26 APRILE 2022 – “IL PIU’ GRANDE DEPISTAGGIO D’ITALIA NASCE A PIANOSA” – Chiesta la condanna degli imputati

PROCESSO DEPISTAGGIO

AUDIO Udienze – 

REQUISITORIA PUBBLICO MINISTERO


Alza la voce e scandisce bene le parole, il pm Stefano Luciani, quando dice al Tribunale che “il più grande depistaggio della storia italiana nasce a Pianosa”. E’ qui che viene interrogato il falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue bugie e contraddizioni, ha fatto condannare degli innocenti per la strage di via D’Amelio che il 19 luglio del 1992 costò la vita al giudice Paolo Borsellino e a cinque agenti della scorta. Parole che già erano state utilizzate da un giudice, Antonio Balsamo, oggi Presidente del Tribunale di Palermo, quando scrisse le motivazioni del processo Borsellino ‘quater’. Lo definì “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. E oggi il pm, iniziando la requisitoria del processo che vede alla sbarra tre poliziotti accusati di calunnia aggravata in concorso, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, lo ribadisce.  

Secondo l’accusa, i tre poliziotti avrebbero indotto, “con minacce” l’ex pentito Scarantino a dire il falso e ad accusare persone estranee alla strage Borsellino. E il pm Luciani, all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, spiega, passo dopo passo, come si arriva al “depistaggio”. Partendo dall’arresto di Scarantino, che definisce un “collaboratore costruito a tavolino”, fino ad arrivare al suo interrogatorio a Pianosa del 24 giugno 1994. “Quindici giorni dopo l’arresto di Vincenzo Scarantino, avvenuto il 29 settembre 1992, atterra sul tavolo del procuratore di Caltanissetta Tinebra una nota del Sisde con a capo Bruno Contrada, veicolata attraverso la Squadra Mobile di Caltanissetta nella quale, incredibilmente, il Sisde anziché dire che Scarantino è un piccolo delinquente di borgata, lo definisce un boss mafioso”.  
Ecco, secondo la Procura di Caltanissetta, dove tutto ha inizio. “Da quel momento Vincenzo Scarantino subisce un pressing asfissiante. A Venezia, a Busto Arsizio, viene sottoposto a interrogatori costanti e ripetuti – ribadisce il pm- Viene sottoposto a plurimi procedimenti penali a condanne per traffico di droga, rinviato a giudizio per la strage. Vincenzo Scarantino arriva al 24 giugno 1994 che è un uomo esasperato”. Ma, nel corso della requisitoria, che proseguirà anche domani, e il 10 e l’11 maggio, il magistrato, che oggi presta servizio alla Procura di Roma ed è stato distaccato per concludere il processo sul depistaggio, ha anche accusato duramente alcuni poliziotti, ex appartenenti al Gruppo ‘Falcone e Borsellino’, di cui facevano parte anche i tre poliziotti imputati, che hanno deposto al processo.  

