetto che diceva di voler tornare a Pianosa perché erano state disattese le promesse fatte dagli organi di polizia deputate alla protezione sua e dei suoi familiari e sulla possibilità di trovare un posto di lavoro.

Scarantino a me non ha mai detto nulla. Io non ho mai autorizzato, né mai ho letto un’autorizzazione di un magistrato, a colloqui investigativi della polizia con Scarantino o con altri collaboratori di giustizia. Sono venuto recentemente a sapere dalle cronache del processo Borsellino quater che addirittura prima dell’interrogatorio del 24 giugno 1994 erano stati autorizzati da altri magistrati colloqui investigativi con Scarantino, svolti credo dal dottor La Barbera, quindi prima del primo interrogatorio. 

Sulla ritrattazione di Scarantino ricordo bene che nell’ultima fase chiese e ottenne di essere risentito, e nell’aula bunker di Como affermò di essersi inventato tutto. In quella circostanza accusò i magistrati, e anche me – mentre ora afferma di non avermi detto niente – di averlo costretto a dire quelle cose. Sulla base di questo non interrogammo più Scarantino, perchè siamo stati indagati un’altra volta dalla Procura di Catania, almeno immagino, perchè non ho avuto contezza di una mia iscrizione nel registro degli indizi di reato, poi ho letto sulla stampa di una richiesta di archiviazione.

In fase di requisitoria dovevamo fare le nostre valutazioni sulle ritrattazioni di Scarantino. Sulla sua collaborazione l’avevamo già fatta, dicemmo che era attendibile solo molto parzialmente, che non l’avremmo mai usato per chiedere una condanna senza altri autonomi elementi di prova, e così abbiamo fatto. La Corte, sulla base di elementi oggettivi, ha ritenuto che la ritrattazione, veritiera o meno, fosse stata illecitamente indotta. Noi avevamo la prova attraverso le dichiarazioni di un sacerdote di Modena, don Neri, che nei giorni precedenti a quella ritrattazione Scarantino era stato avvicinato da familiari suoi e di altri imputati nella località protetta dove viveva in Emilia Romagna. Ma soprattutto, intercettando l’allora latitante Gaetano Scotto, dall’ambientale a casa della moglie Cosima D’Amore, ci accorgemmo che alcuni avvocati, alcuni oggi parti civili nel quater – quelli che pensano che tutti i misteri siano legati esclusivamente alla vicenda iniziale di Scarantino – avevano chiesto soldi anche al latitante e alla moglie così da farli pervenire a Scarantino per ritrattare. Ci sono delle parole di D’Amore Cosima che hanno fatto scrivere ai giudici della Corte d’Assise nella motivazione della sentenza di via d’Amelio bis: “Si trae dall’anomalo comportamento che questa Corte ha potuto verificare con riferimento al disposto esame di Basile Rosalia, moglie di Scarantino Vincenzo, ma soprattutto si trae dalle intercettazioni e dai pedinamenti compiuti nei confronti di D’Amore Cosima, moglie dell’imputato Scotto Gaetano, intercettazioni e pedinamenti dalle quali emerge in modo assolutamente inequivoco l’impegno di carattere economico richiesto ai familiari di un imputato latitante per offrire a Scarantino Vincenzo le garanzie anche di assistenza processuale a lui richieste nonché, a seguito di apposito servizio di osservazione, un anomalo intervento nella vicenda al di fuori dell’ordinario ambito processuale da parte del difensore di Scotto Gaetano, avvocato Giuseppe Scozzola”.

Questi sono i fatti. Se qualcuno ha depistato via d’Amelio andatelo a cercare in chi ha condotto le indagini che hanno portato all’arresto di Scarantino. Se qualcuno in dibattimento ha creduto a Scarantino, ricordate che quei pm citati in causa – io parlo per me – per metà degli accusati di Scarantino hanno chiesto l’assoluzione e per gli altri hanno chiesto la condanna sulla base di altri. Se qualcuno si lamenta del fatto che 7 posizioni sono state revisionate, bisogna ricordare che la stessa Corte di primo grado ne aveva assolte.

Questi sono i dati oggettivi su quelle vicende che qualcuno vuole falsamente e strumentalmente utilizzare nei miei confronti. Non voglio fare dietrologia, so benissimo che c’è anche una gran parte di persone, politici, giornalisti, che aspira alla verità e pensa che questa sia la questione centrale dell’accertamento della ricerca della verità su via d’Amelio. Ma temo che ci sia invece qualcuno che voglia azzerare, delegittimare e buttare al vento tutto quello che si è fatto: i 26 ergastoli definitivi, dire che su via d’Amelio non sappiamo niente, per non andare avanti. Abbattere anche le parti solide dell’impianto probatorio per non ripartire mai più. 
E invece ci sono degli spunti, delle parti solide per dire che quei processi quelle indagini, soprattutto il via d’Amelio ter l’ha iniziato a tracciare, che oggi meriterebbero l’approfondimento, su cui oggi si dovrebbe appuntare l’attenzione, non solo della magistratura e degli organi investigativi ma anche della politica, della Commissione parlamentare antimafia e dell’opinione pubblica in generale.

Uno dei principali protagonisti della stagione delle stragi del ’92, Mario Santo Di Matteo, nel momento drammatico del primo colloquio con la moglie dopo il rapimento del figlio viene in maniera disperata pregato di non parlare della strage di via D’Amelio. Nell’ambito delle indagini su via d’Amelio ter io li ho poi posti a confronto: hanno negato la valenza di quelle intercettazioni, che però pesano come un macigno. 
Per me è un momento liberatorio poter dire che questi 25 anni proprio persi non sono stati. E che in questi anni qualcuno si è esposto in maniera particolare per queste indagini, per cui leggere 25 anni di insabbiamenti fa molto male. 

C’è uno spunto che è stato sempre trascurato: il giorno dopo la strage di via d’Amelio un ufficiale molto stimato del Ros dei Carabinieri, l’allora capitano Sinico, si presentò in procura a Palermo e ad alcuni magistrati – Antonio Ingroia e un altro – disse che aveva saputo che nel momento immediatamente successivo all’esplosione in via d’Amelio era stato visto il dottor Contrada allontanarsi dal teatro della strage, non ricordo se disse o meno con un’agenda in mano. Il collega Ingroia riferì immediatamente a verbale questi fatti a chi conduceva le indagini all’epoca. La dottoressa Boccassini, in particolare, prese a verbale il dottor Ingroia. Io lo leggo quando, nel ’95, comincio a sfogliare le carte delle indagini precedenti. Sinico era stato chiamato dalla dottoressa Boccassini e aveva detto: “Si tratta di un mio amico fraterno, e non lo voglio esporre, non le dico chi è la persona”.

Dal ’92 fino a quando il giovane pubblico ministero nel ’95 prende queste carte e legge il verbale, questa affermazione di Sinico bloccò le indagini su quel punto. Io andai dal procuratore dell’epoca e dissi che questo ufficiale non poteva invocare il diritto di non rivelare la fonte della sua informazione, non si trattava di un confidente ma di un amico. Richiamai quell’ufficiale, particolarmente efficace ed esposto nella lotta alla criminalità, che era stato indicato dal confidente D’Anna come il possibile oggetto di un attentato insieme al dottor Borsellino. Mi disse a verbale: “Lei ha ragione ed ha coraggio, però io mi faccio incriminare, non rivelo i nomi di chi ha saputo che Contrada era in via d’Amelio”. Io lo iscrissi nel registro degli indagati per false informazioni al pm. Quando lo stavo per rinviare a giudizio si presentò spontaneamente e mi disse: “Ho deciso di fare il nome”. Nel frattempo altri ufficiali dei Carabinieri avevano detto di aver saputo da Sinico la stessa informazione. Io avevo messo a confronto gli ufficiali ed in una prima fase Sinico aveva detto a Canale che si stava inventando tutto, poi mi disse che Canale non si era inventato niente. Il soggetto che gli aveva detto di aver saputo che Contrada era lì era un funzionario di polizia, dottor Di Legami, prima sottufficiale del Ros, poi vinse il concorso in polizia e passò alla Squadra Mobile. Di Legami aveva riferito a Sinico che la stessa sera del 19 luglio alla Squadra Mobile degli agenti di polizia sopraggiunti per primi sul luogo della strage avevano visto Contrada in via d’Amelio, avevano preparato una relazione di servizio che attestasse questa circostanza ed era stato intimato loro di distruggerla. Sinico dice: “E’ stato il mio amico, il dottor Di Legami, a dirlo, e ve lo può confermare anche un altro ufficiale del Ros, tenente Del Sole, che era con me quando me lo disse”. Io disposi dei confronti tra ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia, tutti stimati, da una parte e dall’altra. Uno diceva “tu mi hai detto che c’era Contrada”, l’altro, il dottor Di Legami, disse “tu stai dicendo una bugia e io so perché”. Un contrasto su una circostanza che non è proprio di poco momento. Avevamo da una parte due ufficiali di Carabinieri, dall’altra un funzionario della Polizia di Stato, che dicevano il contrario. Tanto che nel momento in cui venni trasferito a Palermo, scelsi di esercitare l’azione penale. Si è fatto un processo che è passato completamente sotto silenzio, nei confronti del dottor Di Legami per falsa informazione al pubblico ministero, concluso con un’assoluzione. Ma il dato di fatto è che se non ha mentito Di Legami l’avrebbero fatto gli ufficiali del Ros. Tutti questi spunti sono nelle indagini.

Anche su Salvatore Cancemi ci sono molti spunti. Il Ros aveva ricevuto dai procuratori di Caltanissetta, Tinebra, e Palermo, Caselli, l’incarico di custodirlo. Dal ’93 al ’96, nel momento in cui era sotto la protezione diretta del Ros – credo fu l’unico collaboratore di giustizia – materialmente custodito in una caserma dei carabinieri, dice di non sapere nulla della strage di via d’Amelio. Nel ’96 ci chiama e ci dice che aveva partecipato alla strage, ai pedinamenti la mattina degli spostamenti del dottor Borsellino. Cancemi aveva detto che Raffaele Ganci gli aveva detto che Riina aveva parlato con persone importanti, grazie alle quali aveva le spalle coperte. In quell’occasione per la prima volta mi dice: “Ricordo una riunione a casa di Girolamo Guddo nel giugno ’92, tra Capaci e via d’Amelio, quando Riina ci disse ‘adesso dobbiamo mettere mano all’eliminazione del dottor Borsellino’. Qualcuno degli esponenti disse ‘perchè in questo momento?’”. Ricorderete tutti che dopo l’iniziale reazione che portò al decreto legge l’8 giugno ’92 con l’introduzione del 41 bis in Parlamento stava maturando, e se ne aveva conoscenza dai giornali, una maggioranza contraria alla conversione in legge di quel decreto. Qualcuno fece notare a Riina che fare un’altra strage a ridosso avrebbe comportato delle conseguenze negative, con l’espressione raccontata da due collaboratori di giustizia, Cancemi e Brusca, con la quale Ganci Raffaele disse a Riina “ma che dobbiamo fare, la guerra allo Stato?”. E Riina disse: “La responsabilità è mia, si deve fare ora e sarà un bene per Cosa nostra” e, secondo Cancemi, in quel momento avrebbe detto: “Ora e in futuro dobbiamo sempre appoggiare Berlusconi e Dell’Utri, fare riferimento a queste persone, Cosa nostra ne avrà dei benefici”.

A proposito dell’insabbiamento, della “procura paramassonica” e quant’altro. All’epoca eravamo due giovani magistrati, io e il dottor Tescaroli, anche se non siamo stati i soli, perchè alcuni magistrati ci appoggiarono. Davanti al procuratore capo, dottor Tinebra, che venne alla riunione con Il Giornale che titolava in prima pagina “le balle di Cancemi”, pretendemmo che venissero iscritti per concorso in strage Berlusconi e Dell’Utri, con i nomi di copertura Alfa e Beta. Facemmo delle indagini e delle deleghe di indagini firmate esclusivamente dai due giovani magistrati della procura, Di Matteo e Tescaroli. 

Ricorderò sempre il dato poi ripetuto processualmente anche da un collaboratore di giustizia più recente: Vito Galatolo, soggetto appartenente ad una famiglia stragista, che scrisse nel novembre del 2014 chiedendo di avere un colloquio con me, che ero alla Procura di Palermo. E come è diventato noto anche a questa Commissione, quando fu al cospetto mio e dell’ufficiale di polizia giudiziaria non volle verbalizzare niente ma disse in maniera agitata che dovevo stare attento perchè l’attentato nei miei confronti era già pronto nei minimi dettagli. Raccontò del tritolo acquistato e di aver visto l’esplosivo destinato all’attentato, e alla mia domanda “perchè?” fece un gesto: c’era in quell’aula del carcere di Parma una nota fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e Galatolo disse: “La sua situazione è non come quello – indicando Giovanni Falcone – ma come l’altro. A noi, come era avvenuto per l’altro, ce l’hanno chiesto. All’epoca ero giovane ma sono figlio di mio padre e queste cose le ho sapute”.

Ovviamente non mi sono più potuto occupare di interrogare Galatolo, penso che altri l’avranno fatto. Ma gli spunti sono tanti. Per anni, soprattutto da quando si è pentito Spatuzza, abbiamo saputo che il principale protagonista della fase esecutiva della strage di via d’Amelio è stato Giuseppe Gravano. L’abbiamo appreso anche prima, dalle indagini da me condotte: c’è il dato che Giovanbattista Ferrante, l’uomo incaricato di pedinare il dottor Borsellino, vide transitare il convoglio delle macchine in via Belgio alle 16.52, per dire che stava arrivando dalla madre, dove sapevano che doveva arrivare, chiamò un telefono nella disponibilità di Cristoforo Cannella, più stretto uomo di fiducia di Giuseppe Graviano. Poi, del ruolo di Graviano, abbiamo saputo ancora meglio con Spatuzza. Però sappiamo anche che Graviano è stato il principale protagonista degli attentati a Roma, Firenze e Milano del ‘93. Oggi sappiamo che è stato anche il principale protagonista dell’accordo con la ‘Ndrangheta che portò nei primi mesi del ’94: il 18 gennaio al duplice omicidio dei due appuntati dei carabinieri a Scilla, Fava e Garofalo, e gli altri attentati per fortuna falliti nei confronti dei carabinieri, sempre in territorio calabrese. Soprattutto, sappiamo che Graviano è stato il principale protagonista del fallito attentato all’Olimpico, il 23 gennaio 1994. Il 27 gennaio, insieme al fratello Filippo, viene arrestato a Milano. Quell’attentato è uno dei grandi misteri, non tanto perchè non sia riuscito il 23 gennaio, ma perchè non sia stato mai più ripetuto, per fortuna, anche se ci dovremmo chiedere il perchè. 
Quando Spatuzza si pentì fecero scalpore le dichiarazioni sull’incontro al bar Doney a Roma, in via Veneto, che riusciamo a collocare pochi giorni prima del 23 gennaio. Rivela Spatuzza di come Graviano gli dice che l’attentato lo devono fare lo stesso, che i calabresi si sono mossi, che dobbiamo dare quest’ultimo colpo, tanto ormai “ci siamo messi il Paese nelle mani” e avrebbe fatto i nomi di Berlusconi e Dell’Utri come i soggetti con i quali erano stati stipulati quegli accordi. All’epoca si disse che erano dichiarazioni de relato. Oggi, con la nostra attività alla Procura di Palermo, un anno di intercettazioni ambientali dei colloqui tra Giuseppe Graviano e il suo compagno di socialità, c’è la viva voce di Graviano, perno di queste vicende, che parlando del ’92 e ’93 e delle stragi fa riferimento di cortesie fatte e di contatti politici con Berlusconi. 
Mi auguro di sbagliare, ma rispetto a questa escalation di elementi di prova sul punto, temo l’indifferenza, la minimizzazione, lo svilimento ingiustificato della valenza probatoria anche delle dichiarazioni di Graviano, attraverso la discutibilissima affermazione prospettata da alcuni difensori e fatta propria dalla maggior parte dei giornali, che Graviano sapeva di essere intercettato. A noi risulta il contrario, ma ammesso e non concesso che sapesse di essere intercettato, il fatto che si riferisse a quelle vicende e persone, in relazione al periodo delle stragi, in ogni caso un significato dovrà pur averlo.

Sono veramente tanti gli spunti che ancora dovrebbero essere approfonditi. Molti sono stati il frutto del lavoro di magistrati tra i quali c’ero anch’io. Tutto viene concentrato sulla vicenda Scarantino: si vuole far credere che il lavoro fatto finora da decine di magistrati non è servito a nulla. Io temo che questo sia controproducente all’accertamento della verità. 
Spero che questa mia audizione possa servire anche a stimolare lo sforzo di prosecuzione e completamento del percorso di verità sulle stragi che oggi, lo affermo con molta amarezza ma piena consapevolezza e senza enfatizzazione, è rimasto nel disinteresse generalizzato sulle spalle di pochi magistrati, investigatori ed esponenti della politica.

La presidente interviene evidenziando che per la Commissione Antimafia Scarantino non rappresenta un pretesto per spostare l’attenzione da quello che appare come un vero e proprio depistaggio. La Bindi domanda quindi al dott. Di Matteo se consideri la vicenda Scarantino un errore giudiziario.

Io non penso assolutamente che per la Commissione la vicenda Scarantino possa costituire un pretesto per non indagare in altre direzioni. Per questo motivo, quando dopo le vostre audizioni del 18 e 19 luglio a Palermo si è scatenata quella campagna mediatica, non ho replicato con un’intervista, ma ho chiesto di rappresentare dei dati di fatto, e per me la sede istituzionale più autorevole è questa dove poter rappresentare ciò che avevo già riferito in aula a Caltanissetta. 

Non ho mai citato né le interviste né le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Anche per me è importante che si accerti se nella fase iniziale sia intervenuto un depistaggio, perchè può essere indicativo di mandanti o complicità esterne. Ma c’è una parte della stampa – che da sempre fa riferimento a Giuliano Ferrara, al Foglio, molto spesso ripresa da organi di informazione importanti in Sicilia – che concentra tutto quello che c’è ancora da approfondire sulla strage di via d’Amelio sulla fase iniziale di Scarantino, e ho il sospetto che tragga origine dal fatto che si vuole azzerare tutto. Si vuole dimostrare che nulla è stato fatto per dire che nulla ancora si può fare. Si è scoperto che Scarantino era un collaboratore inattendibile o poco attendibile, sul punto preciso che nel via d’Amelio ter, tra il ’97 e il ’99, non l’abbiamo nemmeno citato. Nel via d’Amelio bis, nell’istruttoria dibattimentale, le dichiarazioni di Scarantino sono state usate minimamente, noi stessi abbiamo parlato di inquinamento. Abbiamo chiesto chiesto l’assoluzione di parte importante delle persone accusate da Scarantino, e di tutti quelli che erano accusati solo da Scarantino.

La presidente Bindi interviene ulteriormente sulla questione del depistaggio.

