CONFERENZA STAMPA PROCURA DI CALTANISSETTA. 19 LUGLIO 1994.

 AUDIO


Trascrizione tratta da Radio Radicale, “Gli ultimi sviluppi delle indagini sulla strage di Via D’Amelio tenuta in occasione del II anniversario della morte del giudice Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta.”

  • GIOVANNI TINEBRA: Noi oggi qui celebriamo il secondo anniversario delle eccidio di via d’Amelio ed abbiamo la profonda, commossa, consapevole soddisfazione di celebrarlo nel modo giusto, cioé in maniera fattiva Ieri infatti abbiamo chiesto ed ottenuto sedici ordinanze di custodia cautelare nei confronti di alcuni dei mandanti e degli esecutori materiali della strage. (…) Voi sapete quali sono i miei sentimenti nei confronti dei media, sentimenti di stima, rispetto e consapevolezza della interdipendenza dei nostri compiti. Ciò esige però piena lealtà ed assoluta responsabilità nell’esercizio delle rispettive funzioni, nostre giudiziarie, vostre di informazione.
    Non è consentito, alla luce di questi principi, anticipare in maniera veramente avventata, consentitemelo, notizie che possono avere effetti sconvolgenti e per le indagini in corso e per la sicurezza personale di quanti, collaboratori e familiari, magari sono ancora senza protezione. 
    Vi ho sempre detto, mi rendo conto di quelle che sono le vostre esigenze e vi vengo incontro, e ciascuno di voi ne è testimone, però vi prego, ricordiamoci che molte volte un malaccorto, malaccorto da un punto di vista di tempestività, sicuramente non di buona fede, esercizio del diritto-dovere di informazione puó portare conseguenze sconvolgenti, come nel caso che ci occupa. Vi posso dire che grazie a determinate precauzioni, che avevamo preso in precedenza, e alla eccellente fattività dei nostri collaboratori sul campo, abbiamo portato a termine interamente l’operazione, e sul profilo operativo procedimentale e sotto il profilo di assicurazione a misura di protezione delle persone interessate.
    Ma vi posso dire che abbiamo corso un grosso pericolo, quindi per favore, per il futuro, augurandoci che il futuro ci riservi ancora gradite sorprese come quella di oggi, consultiamoci un momentino e decidiamo assieme se è il momento di dare certe notizie o se piuttosto non è meglio aspettare un momentino per far sì che le notizie da dare siano più belle e più importanti. Scarantino. Io credo di poter dire finalmente che questa Direzione Distrettuale Antimafia ha onorato i suoi impegni. Due anni fa, tra le macerie ancora fumanti e taluni focolai di incendio che stentavano a spegnersi, io e i miei collaboratori dicemmo “ce la metteremo tutta per arrivare in fondo a questa vicenda”, pur sapendo che avevamo di fronte un’impresa titanica, pur sapendo che i precedenti non deponevano per un segno positivo di questo nostro proponimento. Cominciamo da un numero di telaio malamente leggibile su un pezzo di motore di macchina reperito in mezzo a mille altri tra le macerie di via D’Amelio.
    È cominciata da là le indagini sulla strage di via D’Amelio. Mi ricordo che allora la DDA era composta dal dottor Polina, che oggi è Roma, dal dottor Giordano, Petralia e Vaccara, che oggi è (…). E ci mettemmo di buzzo buono a lavorare, con l’aiuto di tutti i pezzi dello Stato.
    Fu costituito il famoso gruppo stragi, dalla polizia di stato, quaranta tra ufficiali di pg e agenti, sotto la guida del dottor La Barbera, che cominciarono a lavorare in maniera seria, impegnata e indefessa con sommo spirito di sacrificio e altissima competenza. Ed è a loro che per primi io pongo il mio ringraziamento.
    Oggi non saremmo qua a dirci queste cose se non ci fosse stato il gruppo stragi della polizia di Stato.
    Le indagini su via D’Amelio sono firmate da loro, questo è giusto che si sappia. 
    E partimmo da allora, rivoluzionando un ufficio che fino a quel momento era stato dimensionato a ben altra attività giudiziaria, rivoluzionando l’organico di magistrati e funzionari, grazie all’aiuto delle competenti direzioni del ministero, uno dei pezzi dei quali oggi ho il piacere di avere qui accanto, Liliana Ferraro, vecchia amica sempre accanto a noi nei momenti di bisogno. E cominció la nostra avventura.
    Si arrivó al furto della centoventisei e si arrivó a Scarantino.
    Vi ricordate cosa successe quando chiedemmo la misura cautelare nei confronti di Scarantino? Manifestazioni popolari in sua difesa, tutta una serie di interrogativi, ma chissà se è vero, chissà se questi giudici di Caltanissetta hanno fatto bene il loro lavoro, se hanno preso un abbaglio, e via di lì. Noi stringemmo i denti e continuammo. E arrivammo al telefonista. Indi arrivammo al carrozziere, indi arrivammo al primo livello della mafia, Profeta, braccio destro di Pietro Aglieri e Carlo Greco. Ne ottenemmo il rinvio a giudizio.
    Ma avevamo altre cose in corso.
    Ed ecco che finalmente viene la luce. Viene la luce dopo le indagini, e qui ancora una volta desidero sottolineare che abbiamo seguito il metodo Falcone, indagini sul campo.
    I collaboratori di giustizia ci sono, per dare colore ad un quadro che è già stato delineato nelle sue connotazioni essenziali. E finalmente abbiamo saputo  di avere avuto ragione.
    Abbiamo una piena confessione con quindici chiamate in correità e siamo solo agli inizi.