“I testi del pm, poliziotti ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, si sono trasformati in testi della difesa e lo hanno fatto in maniera grossolana”, dice. E ribadisce: “Sono certo che questo comportamento che per alcuni non ha fatto onore per la divisa che indossano, sia stato segnalato per chi di competenza”. Dice: “Gli ex appartenenti del Gruppo Falcone e Borsellino, sentiti in questo processo, diventano vaghi, sfuggenti, costellati da vari ‘non ricordo’ con alcuni momenti di lucidità in cui ricordano e poi non ricordano più”. E cita uno dei testi: “E’ venuto, ad esempio, un signore, Gaspare Giacalone, e cosa ci ha tenuto a dire? ‘Sono andato a Pratica di mare, non ricordo se c’erano anche magistrati e siamo andati a Pianosa, per fare l’interrogatorio di Scarantino e siamo tornati’. Sulla base di questo e di un dato documentale che è l’acquisizione dei piani di volo dell’elicottero che fa la spola Pianosa-Pratica di mare, ci vorrebbe dire che quel giorno La Barbera non aveva fatto il colloquio investigativo – dice il pm Luciani – Dal controesame del pm il teste mostra incertezze. Non è così certo come mostra di essere in sede di esame del pm e c’è un ulteriore dato: la volontà di Scarantino era evidentemente veicolata fino alla Procura di Caltanissetta e siccome non è documentato un modo alternativo rispetto al colloquio investigativo ne dobbiamo desumere che il colloquio investigativo c’è stato e che La Barbera la partecipa a Tinebra e che poi si organizza l’interrogatorio e la documentazione prodotta non prova né smentisce nulla”.  
Una lunga parte della requisitoria è stata dedicata alla figura di Vincenzo Scarantino. E a quanto raccontato sia dallo stesso falso pentito che dalla ex moglie, Rosalia Basile. “La moglie di Scarantino fece mettere a verbale che il marito le diceva: ‘Non mi lasciano in pace sono sempre qua’. Scarantino, come diceva la moglie, veniva malmenato, gli mettevano i vermi nella minestra, gli hanno instillato il dubbio di essere affetto da Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare”. Luciani ha quindi letto in aula le dichiarazioni rese da Rosalia Basile. “Mio marito mi diceva che gli avevano iniettato il siero dell’Aids, sapendo che era geloso, gli instillavano il dubbio che io avessi l’amante’ – dice il pm – Sono esattamente le stesse cose che ha ripetuto 21 anni dopo davanti a questo tribunale. E ancora la moglie riferiva: ‘Io so che questo Arnaldo La Barbera non lo lasciava in pace, capendo che era un soggetto fragile. Lui mi ha sempre detto che non c’entrava nulla con la strage ma che gli avevano promesso la libertà e denaro'”.  
Poi prosegue: “Scarantino aveva raccontato alla moglie che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera. Scarantino veniva minacciato di morte, gli veniva detto che gli facevano fare la fine di un ragazzo che era morto in carcere. Erano loro i poliziotti di La Barbera”. Dopo l’arresto, “subì un pressing asfissiante. Il 24 giugno 1994, quando disse di volere parlare della strage Scarantino era un uomo, disperato, sfiancato”. Sempre la moglie ha detto agli inquirenti: ”La prima volta che lo andai a trovare a Pianosa, mi disse che lo torturavano, fisicamente e psicologicamente. Arnaldo La Barbera e altri poliziotti. Gli dicevano che lo avrebbero impiccato e che avrebbe fatto la stessa fine di Gioè. Un giorno, gli dissero che forse aveva l’Aids”. “Tutte le dichiarazioni rese da Vincenzo Scarantino sono dichiarazioni che dal 1998 sono uguali a loro stesse. Nel marasma delle ritrattazioni ci sono alcune vicende che sono state raccontate sempre allo stesso modo”, spiega. Insomma, per Luciani “Vincenzo Scarantino è stato indotto ma ci ha messo anche del suo”.  