E’ stato pesante nella prima fase: nel primo processo e solo in parte nel secondo. Poi è stato completamente disatteso dallo sviluppo delle indagini. Sul punto sono stati poi sentiti Cancemi, Ferrante, e la stessa Procura di Caltanissetta dell’epoca non l’ha nemmeno messo nella lista dei testimoni. I processi via d’Amelio bis e ter vengono celebrati nel ’96-’97. Non guardate solo alle dichiarazioni di Scarantino. Se lui è il pupo che qualcuno ha vestito bisogna vedere come si è arrivati a individuarlo il 26 settembre ‘92. E quel giorno, ad occuparsi delle stragi in generale, erano altri magistrati, tra i quali i dottori Boccassini, Cardella, Tinebra. Ricorderò male, ma mi pare che al primo interrogatorio di Scarantino ci fosse anche la Boccassini. 
Se c’è stato depistaggio, secondo la mia opinione, si è cominciato a concretizzare prima del settembre ‘92. Io entro a far parte del pool stragi due anni e due mesi dopo. È possibile che qualche informatore della polizia avesse indicato in parte la verità, e con un’operazione spregiudicata la polizia abbia trovato una persona che si assumesse e mettesse a verbale la paternità di quelle conoscenze? A me fa paura il dato che Scarantino non accusa solo persone innocenti, ma anche soggetti del mandamento di Brancaccio che anche Spatuzza accuserà, e poi condannate definitivamente. Questo è un altro dato secondo me importante. 
Per quanto riguarda la lettera della dottoressa Boccassini anch’io, sotto giuramento da testimone, ho detto prima di oggi queste cose, e cioè che quella lettera l’ho conosciuta soltanto negli ultimi anni a Palermo. Forse non c’è nemmeno contraddizione, a meno che la dottoressa Boccassini non dica di avermene parlato. Ma con me non ne ha parlato. Quella lettera, che ora apprendo non essere nemmeno firmata, non l’avevo mai vista, nessuno me ne ha parlato. E questa è la realtà dei fatti.

La presidente della Commissione Antimafia interviene per chiedere se, al di là di politici, poliziotti e carabinieri implicati in questa vicenda, vi sia anche qualche magistrato.

E’ possibile, ma tra i magistrati che in quella vicenda potevano essere implicati non c’era certamente il dottor Di Matteo… Però, presidente, il mio nome è stato fatto e guarda caso da tanto tempo, da prima del 19 luglio, per la vicenda Scarantino è al centro di una continua campagna di stampa, soprattutto di alcuni organi di stampa che notoriamente sono vicini ad alcuni soggetti di cui alle piste investigative che ho delineato.

L’On. Bindi conclude la seduta chiedendo nuovamente al dott. Di Matteo se ritiene la vicenda Scarantino un errore giudiziario.

Se qualcuno ha messo in bocca a un soggetto che non sapeva niente, come ho ipotizzato ora, qualcosa che aveva appreso da altri, non è semplicemente un errore: è un depistaggio e una condotta gravissima. Se qualcuno nella magistratura l’abbia avallata è altrettanto grave. L’errore può essere la valutazione sulla credibilità piena, non piena o parziale. Se questo è avvenuto, ed è l’ipotesi che ritengo più credibile, non si tratta semplicemente di un errore ma di qualcosa di ben più grave, che è certamente opportuno accertare.  ANTIMAFIA DUEMILA trascrizione a cura di Miriam Cuccu (n.b. le evidenze in rosso sono ns.)


 AL BORSELLINO QUATER DI MATTEO RACCONTA SCARANTINO  Il pm palermitano sentito come teste a Caltanissetta  Dal primo interrogatorio tenuto con il “falso pentito” Vincenzo Scarantino al confronto con i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera; poi ancora il processo “Borsellino bis” ed il “Borsellino ter” passando per le inchieste sui “mandanti esterni” e la condanna a morte vissuta sulla propria pelle. Per cinque ore di udienza il sostituto procuratore di Palermo, Antonino Di Matteo, sveste i panni del pm e, di fronte alla Corte d’assise di Caltanissetta al processo “Borsellino quater”, viene sentito come teste per ricostruire in particolare le indagini condotte soprattutto sulla strage via d’Amelio. Con grande precisione Di Matteo ricostruisce pezzi di indagine che lo hanno visto tra i protagonisti solo a partire dall’ottobre-novembre del 1994, quando venne incaricato dal Procuratore capo Tinebra di entrare nel pool che si occupava delle stragi. “Il mio primo atto istruttorio – ricorda Di Matteo in aula – fu una serie di interrogatori di Scarantino alla Questura di Genova. Vi erano già state attività istruttorie e all’arresto di Scarantino si arrivò tramite le dichiarazioni di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, ma io non ho mai partecipato a quelle indagini condotte dalla dottoressa Boccassini, da Cardella e da Petralia. Con loro spesso vedevo anche Arnaldo La Barbera, soprattutto con la Boccassini che era ritenuta il motore delle indagini”. Passo dopo passo il magistrato ricostruisce quegli anni partendo da dati di fatto come i risultati ottenuti nel secondo e nel terzo procedimento sulla strage del 19 luglio 1992, che portarono a 26 condanne definitive mai messe in discussione.

Il valore dato alle parole di Scarantino  Di Matteo, parlando anche del possibile depistaggio sulle indagini, evidenzia alcuni aspetti chiave. “Se vi è stato – ricorda – bisogna chiedersi come mai tra le cose che Scarantino dice vi siano anche elementi di coincidenza, seppur parziali, con quanto riferito poi da Spatuzza. Scarantino aveva indicato come partecipi componenti di due mandamenti: Guadagna e Brancaccio. Il soggetto che per primo parlò del coinvolgimento di Tagliavia ed anche di Giuseppe Graviano, per Brancaccio, è proprio Scarantino. Quindi non è vero che Brancaccio fu tenuta fuori dalle indagini, tanto che arrivammo anche alla condanna di questi soggetti. Scarantino è stato anche il primo a parlare delle intercettazioni sul telefono della madre di Borsellino e a riferire sui fratelli Scotto. I nipoti di Borsellino indicavano la presenza di Pietro Scotto in via D’Amelio a completare dei lavori per la Sielte. Quando Scarantino parlava di Scotto, ricollegando quanto dichiarato dai parenti di Borsellino, ecco che le perplessità venivano superate. Vi erano elementi di convergenza delle prove”. Tra gli aspetti ricordati vi è poi anche il dato che all’arresto di Scarantino si arriva in base alle attività di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Pietrina Valenti, sulle dichiarazioni di Candura ed Andriotta. “Candura l’ho interrogato solo al processo – ricorda il magistrato – Andriotta fu indicato dalla Procura di Milano, segnalato dai pm Zanetti e Boccassini, come soggetto che avrebbe potuto dire delle cose sulla strage di via d’Amelio. Non avevamo elementi per ritenere che la convergenza fosse frutto di una situazione patologica”.Il pm palermitano chiarisce anche come furono affrontate le continue ritrattazioni dello stesso ex picciotto della Guadagna: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell’organizzazione materiale e della preparazione dell’attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre ’94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel ‘Borsellino Bis’ avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato, tanto che chiedemmo l’assoluzione di Calascibetta, Murana e Gambino. In secondo grado sulla base di nuove prove alcune di quelle assoluzioni furono trasformate in condanne. A un certo punto lui stesso inquinò un quadro probatorio che ritenevamo genuino, inserendo un dato falso della partecipazione dei tre collaboratori di giustizia alla riunione di Calascibetta (Cancemi, Di Matteo e La Barbera). Quest’opera di inquinamento vi fu sin dall’inizio, sin dalla prima ritrattazione televisiva ad Italia uno, di cui appresi solo qualche giorno dopo dalla stampa, vi fossero pressioni (sia esponenti della famiglia, che da parte di certi avvocati, ndr) per farlo ritrattare”. Diversamente da quanto dichiarato dal “picciotto” della Guadagna, Di Matteo ricorda di aver anche ricevuto delle telefonate dallo Scarantino: “Qualcuno, certo non io, diede al collaboratore di giustizia la mia utenza telefonica. Ricordo che era maggio giugno, io avevo finito un’udienza del processo Saetta e spensi il telefonino. Quando lo riaccesi c’erano otto messaggi vocali di Scarantino che si lamentava che diceva di voler tornare in carcere ‘nell’inferno di Pianosa’ piuttosto che vedere tradite ‘le promesse di assistenza’ alla sua famiglia. Mancate promesse che imputava al dottor Gabrielli, dirigente del servizio centrale di sicurezza, e poi Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi. Scarantino si lamentava sempre di queste persone, ma a me non ha mai detto di essersi inventato le cose o che gliele avevano fatte dire. Se lo avesse fatto avrei fatto delle relazioni di servizio. Di queste cose, in riferimento alla sua assistenza si lamentava spesso ma erano cose non rilevanti processualmente. Solo poi ho saputo che a dare il mio numero era stato il Procuratore capo Tinebra”.

La lettera con le perplessità della Boccassini e Sajeva  Rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola, Di Matteo parla anche della lettera firmata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e Roberto Sajevainviata nell’ottobre del ’94 al procuratore aggiunto Giordano e inserita poi al protocollo riservato. Il ricordo sul punto è chiaro: “Non l’ho mai vista. Ho appreso dell’esistenza di questa lettera soltanto molti anni dopo. Con la dottoressa Boccassini non ho mai parlato, lei non mi ha mai parlato di Scarantino e sono certo di non aver mai parlato con la Boccassini di vicende relative all’indagine, né tanto meno io ne ho parlato con La Barbera. Con la Boccassini non ho mai partecipato a una riunione in Dda e la Boccassini non mi ha mai esposto le sua valutazioni. Dell’esistenza di una relazione di questo tipo ho appreso anni dopo dalla stampa”. Il pm palermitano ricorda di riflessioni sull’attendibilità di Scarantino ma nella stessa misura che avveniva anche per altri collaboratori. “In quel periodo – dice Di Matteo – Io ed altri colleghi eravamo convinti, basandoci su elementi di fatto, che fino all’agosto ’96 fosse poco credibile quello che affermava Salvatore Cancemi. Ricordo che le perplessità legate a Cancemi erano condivise da tutti. Non era plausibile che Cancemi con un ruolo così importante su Capaci non sapesse nulla su via D’Amelio. Analoghe perplessità vi erano anche in riferimento a Mario Santo Di Matteo, a suo dire ignaro di ogni fase su strage via D’Amelio. Di Matteo era stato sottoposto, dopo i il sequestro del figlio, ad intercettazione ambientale con la moglie Franca Castellese. Un dialogo in cui implorava al marito di non parlare della strage di via d’Amelio con riferimento ad ‘infiltrazioni della polizia’. Facemmo anche un interrogatorio alla moglie di Di Matteo facendole ascoltare la registrazione. Le perplessità sulla Castellese aumentarono ma non si procedette perché mancavano ulteriori riscontri. E queste perplessità vi furono anche per Gioacchino La Barbera”.

La querelle sul confronto Si torna a parlare della vecchia polemica scaturita dalla richiesta degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola di poter leggere i verbali del confronto svoltosi il 13 gennaio 1995 tra Vincenzo Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.

“Io propongo e concordo la necessità di un confronto – racconta Di Matteo affrontando l’argomento –, e i confronti si tengono presso la sede del Ros di Roma. A quei confronti partecipo anch’io ma partecipavano anche altri magistrati della Dda di Caltanissetta, non solo i colleghi Petralia, Palma e Giordano. Ricordo che i tre soggetti (Cancemi, Brusca e Di Matteo, ndr) smentirono Scarantino”. Di Matteo spiega quindi che il confronto mirava a chiarire la partecipazione, o la mancata partecipazione, ad una riunione operativa a casa di Giuseppe Calascibetta alla Guadagna una decina di giorni prima della strage di via D’Amelio. “Eravamo in un momento in cui c’erano dei procedimenti in fase di indagine – sottolinea il sostituto procuratore di Palermo –, in quel momento noi ritenevamo che i tre non ci fossero alla riunione, ma noi avevamo delle indagini e sospettavamo che quei tre soggetti (che avevano negato la loro partecipazione in quel luogo), in quel momento erano reticenti su via D’Amelio”. Di Matteo ribadisce che quella riunione coinvolse “tutta la Dda” in relazione “agli atti da predisporre e da depositare in vista del rinvio a giudizio dei 15 o 16 nel processo Borsellino Bis”. “In quel momento tutti i componenti della Dda di Caltanissetta (in relazione alla pendenza di queste indagini, che poi sfociarono un anno dopo nella richiesta di rinvio a giudizio per il Borsellino ter), si espressero per una scelta processuale che venne presa sulla base dell’articolo 130, primo comma, sulle disposizioni di attuazione”. “Siccome Di Matteo, La Barbera e Cancemi erano indagati nell’altro procedimento in quel momento non si depositarono gli atti relativi a questo confronto”, prosegue il magistrato. “Gli atti vennero depositati con il Borsellino ter, ma nel corso del Borsellino Bis, e prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale, lo stesso pm all’udienza in cui venne sentito Cancemi, produsse il verbale di confronto. Fu ammesso anche un confronto con Brusca da parte dello Scarantino e si tenne a Como prima che si esaurisse la fase istruttoria dibattimentale quei confronti furono messi a disposizione dei difensori anche del Borsellino Bis”. “Nel momento in cui ci furono i confronti per la pendenza di indagini – sottolinea infine Di Matteo –, in quel momento si ritenne che per consentire la prosecuzione delle indagini quegli atti dovessero essere coperti ancora per un certo periodo dal segreto investigativo”. Di fatto il 14 ottobre ’97 al Borsellino Bis il pm chiese l’acquisizione del verbale di confronto tra Cancemi e Scarantino alla stessa udienza in cui era chiamato Cancemi.

La sicurezza di Scarantino  Parlando della tutela data all’epoca al collaboratore di giustizia, principale accusatore sulla strage di via d’Amelio, Di Matteo, rivolgendosi alla Corte, riferisce di non aver mai saputo le modalità, ma di ricordare che al tempo anche chi faceva le indagini, come i funzionari del Gruppo Falcone e Borsellino, si alternavano per svolgere attività di tutela nella località protetta dello Scarantino. “Non so questo per conoscenza diretta, ma per quello che sentivo dai colleghi. Era una cosa che al tempo accadeva. Un episodio simile era avvenuto per Cancemi al Ros. In quel caso, nel corso di indagini successive, mi sono imbattuto in documenti d’autorizzazione scritti dalle Procure di Caltanissetta e Palermo. Non mi risultano documenti simili su Scarantino”. Di Matteo, oltre a chiarire di “non aver mai autorizzato dei colloqui investigativi tra funzionari del Gruppo Falcone Borsellino e lo Scarantino dopo che questi aveva iniziato la collaborazione (se ciò è avvenuto prima ha detto di non esserne a conoscenza, ndr)” parla anche del suo rapporto con alcuni funzionari del gruppo investigativo guidato da Arnaldo La Barbera. “Con l’ex questore non ho mai avuto rapporti. Quelle volte che lo vedevo la sera con la dottoressa Boccassini il La Barbera nemmeno salutava. Casomai aveva buoni rapporti con Tinebra, la Palma e Petralia. Personalmente avevo un rapporto di buona collaborazione con il dottor Bo. Questi mi diceva che non viveva bene il fatto di essere stato incaricato della protezione di Scarantino. Ricordo che non era contento di essere stato incaricato di una cosa che non lo riguardava”. In merito alle parole riferite dallo stesso Scarantino nella ritrattazione di Como, dove indicava i suggerimenti che venivano fatti dai funzionari in alcuni verbali in suo possesso, Di Matteo spiega inoltre di non aver svolto indagini per un semplice motivo: “Scarantino, quando ritrattò a Como, accusò i magistrati, tra cui anche me, di averlo costretto a ritrattare ritrattazioni. Diedi per scontato che su quel tipo di accuse abbia proceduto la procura di Catania. Come mai Scarantino aveva quei verbali? Non so chi abbia fatto quelle indicazioni, non ho riconosciuto la scrittura. Nella grande maggioranza dei casi il difensore aveva diritto della copia dell’interrogatorio per farlo avere al suo assistito. A me risulta che l’avvocato Falzone, che in quel periodo assisteva moltissimi pentiti, era solita chiedere copia dei verbali dei suoi assistiti. Credo che possa essere avvenuto anche per Scarantino”.  ANTIMAFIA DUEMILA 16.11.2015 di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari


“25 anni alla ricerca di una scomoda verità”. Lodato intervista Di Matteo

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A venticinque anni di distanza dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, che hanno portato alla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, sono ancora diversi i pezzi mancanti che si intravedono sotto le macerie. Quali sono queste “verità scomode” celate? Si potrà mai raggiungere una completa verità? Perché quello della mafia è un fenomeno che resiste nel nostro Paese da oltre 150 anni? Sono questi alcuni temi affrontati a Pavia, nella meravigliosa aula del ‘400, in occasione dell’ultimo incontro organizzato per la XIII edizione di “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi, ed intitolato “25 anni alla ricerca di una scomoda verità”.Da una parte Saverio Lodato, giornalista, scrittore, autore del best seller “Quarant’anni di mafia” ed editorialista della nostra testata. Dall’altra Nino Di Matteo, sostituto procuratore nazionale antimafia, pm di punta del pool impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia e per anni pm nella indagini sulla ricerca dei mandanti delle stragi. A seguito della condanna a morte di Totò Riina, e con l’arrivo a Palermo di duecento chili di tritolo per compiere un attentato nei suoi confronti, Di Matteo è diventato il magistrato più scortato d’Italia. Con le sue domande, di fronte ad una platea composta soprattutto da giovani universitari, Lodato e Di Matteo hanno fatto il punto sulla lotta alla mafia sottolineando come l’impegno nel contrasto sia un preciso dovere non solo per gli addetti ai lavori ma, soprattutto, per la politica. da ANTIMAFIA DUEMILA