    Abbiamo modo di affermare sul campo e con i fatti che anche questa strage fu ordinata da Totò Riina, il quale ebbe una riunione, con taluni pezzi della cupola, esattamente i capi dei mandamenti interessati sotto un profilo esecuzionale, vale a dire i mandamenti della Guadagna, Pietro Aglieri e Carlo Greco, e del Brancaccio, uno dei fratelli Graviano in rappresentanza degli altri. Si tenne questa riunione e si stabilì che Paolo Borsellino doveva morire perché avrebbe fatto più danno di Falcone e si passò alla fase operativa.
    Fase operativa che si è concretizzata nel reperimento della centoventisei famosa, nell’occultamento della stessa nell’officina di Orofino, nel caricamento della stessa, nel trasporto della stessa presso la casa di via D’Amelio e infine nel botto finale.
    Abbiamo acclarato come elemento di riscontro anche la piena colpevolezza di Pietro Scotto, il telefonista.  
    Abbiamo la riprova che avevamo visto giusto.
    Siamo arrivati a sedici. Possiamo dire oramai con definitiva sicurezza, come abbiamo sempre detto, teorizzato ed in gran parte quasi dimostrato, che via D’Amelio è opera di cosa nostra.
    Abbiamo scoperto i mandanti e gli esecutori.
    Non ci fermiamo, andiamo avanti. Ma cerchiamo, ove vi siano, anche il resto dei mandanti, dentro e fuori cosa nostra. E cerchiamo, ove vi siano, anche il resto degli esecutori.
    Un’ultima notazione, perché è importante che si faccia. Noi abbiamo avuto la ventura, non perché siamo bravi ma solo perché le nostre indagini ci hanno portati ad incontrare certi fatti, di affermare talune cose che a prima vista sembravano un poco strane, non vi parlo della commissione interprovinciale, ne parleremo in altra occasione, vi parlo invece del famoso discorso degli uomini d’onore riservati.
    Riina da un certo periodo in poi, affilia uomini d’onore che non presenta a nessuno. Abbiamo la riprova della esattezza di questa strategia del Riina. Scarantino è uno degli uomini d’onore riservati.).
  • ILDA BOCCASSINI Volevo puntualizzare alcune osservazioni che mi sembrano importantissime in una giornata come questa. Ribadisco il concetto espresso dal capo di questo ufficio, a cui va tutto il mio riconoscimento per il lavoro svolto a Caltanissetta.
    Cioè sono state premiate ancora una volta le indagini investigative pure.
    Ci siamo mossi con una logica di aggressione sul territorio e questo è stato premia le nel momento in cui una delle persone che era responsabile di questo reato ha accettato di collaborare con lo Stato.
    A questo punto va detto che il lavoro di questa procura è stato possibile perché tutti i pezzi dello Stato si sono contattati. E a questo punto deve andare  
    Il mio personale ringraziamento, ma ritengo a nome di tutta la procura, alla dottoressa Liliana Ferraro che non ha mai abbandonato né Caltanissetta né altre procure.
    Senza l’aiuto del ministero di Grazia e giustizia, nella persona della dottoressa Ferraro, non sarebbe stato possibile ottenere oggi questi risultati .
    Ringrazio il collega Di Maggio, la cui esperienza, la professionalità e il coraggio dimostrato da quando ha assunto l’ingrato compito di essere vicedirettore del DAP. Senza l’aiuto di Di Maggio, senza la collaborazione del direttore di Pianosa, di tutti gli agenti a cui va il nostro ringraziamento totale, non sarebbe stato possibile gestire per la prima volta con Scarantino nel carcere di Pianosa e non portato subito in una struttura extracarceraria, gli eccellenti risultati che noi stiamo ottenendo.
    Il coraggio, ripeto, di persone come Liliana Ferraro, Francesco Di Maggio, persone che forse… Liliana già non è più direttore degli affari penali, mi auguro che Francesco Di Maggio rimanga vicedirettore delle carceri, non lo so se questo succederà, e per questo in questa giornata mi sento, come cittadino e come magistrato, di dire grazie a queste persone che hanno contribuito a questo eccellente risultato. E mi chiedo perché queste persone ci hanno lasciato o un’altra forse sta per lasciarci.
    Voglio fare un’altra osservazione. I collaboratori di giustizia sono una realtà essenziale per il paese. Lo ha dimostrato ancora una volta l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino.
    Ma è arrivata, lo ripeto, questo concetto va ripetuto fino alla noia, perché vi erano già delle indagini che hanno consentito di valutare appieno quello che Scarantino Vincenzo ci diceva. Ma attenzione, Scarantino Vincenzo è stato per ventuno mesi sottoposto al regime del 41 bis. In un carcere speciale come quello di Pianosa e non ha avuto la possibilità, come è giusto che sia, di avere contatti con altri detenuti esponenti di cosa nostra e gli è stato consentito, così come la legge prevedeva, di avere colloqui solo con i propri familiari. Quindi il 41 bis è stata ancora un volta una scelta vincente.
    E lo dimostriamo con i fatti non con le parole.  Un’altra osservazione. Siamo appena agli inizi, è vero che abbiamo i dibattimenti in corso e questo sarà un momento molto importante.
    Però dobbiamo capire perché dal maggio 92 a tutto il 93 è stata portata in essere  da cosa nostra una vera e propria operazione di guerra contro lo Stato.
    Io la settimana scorsa ancora una volta come cittadina e poi come magistrato ho appreso con gratitudine dai colleghi di Roma che erano usciti con l’appartenenza dell’omicidio di via Fauro, del tentato attentato a via Fauro, e gli altri attentati, con cosa nostra. E allora questo qua è l’aspetto più importante.