“Buona parte delle dichiarazioni che nel tempo fa Vincenzo Scarantino sono frutto di sue personali rivisitazioni di circostanze apprese dalla stampa o esperienza di vita vissuta, per come gli era stato detto di fare”, dice ancora il magistrato. “Scarantino è stato indotto a fare dichiarazioni ma che quel canovaccio non fosse tutto ascrivibile a induzioni e contenuto di dichiarazioni che gli sono state dette di fare, ma anche ascrivibile a iniziative di Vincenzo Scarantino, ed è quello sostenuto nel Borsellino quater che non ha assolto Scarantino ma lo ha dichiarato prescritto”. “Scarantino, quindi, è responsabile, e la responsabilità va data, in parti uguali o no non mi interessa, ma va data a entrambi. Il canovaccio fu riempito anche delle sue goffe dichiarazioni”, aggiunge il pm. 
Una requisitoria che arriva dopo settanta udienze e la testimonianza di oltre 110 persone. “Questo processo, anche in virtù dell’aggravante, ha anche l’obiettivo di comprendere quali siano le ragioni alla base delle condotte che questo processo ha cercato di sviscerare”, dice poi il magistrato. E poi aggiunge: “Mi scuso in anticipo con le parti civili di questo processo perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata – dice ancora Luciani – Non sto qui certamente a sottolineare, benché certamente parliamo di imputazioni precise nei confronti di soggetti ben determinati, le implicazioni ulteriori che ha questo processo. Certamente meritava una discussione diversa da parte del pubblico ministero”. Tra òe parti civili ci sono alcuni degli imputati che futno condannati ingiustamente per le parole di Scarantino ma anche i familiari di Paolo Borsellino. 
Luciani ha quindi ricordato quando nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza, che ha fatto scoprire le falsità di Scarantino, “inizia a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio e che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo. E’ facile dunque comprendere che tipo di impegno attendeva la procura di Caltanissetta e le altre procure interessate”. Ha anche ricordato che “Questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino”. 
Il pm ammette anche che lo ha “molto addolorato avere sentito in questi anni parlare del lavoro che è stato fatto, con attenzione, con scrupolo e rispetto, delle ragioni e possibili implicazioni, come di un lavoro” fatto solo grazie al collaboratore Spatuzza. “Dopo il suo arrivo qualcuno ha detto: ‘E che ci vuole?’ – dice – Io mi permetto di dire che questa è una costruzione riduttiva, ad essere buoni. Prima di Spatuzza c’era stato Giovanni Brusca e prima Giovambattista Ferrante e Gioacchino La Barbera. Mi sia consentito dire che quando Spatuzza si è seduto al tavolo dei pm si è avuto il coraggio di riprendere da capo ciò che stato fatto e poi raggiungere gli esiti processuali consacrati nel quater. E’ riduttivo dire che è il processo alla solita macelleria mafiosa”. (Adnkronos) – (Dall’inviata Elvira Terranova)


“Gigantesco depistaggio Borsellino”, Procura chiede pene alte per i poliziotti

Un depistaggio “gigantesco” e “inaudito” che “ha coperto alleanze mafiose di alto livello”. Ecco perché, secondo la Procura di Caltanissetta, i tre poliziotti che facevano parte del ‘Gruppo Falcone e Borsellino’ e che fu istituito dopo la strage di Via D’Amelio, “devono essere condannati”. A sollecitare le condanne, altissime, per Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, è stato, al termine della requisitoria fiume, il Procuratore capo in persona, Salvatore De Luca, con accanto i pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso, subentrato da pochi mesi nel pool. De Luca ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi per Mario Bo, e nove anni e mezzo per gli altri due Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Chiesta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i tre imputati.
E’ il pm Stefano Luciani a chiudere la requisitoria, prima delle richieste del Procuratore, parlando dei tre imputati: “Hanno avuto molteplici condotte e tutte estremamente gravi che rendono tangibile il grado di compenetrazione nelle vicende – dice il pm Luciani rivolgendosi al Tribunale – avete ulteriori elementi che provano la sussistenza di questo elemento, la condotta che caratterizza l’illecito”. “Non è una condotta illecita di passaggio ma che dal primo momento fino all’ultimo si ripete e si reitera”, dice ancora il pm Stefani Luciani. “E’ la pietra tombale al discorso che stiamo facendo”. Poi aggiunge: “E’ dimostrato in maniera assoluta il protagonismo del dottor Mario Bo sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e nella illecita gestione di Scarantino nella località protetta”, aggiunge il magistrato. “C’era una fiduciarietà del rapporto tra i tre imputati e Arnaldo La Barbere, che rende concreta l’ipotesi che abbiano avuto la reale rappresentazione degli scopi sottesi delle condotte poste in essere”, dice.
E ancora: “A parere della Procura ci sono elementi che dimostrano convergenze che certamente ci sono state nella ideazione della strage di via D’Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni ad essa”, spiega il pm Stefano Luciani, nel corso della requisitoria. E parlando dell’agenda rossa del giudice Borsellino scomparsa, il magistrato ha detto: “La sparizione dell’agenda rossa, se sparizione c’e’ stata, non fu di interesse di Cosa Nostra ma da collegare a interessi estranei”.
In mattinata era stato il Procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca, a prendere la parola per primo, per spiegare la sua presenza in aula. “Io oggi sono qui quasi come testimone diretto – dice De Luca – perché l’eccellente lavoro fatto dai colleghi, in particolare dal pm Stefano Luciani, non ha bisogno di alcuna integrazione. Sono qui per testimoniare che, pur tenendo conto dell’autonomia di udienza che accompagna ciascun magistrato della pubblica accusa, le conclusioni che saranno formulate non rappresentano il convincimento isolato di uno o due pm di udienza. Sono qui per testimoniare che tutta la Procura di Caltanissetta condivide, senza riserve, le conclusioni che saranno formulate e le valutazioni che saranno svolte dal collega Luciani in relazione all’aggravante di mafia”. E aggiunge: “Non si tratta di una frattura rispetto al passato ma di una lenta evoluzione che ci porta ad affermare la sussistenza dell’aggravante di mafia”. “I plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze, di alto livello, di Cosa nostra che in quel momento riteneva di vitale importanza”, dice ancora. E parlando dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue false dichiarazioni, ha fatto condannare all’ergastolo degli innocenti accusati di avere fatto parte della strage di Via D’Amelio, De Luca dice: “Tutti sapevano che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottor La Barbera (l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo ndr) è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa Nostra”.
Il pm Stefano Luciani nel corso della requisitoria ha puntato la lente di ingrandimento su una “anomala accelerazione per la strage di via D’Amelio, che non era funzionale agli interessi di Cosa nostra”. “I tempi erano invece funzionali ad ambienti esterni ai boss mafiosi”, spiega Luciani. “Siamo tutti in condizione di comprendere che la strage è avvenuta in un momento storico che ha prodotto effetti assolutamente devastanti per l’organizzazione mafiosa – dice il magistrato – se, quindi, i tempi di realizzazione della strage sono tempi che non coincidevano con gli interessi di Cosa nostra, se è un dato oggettivo e incontestabile che i tempi non coincidevano con gli interessi dei boss, allora i tempi erano funzionali ad ambienti esterni a Cosa nostra”. Ma chi? Per il pm Luciani “la strage di via D’Amelio presenta degli elementi che ci inducono a ritenere cointeressenze di queste collusioni”. “Se si vuole avere una chiave per cercare di comprendere le motivazioni che sottostanno a questo depistaggio è utile partire dal confronto tra il prima e il dopo – spiega Luciani – Qual è il narrato che arriva dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e quello arrivato poi da Gaspare Spatuzza? La versione che da’ Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza sulla fase esecutiva della strage di via D’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino è la presenza dell’individuo all’interno del garage di via Villasevaglios non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa. Cosa persuade che questo sia uno dei punti focali della vicenda? Faccio riferimento alle dichiarazioni rese recentemente dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che sono un altro depistaggio e che dispiace non siano state introdotte in questo processo”.
Nel corso della requisitoria di oggi il pm Stefano Luciani ha parlato poi, a lungo, della figura di Arnaldo La Barbera, che era a capo del ‘Gruppo Falcone e Borsellino’ di cui facevano parte i tre poliziotti imputati, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Secondo l’accusa, La Barbera e i suoi poliziotti avrebbero indottrinato, con minacce e pressioni, l’ex pentito Vincenzo Scarantino di rendere false dichiarazioni per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. “La familiarità di Arnaldo La Barbera con i Servizi segreti emerge in maniera chiara attraverso i suoi rapporti con il Prefetto Luigi De Sena”, dice il pm Stefano Luciani. “Rapporti particolarmente stretti tra De Sena e La Barbera- dice il magistrato – ma come dice l’avvocato Gioacchino Genchi in aula, De Sena era una sorta di mentore di la Barbera”. E ricorda che “il Sisde era solito erogare somme di denaro verso i funzionari che si occupavano di eversione o criminalità organizzata”. E poi spiega ancora che La Barbera, morto diversi anni fa, avrebbe ricevuto i soldi dal Side “in nero”. “Che un ufficiale di Polizia giudiziaria prenda fondi riservati in nero per soddisfare sue esigenze di vita privata, prende quel soggetto più o meno compromesso rispetto a quegli apparati che lo foraggiano?”.
E poi aggiunge: “E’ assolutamente provato in questo processo, ma lo era già al processo ‘Borsellino quater’ di un, a dir poco, anomalo coinvolgimento del Sisde nelle primissime attività di indagini che hanno riguardato la strage di via D’Amelio”. “La genesi di questo coinvolgimento viene ricostruita – dice ancora Luciani – le dichiarazioni rese da questi soggetti sono interessati ad edulcorare la natura di questi rapporti, ma quello che emerge dalle carte è un dato non edulcorabile”. E ricorda le deposizioni di Lorenzo Narracci e di Bruno Contrada.
Poi, parlando ancora di Arnaldo La Barbera, il pm ricorda quella volta in cui Lucia Borsellino “si è accorta, nel novembre del 1992, che nella borsa del dottor Borsellino non c’era l’agenda rossa” e “uscì dalla stanza in cui c’era l’allora dirigente della Squadra mobile Arnaldo La Barbera, sbattendo la porta. E La Barbera disse alla madre di Lucia, la signora Agnese Piraino, che la figlia avesse bisogno di un supporto psicologico, perché delirava. Ma l’agenda rossa era scomparsa davvero”.
E parlando poi del ruolo svolto dal falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino nell’indagine sulla strage di via D’Amelio, il pm Luciani, ha spiegato: “O i Servizi segreti non hanno saputo fare il proprio mestiere, oppure c’era dell’altro…”, lasciando cadere la frase a metà. Il magistrato parla, in particolare, di una nota datata 10 ottobre del 1992. “Una nota del Sisde che ha due particolarità – dice Luciani – quello che dice e quello che non dice”. E poi rincara la dose: “E’ impensabile che i Servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisire informazioni sul territorio, non avessere saputo o compreso o capito che Scarantino era, per dirla alla dottor Fausto Cardella, uno ‘scassapagliaro’ di modestissimo spessore criminale o eravamo nelle mani di persone che non sapevano fare il proprio mestiere. Visto che non hanno dato alcun apporto di tipo informativo su fatti gravissimi come le stragi o, ripeto, c’era dell’altro…”.
Nel corso della lunga requisitoria, il pm Luciani ha più volte ribadito che “questo processo ci pone in linea di continuità con il processo Borsellino Quater che ci ha rassegnato una verità e cioè che quelle condanne erano state comminate sulla base di prove manipolate che consistevano essenzialmente, ma non solo, in prove dichiarative. Era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e, infine, quella di Vincenzo Scarantino”. Sottlineando che “in questo processo ci sono stati testimoni chiamati dalla procura, appartenenti al gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino, che non hanno fatto onore alla divisa che indossavano: si sono trasformati in testi della difesa in maniera grossolana. Spero che questi comportamenti siano segnalati a chi di dovere…”. In chiusura il pm Stefano Luciani, visibilmente commosso, rivolgendosi al Tribunale ha detto: “E’ stato un lavoro duro e faticoso, ma pensiamo di avervi dato quantomeno una traccia che vi possa aiutare di fare finalmente luce. Questa è una delle ultime spiagge rispetto alle quali potere continuare a fare luce su fatti cosi gravi che hanno segnato la storia di questo paese”. Il processo è stato rinviato a martedì prossimo per dare la parola alle parti civili. (11.5.2022 ADNKRONOS dall’inviata Elvira Terranova) –


Procuratore Caltanissetta: “Su via D’Amelio un gigantesco depistaggio”

Parla di un “gigantesco depistaggio” sulla strage di Via D’Amelio e tiene a sottolineare che la Procura di Caltanissetta è “unita sulle conclusioni” nel processo sul depistaggio che oggi prevede le richieste da parte della Procura. Alla sbarra ci sono tre poliziotti, Mario Bo, che è assente, e Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che invece sono presenti. Ha voluto essere presente personalmente all’ultima udienza dedicata alla requisitoria, il procuratore capo di Caltanissetta, Salvatore De Luca. “Io oggi sono qui quasi come testimone diretto – dice – perché l’eccellente lavoro fatto dai colleghi, in particolare dal pm Stefano Luciani, non ha bisogno di alcuna integrazione. Sono qui per testimoniare che, pur tenendo conto dell’autonomia di udienza che accompagna ciascun magistrato della pubblica accusa, le conclusioni che saranno formulate non rappresentano il convincimento isolato di uno o due pm di udienza. Sono qui per testimoniare che tutta la Procura di Caltanissetta condivide, senza riserve, le conclusioni che saranno formulate e le valutazioni che saranno svolte dal collega Luciani in relazione all’aggravante di mafia”.
E aggiunge: “non si tratta di una frattura rispetto al passato ma di una lenta evoluzione che ci porta ad affermare la sussistenza dell’aggravante di mafia”. “I plurimi e gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze, delle cointeressenze di alto livello di Cosa nostra”. E parlando dell’ex pentito Vincenzo Scarantino dice: “tutti sapevano alla Guadagna che Scarantino era un delinquente di serie c…”. Adesso ha preso la parola il pm Stefano Luciani. Le richieste saranno fatte nel tardo pomeriggio dal Procuratore Salvatore De Luca. 11 maggio 2022 | ADNKRONOS

 


Depistaggi sulla morte di Borsellino, chieste le condanne per tre poliziotti

La richiesta delle pene arriva dopo quattro udienze: ed è pesantissima. Undici anni e nove mesi per Mario Bo, dirigente della polizia di Stato, 9 anni e sei mesi per i funzionari Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Per tutti l’accusa è avere inquinato le indagini sulla strage di Via d’Amelio creando a tavolino una falsa verità sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e ai cinque agenti della scorta. Un depistaggio definito il più clamoroso della storia giudiziaria italiana che ha portato alla condanna all’ergastolo di 8 innocenti, scoperto dopo anni dai magistrati grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L’imputazione per i tre poliziotti è di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia: la falsa ricostruzione dell’eccidio avrebbe nascosto le responsabilità nella morte del giudice dei mafiosi della cosca di Brancaccio.

Si chiude con una richiesta severissima, dunque, l’atto di accusa del pm Stefano Luciani che ha istruito il processo e che, nelle ultime udienze, è stato affiancato dal neo procuratore Salvo De Luca. Nel corso della requisitoria il magistrato, che ha raccolto e verificato le dichiarazioni di Spatuzza, ha ricostruito anni di menzogne, dichiarazioni estorte con le minacce e con la violenza, balordi fatti assurgere al rango di pericolosi boss, ritrattazioni mai prese sul serio dai pm dell’epoca, sentenze scritte a dispetto della verità. In aula sono risuonate, attraverso la lettura dei verbali, le rivelazioni di Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna con piccoli precedenti per spaccio, «promosso» dai tre imputati a capomafia, costretto ad addossarsi colpe mai avute e ad accusare persone che con la strage non avevano nulla a che fare, oggi parti civili in un processo a pezzi dello Stato.

«Sono qui oggi quasi come testimone perché l’eccellente lavoro fatto dal collega Luciani non ha bisogno di alcuna integrazione – ha detto il procuratore – Sono qui per testimoniare, ed è quasi superfluo, che le conclusioni che saranno oggi formulate non rappresentano il convincimento isolato di un pubblico ministero ma che tutta la Procura di Caltanissetta le condivide. Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia. I plurimi, gravi, elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza». “Tutti sapevano – ha sottolineato De Luca – che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C».

I tre imputati, che sarebbero arrivati a minacciare i falsi pentiti e a suggerire loro, come fossero attori, i copioni da recitare, si sono sempre detti innocenti. Non si è invece potuto difendere il quarto protagonista della storia, Arnaldo la Barbera, capo del pool che indagò sulla strage, mente, secondo l’accusa, del clamoroso depistaggio, morto nel 2002. Ma quale sarebbe stato il movente dei poliziotti? Perchè creare una falsa verità sulla morte del giudice? Accenna una risposta il pm nella requisitoria. «La versione che dà Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza sulla fase esecutiva della strage di via D’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino – sottolinea il rappresentante dell’accusa – è la presenza dell’uomo all’interno del garage in cui venne imbottita di tritolo l’auto usata per la strage non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa». Coprire la partecipazione, dunque, di terzi estranei a Cosa nostra: il movente del depistaggio sarebbe stato questo. 11 Maggio 2022 IL GIORNALE DI  SICILIA