AUDIO 1950 INTERVENTI da Radio Radicale


  • ”Depistaggio di Stato, il Csm lasci stare Di Matteo” – 10 Settembre 2018.  Lettera di Salvatore Borsellino al Vicepresidente CSM   Professor Legnini, le scrivo, nella sua qualità di rappresentante apicale dell’Organo di autogoverno della magistratura. Ho appreso che per domani il Csm ha convocato, per audirli e per valutarne eventuali responsabilità, Antonino Di Matteo, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, tutti magistrati che due decenni fa e più si occuparono di indagini e processi relativi alla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, nella quale furono uccisi mio fratello Paolo e cinque agenti della scorta. Nel processo Borsellino quater definito con la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta – la cui motivazione è stata depositata il 30 giugno scorso – mi sono costituito parte civile e, al momento delle conclusioni, il mio difensore ha chiesto la condanna di tutti gli imputati a eccezione di Vincenzo Scarantino (il falso pentito di via D’Amelio, l’uomo che si autoaccusò, salvo poi ritrattare, della strage, ndr): condanna del quale, non ho esitato a dire, che avrebbe costituito una vergogna per l’Italia. In effetti la Corte di Assise di Caltanissetta ha condannato tutti gli imputati a eccezione di Scarantino: i giudici hanno ritenuto che egli fosse stato determinato da terzi a eseguire le calunnie, che con certezza erano state ideate da altri, e in particolare da infedeli rappresentanti delle istituzioni. Proprio a tale riguardo, mi sono speso in questi anni sia quale parte civile nel processo, sia per dovere civico fuori dal processo, a lottare perché emergessero le responsabilità di coloro che, dall’esterno (collocati in posizioni di potere ufficiale), hanno concorso con i mafiosi di Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, e di coloro che (sempre annidati nei gangli del potere) si sono resi responsabili di “uno dei più gravi depistaggi della storia”, per riprendere le parole della Corte di Assise. In questo ho dovuto perfino assumere posizioni di conflitto con la procura di Caltanissetta, nella sua composizione di questi ultimi anni. Quell’ufficio requirente, proprio nel corso del processo Borsellino quater, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione per gli esponenti della polizia individuati come possibili corresponsabili del depistaggio. Lo stesso ufficio – solo dopo la conclusione del giudizio di primo grado, e dopo che la Corte di Assise aveva trasmesso l’intero incartamento ai pm – si è trovato costretto a esercitare l’azione penale per alcuni appartenenti alla polizia che, sotto la guida del defunto Arnaldo La Barbera, avrebbero realizzato la fase esecutiva del “depistaggio Scarantino”. Com’è evidente a chiunque, tuttavia, quel criminoso depistaggio, per dispiegare appieno tutti gli effetti, ha avuto l’avallo formale o la convalida postuma, se non addirittura la condivisione, da parte di esponenti della magistratura, non solo requirente ma anche giudicante. Limitando qui l’analisi alla magistratura requirente, ho potuto accertare chi abbia avuto un ruolo attivo nelle indagini finalizzate alla falsa collaborazione con la giustizia da parte di Scarantino e nella cura delle relazioni con La Barbera, al quale fu dato – fuori da ogni ragionevolezza giuridica e pratica – il ruolo di assoluto dominus nello svolgimento di tutte le indagini. Le prove raccolte nel Borsellino quater dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i due magistrati della procura di Caltanissetta con i quali La Barbera ebbe un rapporto oltremodo privilegiato e preferenziale furono Giovanni Tinebrae Ilda Boccassini. È risultato anche come Nino Di Matteo nella vicenda giudiziaria della strage di via D’Amelio con La Barbera non ebbe alcun tipo di rapporto. Del resto, in qualità di parte civile del processo Borsellino quater, ho fornito alla Corte d’Assise – che ne ha disposto l’acquisizione facendolo divenire patrimonio probatorio – un documento che ha una forza dimostrativa enorme su chi siano stati, alla procura di Caltanissetta del tempo, i magistrati che si assunsero pubblicamente la paternità della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Quel documento consiste nell’audioregistrazione della conferenza-stampa svoltasi il 14 luglio 1994, e indetta su iniziativa della procura di Caltanissetta, per riferire agli organi di informazione sull’ordinanza di custodia cautelare che era stata eseguita il giorno precedente, e fondata sulle “rivelazioni” di Scarantino (che aveva iniziato a “collaborare con la giustizia” il 24 giugno 1994, subito dopo un “risolutivo” colloquio investigativo con La Barbera). Professor Legnini, le segnalo che in quella conferenza-stampa – ove il Csm, che immagino abbia fatto un qualche accertamento prima di scegliere quali magistrati (requirenti) convocare quali possibili responsabili del “depistaggio Scarantino”, non ne abbia ancora fatta formale acquisizione, sebbene sia online sull’archivio di Radio radicale – i magistrati che declamarono come una vittoria della Giustizia il “pentimento” di Scarantino furono Tinebra, Boccassini e, con pochissime parole, Francesco Paolo Giordano. Prendo atto che il Csm, non potendo convocare il defunto Tinebra, ha omesso di convocare Boccassini e Giordano, cioè gli unici magistrati che si assunsero pubblicamente il merito della “collaborazione con la giustizia” di Scarantino. Soprattutto, le segnalo che Di Matteo al momento di quella penosa conferenza-stampa non era ancora nemmeno stato assegnato alla trattazione dei fascicolo sulla strage di via D’Amelio. Quel che si vuole imputare a Di Matteo è altro, e in particolare il ruolo che egli ha avuto, quale magistrato della procura di Palermo, nei processi per la “trattativa Stato-mafia” e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano. La invito a evitare che il Csm si presti a compiere quella che non potrebbe che essere considerata una rappresaglia ai danni di Nino Di Matteo.  IL FATTO QUOTIDIANO 11.9.2018

LA TRATTATIVA NON E’ PRESUNTA. L’ESISTENZA DI UNA VERA E PROPRIA TRATTATIVA DI TIPO POLITICO CON LA MAFIA, BASATA E FINALIZZATA SUL CONCETTO DEL DO UT DES E’ COSTITUITA DALLE STESSE PAROLE PRONUNCIATE DA MORI E DA DE DONNO, SENTITI NEL PROCESSO DINANZI ALLA CORTE DI ASSISE DI FIRENZE. E NON SOLO IN QUEL PROCESSO.

PM Di Matteo – dalla requisitoria 15 dicembre 2017 processo Trattativa Stato-mafia  “Rispetto a quella che viene definita sempre la “fantomatica” trattativa, la messinscena della trattativa, la pseudo trattativa e quant’altro, andiamo ad esaminare tutti quegli elementi che ci inducono ad affermare che quei dialoghi, quegli incontri riservati, nella casa di Roma, costituirono il terreno privilegiato di una vera e propria trattativa politica. E non certo come vogliono far credere gli odierni imputati, di una ordinaria, se pure eventualmente temeraria e spregiudicata iniziativa investigativa. Non c’entra nulla. Su questo processo si è detto e si continua a dire tutto. Non soltanto per criticare, che sarebbe ovviamente perfettamente comprensibile, ma per delegittimare, ridicolizzare il lavoro del Pubblico Ministero e l’onestà concettuale del Pubblico Ministero.  Siamo abituati non solo a sentire parlare di presunta trattativa , ma a leggere ed ascoltare quotidianamente giudizi impietosi che definiscono l’ipotesi della trattativa una messinscena, una bufala, un teorema di magistrati politicizzati privo di qualsiasi appiglio probatorio completo. Questa continua, costante, pressante attuale ricostruzione mediatica stride clamorosamente con dati di fatto di solare evidenza e di dirompente forza dimostrativa  E voglio partire da ciò che tutti dimenticano o fingono di dimenticare. Al di là e ancor prima di dichiarazioni di pentiti e dichiaranti, delle ricostruzioni di Massimo Ciancimino, delle affermazioniazioni di Brusca o di Cancemi, c’è ed assume oggi una forza incredibile nella sua chiarezza indiscutibile ed inequivocabile un elemento di prova acquisito quando nessuno ancora aveva nemmeno semplicemente ipotizzato di poter aprire un’indagine sui vertici del Ros e sui loro rapporti con Vito Ciancimino.  Quell’elemento di prova, quella confessione dell’esistenza di una vera e propria trattativa di tipo politico con la mafia, basata e finalizzata sull’elementare concetto del do ut des, è costituita dalle stesse parole pronunciate da Mori e da De Donno allorquando vennero sentiti nel processo Bagarella + 25 dinanzi alla Corte di Assise di Firenze.  Parole molto chiare, inequivoche assolutamente antitetiche rispetto a quelle rese in questa sede con le spontanee dichiarazioni. Parole e ricostruzioni che recuperiamo attraverso il testuale riferimento nelle sentenze alla Corte di Firenze che non lasciano spazio e dubbi ad interpretazioni diverse da quelle di un’ammissione di una vera e propria trattativa con i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino.  Andiamo a leggere alcuni passaggi di queste dichiarazioni rese all’udienza pubblica in Corte di Assise a Firenze del 27 gennaio 1998. Leggo alcuni passaggi virgolettati. Teste Mori “Andammo da Ciancimino e dicemmo “Signor Ciancimino, che cos’è questa storia qui. Ormai c’è un muro contro muro . Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?“. Guardate, basterebbero queste parole per dire: Ma quale attività investigativa? Ma quale pseudo trattativa? Il rappresentante del Comando Operativo del reparto di eccellenza dei Carabinieri del Ros va da un soggetto che sa essere in contatto con Riina e Provenzano e e gli dice “Ma cos’è questo muro contro muro?” come se fosse strano che ci sia muro contro muro tra l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo e che poco tempo prima aveva fatto saltare in aria un pezzo di autostrada a Capaci e lo Stato. Che cos’è questa Signori Giudici Popolari se non già proprio subito una proposta di metterci d’accordo per fare venire meno il muro contro muro? Altro che Scotti alle Camere che dice che non ci può essere nessuna ipotesi di mediazione, di compromesso… Ha ragione Riina quando dice “Mi hanno cercato loro”. La sentenza Tagliavia ha perfettamente ragione quando dice che il dialogo con la mafia è stato cercato …non dallo Stato, lo Stato è un concetto molto più alto, ma da alcuni esponenti deviati dello Stato.  Che cos’è questo muro, non si può parlare con questa gente? Non lo dice un pentito, lo dice Mori. Poi vedremo perché in quel momento, fra virgolette, se lo lascia scappare. Il 27 gennaio 98 in una Corte di Assise che giudicava i responsabili degli eccidi di Roma, Firenze e Milano, davanti alle parti civili, davanti ai parenti dei morti. “Ciancimino mi chiedeva se io rappresentavo solo me stesso o anche altri. Gli disse lei non si preoccupi, lei vada avanti. Lui capì e RESTAMMO D’ACCORDO CHE VOLEVAMO SVILUPPARE QUESTA TRATTATIVA” La trattativa non esiste, la trattativa è il frutto avvelenato di giudici politicizzati…la presunta trattativa, la pseudo trattativa…la bufala della trattativa, la patacca della trattativa…  MORI IL 27 GENNAIO 1998 (la Corte si sbaglierà -dopo leggo alcuni passi della sentenza- dicendo che di quella trattativa ha parlato solo De Donno) DI TRATTATIVA HA PARLATO MORI E NON SOLO IN QUESTO PASSAGGIO, NE LEGGERO’ ALTRI, E LEGGERO’ ANCHE SCRITTI IN CUI MORI DEFINISCE QUESTA COSA UNA TRATTATIVA. C’è un altro passaggio molto importante che Mori sottolinea che i giudici della Corte di Assise annotano: la richiesta di Ciancimino di avere un passaporto. Testuali parole del Colonnello Mori.  QUANDO PARLA DEL PASSAPORTO MORI DICE “CE LO CHIESE PER SEGUIRE ALCUNE FASI DELLA TRATTATIVA ALL’ESTERO.“  CAPITANO DE DONNO, sempre lo stesso giorno, 27 gennaio 98 “GLI PROPONEMMO DI FARSI TRAMITE PER NOSTRO CONTO DI UNA PRESA DI CONTATTO CON GLI ESPONENTI DELL’ORGANIZZAZIONE MAFIOSA COSA NOSTRA AL FINE DI TROVARE UN PUNTO DI INCONTRO, UN PUNTO DI DIALOGO finalizzato -De Donno è ancora più esplicito- alla immediata cessazione di queste attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato.”  Troviamo un punto di dialogo, finitela con questo contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, si capovolgono i termini della questione.  Signori giudici popolari, questo significa acquisire informazioni? Questo significa fare un’attività investigativa? O questo significa, come qui diciamo, condurre in maniera spregiudicata una scellerata e spregevole trattativa con i vertici della mafia mentre c’era ancora il sangue dei morti in terra? Proseguo nel citare alcune delle affermazioni rese sotto giuramento da De Donno “Successivamente Ciancimino ci fece sapere che VOLEVA INCONTRARCI E CI DISSE CHE L’INTERLOCUTORE, E CIOE’ LA PERSONA CHE FACEVA DA MEDIATORE FRA LUI E SALVATORE RIINA (quindi sapevano già tutto, sapevano che Ciancimino parlava con Riina) VOLEVA UNA DIMOSTRAZIONE, UNA PROVA CONCRETA DELLA NOSTRA CAPACITA’ DI INTERVENTO. QUESTA PROVA CONSISTEVA NELLA SISTEMAZIONE DELLE VICENDE GIURIDICHE PENDENTI DEL CIANCIMINO E NELLA CONSEGUENTE CONCESSIONE DI PASSAPORTO AL CIANCIMINO.“  Quindi De Donno dice ai giudici della Corte di Assise di Firenze che, avendo parlato con Riina, per capire fino a che punto fossero affidabili interlocutori istituzionali, affidabili dal punto di vista mafioso, Riina chiese “vediamo fino a che punto si spingono: dategli un passaporto a Ciancimino”. Ciancimino a sua volta aveva detto “mi può essere utile per proseguire la trattativa all’estero, perché poi nel frattempo, aveva spiegato bene Vito Ciancimino che il suo interlocutore principale era Provenzano e che forse poteva essere utile anche qualche incontro all’estero. Io mi permetto per l’ultima volta di sottolineare che, veramente, i primi a spiegare cosa fosse la trattativa, e che quella che loro hanno fatto è stata una trattativa con i vertici della mafia, sono stati proprio Mori e De Donno il 27 gennaio 1998. Io mi permetto di leggere solo alcuni passaggi della sentenza definitiva del 6 giugno 1998, quindi non c’era ancora praticamente nulla su quello che è il quadro probatorio oggi gravante nei confronti degli imputati carabinieri  Alcuni passaggi delle valutazioni della Corte di Assise di Firenze: L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto fra i Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino. Andiamo alle parti maggiormente significative. Vanno dette senz’altro alcune parole non equivoche L’iniziativa del Ros, perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del reparto, aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questo è scritto in una sentenza definitiva pronunciata da una Corte di Assise in nome del popolo italiano.  Sotto questi profili, proseguono i giudici, non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di trattativa, dialogo, ha espressamente parlato il capitano De Donno, ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulate, di contattare i vertici di Cosa Nostra PER CAPIRE COSA VOLESSERO IN CAMBIO DELLA CESSAZIONE DELLE STRAGI. Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.  Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi, soccorrono assolutamente logiche, tempestive, congruenti le dichiarazioni di Brusca, poi ci torneremo. Intanto la conclusione. IL CONVINCIMENTO DI UNO STATO CHE VA A CERCARE, VA IN GINOCCHIO A DIRE “CHE COSA VOLETE PER FINIRE LE STRAGI?” rappresenta anche il frutto più velenoso dell’iniziativa in commento che al di là delle intenzioni con cui fu avviata, ebbe sicuramente un effetto deleterio per le Istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato.  Si deve dire quindi che alla fine del 1992 si erano verificate le tre condizioni fondamentali per l’esplosione di violenza dei mesi successivi giacché metodo ed oggetto così come le finalità erano già presenti con sufficiente precisione alla mente di coloro che muovevano le fila di Cosa Nostra. Il disinganno susseguente alla stasi della trattativa e all’arresto di Riina faranno da detonatore ad una miscela già pronta e confezionata.  E allora, altro che processo fondato sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, altro che presunta trattativa, altro che teoremi accusatori di magistrati mossi da intenti politici. L’elemento di base, la piattaforma conoscitiva sulle quali si innesteranno le numerose successive acquisizioni per affermare che trattativa ci fu, è costituito proprio da quello che SOLO QUANDO DOPO LE PRIME DICHIARAZIONI DI GIOVANNI BRUSCA, GLI UFFICIALI VENNERO CHIAMATI AL PROCESSO DI FIRENZE, ESSI STESSI IN QUELLA SEDE AFFERMARONO , IN UN MOMENTO IN CUI CON LA TRACOTANZA CHE CON DIVERSI ASPETTI E’ CARATTERISTICA DI ENTRAMBI, ERANO CONVINTI DELLA LORO ASSOLUTA IMPUNITA’. E avevano anche in quel momento una giustificazione, avevano ragione in quel momento a sentirsi intoccabili, non a sentirsi rispettosi della legge e delle prerogative di un ufficiale giudiziario, ma SENTIRSI INTOCCABILI.
Quella convinzione trovava ragione d’essere nella incredibile inerzia della magistratura fronte a quello di cui quelle persone, Mori in particolare, si era già reso protagonista con la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina e con l’inganno alla Procura di Palermo circa la prosecuzione del servizio di osservazione sull’abitazione del Riina, con l’incredibile vicenda della mancata cattura di Nitto Santapaola a Barcellona, con il tragico epilogo della vicenda Ilardo dopo che il confidente aveva portato con mano il Ros alla possibilità non sfruttata di catturare Bernardo Provenzano… Quando il 27 gennaio 1998 Mori e De Donno si siedono davanti alla Corte di Assise di Firenze sono forti di tutto questo.  Sono forti della vicenda che non era successo niente nei loro confronti sostanzialmente, neppure all’emergere della doppia refutazione sulla questione mafia-appalti.  E in quel momento, forti di quel convincimento di impunità, seppur ovviamente omettendo il particolare decisivo della ricezione della trasmissione dell’elenco delle richieste di Riina, Mori e De Donno in quel momento forti del loro convincimento avevano parlato di trattativa per porre fine alle stragi e al muro contro muro tra lo Stato e la mafia. La verità è che in quel momento con l’instaurarsi dell’interlocuzione con Ciancimino si è venuta a determinare una situazione che dal punto di vista mafioso viene plasticamente descritta da ciò che Provenzano riferisce a Nino Giuffrè: Vito Ciancimino è in missione per conto di Cosa Nostra. Dal punto di vista chiamiamolo istituzionale, Mori e De Donno con l’avvallo e la copertura decisiva del comandante del Ros generale Subranni erano a loro volta in missione segreta per conto non del Governo, non dello Stato, ma di quella parte del potere rappresentato anche da uomini che rivestivano incarichi istituzionali, che deviando dagli interessi e dai comportamenti istituzionali VOLEVA ABBANDONARE LA LINEA DELLA CONTRAPPOSIZIONE FRONTALE SENZA SE E SENZA MA CON COSA NOSTRA PER ABBRACCIARNE UNA DI SEGRETA MEDIAZIONE.  Erano in missione in funzione di porre fine o comunque ammorbidire quella strategia di Cosa Nostra che proprio la parte trattatista dello Stato aveva fatto finta di non comprendere quando il ministro Scotti era andato a riferire in Parlamento.
E QUELLA SEGRETA E INDECENTE MEDIAZIONE VENNA AUSPICATA, IDEATA, ORGANIZZATA E IN CONCRETO COLTIVATA DIETRO LE QUINTE SFRUTTANDO LA SPREGIUDICATEZZA DI UN UFFICIALE, COME IL COLONNELLO MORI, DA SEMPRE ABITUATO A MUOVERSI PIU’ NELL’OTTICA DI ESPONENTE SENZA SCRUPOLI DEI SERVIZI DI SICUREZZA ED IN SOSTANZIALE DISPREZZO DI QUEI PRINCIPI DI OSSERVANZA DELLA LEGGE, DEI CODICI, DI SUBORDINAZIONE FUNZIONALE ALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA IL CUI RISPETTO INCOMBE o dovrebbe incombere su ogni ufficiale di polizia giudiziaria. Mori dopo avere lasciato il servizio, da ufficiale dei Carabinieri ha continuato a muoversi in quell’ottica propria del periodo in cui era ai servizi. L’ufficiale di polizia giudiziaria è un’altra cosa. Non si comporta a prescindere dall’autorità giudiziaria, nascondendo le cose all’autorità giudiziaria, ingannando l’autorità giudiziaria. C’è un episodio emblematico. Una frase riferita dal Dottor Canali in quest’aula. Il dottor Canali dopo la sparatoria del 6 aprile 93 aveva necessità di avere un colloquio con i superiori di quegli ufficiali, Sergio De Caprio e De Donno, che avevano esploso i colpi di pistola giusto giusto il giorno dopo si era avuta la notizia della presenza di Santapaola. Canali aveva chiesto un incontro tramite il maresciallo Scibilia con il colonnello Mori per cercare di capire meglio la situazione. Dopo più rifiuti Scibilia gli riferisce che Mori gli ha risposto dicendo che non ha tempo da perdere per parlare con il magistrato. Il totale disprezzo, la totale ritenuta indifferenza, rispetto delle regole. Lì c’era stata una sparatoria, c’era un procedimento per tentato omicidio nei confronti di Imbesi Salvatore.
L’INTOCCABILITA’. IL MUOVERSI AL DI SOPRA E AL DI FUORI DELLA LEGGE PER SCOPI POLITICI QUALI ERANO QUELLI DI PORRE FINE AL MURO CONTRO MURO FRA LO STATO E LA MAFIA.  Una conferma indiretta ma ulteriormente significativa del fatto che il rapporto con Ciancimino non fosse finalizzato ad acquisire notizie bensì a trattare con la mafia, è costituito dalle risultanze dell’acquisizione che nel 2009 scaturì dall’ordine di esibizione che congiuntamente noi PM di Palermo e di Caltanissetta nello stesso giorno notificammo senza preavviso ai servizi. Andammo direttamente al Ros dei Carabinieri. Noi chiedevamo di consultare con quell’ordine di esibizione da una parte tutto quanto fosse contenuto negli archivi, rispettivamente dei servizi e del Ros sulla persona di Vito Ciancimino dei suoi stretti congiunti, e dall’altra parte sulla strage di Via D’Amelio. Ogni tipo di documentazione.
Un passo indietro. Della sentenza Tagliavia sulle stragi di Firenze, Roma e Milano, più recente, un’altra Corte, un altra istruzione dibattimentale, altri Pubblici Ministeri, voglio leggervi questo passaggio “Una trattativa ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des -si mettano il cuore in pace coloro che continuano a parlare sempre di pseudo trattativa, potranno continuare a farlo legittimamente però avessero almeno l’onestà concettuale di dire che una sentenza definitiva afferma che una trattativa ci fu e venne inizialmente impostata su un do ut des- L’iniziativa fu presa dai rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia. l’obiettivo era trovare un terreno di intesa con Cosa Nostra per far cessare la sequenza delle stragi.  Vito Ciancimino corleonese amico di gioventù di Riina e Provenzano fu ritenuta la persona più adatta a far giungere il messaggio alla cupola. La trattativa si interruppe con l’attentato di Via D’Amelio di fronte al persistere del programma stragista. Proprio per queste ragioni l’uccisione di Borsellino è nelle motivazioni e nella tempistica una variante anomala. Per tutto il resto del ’92 Cosa Nostra restò in attesa di riaprire i canali di comunicazione e sospese l’iniziativa offensiva per stimolare la riapertura dei contatti e dare prova di determinazione anche per reazione contro l’arresto di Riina. DAL ’93 SU DECISIONE DELL’ALA OLTRANZISTA RAPPRESENTATA DA BAGARELLA, GRAVIANO, MESSINA DENARO, FU AVVIATA LA STAGIONE DEGLI ATTENTATI. ESSENDOSI ORAMI ATTESO TROPPO TEMPO PER DARE ULTERIORE SMOSSA, SI PENSO’ DI DARE IL COLPO DI GRAZIA SECONDO L’IDEA DI GIUSEPPE GRAVIANO RIPORTATA NEL PROCESSO DA SPATUZZA. LA SCELTA DI COLPIRE DEI CARABINIERI ORIGINO’ ANCHE DAL RANCORE PER L’ABBANDONO DEL NEGOZIATO INTAVOLATO DAI CARABINIERI MORI E DE DONNO, INIZIATIVA ACCOLTA ENTUSIASTICAMENTE DA RIINA. TRATTATIVA, NEGOZIATO, INIZIATIVA DEI CARABINIERI E NON DI RIINA, TERMINI UTILIZZATI E CONSACRATI DA UNA SENTENZA DEFINITIVA. Per quello che qui ci interessa di più, siamo andati al Ros centrale a Roma. e ci è stato messo a disposizione tutto quanto c’era agli atti del Ros su Vito Ciancimino. E anche quello che in gergo viene definito fascicolo P, dove P sta per personale, fascicolo che non riguarda una vicenda processuale in particolare ma riguarda e raccoglie tutto quello che su un determinato soggetto è archiviato dalla struttura investigativa. Nella nostra esperienza abbiamo apprezzato la meticolosità estrema che ogni reparto dei Carabinieri mette nell’archiviare le notizie, anche quelle apparentemente più inutili. Qualsiasi cosa viene molto diligentemente, normalmente, conservata e archiviata nel fascicolo personale, soprattutto se quel fascicolo si riferisce ad una persona che, come Vito Ciancimino, nel ’92, era già una persona assolutamente nota, con una proiezione politica importante ma più volte arrestato e sotto processo per fatti di mafia.  L’esame della documentazione è importante nella misura in cui consente di verificare ciò che non esiste.  Ciò che era talmente segreto e fuorilegge da non potere essere nemmeno consacrato in un riservato appunto interno da contrarre agli atti quantomeno per lasciare una traccia di ciò che era stato fatto.  Non c’è nulla. Una riga. Un’annotazione. Una relazione di servizio. Nulla che si riferisce ai rapporti, agli incontri fra mori, De Donno e Ciancimino nel 1992 a Roma. Vedremo che c’è un’annotazione postuma, si capisce fatta da Mori, anche se non è firmata, ma è postuma perché fa già riferimento agli interrogatori di Ciancimino resi nel ’93 all’autorità giudiziaria, che è una ricostruzione postuma, che si capisce perfettamente essere di molto successiva e probabilmente postuma rispetto alle dichiarazioni di Brusca nel ’97 al processo di Firenze. Ma nel ’92 quando per loro stessa ammissione si incontravano a casa di Vito Ciancimino dopo averlo intercettato per vedere di far venire meno il muro contro muro tra la mafia e lo Stato i carabinieri non lasciano nulla, non lasciano una traccia di quegli incontri.  Di quegli incontri andavano a dire non certo ai magistrati, non certo alla DIA, non ai carabinieri. Andavano a dire a politici come Ferraro, Fernanda Contri, Luciano Violante e quant’altro.   Ed è un dato che dobbiamo valutare appieno nella sua significatività volta a tutelare la segretezza di un rapporto illecito, alla luce delle prassi antitetiche normalmente seguite dal Ros. Il silenzio, il non lasciare traccia scritta, lo possiamo interpretare solo ed esclusivamente nell’ottica di una vicenda di cui non doveva restare alcuna traccia né in quel momento né per il futuro. E ciò proprio nella consapevolezza di una condotta, quella di trattare con il nemico, completamente estranea e contraria alla legge. Confrontate per cortesia il silenzio sul ’92 con la restante parte del fascicolo di Ciancimino con quello che è annotato rispetto agli anni 91, rispetto al periodo dal gennaio 93 in poi fino a quando Vito Ciancimino il 18 dicembre 92 torna in carcere. Vedrete che prima e dopo il 92 vengono conservate, archiviate anche le notizie più insignificanti. Tutto. Nel ’92 agli atti del Ros Vito Ciancimino non esiste. Veramente sembra rievocare quello che in quest’aula quel coraggioso e valoroso ufficiale, il colonnello Giraudo, ci ha detto circa il cosiddetto protocollo fantasma. C’è un appunto di Mori oggetto contatti con Vito Ciancimino fascicolo P che si capisce essere assolutamente postumo. Anche in quello che c’è, c’è qualcosa di interessante. Cosa scrive Mori riferendosi ai tempi passati. Ciancimino disse che i suoi interlocutori avevano accettato il dialogo che si sarebbe dovuto sviluppare con la sua mediazione partendo dalle seguenti irrinunciabili condizioni: trattativa da tenersi all’estero e quindi restituzione al Ciancimino che ne era stato privato, del passaporto.  Mori, come dicevo, non solo ha parlato di trattativa ma lo ha anche scritto.  Ci sono altri atti allegati dai quali si evince l’importanza del canale Ghiron. Con l’avvenuto arresto (Ciancimino venne arrestato per ordine della Corte di Assise di Palermo il 19 dicembre 92) ritenni che il dialogo con Ciancimino si fosse definitivamente interrotto. Invece nel gennaio 93, non ricordo se prima o dopo la cattura di Riina, ecco fui contattato dall’avvocato Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. Abbiamo ancora degli allegati, importanti perché testimoniano che questo contatto Ciancimino Vito-Carabinieri, a prescindere dall’autorità giudiziaria di Palermo che invece nel febbraio 93 aveva iniziato gli interrogatori, si protrae nel tempo. Nel 95 Vito Ciancimino manda un telegramma al colonnello Mario Mori “urge incontrare lei insieme al capitano De Donno possibilmente in presenza procuratore Caselli oppure soli”. Con l’annotazione di Mori “informato l’avvocato Ghiron dell’intendimento dottor Caselli di incontrare il signor Ciancimino”  Ancora, per dimostrare la possibilità di accedere al carcere nel quale era detenuto Vito Ciancimino da parte di Mori e De Donno al di là e al di fuori delle occasioni degli interrogatori con i magistrati vi segnalo un allegato dell’8 marzo 1994 conservato agli atti del Ros a firma Procuratore Caselli “A seguito mia nota del 25 gennaio 94 e successiva del 18 febbraio 94, mentre confermo autorizzazione a colloqui di personale del vostro ufficio con il signor Vito Ciancimino nonché la consegna al medesimo della documentazione oggetto della nota 25 gennaio 94, prego riferire allo stato degli atti con trasmissione al mio ufficio di copia del materiale da inoltrare o già inoltrato a Vito Ciancimino”. Da qui si deduce che comunque anche, non solo prima del primo interrogatorio, il colloquio investigativo che avevano fatto, ma anche nella costanza degli interrogatori fatti alla Procura di Palermo Mori e De Donno avevano perfettamente la possibilità di interloquire con Vito Ciancimino, di consegnare a lui materiale, di farsi consegnare materiale attraverso l’autorizzazione che il Procuratore Caselli gli aveva fatto. Qualche cenno ulteriore sul contenuto degli atti acquisiti al Ros nei fascicoli stavolta concernenti la strage di Via D’Amelio. Agli atti di quel fascicolo riservato spicca la presenza di annotazioni di notizie confidenziali su un attentato ritenuto imminente a Paolo Borsellino. Spicca la presenza di annotazioni relative a segnalazioni confidenziali fatte ai Carabinieri circa il coinvolgimento nella preparazione nell’esecuzione della strage di Pietro e Gaetano Scotto. Spicca la presenta di un’annotazione concernente notizie, leggo testualmente, informalmente acquisite a Palermo circa l’andamento e le prese di posizione dei singoli sostituti nel corso della prima riunione della DDA successiva alla strage, quindi c’è di tutto, pure quello che erano riusciti ad orecchiare sul contenuto di colloqui riservati e interni tra i magistrati di Palermo dopo la strage di Via D’Amelio.
Agli atti del Ros c’è tutto questo. MANCA COMPLETAMENTE OGNI, ANCHE GENERICO, RIFERIMENTO ALL’INCONTRO DEL 25 GIUGNO 1992 ALLA CASERMA CARINI DI PALERMO TRA IL DOTTOR BORSELLINO, MORI E DE DONNO.   Del quale incontro l’autorità giudiziaria e in particolare per prima quella di Caltanissetta, venne a conoscenza dall’annotazione nell’agenda grigia del giudice, quella che non è scomparsa. Allora, voglio riflettere un attimo per quello che può riguardare questo processo e quello che è stato detto in questo processo, sul significato di questa assenza. Noi riteniamo che se, come gli imputati dicono, ma lo dicono dal 1997 in poi, quell’incontro avesse avuto come oggetto l’intenzione di Paolo Borsellino di approfondire il tema delle indagini di mafia-appalti dei Carabinieri, quell’assenza non si spiega. Se realmente il 25 giugno il colloquio tra Paolo Borsellino, Mori e De Donno avesse avuto ad oggetto l’interesse del giudice all’approfondimento di quell’inchiesta, Mori e De Donno avrebbero avuto non soltanto il dovere ma anche l’interesse professionale personale di rappresentare immediatamente il dato ai magistrati che si occupavano dell’indagine sulla strage e che quindi per determinarne la causale dovevano minuziosamente ricostruire le attività del Dottor Borsellino nel periodo immediatamente precedente. Se veramente Paolo Borsellino avesse detto “voglio approfondire l’indagine mafia-appalti, per favore consentitemi di farlo perché non mi fido di quello che stanno facendo i colleghi di Palermo”, il 20 luglio di mattina i Carabinieri si dovevano presentare ai magistrati di Caltanissetta per dire: attenzione giudici che Paolo Borsellino stava facendo questo. Tanto più che loro a quell’indagine attribuivano, giustamente, importanza. Niente. Silenzio. Nonostante gli ottimi rapporti con la Procura della Repubblica di Caltanissetta, perché poi ogni tanto esce fuori ma noi siamo stati zitti perché con la Procura di Palermo non c’erano buoni rapporti o per questo o per quell’altro motivo… no qui non c’è nessun tipo di dubbio. Avrebbero potuto e dovuto presentarsi per dire questo. Stanno zitti fino a quando nel 1997 dopo che si pente Siino e viene fuori nuovamente la polemica sulla famosa consegna abusiva del rapporto mafia-appalti sul possibile coinvolgimento di magistrati di Palermo, Mori e De Donno, De Donno in particolare, alla Procura di Caltanissetta chiamato per sapere cosa ne sapeva di quella cosa dice: guardate che Paolo Borsellino il 25 giugno ci ha detto di questa cosa di mafia-appalti. Come si fa a giustificare l’assenza di un’annotazione, se fosse stato questo il vero oggetto del dialogo o il vero scopo di Paolo Borsellino ammesso che abbia potuto fare rife (1) Facebook rimento al dialogo, mafia-appalti… E’ possibile che delle cose che assumono un rilievo importante non venga lasciata traccia? Voi potete mai credere -ora sta diventando quasi una moda dire io non ho detto niente allora perché nessuno mi chiamò- ma voglio dire, il vertice del Ros con il rapporto che avevano, anche di natura stretta, almeno fino ad un certo punto, almeno alcuni, con Paolo Borsellino, è possibile che se fosse stata vera quella versione dell’oggetto del colloquio del 25 giugno non lasciano una traccia scritta e soprattutto non si presenta l’indomani ai procuratori di Caltanissetta a riferire questa cosa?
 