    Che per la prima volta si è potuto di dimostrare che cosa nostra ha colpito fuori la Sicilia, e con Costanzo un obiettivo diverso. Con le altre stragi che cosa nostra per la prima volta  colpisce un obiettivo apparentemente insignificante. E allora bisogna chiedersi perché e questo impone a tutti doverosamente di andare avanti.  
    Un’ultima osservazione e mi riporto alle parole del procuratore Tinebra. La notizia  che è uscita è stato un atto di irresponsabilità da parte di chi l’ha pubblicata ma ancor di più, ritengo, e parlo a titolo personale, di chi ha divulgato la notizia, perché significa che c’è qualcuno che vuole remare contro le istituzioni e contro i l lavoro che i magistrati fanno.
    Io mi auguro che si riesca a stanare la talpa e chi ha consentito questo, mettendo a repentaglio la vita del collaboratore di giustizia e dei suoi familiari, degli investigatori e di tutti i ragazzi che sono giorno e notte in mezzo ad una strada e tutte le indagini.
    Mi chiedo perché ancora oggi vengono pubblicate false notizie di due falsi teoremi che vedono ancora una volta in contrapposizione, che non è, le dichiarazioni di altro collaboratore di giustizia, Salvatore Cancemi, e oggi Scarantino.
    Io mi chiedo e chiedo al senso di responsabilità di quei giornalisti che dovrebbero conoscere la storia di cosa nostra, quanto possa essere pericoloso questa disinformazione periodicamente, costantemente, di voler creare tanta confusione, da ritenere, al di là di quello che è stato scritto proprio dalla procura nissena, di ritenere che nella strage di via D’Amelio e la strage per l’uccisione del dottor Giovanni Falcone ci sia stata una contrapposizione all’interno di cosa nostra. È gravissimo che ancora i giornali pubblichino questo tipo di notizie. Ed io vorrei capire perché. È soltanto una stampa libera, una stampa responsabile, una stampa professionalmente competente deve impedire che ciò avvenga. Perché se non avvertite questi pericoli, allora veramente la magistratura verrà lasciata sempre più sola. Grazie.
  • GIOVANNI TINEBRA:  A proposto di quello che ha detto la collega e che condivido, forse è il caso di spendere trenta secondi, non di più, sul ventilato contrasto all’interno di cosa nostra che avrebbe fatto sì che via D’Amelio sarebbe una risposta, come affermazione di potenza, a coloro i quali la loro potenza avevano affermato con l’eccidio di Capaci.
    Non è affatto vero. Si tratta sempre di un’unica mente criminale, intesa come summit di cosa nostra, che ha ordito la prima e la seconda strage.
    Ovviamente, secondo le regole di cosa nostra, che si ancorano solidamente al territorio, all’eccidio di via D’Amelio hanno partecipato forze dei mandamenti di Brancaccio e della Guadagna che non erano state coinvolte invece nell’eccidio di Capaci. Quindi… tutt’altro segno che quello di dissidi interni e discordie. Al momento della strage di via D’Amelio i corleonesi avevano saldamente il potere e solo loro.  
  • DOMANDA GIORNALISTA (donna, non meglio specificata): (…) se tra i provvedimenti che sono stati emessi ce ne è anche uno nei confronti di Vitale o se il suo ruolo è stato confermato
  • GIOVANNI TINEBRA: Ecco, vede, questo qua è una della cose nei confronti delle quali noi lamentiamo una mancanza di collaborazione. Lei parla di persona che potrebbe anche essere indiziata e nulla più. Non c’è provvedimento nei confronti di Vitale, il quale, sicuramente sapendo dai giornali che è indagato, si guarderà bene dal farsi cogliere in castagna.
  • DOMANDA STESSA GIORNALISTA:   E l’ipotesi investigativa che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di Bruno Contrada
  • GIOVANNI TINEBRA:  Lei parla di fatti vecchi di due anni. Non l’abbiamo coltivata. (Voce del collega accanto che, a bassa voce, dice “coperto strettamente dal segreto”.) Lei mi chiede di cose coperte da segreto. Le posso dire che non è stata nessuna attivazione procedimentale. Le conseguenze, ove ve ne siano, traetele voi.
  • DOMANDA GIORNALISTA ATTILIO BOLZONI: (…) diceva la dottoressa Boccassini che probabilmente c’è qualcuno che rema contro. Non è la prima volta che qualcuno rema contro.
  • TINEBRA: Infatti.
  • BOLZONI: Non è la prima volta che alla vigilia di un’operazione (…) C’è sempre la fuga di notizie, (…) due volta nel caso Falcone, un volta nel caso Borsellino e Pietro Scotto e ultima, l’altro ieri (…)  perché pare che qualcuno sia pure scappato.
  • TINEBRA: No no no…
  • BOLZONI:  L’avete presa in tempo. 
  • TINEBRA:  Appunto. Le devo dire con profonda soddisfazione, le devo dire che se si è trattato di un tentativo di rovinare le nostre indagini questo tentativo è andato…
  • BOLZONI:  Avete aperto un’inchiesta interna?
  • TINEBRA:  No, apriamo un’inchiesta esterna.
  • BOLZONI:  Esterna. Ma le notizie vengono da dentro.
  • TINEBRA:  Beh, intanto provengono da determinati posti. Accerteremo chi… Speriamo, almeno, chi le ha fatte uscire.
  • BOLZONI:  Peró c’è (…) prima di capire (…) esterno.
  • TINEBRA:  Ma vede, dottore Bolzoni, il discorso è che il nostro interno è costituito da un gruppo così unito, così coeso, che è assolutamente inimmaginabile che la fuga di notizie venga dal nostro interno. Non solo, questa potrebbe essere una vana enunciazione di principio senza riscontro, ma noi abbiamo la prova provata del fatto che non venga dal nostro interno, perché puntualmente appena avviene un minimo di divulgazione in certe direzioni, automaticamente la notizie esce,  mentre prima no. Diciamo che, siccome non siamo nati ieri, ormai siamo attrezzati. E ormai non ci cadiamo più.

Inquietante il ricordo che Agnese Borsellino, la vedova di Paolo, ha raccontato al settimanale “Left” alla fine del 2011: “Mi chiamò l’ex presidente Cossiga un mese prima di morire. In quella telefonata mi disse: ‘La storia di via D’Amelio è da colpo di stato’. Poi chiuse il telefono senza dirmi nient’altro”.


13.7.2021 – MATTEO MESSINA DENARO IN VIA D’AMELIO. LO DICE TOTO’ RIINA  Analizzando le intercettazioni abbiamo scoperto che Riina indica Messina Denaro tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Parla anche di un altro uomo che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis…

di Damiano Aliprandi IL DUBBIO

Matteo Messina Denaro è stato condannato in primo grado dalla Corte di assise di Caltanissetta per essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Dalle intercettazioni  abbiamo scoperto che Totò Riina lo indica chiaramente Ma Il Dubbio, analizzando attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era in 41 bis, ha scoperto che il capo dei capi ha chiaramente indicato il superlatitante Messina Denaro, “quello della luce”, così lo definisce, tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio nella quale perse la vita  Era lì. Tanto che Riina gli ha dato ordine di tenersi preparato. Le intercettazioni di Totò Riina offrono nuovi spunti. Tra le sue parole c’è la chiave di volta del movente delle stragi (che non è la “trattativa” visto che la smentisce diverse volte), omicidi eccellenti commessi, ma anche di come hanno operato per compiere gli indicibili attentati.

Totò Riina parla di un altro uomo proveniente dall’Albania La strage di Via D’Amelio è stata descritta da Riina a più riprese durante i suoi colloqui con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Parla anche di un altro uomo, tra gli esecutori, che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis. Per capire il riferimento alla partecipazione esecutiva di Matteo Messina Denaro alla strage di Via D’Amelio, bisogna contestualizzare.

Matteo Messina Denaro conosce bene i meccanismi decisionali di Cosa nostra Il superlatitante appartiene a una generazione più giovane rispetto a boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano, secondo alcuni non avrebbe più alcun ruolo all’interno di Cosa Nostra, ma è certamente l’ultimo grande latitante della mafia siciliana. Non solo.

Conosce bene i meccanismi decisionali dell’organizzazione visto che ha partecipato alle riunioni, ha contribuito al famoso tavolino a tre gambe (mafia, imprenditori e politici) per la spartizione degli appalti pubblici e custodisce, quindi, i moventi che dettero impulso alla stagione stragista.

Il superlatitante figura centrale nel processo per gli attentati stragisti  tra il ’93 e il ’94 La Procura di Caltanissetta, in particolar modo grazie al magistrato Gabriele Paci, ha avuto il merito di attenzionare la figura di Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92.

Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage e devastazione.

Designato dal capo dei capi a fare il “reggente” della provincia di Trapani Grazie ad un’attenta rilettura degli atti giudiziari, si è potuto ricostruire il fatto che in rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92.

Messina Denaro per Riina era “quello della luce”, perché si interessava all’eolico «Si, si, ci combattono da diversi anni con questo Gricoli (ex braccio destro economico di Messina Denaro, ndr) perché sempre … hanno detto … prestanome di … piritumpiti … piritampiti…, pali, pali e pali … pali e pali … sempre a pali vanno …, sempre pali di luce».

È Totò Riina che parla. Lo fa riferendosi a Matteo Messina Denaro, sul fatto che si sia dato allo sfruttamento della green economy. Ovvero all’energia eolica. Riina ce l’ha particolarmente con Messina Denaro per il fatto che si sia dedicato all’eolico. “I pali della luce”, li chiama. E fa una provocazione: «Io …visto che questo è cosi intelligente, così stravagante … solo … com’è che non me lo ha passato a me questo discorso di fare pali della luce? Perché io ho terreni là … ho dei terreni che sono i migliori che ci sono là … non è che gli sembra che sono terreni che non valgono niente. Lui si faceva vendere il posto del terreno, e lui sicuramente non aveva niente altro. Perché non mi faceva, non mi diceva di fare questi pali, di questi pali della corrente?».

Nelle intercettazioni Riina non nasconde la sua delusione per il suo ex pupillo Riina, a più riprese, ritorna su Matteo Messina Denaro. Sembrerebbe proprio che non gli sia andata giù che il suo pupillo (dalle intercettazioni che non riportiamo per motivi di spazio, si evince che aveva molto puntato su di lui per rispetto del padre) abbia deciso di dedicarsi a questo business. «Stravagante quello e quello … quello dei pali della luce più stravagante ancora di lui. Però sono tutti stravaganti», qui Totò Riina indica Messina Denaro inequivocabilmente come “quello dei pali della luce”. «Ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse», dice sempre Riina in 41 bis. «No, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque. Fa luce. Fa pali per prendere soldi, per prendere soldi». Totò Riina è chiaramente infervorato con Messina Denaro, perché «si è messo a fare la luce!». Davvero una delusione per lui, che cercava invece un prosecutore della sua strategia stragista.

Il capo dei capi racconta di come ha organizzato la strage di Via D’Amelio Ma ora veniamo al dunque. Come detto, Totò Riina a più riprese parla anche della strage di Via D’Amelio. Racconta di come è riuscito ad organizzare l’attentato in tre o quattro giorni, perché qualcuno gli disse di fare presto. Non in due giorni, ma tre o quattro giorni. Importante il numero, perché sarebbe interessante capire cosa ha detto o fatto Borsellino qualche giorno prima, tanto da mettere in allarme quel “qualcuno” che poi ha avvisato Riina di fare presto. Forse Borsellino qualche giorno prima si è esposto in maniera plateale?

Riina ribadisce che “quello della luce” era in Via D’Amelio Giungiamo ora al punto cruciale. Riina, ai colloqui del 6 agosto 2013, ad un certo punto dice: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Ora sappiamo, che “quello della luce” è Matteo Messina Denaro. Difficile dare altra interpretazione. Totò Riina ha detto a “quello della luce” che doveva prepararsi, sistemare, farsi ritrovare pronti e se serve, di mettere altro esplosivo in più. Si riferisce alla Fiat 126 imbottita con 100 kg di tritolo che i mafiosi hanno parcheggiato sotto l’abitazione della madre. «Però io ci combattevo, tre giorni, quattro giorni la macchina messa là, andavo a cambiare il posteggio», dice Riina.«Quando io dico che uno deve lavorare! Deve lavorare perché deve capire che se ti serve un posto vicino alla portineria, lo devi lavorare, lo devi cercare, ci devi “combattere” (perdere tempo ndr) te lo prendi, te lo prendi e te lo conservi, metti la macchina», prosegue Riina.

E spunta “quello dall’Albania” esperto di esplosivo «Esci con una macchina e ci metti quella. E poi vai a trovarlo, vai a cercarlo, …. come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo», dice ancora Riina. A chi si riferisce? Chi è quello che venne dall’Albania? Potrebbe essere l’uomo che Spatuzza non riconobbe al garage di via Villasevaglios dove è stata imbottita la macchina? Riina aggiunge: «Ai domiciliari a Palermo, ci vuole fortuna». Chi era? C’è un proseguo, ma è omissato. Forse in quell’omissis si potrebbe trovare una risposta.

Un ricordo del giudice del primo maxiprocesso Alfonso Giordano Questa inchiesta la dedichiamo al giudice Alfonso Giordano scomparso oggi all’età di 92 anni. È stato il presidente della Corte del  primo maxiprocesso. Per la prima volta è stata processata e condannata  la mafia. Un uomo coraggiosissimo, accettò l’incarico per gestire il dibattimento, dopo che ben 10 colleghi l’avevano rifiutato, e per bene. Nonostante ciò è rimasto umile fino all’ultimo.

Le autopsie “raccontano” l’atrocità del massacro   Meno di due mesi dopo la strage di Capaci, si verificava un’altra azione terroristica per diffondere il terrore tra la popolazione e riaffermare nel modo più violento il potere di “Cosa Nostra”, con l’eliminazione del magistrato che era divenuto un grande punto di riferimento ideale per tutto il Paese

«A poche ore dal fatto, il 20.7.1992 alle 00.25, il Pubblico Ministero di Caltanissetta in persona dei dott. Giovanni TINEBRA, Francesco Paolo GIORDANO e Francesco POLINO, ai sensi dell’art. 360 C.P.P., aveva affidato incarico di consulenza tecnica autoptica sui cadaveri delle vittime della strage a un collegio di esperti medici legali, costituito dal dott. Paolo PROCACCIANTE (rectius Procaccianti: n.d.e.), Direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Palermo, e dai dott. Livio MILONE e Antonina ARGO, assistenti nel predetto Istituto.

L’ispezione esterna dei cadaveri e l’esame autoptico dei medesimi, per la determinazione delle cause della morte, sono stati effettuati nell’immediatezza del conferimento dell’incarico, come appare dai relativi verbali e relazioni autoptiche.

Il cadavere di Paolo BORSELLINO, trovato con indosso una cintura in cuoio marrone con frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e frammento di stoffa di cotone verde, residuo di maglietta tipo “polo”, si presentava depezzato, risultando assenti l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori.

All’esame esterno si rilevava vasta area di ustione su buona parte dell’addome e del torace, nonché al viso, con colorito nerastro sulle regioni frontali e parietali.

Al capo si riscontrava soluzione di continuo lineare interessante il cuoio capelluto dalla regione frontale al padiglione auricolare destro, con distacco pressoché completo del padiglione stesso ed esposizione del condotto uditivo e della sottostante teca cranica; ferita all’arcata sopraciliare destra, frattura alle ossa nasali, ampia ferita lacero-contusa al cuoio capelluto.

Inoltre, si riscontrava asimmetria dell’emitorace destro con spianamento della regione mammaria, e fratture costali multiple; deformazione del profilo dell’addome; squarcio perineale; numerose soluzioni di continuo alla superficie cutanea del dorso.

L’esame con il “metal-detector” rilevava in varie sedi la presenza di numerosi frammenti metallici di varie dimensioni, ritenuti superficialmente sino ai piani muscolari, in particolare rinvenuti al capo in regione temporo-occipitale e al dorso in regione lombare.

Unitamente al cadavere si rinvenivano altri residui umani, verosimilmente appartenuti al medesimo, elencati e descritti nella relazione autoptica agli atti.

I medici legali concludevano che il decesso di Paolo BORSELLINO era stato determinato “da imponenti lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali da esplosione”.


GLI ACCERTAMENTI SUI CORPI DEGLI AGENTI Il cadavere di Walter CUSINA veniva trovato con indosso un paio di pantaloni tipo “jeans” di colore verde, camicia in cotone a righe, slip in cotone bianco.

L’ispezione esterna evidenziava aree di affumicamento cutaneo alla nuca e alla regione cervicale, nonché deformazione del massiccio facciale, frattura della mandibola e delle ossa nasali; ampio squarcio cutaneo alla regione anteriore del collo, da un angolo all’altro della mandibola, “… da cui protrude grosso frammento metallico, che viene repertato; detto frammento appare penetrare in profondità pervenendo sino alla cavità orale, con ampio sfacelo delle parti molli e recisione del fascio vascolo-nervoso destro del collo”.

Inoltre, si rilevava: uno squarcio in regione sternale e soluzioni di continuo al tronco e alle regioni anteriori degli arti inferiori; area di sfacelo delle parti molli alla coscia destra, con perdita di sostanza ed esposizione dei piani ossei; deformazione

della coscia sinistra con aumento di volume; analoga area di sfacelo delle parti molli a carico della gamba destra.

I consulenti concludevano che il decesso di Walter CUSINA era stato determinato da “lesione degli organi vascolo-nervosi del collo e da politraumatismo da esplosione”.

L’ispezione esterna del cadavere di Emanuela LOI evidenziava la copertura della superficie cutanea da induito nero, vaste aree di disepitelizzazione e carbonizzazione delle estremità; sulla superficie anteriore del tronco si riscontravano varie soluzioni di continuo interessanti il torace e il collo.

Il cadavere appariva depezzato, perché mancante dell’avambraccio destro, degli arti inferiori all’altezza del terzo medio superiore femorale.

Alla regione sottomammaria si trovava ampia breccia interessante i piani ossei, con esposizione dei visceri della cavità toracica; inoltre si rilevavano: un ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale; lesione da scoppio di tutto l’ovoide cranico, ampia ferita a spacco del cuoio capelluto in regione occipitale con sottostante scoppio della teca cranica; zona di distruzione delle parti molli ed ossee alla regione claveare e latero-cervicale sinistra; fratture costali multiple e squasso di tutti i visceri toracici; eviscerazione completa della matassa intestinale.

Si repertavano poi alcuni resti ritenuti appartenenti al cadavere, elencati e descritti nella relazione dei consulenti.

Gli stessi concludevano che la morte di Emanuela LOI era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico, depezzamento ed eviscerazione toraco-addominale da esplosione”.

Il cadavere di Agostino CATALANO veniva trovato con indosso brandelli di camicia e dei pantaloni, con la relativa cintola.

Il cadavere, la cui intera superficie cutanea appariva ricoperta da induito nero, risultava depezzato, perché mancante dell’arto superiore sinistro all’altezza del terzo superiore omerale e degli arti inferiori, all’altezza del terzo medio superiore femorale, con ampio sfacelo delle parti molli residue del piano perineale ed esposizione del piano osseo sacrale.

Si rilevava un’estesa carbonizzazione alla cute del viso, alla faccia anteriore del torace e all’addome; la cute del dorso e dei glutei appariva interessata da numerose soluzioni di continuo.

Inoltre, si riscontrava un’ampia soluzione di continuo alla cute della regione occipitale, con frattura della teca cranica; distacco della base di impianto del padiglione auricolare destro; soluzione di continuo in regione frontale destra.

L’apertura della calotta cranica permetteva di rilevare, in corrispondenza delle lesioni sopra descritte, l’infossamento dei margini ossei con presenza di numerose schegge ossee infisse nella materia cerebrale e con fuoriuscita di materiale cerebrale; frammenti di materiale metallico si rinvenivano alla regione temporo-auricolare destra e alle parti molli residue dell’arto inferiore sinistro.

I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che la morte di Agostino CATALANO era stata determinata da “ustioni diffuse in soggetto con squasso cranio-encefalico e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Vincenzo LI MULI era stato trovato con indosso brandelli di stoffa appartenenti alla cintola, residuo di “slip” e frammenti di tessuto carbonizzato non identificabile.

L’ispezione esterna del cadavere permetteva di rilevare una copertura pressoché totale di induito nero e il depezzamento conseguente alla mancanza

dell’avambraccio e della mano sinistra, dell’arto inferiore sinistro e del terzo superiore della gamba destra.

Si rilevava la presenza di vaste aree di abbruciamento agli arti superiori, con carbonizzazione completa degli strati superficiali; inoltre si osservavano: otorragia destra; ampio squarcio in regione occipitale e cervico-occipitale con esposizione dei piani ossei sottostanti; soluzione di continuo in regione frontale, con esposizione della teca cranica, apparsa fratturata con avvallamento di grosso frammento osseo; vasta perdita di parti molli alla regione pubo-perineale, con sfacelo traumatico della regione pelvica.

I medici legali perciò stabilivano che la morte di Vincenzo LI MULI era stata determinata da “ustioni diffuse a tutta la superficie corporea, politraumi e depezzamento da esplosione”.

Il cadavere di Claudio TRAINA si presentava depezzato, mancando l’arto superiore sinistro, e interamente ricoperto da induito nero.

Si riscontrava lo sfacelo completo di tutto il distretto cervico-cefalico e dell’arto superiore destro, con componenti ossee pluriframmentate e vasta perdita di sostanza dell’avambraccio e della mano, ampio squarcio del cavo ascellare; inoltre si osservavano numerose soluzioni di continuo all’addome e al dorso, lo sfacelo dell’intero distretto pelvico, con eviscerazione della matassa intestinale; squasso degli arti inferiori e numerose soluzioni di continuo in tutta la relativa superficie cutanea; frattura della clavicola destra e di quattro costole; squarcio del sacco pericardico; lesione da scoppio della parete laterale del lobo inferiore del polmone sinistro; lesioni da scoppio a carico della faccia anteriore del fegato e della milza.

I consulenti del Pubblico Ministero concludevano che il decesso di Claudio TRAINA

era stato provocato da “squasso cranio-encefalico e dal politraumatismo toraco-addominale con maciullamento degli arti, da esplosione”».

L’atrocità del delitto era, dunque, tale da evidenziare una chiara intenzione di diffondere il terrore tra la popolazione e di riaffermare nel modo più violento il potere di “Cosa Nostra”, compiendo una vera e propria azione di guerra contro lo Stato italiano attraverso l’eliminazione di un Magistrato che era divenuto un grande punto di riferimento ideale per tutto il Paese e degli uomini delle Forze dell’Ordine impegnati nella sua tutela.

Questo progetto criminale di straordinaria gravità veniva portato a compimento meno di due mesi dopo la strage di Capaci, determinando così un effetto di enorme portata sull’opinione pubblica, sulla società civile e sulle istituzioni, a livello nazionale e internazionale. E’ quindi naturale domandarsi quale fosse l’obiettivo perseguito da “Cosa Nostra” con la realizzazione di due stragi a brevissima distanza di tempo. Una problematica, questa, che va ricollegata all’analisi della fase deliberativa del delitto, nonché degli eventi che la precedettero e la seguirono.


TUTTI I PIANI DELLA CUPOLA PER ELIMINARE UN MAGISTRATO CHE FACEVA PAURA   Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, Cosa Nostra ideò alcuni progetti di omicidio nei suoi confronti, con tutta una serie di attività preparatorie  Nel periodo in cui Paolo Borsellino svolgeva le funzioni di Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Marsala, “Cosa Nostra” portò avanti una pluralità di progetti di omicidio nei suoi confronti, con il compimento di una serie di attività preparatorie.  Uno di questi piani criminosi avrebbe dovuto realizzarsi presso la residenza estiva del Magistrato, nella zona di Marina Longa.  Tale episodio è stato ricostruito nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta nel processo n. 29/97 R.G.C.Ass. (c.d. “Borsellino ter”), dove si è evidenziato che il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca ha riferito di una concreta attività posta in essere dall’organizzazione mafiosa per seguire i movimenti del magistrato, all’epoca Procuratore della Repubblica a Marsala, e studiarne le abitudini di vita durante la sua permanenza estiva a Marina Longa, in vista dell’esecuzione di un attentato ai suoi danni. A tal fine Salvatore Riina aveva dato incarico a Baldassare Di Maggio – in quel periodo sostituto per il mandamento di San Giuseppe Jato di Brusca Bernardo, detenuto dal 25 novembre 1985 al 18 marzo 1988 e successivamente agli arresti domiciliari sino al 22 ottobre 1991 – di recarsi a Marina Longa, servendosi come punto di appoggio per l’attività di osservazione della vicina abitazione di Angelo Siino. Tale attività era stata poi sospesa per ragioni che il Brusca non ha precisato. Questo racconto ha trovato preciso riscontro nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino, il quale ha riferito che in “Cosa Nostra” vi erano stati commenti assai negativi perché Paolo Borsellino aveva pubblicamente denunciato un calo di tensione nell’attività di contrasto alla mafia e che Pino Lipari aveva espresso la convinzione che il magistrato, che aveva un temperamento più irruente, avesse dato voce al pensiero dell’amico Giovanni Falcone, più cauto di lui, tanto che in “Cosa Nostra” venivano indicati rispettivamente come “il braccio e la mente”. Subito dopo, e cioè intorno al luglio del 1987 o del 1988, egli aveva visto a Marina Longa il Di Maggio, che era venuto a trovarlo con una scusa che egli non faticò a riconoscere come pretestuosa e che successivamente tornò in quel luogo, sicché egli comprese che l’interesse del Di Maggio era rivolto al magistrato. Il Siino aveva successivamente appreso da Francesco Messina, inteso “Mastro Ciccio”, che il progetto di uccidere Borsellino aveva incontrato l’opposizione dei marsalesi di “Cosa Nostra”, i quali avevano lasciato trapelare quel progetto all’esterno, sicché erano state predisposte delle rigorose misure di sicurezza, come egli stesso aveva potuto constatare a Marina Longa. A loro volta le indicazioni del Siino sull’opposizione dei marsalesi all’uccisione del Magistrato ha trovato riscontro nelle dichiarazioni di Antonio Patti, appartenente proprio alla “famiglia” mafiosa di Marsala. Quest’ultimo collaborante ha, infatti, riferito che dopo il duplice omicidio di D’Amico Vincenzo, rappresentante della “famiglia” di Marsala, e di Craparotta Francesco, consumato l’11 gennaio 1992, suo cognato Titone Antonino, persona assai vicina al D’Amico, gli aveva confidato che la reale motivazione della soppressione dei due andava ricercata nell’opposizione che essi avevano manifestato al progetto di uccidere Borsellino quando questi era Procuratore della Repubblica a Marsala.

UN PIANO PER VIA CILEA Un ulteriore progetto omicidiario era destinato a trovare realizzazione nei pressi dell’abitazione del Dott. Borsellino, sita a Palermo in Via Cilea. Sul punto, nella sentenza n. 23/1999 emessa il 9 dicembre 1999 dalla Corte di Assise di Caltanissetta si rileva come dalle dichiarazioni sostanzialmente conformi di Anselmo Francesco Paolo, Cancemi Salvatore, Galliano Antonino, Ganci Calogero e La Marca Francesco, appartenenti ai “mandamenti” della Noce e di Porta Nuova, emerga che nel corso del 1988 ebbe a concretizzarsi un altro progetto di attentato in danno di Paolo Borsellino da attuarsi questa volta a Palermo, nei pressi della sua abitazione di via Cilea, approfittando sia del fatto che si erano attenuate le misure di protezione nei suoi confronti, essendo stato revocato il presidio di vigilanza fissa sotto la sua abitazione, sia dell’abitudine del magistrato di recarsi la domenica da solo presso la vicina edicola per l’acquisto del giornale. In un’occasione gli attentatori ebbero a mancare solo per pochi secondi la loro vittima, dopo essere partiti dal vicino negozio di mobili di Sciaratta Franco, sito in Viale delle Alpi, perché erano giunti sul posto a bordo di un motociclo poco dopo che Paolo Borsellino aveva richiuso il portone di ingresso del palazzo. L’attentato doveva essere eseguito con una pistola cal. 7,65, in modo da non attirare l’attenzione su “Cosa Nostra” e da far pensare piuttosto all’opera di un isolato delinquente, tenuto conto della pendenza in grado di appello del maxiprocesso di Palermo, di cui si confidava in un esito favorevole per il sodalizio mafioso. Tale progetto era stato poi abbandonato dopo gli appostamenti protrattisi per circa quattro domeniche consecutive, verosimilmente per non pregiudicare l’esito di quel giudizio, non essendo stata possibile una rapida esecuzione. Questo secondo episodio ha formato oggetto delle deposizioni rese, nel presente procedimento, dai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo, Francesco La Marca (escussi all’udienza del 25 settembre 2014) e Antonino Galliano (esaminato all’udienza del 7 ottobre 2014). In particolare, l’Anzelmo (già sotto-capo della “famiglia” della Noce, il cui rappresentante era Raffaele Ganci) ha dichiarato che, intorno al 1987-88, mentre egli si trovava in stato di latitanza e il Dott. Borsellino era Procuratore della Repubblica di Marsala, approfittando di una riduzione delle misure di protezione attorno all’abitazione di quest’ultimo, le “famiglie” della Noce e di Porta Nuova ricevettero il mandato di uccidere il Magistrato. L’esecuzione del progetto criminoso era affidata allo stesso Anzelmo, a Francesco La Marca, a Raffaele e Domenico Ganci, a Salvatore Cancemi. Come base operativa venne utilizzato un negozio di mobili sito in Viale delle Alpi, di proprietà di Franco Sciarratta, dove i killer – ruolo, questo, assegnato all’Anzelmo e al La Marca – erano appostati, in attesa della “battuta” che avrebbe dovuto essere data da Raffaele o Domenico Ganci, o Salvatore Cancemi, o Antonino Galliano. L’agguato avrebbe dovuto scattare di domenica, quando il Dott. Borsellino si recava presso un pollaio per acquistare delle uova, oppure presso un’edicola per prendere il giornale. Si sarebbe dovuto trattare di un omicidio da commettere recandosi immediatamente sul luogo con un motoveicolo ed utilizzando le pistole per uccidere il Magistrato. Tuttavia, dopo un paio di appostamenti, Raffaele Ganci comunicò che bisognava sospendere l’esecuzione del delitto, e il progetto quindi si bloccò.

 

 

PAOLO BORSELLINO / Attentato – Indagini – Processi

 

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