Allora io ribadisco. La verità è un’altra su quell’incontro del 25 giugno 1992.  Che ci fu. Poi nelle ore pomeridiane Paolo Borsellino andò a Casa Professa e PROBABILMENTE SEGNO’ ULTERIORMENTE LA SUA CONDANNA DICENDO CHE SI SAREBBE RECATO ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI CHE RITENEVA GRAVI E DOVEVA RIFERIRE. SPECIFICHERA’ POI AL GIORNALISTA DAVANZO CHE LO INTERVISTAVA SU QUESTO E CHE GLI CHIEDEVA MA LEI DOTTOR BORSELLINO ANDRA’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE LA SUA VERSIONE, PER RIFERIRE COSA PENSA DELLA CAUSALE DELL’OMICIDIO DEL GIUDICE FALCONE, E BORSELLINO RISPONDERA’ “NO. IO SONO UN MAGISTRATO E SO CHE UNA PERSONA INFORMATA DEI FATTI DEVE RIFERIRE FATTI. IO ANDRO’ A CALTANISSETTA PER RIFERIRE FATTI DI CUI SONO VENUTO A CONOSCENZA.”
Il 25 giugno del 1992 i Carabinieri del Ros non potevano certo riferire ai PM di Caltanissetta quale era stato l’oggetto vero, l’oggetto principale dell’interlocuzione con Borsellino, perché quell’oggetto prendeva spunto dal famoso anonimo Corvo due e quindi LAMBIVA TROPPO PERICOLOSAMENTE L’ARGOMENTO DELLA TRATTATIVA CHE MORI E DE DONNO AVEVANO GIA’ INTRAPRESO CON VITO CIANCIMINO. Perché quell’anonimo in sostanza nel suo nucleo centrale PARLAVA DI UN DIALOGO E DI UNA TRATTATIVA IN CORSO TRA UN’ALA DELLA DC IN PARTICOLARE RAPPRESENTATA COME ELEMENTO DI PUNTA DA MANNINO E SALVATORE RIINA. 
Io vi prego di rileggere con attenzione le dichiarazioni, utilizzabili solo parzialmente, di uno dei testi i cui verbali sono stati prodotti, e per fortuna prodotti, anche questo signore poi è venuto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Mi riferisco a Carmelo Canale. Così come capiterà anche per Giovanni Ciancimino. Le dichiarazioni del 22 febbraio 2011, non c’è possibilità nemmeno di poter pensare che Canale sia stato suggestionato nelle sue risposte dalle domande perchè veniva chiamato come teste della difesa e rispondeva alle domande dei difensori degli imputati in quel processo. A proposito del 25 giugno Carmelo Canale dice “Un giorno eravamo al Tribunale, alla Procura. Dottor Borsellino mi chiese nella circostanza di incontrare ma molto riservatamente e all’interno non della Procura, ma della sezione anticrimine di Palermo l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, perché secondo quello che io ricordo e che mi riferì Dottor Borsellino, vi era una voce all’interno da parte dei colleghi suoi, -quindi dei magistrati, non mi ha detto il nome altrimenti lo avrei pure rivelato – una voce che dava il capitano De Donno come il compilatore di un anonimo, perché girava un anonimo. E allora io chiesi tramite un mio comandante della sezione di interpellare il colonnello Mori e di fissare un appuntamento con il Procuratore Borsellino. L’appuntamento ci fu poi Borsellino si guardò bene, né io gli chiesi, di dire di cosa avevano parlato. Ma il motivo per il quale il dottor Borsellino vuole incontrare riservatamente Mori e De Donno, non è certo il motivo dell’approfondimento dell’indagine mafia-appalti. Ma è il motivo relativo all’anonimo.
E’ L’ANONIMO NELLA CRUDA SOSTANZA FACEVA RIFERIMENTO AD UNA TRATTATIVA.  Questi sono fatti. Questa è una versione, parziale, per carità, perché nessuno era presente all’interlocuzione tra il dottor Borsellino e gli ufficiali Mori e De Donno, ma noi sappiamo da un teste assolutamente -di cui non si può sospettare una vicinanza alla Procura, se non altro perché era stato processato dalla Procura di Palermo- il fatto è questo; borsellino chiede a Canale di attivarsi per l’incontro riservato con Mori per cercare di capire chi avesse compilato l’anonimo. E l’anonimo aveva ad oggetto sostanzialmente i contatti assolutamente impropri, fuorilegge rappresentati in questo modo, per trovare una soluzione al problema di politici -guarda caso Mannino e la mafia.   Il 25 giugno 1992 si incontrano Mori e De Donno con Paolo Borsellino e si può ritenere sulla base di quello che dice Canale abbiano parlato anche dell’anonimo, mentre nello stesso momento, al di là dei teoremi fantasiosi dei Pubblici Ministeri, l’agenda di Contrada ci dice che Subranni e Contrada vanno a trovare il ministro Mannino nelle ore serali per discutere di Anonimo Corvo Due e situazione Sicilia

23.12.2020 Giornalismo sporco. Le false informazioni di Enrico Deaglio  Denigrazione violenta, fango, bugie e falsità. Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia.  I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni.  Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, “Patria 2010-2020” (ed. Feltrinelli) in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo.  Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato. Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni.  Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere “coinvolto”, ma anche di aver “gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino”. E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla Procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via d’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto le indagini “non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio, in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo. Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli del mosaico sulla strage di via d’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza.  In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del “pupo” Vincenzo Scarantino.  E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr).  Per questo motivo è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato dei vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via d’Amelio.  E se le parole hanno un peso affermare che un magistrato ha avuto un ruolo nel depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi certamente non vi è il pm Di Matteo che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino.  Lo ha fatto ogni volta che è stato chiamato a riferire nelle sedi istituzionali competenti (nei processi, in Commissione Antimafia e davanti al CsmMa il travisamento della realtà di Deaglio prosegue anche su altri piani laddove volutamente non parla della sentenza trattativa Stato-mafia, che in primo grado ha portato alle condanne di boss, politici e uomini delle istituzioni, accennando solo all’assoluzione dell’ex ministro Mancino dal reato di falsa testimonianza e facendo riferimento a Massimo Cianciminoaccusando Di Matteo di essersi fatto “ugualmente fregare da un secondo pentito nello sgangherato processo della ‘Trattativa’”.  Parole illogiche nel momento in cui la stessa Corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha spiegato come le dichiarazioni del figlio di don Vito abbiano avuto un “valore assolutamente neutro” nella sentenza di condanna.  Deaglio afferma anche che Di Matteo avrebbe lasciato intendere che nelle famose telefonate tra l’ex ministro Mancino e l’ex Capo dello Stato, andate distrutte dopo il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo, vi fossero cose “anomale”. Partendo dal dato che mai Di Matteo ha fatto alcun cenno ai contenuti di quelle conversazioni, Deaglio dovrebbe rinfrescarsi la memoria, magari leggendo le motivazioni della sentenza, scritta dal Presidente Alfredo Montalto e dal giudice a latere Stefania Brambille, che per la posizione dell’ex ministro è divenuta definitiva dopo i mancati ricorsi della Procura e della Procura generale. Quelle telefonate, giustificate dal giornalista, vengono dichiarate come “irricevibili” dai giudici.  “Ad un certo momento, – scrivevano i giudici – tra gli scopi perseguiti dal Mancino abbia assunto rilievo principale anche quello di sottrarsi ad un ulteriore confronto con l’Onorevole Martelli (relativo ai colloqui tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, che lo stesso Martelli avrebbe fatto a Mancino, ndr) nel timore che si potesse dare credito alla versione dei fatti di quest’ultimo e che da ciò potessero derivare conseguenze negative per lo stesso Mancino in tema di falsa testimonianza” come è poi effettivamente accaduto. Ma anche che “l’intendimento che ha mosso l’imputato sia stato quello di sottrarre, in qualche modo, alla Procura della Repubblica di Palermo le indagini sulla C.d. ‘trattativa Stato-Mafia”. “Non può esservi alcun dubbio – si aggiungeva – che le sollecitazioni del Mancino si pongono al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”.  Ma cosa aspettarsi da chi, come Deaglio, di quei processi non ha seguito neanche un’udienza? Noi a Palermo e a Caltanissetta, per le udienze del processo Stato-mafia, per il Borsellino quater o il Depistaggio c’eravamo e un’idea ce la siamo fatta sul campo. Senza pregiudizi. Quei pregiudizi che invece Deaglio ha nel momento in cui omette Di Matteo nell’elenco dei magistrati che “sono andati molto avanti nel lavoro, e hanno messo nel mirino Dell’Utri, Berlusconi, Raul Gardini”. Giustamente vengono fatti i nomi di Luca Tescaroli, Antonio Ingroia, Gabriele Chelazzi ed Augusto Lama, ma l’assenza di Di Matteo, (a cui possono aggiungersi anche altri come quello di Scarpinato) è tutt’altro che un lapsus.  Eppure è noto che il magistrato palermitano istruì insieme ad Anna Maria Palma il “Borsellino ter”. In questo processo per la prima volta – congiuntamente con il processo sulle stragi del ’93 a Firenze,- si parlò di mandanti esterni sulla base delle dichiarazioni di pentiti di peso come Giovanni Brusca e Salvatore CancemiNon solo. Nelle motivazioni della sentenza si parla delle piste che portano al possibile collegamento tra l’accelerazione della strage di via d’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros dei Carabinieri; ma anche del fatto (così come riferiva Cancemi) che Riina citava Berlusconi e Dell’Utri come soggetti da appoggiare “ora e in futuro”, e rassicurava gli altri componenti della Cupola che fare quella strage sarebbe stato alla lunga “un bene per tutta Cosa nostra”. Partendo da quelle dichiarazioni proprio Di Matteo, assieme al collega Luca Tescaroli (oggi procuratore aggiunto a Firenze), aprì il fascicolo su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri).  In pochi ricordano che nell’inchiesta nei confronti dell’ex senatore e l’ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta.  Di Matteo indagò anche sulla presenza in Via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato), e incriminò per false dichiarazioni ai pm l’allora funzionario di Polizia Roberto Di Legami. Una vicenda complessa ricostruita in più occasioni dallo stesso Di Matteo, quando è stato sentito nei procedimenti Borsellino quater e quello contro i poliziottiA Palermo, con il processo Trattativa Stato-mafia, valorizzò le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, lo stesso collaboratore che aveva contribuito a riscrivere la storia della strage di via d’Amelio che era stato sentito già nel Processo d’appello per concorso esterno contro Dell’Utri, sull’incontro che ebbe a Roma con il bossGiuseppe Graviano al bar Doney in cui si fece riferimento a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come i soggetti grazie a cui Cosa nostra si era messa “il Paese nelle mani”Si commentano da sole squallide considerazioni sul rafforzamento della scorta ricevuta dal magistrato a seguito della condanna a morte di Totò Riina.  Affermazioni gravi nel momento in cui svariati collaboratori di giustizia hanno parlato, anche di recente, del progetto di attentato contro il pm. Un progetto che, scrivevano i pm nisseni nell’indagine archiviata “resta operativo”Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande” diceva Giovanni Falcone in un’intervista rilasciata a Marcelle Padovani. E la solitudine e l’isolamento attorno ai magistrati passa anche da qui. Dall’operato di un giornalismo “sporco” capace solo di mistificare la verità tradendo il proprio fondamento. Giorgio Bongiovanni 23 Dicembre 2020 ANTIMAFIA DUEMILA 


27.12.2020 DEPISTAGGIO BORSELLINO / NINO DI MATTEO, L’INTOCCABILEOsa documentare il comportamento di una delle icone antimafia, il pm Nino Di Matteo, soprattutto per quanto riguarda l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, poi la gestione del pentito taroccato Vincenzo Scarantino e quindi la fase del più clamoroso depistaggio giudiziario mai visto in Italia. E viene crocefisso da Antimafia Duemila, il sito ormai diventato la cassa di risonanza di tutta la Kasta dei magistrati di casa nostra. L’autore di cotanto scempio è uno dei pochi giornalisti di razza rimasti sul campo, Enrico Deaglio, fresco autore di “Patria 2010-2020”, edito da Feltrinelli. Non c’è bisogno di raccontare chi sia Deaglio, storico reporter e scrittore di sinistra, quella vera, quella che fino a qualche decennio fa esisteva, ed era forza militante. Ora viene accusato di lesa maestà, per aver osato ricostruire, in modo dettagliato e ‘storico’, la stagione delle false inchieste e dei depistaggi istituzionali.

DAGLI ALL’UNTORE DEAGLIOLe frasi utilizzate da Antimafia Duemila si commentano da sole. Eccone alcune, fior tra fiori. Teniamo presente che l’articolo (sic) di cui parliamo è firmato dal direttore, Giorgio Bongiovanni” e che si intitola “Giornalismo sporco – Le false informazioni di Enrico Deaglio”.Un incipit che è già tutto un programma. “Denigrazioni violenta, fango, bugie e falsità”. Non ha peli sulla lingua, il prode Bongiovanni, che così prosegue nella farneticante invettiva: “Un metodo che viene applicato per screditare quei magistrati che, più di altri, cercano ed hanno cercato le verità scomode ed indicibili su stragi e delitti eccellenti. Attacchi diretti spesso provenienti da ambienti giornalistici e politici e, alle volte, persino dalla magistratura. Accadeva ieri, ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Accade oggi, in particolare, nei confronti del magistrato Nino De Matteo, oggi consigliere togato indipendente al Csm, ma nel recente passato in primissima linea nella ricerca dei mandanti esterni delle stragi, come sostituto procuratore a Caltanissetta, Palermo e alla Procura nazionale antimafia”. Una sola considerazione. È una totale bestemmia paragonare le figure di Falcone e Borsellino a quella di Di Matteo. Un oltraggio. Significa calpestare letteralmente e scientemente la memoria dei due eroi trucidati a Capaci e via D’Amelio. Continua l’autore delle bestemmie: “I protagonisti di questa campagna mediatica di delegittimazione sono sempre gli stessi e ciclicamente tornano a sputare i propri veleni. Dopo gli attacchi del 2012 e del 2014 è il giornalista Enrico Deaglio a prestarsi al gioco sporco. Lo fa nel suo ultimo libro, ‘Patria 2010-2020’, in cui analizza una serie di vicende inerenti il primo decennio del Ventunesimo secolo “. Prosegue la farneticante analisi firmata Bongiovanni: “Nel calderone di fatti e misfatti, tutt’altro che in buona fede, offre (Deaglio, ndr) ai lettori e al pubblico italiano una serie di informazioni incomplete e mendaci sul lavoro del magistrato (Di Matteo, ndr). Basta leggere alcuni passaggi del libro per comprendere i deliri delle contestazioni. Il consigliere del Csm viene accusato da Deaglio non solo di essere ‘coinvolto’, ma anche di ‘aver gestito il più grande depistaggio mai avvenuto sul delitto Borsellino’”. Deaglio, quindi, viene accusato di aver semplicemente raccontato un fatto storico: quel depistaggio che è ormai sotto gli occhi di tutti e accertato dalla stessa magistratura. Ma c’è chi non vede, come Buongiovanni: anzi non vuol vedere quella realtà (documentale) che è alla portata (e sotto gli occhi) di tutti.

TRE GIGLI IMMACOLATINon è certo finita, la farneticazione continua: “E’ un fatto noto che lo stesso Di Matteo non ha ricevuto alcun avviso di garanzia dalla procura di Messina, impegnata nelle indagini sul depistaggio contro i magistrati che al tempo indagarono sulla strage di via D’Amelio. Quella stessa Procura che ha chiesto l’archiviazione nei confronti dei magistrati Anna Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia aggravata, in quanto ‘le indagini non hanno consentito di individuare alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino’. Una richiesta di archiviazione, su cui dovrà decidere il Gip dopo l’opposizione delle parti civili e della famiglia Borsellino, che mette in evidenza quelle vicende ricostruite nel corso del processo per il depistaggio in corso a Caltanissetta, contro i funzionari di polizia Bo, Mattei e Ribaudo”. Lasciamo ancora spazio ai pensieri in libertà firmati Bongiovanni. Scrive il Vate: Lo abbiamo già detto in altre occasioni: è ovvio che i tasselli sulla strage di via D’Amelio vanno messi al loro giusto posto, ma il depistaggio non rappresenta altro che un pezzo del puzzle che riempie i buchi neri sulle indagini ma non può rappresentare la chiave di risoluzione per capire o comprendere le verità nascoste nella loro interezza. In questo puzzle Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con la vestizione del ‘pupo’ Vincenzo Scarantino. E’ un fatto noto che si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel ‘Borsellino bis’, dove entrò a dibattimento già avviato”.

I DISTINGUO DEL VATE “Per questo motivo – argomenta il neo profeta dei processi Borsellino – è più che mai necessario effettuare dei distinguo sull’operato vari magistrati e giudici che si sono occupati della strage di via D’Amelio. E se le parole hanno un peso, affermare che un magistrato ha avuto un ruolo del depistaggio significa dire che lo stesso ha collaborato con quei mandanti esterni che hanno voluto la morte di Paolo Borsellino. Tra questi non vi è certamente il pm Di Matteo, che in più occasioni ha chiarito con fatti e carte alla mano come fu valutata la vicenda Scarantino”. Con ogni probabilità il solerte Bongiovanni non ha letto la penosa verbalizzazione resa dal suo idolo Di Matteo in occasione del processo di Messina che vede alla sbarra i tre poliziotti accusati di aver vestito e addobbato il ‘pupazzo’ Scarantino. Così come non avrà letto l’altra testimonianza resa del pm Anna Maria Palma che per primo – insieme a Carmelo Petralia – ha ‘gestito’ quel pentito taroccato. E quella, altrettanto penosa, dello stesso Petralia. Un vero tris d’assi. E a poco vale sostenere che Di Matteo è entrato in scena solo in un secondo momento, alcuni mesi dopo: non ha forse poi condiviso con i due colleghi tutto il seguito processuale? E poi. Non ha mai letto, il sempre solerte Bongiovanni, una delle tante parole di fuoco pronunciate dalla figlia di Paolo, Fiammetta Borsellino, durissime contro i tre magistrati, allo stesso modo, senza operare alcun distinguo rispetto a quell’icona antimafia che risponde al nome di Nino Di Matteo? Potete leggere tre inchieste della Voce dedicate ai pm cliccando sui link in basso. Per ricostruire la verità storica di quello scientifico depistaggio che non è solo parte di un puzzle, ma ne rappresenta una parte fondamentale. Perché si tratta – ricordiamolo bene – di un Depistaggio di Stato.  27 Dicembre 2020. di: Andrea Cinquegrani LA VOCE DELLE VOCI


Fiammetta Borsellino a Di Matteo: «Di mio padre non avete capito nulla»  Fiammetta Borsellino e Nino Di Matteo. La memoria e il teorema. Che tuttavia non coincidono. Piuttosto divergono. L’ex pm, oggi al Csm, ripete i suoi convincimenti a verbale a Caltanissetta. Depone al processo sui depistaggi per la strage di via D’Amelio, l’attentato a Paolo Borsellino. Ma la figlia del magistrato assassinato dalla Mafia non ci sta. E non tace. Anzi, lo dice chiaro e tondo: «Mi sento delusa, amareggiata e arrabbiata». La tesi di Di Matteo è nota: 1) l’attentato non fu solo Mafia; 2) i depistaggi ci sono stati; 3) Scarantino non era del tutto credibile; 4) la sparizione dell’agenda rossa di PaoloBorsellino; 5) il possibile ruolo dei Servizi o di parte di essi. Tutto già noto e ribadito adesso in udienza. Ma, appunto, la figlia del giudice ammazzato non mostra alcuna soddisfazione.

L’accusa di Fiammetta Borsellino. “Mi veniva quasi di mettermi in gabbia in quell’aula di giustizia – dice fuori dall’aula- mi sento ingabbiata. Penso che c’è un’enorme difficoltà a fare emergere la verità. Non ho constatato da parte di nessuno una volontà di dare un contributo al di là delle proprie discolpe personali per capire quello che è successo e questo mi fa molto male. Io penso che di mio padre non abbia capito niente nessuno di questi magistrati“. In effetti quella dell’ex pm è stata la riproposizione di un teorema. Che da anni ha l’onore delle prime pagine. E che però non ha ancora portato alla verità.

Di Matteo: più filoni di indagine. “Noi avevano chiara una cosa: rispetto ai programmi originari di Cosa nostra di uccidere Paolo Borsellino era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi mafiose” ha detto Di Matteo. Che faceva parte del pool che indagava a Caltanissetta sulla strage di Via D’Amelio. “C’era una fretta di uccidere Borsellino. Parallelamente si attivarono una serie di investigazioni che riguardavano alcune anomalie o alcune acquisizioni relative alla strage di Capaci o di presenze di soggetti diversi da coloro che erano stati individuati all’interno di Cosa nostra”. “Sulle causali ci furono più filoni – dice ancora il consigliere del Csm – uno dei quali si cominciò a concretizzare nell’ultimo periodo che ero a Caltanissetta”. Cita anche il processo trattativa Stato-mafia, “un altro filone era quello del rapporto mafia-appalti, però noi avevamo chiara una cosa, cioè che rispetto ai programmi originari della mafia era intervenuto un fatto improvviso di accelerazione delle stragi”.

«Scarantino, affidabilità limitata». “Noi, alla fine, su Vincenzo Scarantino abbiamo dato un giudizio di attendibilità assai ma assai limitata, perché nel processo ter non lo abbiamo neppure inserito nella lista dei testimoni, nemmeno lo abbiamo voluto inserire nella lista dei testimoni. E nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino abbiamo chiesto l”assoluzione di tre dei revisionati. Questo non viene detto da nessuno”.

“Ipotesi di coinvolgimento dei Servizi” nell’assassinio di Borsellino. All’epoca l’ipotesi investigativa era che ci fosse un coinvolgimento dei Servizi di sicurezza nelle stragi. Ma noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, noi abbiamo indagato sui Servizi o almeno su parte di questi. E alcuni soggetti li abbiamo anche mandati a processo”. Di Matteo, rispondendo alle domande dell’avvocato di parte civile, Rosalba Di Gregorio, ha ribadito di avere indagato “sui servizi, o su parte di essi” ma di non avere collaborato con essi nelle indagini. Gli imputati per calunnia aggravata sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex componenti del gruppo ‘Falcone-Borsellino’ della Squadra mobile di Palermo che si occupò di gestire proprio Vincenzo Scarantino.

La replica della figlia di Borsellino. “Sembra che tutto quello che riguarda la vicenda di Scarantino e del depistaggio sia avvenuto per le virtù dello spirito santo – dice – Sembra che la vicenda Scarantino si solo un segmento molto piccolo di una indagine, anzi ha dato una incidenza molto importante. Ci si riempie la Bocca del lavoro in Pool, ma tutte le volte in cui si chiede come mai non sapessero nulla dei colloqui investigativo cadono tutti dalle nuvole”. “Tutti dicono che sono venuti in un momento successivo – conclude – ma ciò non vuol dire non venire a sapere ciò che accadeva prima”. IL SECOLO D’ITALIA 3 febbraio


Processo depistaggio, l’accusa di Fiammetta Borsellino: “Delusa dalla deposizione del pm Di Matteo”.Il consigliere del Csm ha deposto al processo sulle indagini della strage di via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei

“Penso ci sia una enorme difficoltà a fare emergere la verità – è il nuovo atto d’accusa di Fiammetta Borsellino, al termine dell’udienza del processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio – Non ho constatato da parte di nessuno la volontà di dare un contributo, al di là la delle proprie discolpe, a capire cosa è successo”. Oggi, a Caltanissetta, ha deposto come testimone l’ex pm Nino Di Matteo, oggi consigliere del Csm. “Sembra che quello che riguarda Scarantino e il depistaggio delle indagini sia avvenuto per virtù dello spirito santo – dice la figlia del magistrato assassinato nel 1992 al termine dell’udienza – Si tende a stigmatizzare la vicenda Scarantino come un piccolo segmento di una questione più grande. Io non penso che quello di Scarantino sia un segmento così piccolo”. E ancora: “Ci si riempie la bocca con la parola pool ma io di pool non ne ho visto nemmeno l’ombra – aggiunto Fiammetta Borsellino – perché quando ai magistrati si chiede come mai non sapessero dei colloqui investigativi, della mancata audizione di Giammanco, cadono dalle nuvole”.

Un riferimento anche alla deposizione di Di Matteo: “Ho ascoltato molto attentamente le cose che ha detto e rimango sempre stupita da questa difesa oltre che personale a oltranza di questi magistrati e poliziotti che si sono occupati dell’indagine sulla strage. Ma sembrano tutti passati lì per caso”.

La deposizione di Di Matteo. “C’erano dubbi molto seri sulla credibilità di Vincenzo Scarantino”.  A dirlo è il consigliere del Csm Nino Di Matteo deponendo al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. I dubbi su Scarantino, secondo Di Matteo, che fece parte del pool sulle stragi, “non era tanto riferito ai primi verbali” resi, ma “sulla concretezza su quanto dichiarato” in riferimento a collaboratori come Mario Santo Di Matteo e Salvatore Cancemi.

“Io non ho mi partecipato a una riunione, a un incontro tra colleghi in cui si facesse riferimento sulle indagini, di cui sapevo solo dalle cronache dei giornali, fino al novembre 1994. Siamo a due anni e sei mesi dalla strage di via D’Amelio, quello che io considero l’inizio di un possibile depistaggio con il furto dell’agenda rossa”, ha detto Di Matteo. “Due anni e 4 mesi dopo l’arresto di Scarantino che come sapete è venuto dopo altre indagini, mi è stato detto di occuparmi anche delle stragi. In particolare di quella di via d’Amelio”.

“Nel mio ricordo ad occuparsi delle indagini e della gestione di Vincenzo Scarantino – ha aggiunto – c’era sicuramente Mario Bo e due ispettori, molto bravi, Ricerca e Maniscalchi. Ribaudo e Mattei, nel mio ricordo avevano un ruolo marginale”.

Di Matteo ricorda di avere indagato “fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio dopo la strage”. Dice: “Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”.

Contrada era il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. A dicembre, venne arrestato dai pm di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. “Vedendo quei vecchi atti – dice Di Matteo – mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada – ha aggiunto – I poliziotti aveva fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte”.

“Si avviò una indagine molto spinta sui servizi segreti. – ha spiegato – Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che, poi, si decise a fare il nome della sua fonte che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Rinviato a giudizio fu poi assolto”.

Di Matteo parla anche delle indagini del pool di Caltanissetta: “Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino solo tra il 2008 e il 2010 – ha aggiunto l’ex pm di Palermo -. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.

“All’epoca delle indagini sulle stragi i collaboratori di giustizia vedevano nell’ufficio del pubblico ministero il luogo a cui rivolgersi per risolvere problemi spesso logistici. In quel periodo mi è capitato che mi chiamassero Mutolo e Cancemi ma nessuno si è mai sognato di dirmi cose inerenti alle dichiarazioni. L’attività di preparazione dei collaboratori di giustizia significava solo dare indicazioni ad esempio sul contegno da tenere in aula, sull’evitare polemiche coi legali, questo era preparare ed era una prassi seguita da tutti” 03 FEBBRAIO 2020 La Repubblica 

 

L’ACCUSA DI FIAMMETTA BORSELLINO: “NESSUNA FIDUCIA NEI PM ANTIMAFIA E NEL CSM, HANNO DEPISTATO”  «Pur essendo passati ormai tanti anni, non riesco ancora a farmene una ragione. Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», dichiara Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, il magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992. Il dossier mafia-appalti venne redatto dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’allora colonnello Mario Mori. Nel dossier erano indicate tutte le principali aziende italiane che trattavano con la mafia. L’indagine era “rivoluzionaria”, affrontando per la prima volta il fenomeno mafioso da una diversa prospettiva. I carabinieri avevano scoperto che Cosa nostra, anziché imporre il pagamento di tangenti estorsive agli imprenditori, così come faceva tradizionalmente, era diventava essa stessa imprenditrice con società commerciali riferibili ad appartenenti all’organizzazione che avevano assunto e realizzato, con modalità mafiose, commesse pubbliche, principalmente nel settore delle costruzioni. Al termine di una attività investigativa durata anni, i carabinieri del Ros depositarono il 20 febbraio 1991 alla Procura di Palermo l’informativa denominata “Angelo Siino + 43”. Il fascicolo, circa 900 pagine, era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato. I due magistrati, il 13 luglio dell’anno successivo, firmano la richiesta di archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, 14 luglio 1992, si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo. Giovanni Falcone era stato assassinato da circa due mesi, il 23 maggio, e Borsellino in qualità di neo procuratore aggiunto affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato, senza evidentemente sapere che era stata già avanzata la sua richiesta di archiviazione. La mattina del 19 luglio, alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata da Giammanco nel corso della quale lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata. La circostanza della telefonata emerse da una testimonianza delle moglie Agnese nel 1995. Alle ore 16.58 successive, una Fiat 126 piena di tritolo fece saltare in aria a via D’Amelio la sua auto di scorta, uccidendolo insieme ai cinque agenti di scorta. Il 22 luglio 1992 la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente. E alla vigilia di Ferragosto arrivò la definitiva l’archiviazione da parte del gip. Fiammetta Borsellino, la sentenza del processo di Caltanissetta ha affermato che l’indagine mafia appalti aveva impresso un’accelerazione alla morte di suo padre. Esatto.  Mentre nel processo Trattativa Stato-mafia di Palermo questo aspetto è stato escluso, negando che suo padre avesse un interesse al dossier mafia appalti. E non è vero. Mio padre era convinto della bontà dell’indagine per il suo respiro nazionale. Mi riferisco, ad esempio, agli interessi di Totò Riina nella Calcestruzzi spa.  Alla Procura di Palermo non erano tutti della stessa opinione di suo padre. C’è la testimonianza del dottor Scarpinato che riferisce del profilo regionale dell’indagine quando era evidente invece che ci fossero interessi particolari anche nella Penisola.  L’incongruenza fra le due sentenze, quella del processo Trattativa Stato-mafia e quella del Borsellino quater pare evidente. Una incongruenza che destabilizza.  Non ha fiducia nei giudici?  Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.  Ad esempio?  In chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura.  Perché non ha fiducia nel Csm?  Il Csm si è dato in questi anni sempre la zappa sui piedi, tutelando interessi di tipo clientelare e di carriera. Fu solerte quando si trattò di mettere sotto processo disciplinare mio padre per aver denunciato pubblicamente lo smantellamento del pool antimafia ed è stato inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese.  Gli atti che riguardano suo padre sono stati desecretati dal Csm. Mi pare una operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Non mi importa nulla della desecretazione se non si fanno accertamenti seri.

Prova un po’ di amarezza?  Anche. Soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste

Vuole fare un nome?  Nino Di Matteo.

Perché proprio lui?  A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.

Che tipo era suo padre?  Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio. 

IL RIFORMISTA Paolo Comi –  20 e 24 Febbraio 2021


Fiammetta Borsellino: Eredi di mio padre? Adesso basta!    Ha ragione la figlia del Giudice Paolo Borsellino nel chiedere conto e ragione del perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti”.  E lo fa con uno dei pochi giornali che coraggiosamente pubblica le notizie “scomode” (Il Riformista).

Nel corso dell’intervista rilasciata a Paolo Comi, Fiammetta Borsellino ripercorre la storia dell’inchiesta mafia-appalti, voluta da Giovanni Falcone, e condotta  dal Ros di Mario Mori, che nel febbraio del 1991 portò a un’informativa di circa 900 pagine su società riconducibili a “Cosa nostra”.

Un’inchiesta  “rivoluzionaria”, la definisce Fiammetta Borsellino, nella quale suo padre credeva a tal punto da chiedere – dopo la strage di Capaci – che venisse a lui stesso assegnata, tanto da incontrare segretamente, il 25 giugno 1992, Mori e De Donno, ai quali chiese di organizzare un gruppo speciale di carabinieri per riaprire l’inchiesta sotto la sua direzione.

Il fascicolo – afferma Fiammetta Borsellino – “era assegnato a Giuseppe Pignatone, all’epoca pm della Procura del capoluogo siciliano. Di queste quarantaquattro persone, il 10 luglio successivo, su richiesta della Procura di Palermo, ne vennero arrestate sei. Fra loro, Siino, definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra ma, più precisamente, dei corleonesi di Totò Riina, poi diventato collaboratore di giustizia, e Giuseppe Li Pera, un geometra, capo area del colosso delle costruzione Rizzani De Eccher. Il fascicolo, a novembre del 1991, venne tolto a Pignatone dal procuratore Pietro Giammanco e assegnato ai pm Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato”.

Quello che accadde dopo ha dell’inverosimile. Come racconta la figlia del giudice, il 14 luglio 1992 si tenne una riunione fra tutti i pm della Procura di Palermo, e Borsellino, in qualità di neo procuratore aggiunto, affrontò il tema del fascicolo mafia-appalti, rimproverando i colleghi di averlo sottovalutato.

Nessuno informò Borsellino che appena il giorno prima i due magistrati ai quali era stata assegnata l’indagine, avevano firmato la richiesta di archiviazione.

Improvvisamente, la mattina del 19 luglio (lo stesso giorno della strage di Via D’Amelio) alle sette del mattino, Borsellino ricevette una telefonata dall’allora procuratore Giammanco che lo avvisava che sarebbe stato delegato alla conduzione dell’indagine sul fascicolo mafia-appalti, una delega che, senza ragione apparente, fino a quel momento gli era stata negata.

Perché Giammanco gli comunicò la delega alle indagini, soltanto dopo che per le stesse era stata firmata la richiesta di archiviazione?  Non trascorsero tre giorni dall’uccisione di  Borsellino, che la richiesta di archiviazione del fascicolo mafia-appalti venne depositata formalmente, per essere definitivamente archiviata  dal  gip alla vigilia di Ferragosto.

A nessuno venne il dubbio che tra le concause dell’uccisione di Borsellino potesse esserci proprio l’indagine su mafia-appalti?  Pare proprio di no, visto che le indagini seguirono altre piste, come nel caso delle “rivelazioni” del falso pentito Vincenzo Scarantino, per poi attribuire l’accelerazione dell’uccisione del giudice alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, che vede imputati quei vertici del Ros (Mori e De Donno) che per Giovanni Falcone avevano lavorato al dossier mafia-appalti, e che  per conto di Borsellino sarebbero stati disposti a riprendere quell’indagine.

Non usa mezzi termini Fiammetta Borsellino nell’evidenziare l’incongruenza tra il processo Trattativa Stato-mafia e la sentenza del Borsellino quater, che proprio in mafia-appalti individua il motivo – quantomeno dell’accelerazione – del progetto stragista di “Cosa nostra” che portò all’uccisione del Giudice Borsellino e della sua scorta.

Alla domanda del giornalista se ha fiducia nei giudici, la figlia di Paolo Borsellino risponde che non soltanto non ha fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta, ma non ne ha neppure in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale.

Sul banco degli imputati delle valutazioni della figlia del giudice, tutti coloro i quali non si sono  accorti degli errori grossolani sul depistaggio della morte del padre, e il Consiglio superiore della magistratura, “inerte nei confronti di coloro, organi inquirenti e giudicanti, che in qualche modo hanno contribuito, avendo parte attiva o passiva, al più grande depistaggio della storia giudiziaria del Paese”.

Tranciante il giudizio su Nino Di Matteo, uno degli autoproclamati eredi di Paolo Borsellino, del quale afferma testualmente:

“A parte la vicenda del processo Trattativa Stato-mafia condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso.

Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.

C’è molta amarezza nelle parole di Fiammetta Borsellino. Un’amarezza ancor più comprensibile e condivisibile nel rileggere le dichiarazioni di Di Matteo,  riportate nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta a carico degli ex pm Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, da parte della Procura di Messina,  dove si legge che il 22 aprile del 2009 Nino Di Matteo manifestò la sua contrarietà a che Gaspare Spatuzza (il collaboratore di giustizia che  smentì clamorosamente Scarantino, dimostrando che era un falso pentito) usufruisse del piano provvisorio di protezione. Sia perché avrebbe attribuito alle sue dichiarazioni un’attendibilità che ancora non avevano, sia perché le sue dichiarazioni, sebbene non ancora completamente riscontrate, avrebbero rimesso in discussione le ricostruzioni e le responsabilità consacrate dalle sentenze ormai divenute irrevocabili.

Ovvero le condanne ingiustamente emesse a seguito delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino.

Fu dunque così facile credere a Scarantino, e così difficile accettare l’amara verità che il falso pentito aveva mentito? Di Matteo temeva (e lo si legge in fondo al documento) il discredito delle Istituzioni dello Stato, poiché l’opinione pubblica avrebbe potuto ritenere che la ricostruzione delle responsabilità di quei fatti fosse stata affidata a falsi collaboratori di giustizia.

Oggi, quelle stesse Istituzioni dello Stato, di quali credito godono da parte dell’opinione pubblica che ha appreso, come dato di certezza, quello che Di Matteo temeva potesse ritenere?

Che dire, inoltre, che si fosse posto in secondo piano che degli innocenti potessero marcire in carcere condannati ingiustamente all’ergastolo, e che il depistaggio potesse ancora proseguire?  Stendiamo un velo…

Caltanissetta è come un fiume in piena che ha rotto gli argini. Troppe verità sono emerse. Verità che per alcuni sarebbe stato molto meglio rimanessero sepolte da tonnellate di menzogne orchestrate per decenni da ignoti, o frutto dell’incapacità di tanti altri.  Tutti eredi di Falcone e Borsellino?  Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 24.2.2021


L’INTERVISTA AL QUOTIDIANO “IL RIFORMISTA”  FIAMMETTA BORSELLINO ALL’ATTACCO: “DI MATTEO DISTANTISSIMO DA MIO PADRE”. TORNA ALL’ATTACCO DI NINO DI MATTEO, IL PM DEL PROCESSO TRATTATIVA STATO-MAFIA.  La figlia di Paolo Borsellino, qualche giorno fa in un’intervista a Repubblica aveva sottolineato “il contrasto fra le tesi espresse dalla sentenza ‘Trattativa’ e quelle emesse a Caltanissetta per la strage di via d’Amelio – ha commentato Fiammetta Borsellino – La prima individua quale elemento acceleratore la trattativa. La corte del Borsellino quater rileva invece che l’accelerazione sarebbe stata determinata dal dossier mafia e appalti, al quale mio padre era molto interessato. La sentenza ‘Trattativa’ arriva a negare questo interesse. Com’è possibile avere queste due opposte valutazioni?”.

E oggi, dalle colonne del quotidiano “Il Riformista”, la figlia del giudice ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio affonda il colpo sul pm simbolo del processo Trattativa: Nino Di Matteo.

“Non ho fiducia in coloro che si proclamano magistrati antimafia e hanno condotto procedimenti giudiziari che contrastano in maniera così manifesta. E non ho fiducia in chi dovrebbe fare chiarezza. Anche sul piano morale. Ad esempio in chi non si è accorto degli errori grossolani sul depistaggio della morte di mio padre. E nel Consiglio superiore della magistratura”, dice Fiammetta.

A proposito della desecretazione degli atti del Csm: “Un’operazione di facciata senza alcun senso se poi ci ferma e non si accertano le condotte indegne tenute dai magistrati dopo la morte di mio padre. Provo anche amarezza, soprattutto che debbano prendere la parola su mio padre persone distantissime da lui e che hanno indagato su altre piste. Un nome? Nino Di Matteo. Non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso. Mio padre era una persona di grande sobrietà, faceva solo il proprio dovere: ricercare la verità senza fare teoremi”.

Non è la prima volta che la figlia di Paolo Borsellino attacca Di Matteo: nel 2017 intervistata da Fanpage parlò di “Depistaggi avallati dai pm”poi a RaiRadio1 nel 25° anniversario della strage di via D’Amelio; nel 2018 rilancia sulle “le responsabilità di Di Matteo e degli altri pm”; poi lo scontro con lo zio Salvatore Borsellino che ha pubblicamente preso le distanze dalle sue parole; e infine nel 2019 la deposizione a Messina sui pm indagati (e oggi archiviati) in cui attacca Di Matteo, Palma e Petralia che si occuparono del falso pentito Vincenzo Scarantino. di Redazione 24 Febbraio 2021 IL SICILIA


FIAMMETTA BORSELLINO, LIVORE E ACCANIMENTO CONTRO NINO DI MATTEO  Da qualche anno a questa parte, su queste pagine in decine e decine di editoriali, ci siamo trovati a commentare ed intervenire rispetto ad alcune affermazioni che Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via d’Amelio assieme agli agenti della scorta (Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli), ha più volte rilasciato in svariati interventi pubblici o interviste. Più volte abbiamo scritto e riconosciuto che, al netto di una verità solo parziale sui fatti che riguardano l’attentato del 19 luglio 1992, è lecito provare rabbia ed avere sete di giustizia. Ancor di più di fronte ad una strage che legittimamente può essere definita come una strage di Stato e che ha visto lo sviluppo di un depistaggio che si è originato sin dalla sparizione dell’agenda rossa del giudice. Ancora una volta, leggendo le dichiarazioni di Fiammetta Borsellino, dobbiamo constatare la presenza di un vero e proprio accanimento, con livore, nei confronti di un magistrato in particolare: il pm palermitano ed oggi consigliere togato al Csm Nino Di MatteoUn accanimento ingiustificato ed ingiusto alla luce, come abbiamo più volte ricordato, del ruolo che lo stesso assunse nei processi sulla strage di via d’Amelio. Da sostituto procuratore si occupò solo marginalmente delle indagini poi scaturite nel “Borsellino bis” (dove entrò a dibattimento già avviato, ndr) mentre istruì dal principio le indagini sul “Borsellino ter”, il troncone dedicato all’accertamento delle responsabilità interne ed esterne a Cosa Nostra, che ha portato alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale e che non è stato investito dal famoso “ciclone Spatuzza”, che mise in discussione la verità raccontata del falso pentito Vincenzo Scarantino riscrivendo un pezzo di storia riguardo l’attentato. In quel processo, infatti, le dichiarazioni del “pupo vestito” neanche furono utilizzate proprio perché vi erano forti limiti rispetto alle sue dichiarazioni. Nell’intervista al Riformista, quotidiano diretto da Pietro Sansonetti, ancora una volta si ripropone la famosa pista del rapporto mafia-appalti come motivo dell’accelerazione che portò poi alla morte, sviando l’attenzione da ogni aspetto che riguardi la trattativa Stato-mafia. E ciò avviene nonostante vi siano sentenze e processi ancora in corso che sono deputati a chiarire questi aspetti. Ed ogni volta che si parla dell’archiviazione di quell’indagine da parte della Procura di Palermo, giusto il 20 luglio 1992, non si ricorda mai che la stessa inchiesta si basava su un’informativa dei carabinieri “incompleta” e privata dei nomi di politici di rilievo che invece comparivano in un’altra informativa depositata in un’altra Procura. Siccome pensiamo che la signora Fiammetta Borsellino è assolutamente cosciente degli argomenti che tratta, ed è intelligente, siamo certi che ha avuto modo di approfondire questi argomenti. Quello che non riusciamo a comprendere sul piano logico, a meno che non si tratti di sentimenti di odio (ci auguriamo non sia così), è proprio la natura di quell’accanimento nei confronti di Nino Di MatteoCiò avviene nonostante quest’ultimo non sia stato mai iscritto nel registro degli indagati per il depistaggio sulla strage di via d’Amelio. Un’inchiesta che vedeva indagati i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, con l’accusa di calunnia aggravata, che è stata archiviata dal Gip di Messina dopo la richiesta della stessa Procura, in quanto “non si è individuata alcuna condotta posta in essere né dai magistrati indagati, né da altre figure appartenenti alla magistratura che abbiano posto in essere reali e consapevoli condotte volte ad inquinare le dichiarazioni, certamente false, rese da Vincenzo Scarantino”. Nonostante lo stesso Di Matteo abbia spiegato più volte (processo sul depistaggio contro i poliziotti, processo Borsellino quater, Commissione parlamentare antimafia e Csm) in maniera minuziosa su come si sono svolti i fatti in quegli anni ogni volta viene ingiustamente tirato in ballo. A questo punto vorremmo porre alcune domande a Fiammetta BorsellinoCrede che tutte le istituzioni che si sono occupate della strage di via d’Amelio, gli organi inquirenti e giudicanti di tutti i processi, siano da sottoporre sotto provvedimento disciplinare, siano incompetenti o peggio ancora corrotti? Tra esse inserisce anche i componenti del Csm, i magistrati ed i giudici della Procura di Messina, prima ancora il Gip di Catania che archiviò l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta Palma e Di Matteo in quanto priva di alcun “comportamento omissivo” rispetto alla vicenda del deposito posticipato al processo “Borsellino bis” dei confronti tra Scarantino ed i collaboratori Totò CancemiGioacchino La Barbera e Mario Santo Di MatteoRitiene che tutte le sedi Istituzionali che hanno in qualche maniera assolto, archiviato o non indagato il magistrato siano corrotte? La signora Fiammetta Borsellino si assume la responsabilità di mettere in dubbio ed accusare di complicità correntista il Csm, quando lo stesso Di Matteo non appartiene ad alcuna corrente? Sulla vicenda del rapporto mafia-appalti è cosciente dell’intera spinosa vicenda o si ferma solo alla ricostruzione monca che certe parti interessate vogliono far emergere? Fa specie notare che quella pista per la morte di Borsellino, sia la “favorita” della difesa Mori-Subranni-De Donno al processo Stato-mafia. Così come fa specie, in un mondo alla rovescia dove vero e falso si mescolano continuamente, vedere come alcuni familiari vittime di mafia accolgano, totalmente o in parte che sia, suggerimenti e considerazioni da parte di chi certe verità non vuole che siano mostrate. E chi trae giovamento da tutto questo è proprio quel gruppo di uomini-cerniera che hanno obbedito agli ordini di uno Stato-mafia che ha letteralmente armato il braccio di Cosa Nostra per seminare bombe e distruzione nel biennio ’92/’93 e non solo. Ed è un dato di fatto che la verità della trattativa Stato-mafia è scomoda a molti. Fiammetta Borsellino, lo ha ribadito più volte con le sue dichiarazioni, sposa in toto considerazioni come quelle dell’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difende alcuni degli ergastolani ingiustamente condannati in base alle dichiarazioni di Scarantino. Per concludere nell’intervista al Riformista Fiammetta Borsellino afferma, riferendosi chiaramente a Di Matteo, che “non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone“. Chi sarebbero dunque vicini alle idee e all’etica del padre? Quegli avvocati degli stragisti che hanno assassinato Paolo BorsellinoLo ripetiamo ancora una volta, senza nulla togliere al diritto alla difesa e alla legittimità professionale degli avvocati nell’esercizio della loro professione, resta un fatto noto che l’avvocato Di Gregorio non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano Muranandr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio. Di Gregorio che, durante un’udienza del “Borsellino ter”, il collaboratore di giustizia Totò Cancemi affermò essere in qualche maniera vicina agli ambienti dei servizi segreti. Nello specifico disse che mentre si trovava in tribunale a Palermo, l’avvocato Rosalba Di Gregorio gli aveva confidato di aver saputo che c’era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. Cancemi spiegò che il latitante a cui si faceva riferimento era Bernardo Provenzano. Diamo atto che la stessa Di Gregorio ha sempre smentito l’accaduto ma se si ritiene che Cancemi abbia detto il vero su Scarantino perché dovrebbe aver mentito sul legale?E cosa ne pensa Fiammetta Borsellino dei magistrati di Caltanissetta che hanno indagato sul progetto di attentato nei confronti dello stesso Nino Di Matteo, con una condanna a morte perpetrata dal Capo dei capi Totò Riina e dal superlatitante Matteo Messina Denaro. Un progetto di attentato il cui ordine di colpire Di Matteo, lo scrivono gli stessi magistrati nisseni nel decreto di archiviazione, “resta operativo”? Sono vicini alle idee del padre? Su tutte queste domande sarebbe bello, prima o poi, avere una risposta. Ma abbiamo il timore e l’amarezza che la signora Fiammetta Borsellino abbia dimenticato chi veramente, nell’informazione e nella magistratura, ha dedicato la propria vita, con disinteresse, a cercare la verità sull’assassinio del proprio padre. di Giorgio Bongiovanni ANTIMAFIA DUEMILA 25.2.2021


FIAMMETTA BORSELLINO, RAGIONE E SENTIMENTOEra inevitabile. Prima o poi sarebbe dovuto accadere. L’evento scatenante che, questa volta, è l’intervista rilasciata da Fiammetta Borsellino a “Il Riformista”.  E così, come mi fu suggerito un po’ di tempo fa da un “amico”, la profezia si è avverata: a Palermo si muore spesso più per fuoco amico che non per fuoco nemico.  Una volta si sarebbe detto “si alzano a destra e a manca voci di dissenso” mentre nella giornata di ieri abbiamo assistito all’esatto contrario, ossia “da destra e da manca” arrivava l’assordante rumore del silenzio. Nessun rilancio, nessuna citazione. Anche i “leoni da tastiera” hanno taciuto pubblicamente sui social, anche se non lo hanno fatto all’interno delle loro segretissime chat su Whatsapp o su equivalenti servizi di messaggistica istantanea. Si è alzato il velo silenzioso dello scandalo per le affermazioni della figlia del giudice Paolo Borsellino contenute nell’intervista rilasciata all’ottimo Paolo Comi che ha fatto il suo mestiere di giornalista, senza commentare e, soprattutto, senza anteporre il proprio pensiero personale alla voce di Fiammetta. Ma ciò non toglie che le sue parole siano state mal sopportate e abbiamo creato malumore e critiche ma non è politicamente corretto attaccarla pubblicamente. Poi, questa mattina, qualche voce si è sentita. Forse la notte ha portato (s)consiglio ed è partita la prima raffica di dissenso, un dissenso calibro 38 Special. Questa volta il fuoco amico nei confronti di Fiammetta Borsellino arriva dalla stampa, quella che da sempre è schierata in prima fila con i diversi movimenti antimafia. Ma cosa è successo? Ragione e sentimento, questo è successo. Fiammetta Borsellino ha commesso il reato di lesa maestà. Si è permessa, ancora una volta, di lanciare il suo monito e di puntare il dito nei confronti della magistratura, delle sue indagini e, in modo particolare, nei confronti del dottor Nino Di Matteo dichiarando: «A parte la vicenda del processo “Trattativa Stato-mafia” condotto proprio da Di Matteo, non può considerarsi erede di mio padre chi non pone in essere i suoi insegnamenti e anche quelli di Giovanni Falcone. Mio padre, ad esempio, non avrebbe mai scritto o presentato libri sui suoi processi in corso».

Di recente, la sentenza del “Borsellino Quater” ha stabilito che ad accelerare l’uccisione di Borsellino furono diversi motivi, come il probabile esito sfavorevole del maxiprocesso e la pericolosità, per Cosa nostra, delle indagini che il magistrato era intenzionato a portare avanti, in particolare in materia di mafia e appalti. «Non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce fino in fondo sul perché venne archiviato il dossier “mafia-appalti” a cui mio padre teneva moltissimo. E ciò̀ per me è come un tarlo che si insinua nella mente, giorno e notte», ha dichiarato Fiammetta Borsellino sulle colonne de “Il Riformista”. Ma se questo è veramente stato il possibile accelerante, come sostiene Fiammetta ma anche la sentenza del “Borsellino Quater”, della strage di via d’Amelio per eliminare il dottor Paolo Borsellino, perché non si è indagato? Semplice, molto semplice. Non si è indagato perché il dossier “mafia-appalti” è stato archiviato.

Ma facciamo ordine.  Parliamo del dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali. Documento esplosivo? Se ripensiamo con lucidità ai contenuti del dossier in oggetto, possiamo pensare che fosse più confermativo che esplosivo. Molte delle grandi aziende citate nel dossier del Ros sono le stesse che comparivano nelle inchieste giornalistiche condotte negli anni ’70 da Mario Francese, quel cronista di razza che il 26 gennaio 1979 pagò con la vita la sua perspicacia e la sua capacità di analisi. Quelle grandi aziende che avevano interessi nella costruzione della diga Garcia, oggetto delle inchieste giornalistiche di Mario Francese.

Rimettiamo in ordine eventi e date.  Il 16 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’«informativa mafia e appalti» relativa alla prima parte delle indagini. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo ForteGiuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici. Dopo la strage di Capaci il dottor Borsellino, che all’epoca della consegna del rapporto era procuratore capo a Marsala ma che dal marzo 1992 era di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto, decise di riprendere l’inchiesta riguardante il coinvolgimento di Cosa nostra nel settore degli appalti e fornirle un nuovo slancio, considerandola di grande importanza. Ciò è confermato non solo da un incontro che il dottor Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con Mori e De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini in materia di mafia e appalti riferendo esclusivamente a lui, ma anche dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che allora stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di “Mani Pulite”.

Elemento cardine è la riunione che il 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive e per trattare “problematiche di interesse generale” attinenti ad alcune indagini: “mafia e appalti, ricerca latitanti e racket delle estorsioni”. Nella riunione, alla quale partecipò anche Borsellino, Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che verrà presentata il 22 luglio 1992, due giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992.  Ragione e sentimento. Omissioni, pezzi mancanti, discordanze. Dossier archiviati, vuoti di memoria ma, soprattutto, vergogna, tanta vergogna.  (Ro.G.). STATIGENERALI 25.2.2021

PER QUANTO TEMPO ANCORA? LETTERA DELLA FIGLIA DEL PM PETRALIA IN RISPOSTA ALLE ACCUSE DI FIAMMETTA BORSELLINO Mi domando per quanto tempo ancora, i magistrati che hanno lavorato sulla strage di via D’Amelio, dovranno essere accusati dalla sig.ra Fiammetta Borsellino. Mi domando quali altre prove servano, oltre le approfondite indagini preliminari svolte egregiamente dai pm di Messina che, ricordo, hanno disposto ed espletato anche laboriosi accertamenti tecnici irripetibili. Per quanto ancora gli ex pm Palma e Petralia, nonostante un’ordinanza di archiviazione chiara nel definire che non è stata individuata nessuna condotta “penalmente rilevante da parte dei magistrati” dovranno essere messi sopra la bilancia di un dubbio che verte sempre un po’ di più dalla parte della colpevolezza.
Per quanto tempo ancora dovranno subire insidiose accuse pubbliche? Per quanto ancora 
Nino Di Matteo, dovrà subire anche lui le pubbliche accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino? Per quanto ancora il nostro silenzio verrà usato per offenderci ancora, ancora e ancora una volta?
Non è certo la gogna mediatica che temo, ma le accuse cieche che odorano di pregiudizi, quelle si.
Una strada percorsa sulla suggestione dei pregiudizi non conduce mai alla verità. 
Nino Di Matteo tirato in causa con la stessa forza con cui, in questi anni, è stato tirato dentro a questo fango mio padre, mi fa pensare che ci sia qualcosa di orchestrato di cui, chi si fa portavoce della malagiustizia, non è al corrente, qualcosa che, lungi dall’avvicinare alla verità, spinge ad allontanarsene. Circoscrivere un dramma nazionale (la stagione delle stragi) a singole e mai dimostrate responsabilità di alcuni magistrati serve, infatti, a negarne la riconducibilità al perverso rapporto intercorso per anni tra lo Stato e un apparato criminale sanguinario ed eversivo come cosa nostra. Oggi penso che dietro le accuse della sig.ra Fiammetta Borsellino ci sia qualcuno che, abilmente, cerca di usare il dolore di una figlia per allontanare, ancor di più, questa verità. Flavia Petralia 25 Febbraio 2021 ANTIMAFIA DUEMILA


Dal falso pentito alle pugnalate a Davigo, storia di Nino Di Matteo il Pm più scortato d’Italia  Tradimento. Una nuova freccia è scoccata dall’arco del pubblico ministero più scortato d’Italia, e forse, chissà, questo comporterà un rafforzamento della sua sicurezza. Perché ormai Nino Di Matteo ha litigato con tutti e in poche ore ha sbriciolato le due relazioni principe nella sua vita davanti allo specchio, quella con il suo mentore Piercamillo Davigo, cacciato dal Csm con il suo voto determinante, e l’altra con il suo ragazzo pompon Marcolino Travaglio che, a causa di quel voto, gliel’ha giurata. E a ogni rottura è una tacca sulla sua toga e qualche uomo di scorta in più. Perché tutto intorno a lui è minaccia. Quando perde un processo, quando ha un inciampo di carriera. Quando litiga, quando si arrabbia. Da Scarantino a Davigo, potrebbe essere il titolo di un suo prossimo libro, quello delle sue confessioni. Il tradimento di questi giorni nei confronti del suo mentore, il suo leader politico, quello che lo ha acciuffato per i capelli mentre lui stava annegando nei propri fallimenti. Perché non era riuscito a diventare ministro di giustizia con la benedizione dei grillini e neanche capo del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Ogni volta surclassato da personaggi modesti, su questo ha qualche ragione. Non si può proprio dire che Bonafede e Basentini siano due allievi di Calamandrei. Ma umiliato anche dal capo dell’antimafia che lo aveva cooptato in un pool sulle stragi e poi licenziato perché chiacchierone con la stampa. Davigo era stato generoso con lui, portandolo con sé al Csm e procurandogli i voti per essere eletto. Ma ignorava che il suo allievo nascondesse il pugnale sotto la toga. E con lui il ragazzo pompon Travaglio che si era spellato le mani in quei festeggiamenti, sprizzando gioia a champagne. Ma Nino Di Matteo deve sempre fare pagare agli altri i propri insuccessi, la propria difficoltà nel salire le scale. È ormai storia. E vendetta. Lo hanno aiutato, ma non abbastanza.

La sua carriera di pm “antimafia”, la credulità, la capacità di girare la testa da un’altra parte davanti a un’operazione di pasticceria che ha manipolato un piccolo spacciatore di periferia fino a venderlo sul bancone dell’antimafia come uno degli assassini di Paolo Borsellino. Enzino Scarantino, quello che sapeva tutto perché c’era, perché aveva procurato lui la macchina-bomba della strage. Il grande depistaggio di Stato che avrebbe potuto essere smascherato subito, fin da quando la lettera della moglie del “pentito” e qualche visita parlamentare alle carceri speciali di Pianosa e Asinara denunciarono le torture e il “pentitificio” che in quei luoghi maledetti veniva costruito.

Stiamo parlando del 1993. E il processo-farsa organizzato dal depistaggio di Stato costruito su Enzino è andato avanti con la benevola partecipazione di Nino Di Matteo fino al 2017, fino a quando il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza non ha cavato, al pm e ai giudici, le castagne dal fuoco, risolvendo il “giallo” della morte di Borsellino e scrivendo, di fatto, la sentenza. Mandando a casa una ventina di innocenti, qualcuno dei quali torturato a Pianosa o Asinara. Venticinque anni di distrazione e di crescita di scorte perché i boss mafiosi, pur vedendo che lui non ne azzeccava una, continuavano a riempire di minacce il pm Di Matteo. Il quale sosteneva più o meno che era tutta colpa di Berlusconi. E una volta, nel corso di una cerimonia ufficiale di commemorazione proprio della strage di via D’Amelio, non potendo prendersela con se stesso perché ancora non cavava un ragno dal buco, e anzi aveva contribuito a far incriminare degli innocenti, attaccò briga da lontano anche con il presidente Napolitano e con il premier Matteo Renzi. Tutti amici e complici di Berlusconi.

Il suo mantra consiste nel suo essere un “isolato” e sul fatto di stare sulle scatole più o meno a tutti. Questo lo fa sentire forte, vuol dire che è il migliore. Che è fuori, soprattutto. Fuori da ogni intrallazzo, da ogni mercimonio, da ogni oscena trattativa. Come quella che sta impegnando diversi giudici, e siamo già al secondo grado di giudizio, per stabilire se un gruppo di servitori felloni dello Stato e di politici piagnucolosi abbia trattato con la mafia negli anni Novanta per far cessare le stragi. Non lo hanno fatto, in caso contrario il loro comportamento sarebbe stato encomiabile. Come lo sono stati gli atti decisivi di coloro, come il generale Mori, che hanno arrestato i boss latitanti e sconfitto la mafia in Sicilia. Se non c’è trattativa, c’è cedimento. Altra parola scritta con la maiuscola nel vocabolario del pm Di Matteo. La sua espressione preferita è “cedimento dello Stato” nei confronti della mafia. Succede di continuo. È capitato con le famose scarcerazioni (che poi erano solo differimenti della pena) dei boss mafiosi per motivi di salute durante la prima pandemia da covid-19. In quei giorni il pm più scortato d’Italia disse che lo Stato pareva «aver dimenticato e archiviato per sempre la stagione delle stragi e della trattativa Stato-mafia». E come ci si sarebbe potuti dimenticare di questo ritornello visto che viene cantato e solfeggiato nelle tante apparizioni televisive del dottor Di Matteo? A questo punto, persa la tribuna del Fatto quotidiano, persa l’amicizia di Davigo (non si illuda, dottor Di Matteo, quello non va a passare gli anni della pensione ai giardinetti, lo rivedremo presto), può sempre contare su qualche domenica sera nello studio di Massimo Giletti. Il quale, forse anche in seguito a qualche puntata in cui insieme protestavano per le scarcerazioni dei boss, è lui pure sotto scorta. Tiziana Maiolo — 22 Ottobre 2020 IL RIFORMISTA

 

Chi è Nino Di Matteo, il Pm che sognava di fare il ministro nonostante i fallimenti processuali

 

DOSSIER MAFIA&APPALTI


 Rif. Camera Rif. normativi. XVII Legislatura.  Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Resoconto stenografico. Seduta pomeridiana n. 225 di Martedì 19 settembre 2017

 

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante l’attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione in diretta streaming sperimentale sulla web-tv della Camera dei deputati

Seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione del sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Antonino Di Matteo, iniziata lo scorso 13 settembre. Nella scorsa seduta il procuratore Di Matteo ha svolto una relazione sul tema dell’audizione dedicata, in particolare, alle indagini e ai processi celebrati a Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio.  Nel ricordare, come di consueto, che l’audizione è in forma libera e che, se necessario, i lavori potranno proseguire in forma segreta, se il dottor Di Matteo non ha aggiunte da fare – mi ha comunicato che non ne ha – al suo intervento, riprendiamo dalla fase delle domande.  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

DAVIDE MATTIELLO. Grazie, presidente. Ringrazio il dottor Di Matteo per essere di nuovo con noi. Per brevità, non torno con commenti su quello che abbiamo ascoltato nella scorsa audizione. Mi limito soltanto a manifestare profondo apprezzamento per quello che lei, dottor Di Matteo, ha voluto raccontarci, così da introdurre le due domande.  Mi sembra che lei abbia voluto, da un lato, fare chiarezza sul suo lavoro e, dall’altro, allarmarci su quella che potrebbe essere – la definisco così – una sorta di rischio distrazione rispetto a quelle che, ancora in questo momento storico, sono le questioni nodali sulle quali varrebbe la pena di concentrare l’attenzione, non solo dell’autorità giudiziaria, ma anche della autorità parlamentare e istituzionale, in questo caso della Commissione parlamentare antimafia.  Se ho capito bene, discendendo da questa premessa, sul lato dei chiarimenti mi piacerebbe, per come lei riterrà opportuno, tornare su una vicenda indubbiamente collegata a quella per la quale lei ha chiesto di incontrarci, la vicenda Agostino. In questo prezioso sforzo di chiarimento – ripeto, per come lei vorrà declinare la questione – ritengo che sarebbe importante capire un po’ meglio che cosa sia successo nel momento in cui la vicenda Agostino (intendo l’omicidio di Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio del 5 agosto del 1989) sembrava aver ripreso vigore, almeno rispetto alla possibilità probatoria. Ricordo il confronto che ci fu in aula bunker nel febbraio del 2016 con Giovanni Aiello, nel frattempo deceduto.  Non sintetizzo ulteriormente per non rubare tempo, tanto lei, dottor Di Matteo, ha chiarissima la situazione. La procura di Palermo va verso la richiesta di archiviazione e arriva l’avocazione da parte della procura generale. Un approfondimento su quel passaggio, Pag. 3 su quello che è successo, nel rispetto delle responsabilità di ciascuno, per me è importante.  La seconda questione, che attiene all’allarme sui nodi su cui varrebbe la pena concentrarci, la titolo così: il destino degli atti di impulso della Direzione nazionale antimafia presieduta dal dottor Grasso, con riferimento a quegli atti di impulso che il dottor Grasso costruì a partire dalle deleghe conferite al dottor Donadio, allora sostituto. Si tratta di atti di impulso che sembrano tornati di grande attualità, perché proprio l’inchiesta della DDA di Reggio Calabria ’ndrangheta stragista, alla quale lei stesso ha più volte fatto riferimento nella scorsa audizione, prende – almeno in parte – le mosse da quegli atti di impulso.  Tra il 2012 e l’estate del 2013 in particolare sul lavoro del dottor Donadio sembra essersi creata una tempesta perfetta, che non risintetizzo più, per non incorrere nelle rampogne della presidente, perché tante altre volte l’ho fatto. Vorrei chiederle, dottor Di Matteo, di nuovo…

PRESIDENTE. Ne siamo ormai al corrente.

DAVIDE MATTIELLO. Ne siamo tutti consapevoli. Resta il fatto che questa legislatura rischia di chiudersi senza che almeno noi parlamentari della Commissione antimafia possiamo capire un po’ meglio che cosa sia successo proprio all’inizio della nostra legislatura. Anche su questa vicenda il suo punto di vista, per come vorrà esporlo, per me è prezioso.

PRESIDENTE. Possiamo far formulare tutte le domande, alle quali lei risponderà dopo?

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Come ritiene opportuno.

PRESIDENTE. Di solito facciamo così, se per lei va bene.

FRANCESCO D’UVA. Rieccoci, dottor Di Matteo. Ho un paio di domande.  Sono mai state acquisite al processo sulla trattativa o ad altri, come il procedimento Mori-Obinu, le risultanze delle indagini condotte a Firenze dal procuratore Chelazzi?  Quando lei muoveva i suoi primi passi a Caltanissetta, qualcuno dei suoi colleghi le ha mai riferito, anche in via informale, delle perplessità in merito alle dichiarazioni o alla gestione del collaboratore Scarantino? Lei ha mai interrogato Scarantino? Mi permetto di porre questi quesiti come unica domanda.  Quando e se ha cominciato a intuire che c’era dell’altro sui mandanti esterni in merito alla strage di via D’Amelio rispetto a quanto emerso nel primo processo celebrato a Caltanissetta?  A Caltanissetta, seppure fosse giovane e alle prime armi, come ha detto lei l’ultima volta e come sappiamo, ha mai notato movimenti strani o fatti irrituali, qualcosa che comunque le è apparso fuori luogo nei procedimenti?

GIUSEPPE LUMIA. Anch’io ringrazio il dottor Di Matteo. La volta scorsa il dottor Di Matteo, con fatti e circostanze e con una ricostruzione molto particolareggiata della vicenda che ha sottolineato e, in particolare, del suo ruolo in quegli anni di gestione delle indagini sulle stragi, sia quella del 23 maggio, sia quella di Borsellino, ci ha fornito un quadro che la Commissione ha potuto conoscere meglio e, dal mio punto di vista, anche apprezzare.  Un punto mi è sembrato importante ed è che la vicenda Scarantino, insieme naturalmente anche a quella di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, va valutata come un gravissimo depistaggio. Contemporaneamente, lei ci ha sollecitato a non far diventare questo un elemento strumentale, per dare uno sguardo e allargare l’orizzonte dell’analisi da parte della Commissione sulle responsabilità più ampie che, a partire dalle dichiarazioni di Spatuzza e dai processi – in particolare, lei ci invitava a guardare bene i processi Borsellino bis e ter – emergono nella vicenda più complessiva che si è giocata all’interno del nostro Paese con il ruolo di cosa nostra e con chi con cosa nostra ha concorso a chiudere, con le stragi del 1992, la cosiddetta prima Repubblica (questa è una mia traduzione) e ad avviare, con le stragi del Pag. 41993, un rapporto collusivo con la cosiddetta seconda Repubblica, quella ancora in vita.  Volevo chiederle, alla luce del lavoro che ha portato avanti sull’indagine e poi sul processo trattativa, di aiutarci a focalizzare il punto d’inizio della crisi che ebbe a manifestarsi nel rapporto mafia-potere, rappresentato dall’attentato all’Addaura. Corriamo il rischio – il presidente Bindi lo sa – che, da qui a poco tempo, i reati che si sono consumati in quel contesto vadano in prescrizione, il che sarebbe un fatto gravissimo.  Questo, però, non esime la Commissione antimafia dal fare il suo lavoro di inchiesta e dal provare a sviscerare quell’espressione emblematica che utilizzò Falcone, un’espressione che viene fuori dalla bocca di un magistrato che era lontano mille miglia dalla retorica e dalle parole enfatiche e strumentali. Falcone usò l’espressione «menti raffinatissime».  Volevo sapere se, nel corso della sua attività, ha potuto incrociare e valutare questa espressione, «menti raffinatissime» che agirono all’Addaura e che furono protagoniste dell’Addaura. L’onorevole Mattiello ha ricordato, collegandosi – penso – a questo contesto, anche la vicenda Agostino, che è dentro quel crogiolo della vicenda dell’Addaura.  Questo sarebbe importante, perché dalle «menti raffinatissime» dell’Addaura possiamo fare un balzo sulle menti che hanno organizzato quel depistaggio. La Commissione antimafia è chiamata a stabilire se quel depistaggio fu una tipica scelta di allora per sbattere il mostro in prima pagina, oppure un continuum con quell’azione, che già all’Addaura si era manifestato, di menti raffinatissime che provarono a destabilizzare il Paese, a vivere quella stagione della crisi della prima Repubblica e a chiudere un rapporto e una fase, insieme con la prima Repubblica, del rapporto potere e mafia.  Sarebbe importante, anche da questo punto di vista, avere la sua opinione e capire la questione attraverso il suo lavoro di indagine e di conoscenza. Penso che in questo contesto, presidente, possiamo acquisire non solo freddamente i dati di un magistrato che lavora, naturalmente, all’interno del giudizio penale, con i dati probatori e senza le valutazioni più generali sociologiche che, in quel contesto, non appartengono all’attività dei magistrati. In questo contesto, avere le opinioni e le valutazioni che si traggono per una Commissione che, sempre a partire dai fatti e dai dati, deve esprimere poi un giudizio sulle responsabilità politico-istituzionali potrebbe essere interessante.  Vorrei ripercorrere il filo di questo lavoro dalle menti raffinatissime al depistaggio e poi alla vicenda Cassazione, da cui, anche attraverso la procura di Reggio Calabria, stanno emergendo elementi abbastanza chiari di un intervento da parte della ’ndrangheta, in rapporto con cosa nostra, con gli omicidi che anche lì si consumarono, oltre che con l’omicidio per antonomasia, che abbiamo conosciuto, del magistrato che allora era stato chiamato a vivere l’esperienza da procuratore in Cassazione del maxiprocesso. 

Attraverso questo filo si può provare a capire, dottor Di Matteo, se la trattativa prese il via, magari anche con soggetti diversi, con soggetti più articolati, prima della strage stessa di Capaci. È importante comprendere se già prima della strage di Capaci, oltre che, come già è stato accertato, prima della strage di via D’Amelio, lo Stato instaurò… pezzi dello Stato, naturalmente, soggetti dello Stato entrarono in rapporto con cosa nostra attraverso uno scambio. L’abbiamo chiamato trattativa, ma a noi interessa la sostanza di un rapporto anomalo che si è venuto a creare, che ha destabilizzato il nostro Paese e che ha generato quella stagione delle stragi che ancora dobbiamo conoscere meglio e che ancora dobbiamo approfondire sino in fondo.  Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di Capaci. Le «menti raffinatissime» agirono anche nella strage di via d’Amelio. Le «menti raffinatissime» agirono, poi, lungo quell’altra sanguinosa stagione delle stragi che si consumarono nel continente. Ricordo sempre non solo quelle che già si consumarono a Roma, Firenze e Milano, ma anche quella stessa dell’attentato all’Olimpico. Lo dobbiamo considerare un tentativo stragista che, se fosse andato in porto, avrebbe potuto diventare veramente deflagrante, non solo per il numero di omicidi, ma anche per le ripercussioni devastanti che avrebbe potuto avere nel rapporto Pag. 5con la vita democratica del nostro Paese in quel momento delicatissimo della sua crisi.  Vorremmo provare, se lei ci può aiutare, attraverso questo filo delle «menti raffinatissime», a scandire le fasi della trattativa e conoscere le valutazioni, attraverso il lavoro che ha potuto svolgere all’inizio a Caltanissetta e poi soprattutto a Palermo.  Per ultimo, lei ci ha invitato a fare attenzione al fatto che sia menti lucide – potremmo dire, ma non vorrei esagerare, «menti raffinatissime» anche adesso – sia chi magari è in buona fede (l’ha sottolineato) vorrebbero costruire una delegittimazione del lavoro che lei ha svolto, provando a creare un conflitto intorno alla gestione di allora di quel depistaggio gravissimo che – confermo – si è consumato sulla vicenda Scarantino.  Vorrei capire, attraverso una domanda che magari poi nella risposta, se la presidente lo riterrà opportuno, potremmo segretare, quali sono le indagini che lei con i suoi colleghi svolgete ancora intorno al tema della trattativa. C’è un processo. Volevo capire se la fase delle indagini si è conclusa e se tutto è già stato riversato nel processo, oppure se avete ancora dei filoni di indagine, per esempio, alla luce di quello che Graviano ha potuto esprimere e che voi avete potuto raccogliere con le intercettazioni che abbiamo potuto conoscere e che non so, presidente, se la Commissione parlamentare antimafia abbia potuto acquisire nella sua completezza qui in Commissione oppure no.  Sarebbe importante capire se, anche oggi, quelle menti raffinatissime siano in azione per provare a depistare, bloccare o delegittimare quel lavoro che ancora oggi si sta sviluppando – se c’è, come non c’è – ed eventualmente provare a portare a conoscenza della Commissione parlamentare antimafia gli sviluppi di questa importante eventuale attività di indagine.

SALVATORE TITO DI MAGGIO. Scusi, presidente, poiché, per rispondere al senatore Lumia, ci vogliono il Nuovo e l’Antico Testamento, possiamo vedere se il procuratore…

PRESIDENTE. Facciamo tutte le domande. Se è vero che, per rispondere a Lumia, ci vogliono il Nuovo e il Vecchio Testamento, ciò prenderebbe tutto il tempo. È più giusto che facciate tutte le domande. Il procuratore Di Matteo saprà come amministrarle. Non vi preoccupate.

LUIGI GAETTI. Dottor Di Matteo, ho letto sul Fatto Quotidiano quello che lei ha riferito a Marina di Pietrasanta e mi sento di dire che la sua solitudine, che è più che comprensibile, proprio per il lavoro che fa, per la sua delicatezza e per quello che le sta accadendo, non è poi del tutto solitudine. Io e molti altri cittadini vorremmo manifestarle la nostra vicinanza.  Detto questo, volevo porre due questioni. Una è un po’ più filosofica. Lei sta facendo, ovviamente, un lavoro estremamente importante, con un gruppo ristretto di persone, su questo processo. Tuttavia, questo è ormai rimasto in ambito giudiziario. Dopo venticinque anni, ritengo che sarebbe forse più opportuno affrontare questo problema in maniera un po’ diversa, ossia fare un’analisi più storica, per indurre le persone a parlare.  Da medico, suggerirei di fare la vera diagnosi e di omettere poi la terapia, intendendo eventuali condanne e cose di questo tipo, perché, dopo venticinque anni e dopo tutte queste situazioni, ritengo che forse, studiando un modo diverso, si indurrebbe la possibilità di far emergere la verità, che in questo modo, invece, viene sottaciuta da molti. Volevo sentire il suo parere su questo.  Lei ci ha già detto una cosa estremamente importante: queste stragi non sono stragi di mafia, o non sono solo stragi di mafia, ma ci sono altre componenti, che poi valuteremo se siano servizi segreti nel loro complesso, persone e cose di questo genere. Una visione di questo tipo era già stata segnalata da un ex poliziotto, Genchi, il quale, in un libro del 2009, segnalò molte di queste questioni, come la presenza dei servizi segreti, la localizzazione telefonica e via elencando.  Segnalò anche altre cose nel suo libro. Ripeto un esempio anche perché è stato fatto da altre persone audite. Nel condominio di fronte a via D’Amelio c’era un edificio in costruzione, ma con una parete che era un vetro antisfondamento, un vetro altamente protetto, dietro il quale una persona soggiornò a Pag. 6lungo, perché furono ritrovati molti mozziconi di sigaretta. Nessuno indagò su questo.  È ovvio che questa domanda non dovrei farla a lei, perché ci ha già spiegato che è arrivato molto più tardi. Quel depistaggio, che io credo ci sia stato alla grande, invece, ha omesso queste analisi. Volevo chiedere il suo parere su alcune informazioni di Genchi che, quantomeno leggendo il libro, forse non sono vere, ma sono verosimili, con delle possibilità di riscontri. Volevo sapere la sua valutazione sugli elementi che sono emersi, come quello che ho sottolineato precedentemente e altri ancora, che diversi auditi hanno evidenziato.

SALVATORE TITO DI MAGGIO. Ringrazio innanzitutto il dottor Di Matteo per la disponibilità che già aveva dato la settimana scorsa. Sulla base delle cose che ci ha raccontato, che sono estremamente interessanti, vorrei formulare alcune domande.  In primo luogo, lei ha una lunga esperienza come pubblico ministero. Secondo lei, chi guida, quando si fanno le indagini di polizia giudiziaria, la magistratura o i corpi di polizia ai quali eventualmente vengono affidate queste indagini?  Come seconda domanda, di Scarantino abbiamo parlato a lungo e lei ci ha rappresentato anche il fatto di come lei in questa vicenda sia entrato a giochi già iniziati. Ricordo, però, nella deposizione che fece la dottoressa Boccassini a Caltanissetta, un fatto che mi lasciò molto sorpreso: sui tabulati che erano a disposizione dell’autorità giudiziaria già nei giorni 17 e 19 luglio, alcuni intercettati facevano riferimento a operazioni che potevano coinvolgere direttamente Gaspare Spatuzza, per cui Spatuzza avrebbe potuto essere già sentito in tempi non sospetti rispetto alle indagini che furono poi iniziate a seguito delle rivelazioni di Scarantino. Chiedo se le risulta questo.   Come ultima cosa, durante il periodo delle deposizioni di Scarantino c’è stato un fatto, anche questo estremamente importante, almeno a mio avviso, di cui però non riesco a delineare i contorni. Chiedo se in questo ci può aiutare. Furono le dimissioni proprio di Genchi, in contrasto – credo – con La Barbera. Domando se sul fatto lei ha qualche memoria.

PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, posso aggiungere qualche domanda anch’io? Ci ricorda quando è arrivato alla procura di Caltanissetta? Ce l’aveva già detto l’altra volta, ma è per la domanda che vorrei farle.

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Alla procura di Caltanissetta presi servizio il 16 settembre del 1992. Poi in DDA entrai nel dicembre del 1993 e nel pool che si occupava delle stragi nel novembre 1994.

PRESIDENTE. Alcune domande gliele faccio per avere il suo punto di vista. 

Secondo lei, perché Borsellino, che chiedeva insistentemente di essere sentito dalla procura di Caltanissetta, non fu sentito nel periodo che separò la strage di Capaci dalla strage di via D’Amelio? Che idea si è fatto?  La seconda domanda ritorna sulla vicenda Boccassini. Rileggendo la sua deposizione e avendo ben chiare le sue responsabilità, che lei ci ha ricordato nelle varie fasi processuali, anche qui, se non ha elementi suoi che potremmo definire in qualche modo testimoniali, per quale motivo le osservazioni della Boccassini furono ignorate, secondo lei, da parte di chi aveva la responsabilità di condurre quelle indagini? Indubbiamente, rileggendole, si nota che tutti gli elementi che poi sono apparsi successivamente erano contenuti nelle deposizioni della Boccassini, al di là – ripeto – delle sue responsabilità.  L’altro aspetto, invece, riguarda una sua dichiarazione nei confronti della mancata messa a disposizione delle parti del confronto che vi era stato tra Scarantino e altri collaboratori di giustizia. Lei ha dichiarato: «Ritenemmo in quella circostanza di non metterle a disposizione del dibattimento».  La domanda è se, con i fatti che si sono verificati successivamente, ripeterebbe o si esprimerebbe a favore di questa decisione che fu presa da tutta la DDA? Secondo lei, fu una scelta saggia? A parte che, processualmente, forse è discutibile da certi punti di vista, lo chiedo per entrare nel merito della vicenda.  Aggiungo altri due aspetti che forse possono servire a chiarire anche punti di vista Pag. 7diversi che sono emersi in tutte queste varie considerazioni che ci sono state sugli organi di stampa o altro.  A lei fu mai chiesto di verificare l’attendibilità di Scarantino, da parte di Tinebra o di chi, comunque, dirigeva le indagini?  L’altra domanda è se ha mai letto il verbale del sopralluogo al garage Orofino fatto da La Barbera.  Infine, come avete valutato, in quel momento, le dichiarazioni di Scarantino, che diceva di essere stato in qualche modo costretto da La Barbera, anche con metodi violenti, a fare le dichiarazioni che aveva fatto?  Questa è una domanda che feci anche all’attuale procura di Caltanissetta, anche per collegarmi ad alcune domande del senatore Lumia. Fu un desiderio di prestazione che spinse gli inquirenti, in quella fase, a dare attendibilità a dichiarazioni che poi si sono rivelate infondate, oppure questa sorta di depistaggio era stata costruita? Mi fermo qui. Do la parola al dottor Di Matteo per la replica.

ANTONINO DI MATTEO, sostituto procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Ringrazio tutta la Commissione. Non solo il numero, ma soprattutto la qualità e la problematicità di ogni vostra domanda mi confortano ulteriormente sulla scelta che avevo fatto nel momento in cui avevo chiesto di essere sentito dalla Commissione parlamentare antimafia. Non c’era bisogno che lo cogliessi io, ma si coglie proprio un intento di approfondimento della questione che, da cittadino, mi conforta moltissimo.  Presidente, in relazione a molte delle domande che mi sono state poste – vi ringrazio anche perché alcune domande mi invitano a una riflessione, ossia non soltanto a riferire fatti, ma anche a esprimere delle opinioni – vorrei chiedere che si procedesse con la seduta segreta. Proprio nell’intento di poter cercare di collaborare con voi anche sotto il profilo di una riflessione, credo che dovrò fare riferimento anche a fatti che magari per la procura di Caltanissetta, di Palermo o di Firenze possono essere di inopportuna diffusione mediatica.

PRESIDENTE. Procuratore, noi riteniamo questa sua richiesta una volontà di collaborazione con la Commissione. Ci dispiace per tutti coloro che erano in ascolto, ma credo che sarà proficuo per noi procedere in seduta segreta. Eventualmente, alla fine, riprendiamo, se vogliamo fare una sintesi. 

Propongo di passare in seduta segreta.   (Così rimane stabilito. I lavori procedono in seduta segreta, indi riprendono in seduta pubblica).

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Di Matteo e dichiaro conclusa l’audizione.

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF