FIAMMETTA BORSELLINO Rassegna stampa Giugno 2022

27.6.2022 RAI NEWS  “Mio padre fu tradito e lasciato solo”. Fiammetta Borsellino su via D’Amelio? Il j’accuse di

27.6.2022 RAI NEWS

“Mio padre fu tradito e lasciato solo”. Fiammetta Borsellino su via D’Amelio? Il j’accuse di Fiammetta Borsellino sull’attentato del 19 luglio 1992 a Palermo. Intervista a Vincenzo Musacchio

Alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso, rilascia una importante intervista al settimanale “L’Espresso”.  In questa intervista dice la sua su magistrati e depistaggi. «Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me» . Sono dichiarazioni forti e dure. Ne discutiamo, in questa intervista, con il criminologo Vincenzo Musacchio.

Alla vigilia dei trent’anni dalla strage di via D’Amelio, qual è il lascito più prezioso di Paolo Borsellino?
A me piace ricordarlo non solo per le grandi doti di magistrato ma soprattutto per il contributo di educazione alla legalità dei più giovani. Resterà traccia della sua onestà, della sua dedizione al lavoro e del suo alto senso dello Stato. Restano poche persone che cercano di portare il suo esempio e quello di tantissime altre vittime di mafia nelle scuole e nella società civile evitando che si parli di loro solo nelle ricorrenze e poi ritorni l’oblio. Io lo ricordo spesso ai ragazzi per una frase che lui rivolge proprio a loro: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”

Fiammetta Borsellino ha dichiarato all’Espresso (in edicola da ieri) che diserterà le cerimonie che ricorderanno il padre, lei che ne pensa? Condivide la sua scelta?
Condivido la sua scelta e aggiungo che ha tutto il diritto di farlo. Dice bene quando afferma che in tanti si sono appropriati indebitamente della memoria del padre. In tanti l’hanno anche usata per tornaconti personali. Fiammetta conosce la solitudine del padre perché l’ha vissuta in prima persona e conosce anche i tradimenti dei tanti pseudo amici di Borsellino. Da parte mia massima stima e condivisione poiché so cosa significa perdere il padre nell’adempimento del suo lavoro.

A prescindere al pensiero di Fiammetta, lei cosa pensa delle cerimonie che ogni anno ricordano le tante vittime di mafia?
A quelle ufficiali non ho mai partecipato. Io vado nelle scuole con i ragazzi e negli ultimi anni vado in quelle elementari, dove trovo tanta spontaneità e innocenza. Queste cerimonie spesso sono passerelle dove si recita un copione e dove la verità e la sua ricerca sovente latitano. Per questo ammiro la spontaneità e la denuncia di Fiammetta. Mi lascia sgomento quando ho sentito dirle che dopo aver denunciato per la prima volta pubblicamente, la solitudine di suo padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi, ha sentito il gelo intorno a lei. In fondo ha affermato la verità. Non solo per via D’Amelio ma anche per la strage di Capaci e per quella di via Pipitone dove fu ucciso Chinnici e per tante altre ancora. Francamente il solo fatto che per accertare la verità su via D’Amelio siamo al Borsellino quater indica un totale fallimento dello Stato e di tutte le sue componenti coinvolte nell’accertamento della verità. Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo.

Continuiamo sulle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Insiste spesso sul tradimento nei confronti di suo padre e di Giovanni Falcone, cosa pensa in merito?
Mi sembra che lei lo abbia chiarito molto bene. Il suo parere, che io reputo legittimo, è che le inchieste che hanno riguardato suo padre hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto dagli organi inquirenti. Secondo lei il percorso verso la verità è stato precluso anche da alcuni colleghi di suo padre e di Giovanni Falcone. Per questo parla non a caso di solitudine e di tradimento. La mia opinione, che ovviamente resta tale, è che entrambi stavano per scoprire verità sconvolgenti che andavano ben oltre la mafia. Pronto allora il colpevole dopo pochi mesi dall’attentato: Vincenzo Scarantino. Un analfabeta che sembra non sapesse leggere e che vivesse di furti d’auto. Da quel momento le indagini entrano nel più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Sedici anni, contrassegnati dalla complicità di molti, dall’incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria per ben nove gradi di giudizio e dall’incostanza di tanti giudici.

Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo stavano lavorando sul cd. dossier mafia-appalti, che fu archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via D’Amelio, lei cosa pensa di quel dossier?
Non era un’indagine di poco conto poiché emerse per la prima volta l’esistenza di un “comitato d’affari”, gestito da mafia, alcuni esponenti della politica e una parte dell’imprenditoria, di rilievo nazionale, finalizzato alla spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Fu proprio Falcone a confermare che quell’indagine fosse molto importante e che non avesse soltanto valenza “regionale” ma anche un rilievo “nazionale” (Fonte: Alto Commissariato per il Coordinamento della Lotta contro la Delinquenza Mafiosa . “Le infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti pubblici: Atti del convegno-seminario, Palermo, 14-15 marzo 1991. Castello Utveggio, sede del Centro di Ricerche e Studi Direzionali della Regione, Edizioni Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, p. 208.). Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma altresì dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile anche alla questione degli appalti in odore di mafia in Sicilia e al giro miliardario che ruotava intorno. Confermò le sue convinzioni al giornalista Luca Rossi durante un’intervista pubblicata il 2 luglio del 1992 sul Corriere della Sera. Il nome di Salvo Lima lo aveva già evocato anche Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. L’ex magistrato molisano illustrò come ebbe la conferma del collegamento “mafia-affari”.

I fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via D’Amelio potrebbero uscire dal 41-bis, cosa pensa di questa eventualità?
Sul 41-bis mi sono espresso più volte e so che il mio pensiero è minoritario ma sono fermamente convinto che questo strumento, voluto fortemente da Falcone, non sull’onda di un’emergenza emotiva ma dopo attento studio sulle strategie di lotta alla mafia, sia uno degli strumenti antimafia più indispensabili. Senza il 41-bis e le confische dei beni, le mafie avrebbero vita facile. Non vi è alcuna forma di violazione dello Stato di diritto poiché da un lato offre la possibilità al condannato di uscire da quel regime iniziando a collaborare con la giustizia e dall’altro ogni singola applicazione del 41-bis è sottoposta all’esame di un giudice in ossequio al principio di legalità e di giurisdizione.

Con chi ha passato l’anniversario di Capaci e con chi passerà quello di via D’Amelio?
Per me non esistono anniversari poiché ogni anno da trent’anni giro le scuole d’Italia e d’Europa. Ho cominciato nel 1992 con Antonino Caponnetto e da allora non ho più smesso.  Per l’anniversario di Capaci ero in una scuola elementare di Termoli e poi in videoconferenza con alcune associazioni antimafia dell’Olanda. Ricorderò Paolo Borsellino e la sua scorta in spiaggia con i ragazzi del Liceo umanistico di Guglionesi al termine di un progetto che si intitola “Legalità Bene Comune”.

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Studioso di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.

sull’attentato del 19 luglio 1992 a Palermo. Intervista a Vincenzo Musacchio Pierluigi Mele

Alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso, rilascia una importante intervista al settimanale “L’Espresso”.  In questa intervista dice la sua su magistrati e depistaggi. «Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me» . Sono dichiarazioni forti e dure. Ne discutiamo, in questa intervista, con il criminologo Vincenzo Musacchio.

Alla vigilia dei trent’anni dalla strage di via D’Amelio, qual è il lascito più prezioso di Paolo Borsellino?
A me piace ricordarlo non solo per le grandi doti di magistrato ma soprattutto per il contributo di educazione alla legalità dei più giovani. Resterà traccia della sua onestà, della sua dedizione al lavoro e del suo alto senso dello Stato. Restano poche persone che cercano di portare il suo esempio e quello di tantissime altre vittime di mafia nelle scuole e nella società civile evitando che si parli di loro solo nelle ricorrenze e poi ritorni l’oblio. Io lo ricordo spesso ai ragazzi per una frase che lui rivolge proprio a loro: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.”

Fiammetta Borsellino ha dichiarato all’Espresso (in edicola da ieri) che diserterà le cerimonie che ricorderanno il padre, lei che ne pensa? Condivide la sua scelta?
Condivido la sua scelta e aggiungo che ha tutto il diritto di farlo. Dice bene quando afferma che in tanti si sono appropriati indebitamente della memoria del padre. In tanti l’hanno anche usata per tornaconti personali. Fiammetta conosce la solitudine del padre perché l’ha vissuta in prima persona e conosce anche i tradimenti dei tanti pseudo amici di Borsellino. Da parte mia massima stima e condivisione poiché so cosa significa perdere il padre nell’adempimento del suo lavoro.

A prescindere al pensiero di Fiammetta, lei cosa pensa delle cerimonie che ogni anno ricordano le tante vittime di mafia?
A quelle ufficiali non ho mai partecipato. Io vado nelle scuole con i ragazzi e negli ultimi anni vado in quelle elementari, dove trovo tanta spontaneità e innocenza. Queste cerimonie spesso sono passerelle dove si recita un copione e dove la verità e la sua ricerca sovente latitano. Per questo ammiro la spontaneità e la denuncia di Fiammetta. Mi lascia sgomento quando ho sentito dirle che dopo aver denunciato per la prima volta pubblicamente, la solitudine di suo padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi, ha sentito il gelo intorno a lei. In fondo ha affermato la verità. Non solo per via D’Amelio ma anche per la strage di Capaci e per quella di via Pipitone dove fu ucciso Chinnici e per tante altre ancora. Francamente il solo fatto che per accertare la verità su via D’Amelio siamo al Borsellino quater indica un totale fallimento dello Stato e di tutte le sue componenti coinvolte nell’accertamento della verità. Borsellino e lo stesso Falcone sono stati mandati al macello perché isolati e abbandonati da tutti, in primis, da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerli ad ogni costo.

Continuiamo sulle dichiarazioni di Fiammetta Borsellino. Insiste spesso sul tradimento nei confronti di suo padre e di Giovanni Falcone, cosa pensa in merito?
Mi sembra che lei lo abbia chiarito molto bene. Il suo parere, che io reputo legittimo, è che le inchieste che hanno riguardato suo padre hanno rivelato quanto il lavoro investigativo sia stato mal condotto dagli organi inquirenti. Secondo lei il percorso verso la verità è stato precluso anche da alcuni colleghi di suo padre e di Giovanni Falcone. Per questo parla non a caso di solitudine e di tradimento. La mia opinione, che ovviamente resta tale, è che entrambi stavano per scoprire verità sconvolgenti che andavano ben oltre la mafia. Pronto allora il colpevole dopo pochi mesi dall’attentato: Vincenzo Scarantino. Un analfabeta che sembra non sapesse leggere e che vivesse di furti d’auto. Da quel momento le indagini entrano nel più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. Sedici anni, contrassegnati dalla complicità di molti, dall’incompetenza e dalla superficialità della macchina giudiziaria per ben nove gradi di giudizio e dall’incostanza di tanti giudici.

Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino dopo stavano lavorando sul cd. dossier mafia-appalti, che fu archiviato dopo la strage di Capaci e in coincidenza di quella di via D’Amelio, lei cosa pensa di quel dossier?
Non era un’indagine di poco conto poiché emerse per la prima volta l’esistenza di un “comitato d’affari”, gestito da mafia, alcuni esponenti della politica e una parte dell’imprenditoria, di rilievo nazionale, finalizzato alla spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Fu proprio Falcone a confermare che quell’indagine fosse molto importante e che non avesse soltanto valenza “regionale” ma anche un rilievo “nazionale” (Fonte: Alto Commissariato per il Coordinamento della Lotta contro la Delinquenza Mafiosa . “Le infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti pubblici: Atti del convegno-seminario, Palermo, 14-15 marzo 1991. Castello Utveggio, sede del Centro di Ricerche e Studi Direzionali della Regione, Edizioni Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1992, p. 208.). Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma altresì dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile anche alla questione degli appalti in odore di mafia in Sicilia e al giro miliardario che ruotava intorno. Confermò le sue convinzioni al giornalista Luca Rossi durante un’intervista pubblicata il 2 luglio del 1992 sul Corriere della Sera. Il nome di Salvo Lima lo aveva già evocato anche Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia. L’ex magistrato molisano illustrò come ebbe la conferma del collegamento “mafia-affari”.

I fratelli Graviano, condannati quali esecutori della strage di via D’Amelio potrebbero uscire dal 41-bis, cosa pensa di questa eventualità?
Sul 41-bis mi sono espresso più volte e so che il mio pensiero è minoritario ma sono fermamente convinto che questo strumento, voluto fortemente da Falcone, non sull’onda di un’emergenza emotiva ma dopo attento studio sulle strategie di lotta alla mafia, sia uno degli strumenti antimafia più indispensabili. Senza il 41-bis e le confische dei beni, le mafie avrebbero vita facile. Non vi è alcuna forma di violazione dello Stato di diritto poiché da un lato offre la possibilità al condannato di uscire da quel regime iniziando a collaborare con la giustizia e dall’altro ogni singola applicazione del 41-bis è sottoposta all’esame di un giudice in ossequio al principio di legalità e di giurisdizione.

Con chi ha passato l’anniversario di Capaci e con chi passerà quello di via D’Amelio?
Per me non esistono anniversari poiché ogni anno da trent’anni giro le scuole d’Italia e d’Europa. Ho cominciato nel 1992 con Antonino Caponnetto e da allora non ho più smesso.  Per l’anniversario di Capaci ero in una scuola elementare di Termoli e poi in videoconferenza con alcune associazioni antimafia dell’Olanda. Ricorderò Paolo Borsellino e la sua scorta in spiaggia con i ragazzi del Liceo umanistico di Guglionesi al termine di un progetto che si intitola “Legalità Bene Comune”.

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È tra i più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali. Studioso di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.


9.6.2022 Fiammetta Borsellino: “L’arresto di Polizzi? Si giudica da sé…”

“Non sono qui per chiudere una campagna elettorale ma per dare il mio contributo al dibattito”, così Fiammetta Borsellino ha commentato con i cronisti che gli chiedevano della sua presenza all’evento conclusivo di Sinistra civica ecologista a Villa Filippina a cui ha preso parte insieme a Nichi Vendola.All’evento anche l’intervento il candidato sindaco dei progressisti Franco Miceli.

“Mi hanno chiamato per dare il mio contributo da cittadina per la mia città e sono qui per questo” ha insistito. Poi, la figlia di Paolo Borsellino ha commentato l’arresto di Pietro Polizzi, il candidato consigliere di Forza Italia, accusato di scambio elettorale politico-mafioso. “È una cosa che si giudica da sé. La prova che Cosa nostra cerca sempre do infiltrarsi negli ambienti politici ed economici. Appena si presenta l’occasione assistiamo al tentativo di infiltrazione”.

Sul palco di Sinistra civica ecologista Fiammetta Borsellino ha parlato delle forze che appoggiano Franco Miceli:“Ritengo – ha detto – che l’elemento della limpidezza sia presente in questa coalizione”. Poi ha ricordato le parole di chi ha lottato, fino alla fine, contro la mafia: “Ci sono delle cariche in cui l’amministratore non deve essere onesto solo perché lo dice una sentenza giudiziaria. Ci sono cariche in cui gli amministratori devono apparire onesti”. Quindi ha lanciato la sfida: “Al di là degli esiti della campagna elettorale dobbiamo avere un ruolo di vigilanza e dobbiamo sentirci responsabili in questo ruolo”.

Poco prima Fiammetta Borsellino ha ribadito che la sua presenza sul palco è dovuta al tentativo di continuare la sua missione educativa che porta avanti in numerosi incontri con la scuola. “Non vedo giovani qui – ha esordito -. Questo mi fa tristezza: testimonia che la politica si è allontanata dai giovani e ha allontanato i giovani. Le mafie si nutrono del consenso giovanile per questo la scuola e la cultura devono essere al centro dell’agenda politica. Bisogna avvicinare i ragazzi alla politica. Investire sui ragazzi vuol dire investire sul futuro. Educarli – ha concluso – al rispetto delle regole vuol dire educarli ai diritti e ai doveri”.
Le parole di Catania e Miceli

Durante l’evento Giusto Catania ha rivendicato la presenza in lista di Gioacchino Scaduto e Placido Rizzotto. “In questa campagna elettorale abbiamo visto la destra perdere le certezze, prima di vittoria adesso hanno perso la certezza di essere antimafiosi”. E poi: “Qualcuno ha pensato che questa città potesse abbassare gli anticorpi dell’antimafia”. Infine Catania ha posto l’accento sul fatto che tanti leader venuti a Palermo hanno parlato di abolizione del reddito di cittadinanza ma questo, ha aggiunto Catania, “ha sottratto manovalanza alla criminalità organizzata”.

Lo stesso tema è stato trattato da Franco Miceli che ha insistito: “Si tratta di una misura migliorabile ma ho sentito persone che beneficiano della misura – ha raccontato, aggiungendo – in tanti mi hanno chiesto che vogliono essere messi nelle condizioni di fare dei lavori socialmente utili o di lavorare”.

Miceli ha poi parlato anche dei fatti di cronaca: “Ritengo Roberto Lagalla responsabile di quello che sta succedendo. Ha dato un segnale negativo con la mancata partecipazione del 23 maggio. È inutile dire che lui è per la legalità. Doveva dire a Dell’Utri e Cuffaro ‘fatevi da parte’. È ostaggio del sistema di potere”.
L’affondo di Vendola. “Quando si costruiscono pompose retoriche sulla legalità si sgonfiano davanti alla cronaca di stamattina” ha attaccato Nichi Vendola. “Lagalla – ha continuato – è un finto eroe della società civile. È un burattino nelle mani dei burattinai Cuffaro e Dell’Utri”. Non sono mancati gli affondi a Giorgia Meloni e Matteo Salvini ma anche ad Antonio Ingroia criticandone il sostegno alla “candidata fascio leghista Francesca Donato”. Vendola ha mandato un abbraccio a Leoluca Orlando: “Ha governato una città senza portafoglio. Con il suo impegno ha tenuto lontano coloro che oggi vogliono governare la città affamati di governare le risorse che arriveranno a Palermo”. LIVE SICILIA


7.6.2022 DEPISTAGGIO BORSELLINO / IL DURISSIMO J’ACCUSE DELL’AVVOCATO FABIO TRIZZINO

Finalmente una toga che dà l’anima perché si faccia finalmente chiarezza sulla strage di via D’Amelio in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta; nonchè sul “Depistaggio di Stato”, il più clamoroso della nostra storia giudiziaria.

Stiamo parlando di Fabio Trizzino, il legale della famiglia Borsellino (anche sposato la figlia del magistrato, Lucia Borsellino), impegnato nel processo sul ‘depistaggio’, appunto, ma che incredibilmente vede come imputati solo tre poliziotti, accusati di aver taroccato il ‘collaboratore’ Vincenzo Scarantino, e non quei magistrati che avevano in mano il caso, addirittura prosciolti in un processo lampo a Messina. La ‘Voce’ ha scritto decine di inchieste sulla strage di via D’Amelio, la più recente è di qualche giorno fa, 22 maggio, quando Trizzino ha effettuato la sua arringa. Tanto per la ‘memoria storica’ che non va mai perduta (lo hanno sempre ricordato i magistrati-coraggio come Borsellino, Falcone e Ferdinando Imposimato), una decina d’anni fa la Voce venne citata in via civile da uno dei magistrati storicamente in prima linea nel giallo di via D’Amelio, Anna Maria Palma, e  che per primo ha ‘gestito’ (con il collega Carmelo Petralia, cui poi si è aggiunto Nino De Matteo) il pentito Scarantino, l’oracolo in base alle cui verbalizzazioni ‘taroccate’ sono stati condannati a 18 anni di galera degli innocenti. Non vogliamo qui dilungarci oltre misura, visto che ne abbiamo scritto decine e decine di volte e anche il 22 maggio. Qui vogliamo riportare semplicemente dei passaggi di un recentissimo intervento che il coraggioso avvocato Trizzino ha svolto nel corso di un seminario organizzato dal ‘DEMS’, il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo, titolato “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Una relazione alla quale ha fornito il suo contributo Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato presso la stressa facoltà.  CI MANCAVA SOLO LA PISTA NERA…  Il seminario si è svolto a poche ore di distanza dalla puntata di ‘Report’dedicata alla strage di via D’Amelio che ha fatto non poco rumore, e nella quale viene tirato in ballo un nome da novanta nell’eversione nera, quello di Stefano Delle Chiaie che, secondo il servizio mandato in onda da Sigfrido Ranucci e realizzato da Paolo Mondani, avrebbe avuto un ruolo chiave nell’organizzazione della strage. Boom! Un ottimo servizio sul seminario organizzato dall’Università di Palermo, e quindi dedicato all’intervento di Trizzino, è stato realizzato da ‘il Sole 24 Ore’, che difficilmente può essere accusato di complottismo. Il titolo del pezzo è: “La famiglia Borsellino: ‘La pista nera sulle stragi del ’92 è un altro depistaggio”. Già parla da solo. Di seguito potete leggere alcuni passaggi salienti dell’intervento di Trizzino, così come riportati dal quotidiano confindustriale.

MOVENTE BASE / IL RAPPORTO “MAFIA-APPALTI”  

“E’ nelle indagini su Mafia-Appalti che bisogna cercare la verità. Qualche settimana prima di morire, mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Limache gestiva il pentito Li Pera, il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi”. La ‘Voce’, circa tre anni ha, ha pubblicato alcune rivelazioni del pentito Giuseppe Li Pera (potete trovare un articolo nei link in basso), un ragioniere dell’impresa trentina ‘Rizzani-De Eccher’, il cui nome salta fuori nell’esplosivo dossier. Guarda caso, proprio Li Pera era stato interrogato – non si sa bene a quale titolo – da Antonio Di Pietro nel carcere dell’Ucciardone. Come mai da uno che sapeva tutto sui rapporti tra Mafia e Appalti, come Li Pera, l’eroico PM di Mani Pulite non riuscì a cavare un ragno dal buco? E a quanto pare di quel fantomatico interrogatorio non esiste alcuna traccia, nemmeno lo straccio di     un verbale? Una conversazione privata o cosa? Proprio come era successo nel corso degli interrogatori che Di Pietro ebbe, stavolta a Milano, con l’Uomo a un passo da Dio –  come lui stesso lo etichettò –  ossia Pierfrancesco Pacini Battaglia, il faccendiere italoelvetico che tutto sapeva non solo sulla madre di tutte le tangenti, ‘ENIMONT’, ma anche sugli affari arcimiliardari dell’Alta Velocità’ sui quali – guarda caso – avevan. cominciato ad indagare proprio Falcone e Borsellino a febbraio 1991, quando sulle loro scrivanie piombò l’esplosivo dossier (890 pagine) elaborato dal ROS dei carabinieri e denominato, appunto “Mafia-Appalti”. I casi della vita… Ma torniamo a bomba. Ossia all’intervento dell’avvocato Trizzino al seminario organizzato dal ‘DEMS’.

VELENI A PALAZZO DI GIUSTIZIA 

Ricorda con commozione: “In quei 57 giorni di Via Crucis che separarono la strage di Capaci da quella di via D’Amelio, Paolo Borsellino non sorride più. Lucia mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo, in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare più di nessuno. Ma quei due magistrati hanno parlato nel 2010, non subito dopo la strage”. Eccoci ad altri passaggi che fanno letteralmente saltare sulle sedie chi poco conosce quel ‘clima’ che si respirava al palazzo di Giustizia (sic) di Palermo. Continua la minuziosa ricostruzione di Trizzino davanti agli studenti di Scienze politiche: “E’ sul procuratore Giammanco (Pietro, ndr) che bisogna indagare, altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura”. Parole che pesano come macigni. Eccoci al passaggio clou: “Si parla di responsabilità istituzionali, ma perchè i responsabili devono essere altri (in questo caso i tre poliziotti, ndr) e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su via D’Amelio?”. Eppure, i nomi si sanno, eccome! Commenta ‘Il Sole 24 Ore’: “Senza mezzi termini Trizzino chiama in causa l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, autore dell’inchieste sui ‘Sistemi criminali’ che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92, ma anche i magistrati Guido Lo Forte eGiuseppe Pignatone”. Riprende il filo del suo discorso Trizzino: “Alla fine, chi ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato; chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato”. Altri macigni da non poco. Non è certo finita qui, perché il legale della famiglia Borsellino incalza: “In questi 30 anni mi sono fatto un’idea: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come ‘accaduto’. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro”. Per coprire chi?, si chiede il giornalista del quotidiano confindustriale, Nino Amadore. “Trizzino non lo dice, ma ‘Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito’. E poi l’avvocato si chiede: ‘Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di via D’Amelio e si preferisce parlare d’altro’”?

Sottolinea ancora, nel suo intervento-arringa all’Università di Palermo, il battagliero avvocato della famiglia Borsellino, con una figlia – Fiammetta Borsellino – che da sempre denuncia opacità, omertà & collusioni nel giallo di via D’Amelio e non ha paura di fare il nome dei magistrati coinvolti: “C’è bisogno di disinteresse di chi cerca queste verità. La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti. Quando ho letto che Nino Di Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio, ndr), posso ipotizzare che Di Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto. Vi assicuro che se qualcuno mi dimostra che Stefano Delle Chiaie era lì, me lo deve dimostrate con il metodo Falcone. Io sarò il primo a chiedere scusa” E l’affondo finale: “In trent’anni si è guardato ovunque: sono stati messi sotto accusa carabinieri, politici, polizia. Tutte le istituzioni. L’unica istituzione che non è stata attenzionata, nonostante Paolo Borsellino dica: saranno i miei colleghi ed altri. Noi questo non lo accettiamo più. Vogliamo semplicemente che anche in un’ottica di ricostruzione storica ci sia qualcuno che vada a vedere cosa è successo dentro quella procura. Perché c’è stata questa sovraesposizione mediatica sempre degli stessi soggetti? Qual è il vero motivo? Perché? Servono giovani che vadano a vedere le carte, in maniera asettica, senza conflitti di interesse, per trovare la verità”.

 


Via d’Amelio: insinuazioni e mistificazioni di Trizzino anche contro Scarpinato   

Giorgio Bongiovanni. 04 Giugno 2022 ANTIMAFIA DUEMILA

Ciò che crea scandalo è che questa avversione non giunge solo dai soliti giornaloni prezzolati, dai libellisti del potere e affini, ma anche da certi familiari vittime di mafia.
Così come aveva fatto durante la propria arringa difensiva al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio è l’avvocato dei figli di Borsellino Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso il 19 luglio 1992, a manifestare un certo accanimento.
Lo ha fatto in occasione di un seminario organizzato dal Dems, il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di  Palermo diretto da Costantino Visconti, dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”.
A raccontare dell’evento è “Il Sole 24 Ore”.
Ovviamente non una parola sarebbe stata detta rispetto alla decisione del Gip di Caltanissetta Graziella Luparello di non archiviare l’inchiesta sui mandanti esterni di via d’Amelio. In quel documento si redarguisce l’operato svolto in questi anni dalla procura nissena in quanto le indagini “non possono ritenersi complete” nel momento in cui “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori’”.
Ma l’avvocato Trizzino avrebbe preferito parlare degli elementi riemersi sulla strage di Capaci che il programma “Report” ha riportato alla luce sulla possibile presenza, nel luogo della strage, dell’estremista nero Stefano Delle Chiaie.
Una ricostruzione che, secondo Trizzino, servirebbe a distrarre dalla verità e depistare le indagini.
Ma la questione non è come quella, più evidente, messa in atto con le dichiarazioni dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola. Si tratta di una vicenda un po’ più complessa e a dimostrarlo vi è anche la “magra” figura della Procura nissena con la smentita a colpi di comunicato stampa accompagnato dalle perquisizioni condotte contro il giornalista Paolo Mondani e la redazione di Report (prima predisposte e poi revocate).
Parlando di via d’Amelio il legale della famiglia Borsellino, per evidenziare le cause per cui il giudice è stato ucciso, ha insistito sulla solita pista “mafia-appalti”: “Qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato  Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi”. E poi ancora ha parlato della confidenza che Borsellino ha fatto a due magistrati “di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno”. Quindi ha insistito: “È sul procuratore Giammanco che bisogna indagare altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura. Si parla di responsabilità istituzionali ma perché i responsabili devono essere altri e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su Via d’Amelio?”.
“In questi 30 anni mi sono fatto un’idea – ha affermato Trizzino –: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come accaduto. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro. Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito. Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di  Via d’Amelio e si preferisce parlare d’altro?”.
Leggendo l’articolo del Sole 24 Ore si evince che il legale dei figli di Borsellino ha chiamato in causa l’ex procuratore generale di Palermo  Roberto  Scarpinato, autore assieme ad Antonio Ingroia dell’inchiesta sui Sistemi criminali che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92 ma anche i magistrati Guido  Lo  Forte e Giuseppe Pignatone usando parole al veleno: “Alla fine chi ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato, chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato”. Parole gravi, specie se non si tiene conto che la storia di mafia-appalti è tutt’altro che semplice e lineare e nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti.
Su queste affermazioni abbiamo chiesto un pensiero a Salvatore Borsellino che ha detto di “dissociarsi nella maniera più assoluta dalle affermazioni su Scarpinato. Queste sono parole dell’avvocato Trizzino e al massimo dei figli di Borsellino che rappresenta. Non certo le mie”. Una presa di posizione netta e forte così come aveva fatto in passato a difesa del pm Nino Di Matteo.
Tornando a mafia-appalti proprio Scarpinato, che al tempo fu uno dei titolari di quel fascicolo, sentito al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio Scarpinato ha spiegato, producendo ben venti documenti, che in realtà l’indagine mafia-appalti non fu affatto archiviata il 13 luglio 1992, come falsamente alcuni fonti continuano a ripetere in palese contrasto con gli atti processuali. 
L’ex Procuratore generale ha evidenziato come, dopo l’arresto di sette soggetti indagati tra i quali Angelo Siino, il 13 luglio 1992 era stata richiesta solo l’archiviazione della posizione di alcuni indagati perché a quella data non erano ancora state acquisite prove sufficienti nei loro confronti. Tuttavia, prima di procedere all’archiviazione di tali posizioni residuali, era stato fatto lo stralcio della parte più importante della inchiesta che proseguiva e riguardava la gestione di appalti della SIRAP per mille miliardi delle vecchie lire, e che coinvolgeva il livello politico e amministrativo. L’inchiesta mafia-appalti, quindi, non fu affatto archiviata, tant’è che a seguito del deposito della informativa SIRAP del ROS del 5 settembre 1992 e del sopraggiungere delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si procedette alla revoca dell’archiviazione nei confronti di alcuni di tali soggetti e al loro successivo arresto nel giugno 1993. Nomi di rilievo. Unitamente a Salvatore Riina, a numerosi altri mafiosi, si procedette nei confronti di politici come l’on.le Salvatore Lombardo, a esponenti di vertice di imprese nazionali, tra i quali Vincenzo Lodigiani, Claudio Rizzani De Eccher, Filippo Salomone, nonché a componenti dello staff dirigenziale della partecipata regionale SIRAP.
Inoltre nell’ottobre 1993 venne arrestato l’onorevole Sciangula, Assessore ai Lavori pubblici. Nello stesso anno fu formulata al Parlamento richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di vari politici tra i quali l’on.le Mannino e l’on.le Citaristi.

Quando si parla di mafia-appalti, come possibile spiegazione dell’accelerazione della strage di via d’Amelio, vi sono elementi documentali che non possono non essere considerati e che allontanano da tale ipotesi: l’esistenza di una doppia informativa.
Per ricostruire i passaggi può essere utile riprendere la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Una relazione in cui compaiono diverse anomalie.
La prima: c’è una prima versione del rapporto del ROS, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di politici come Calogero Mannino ed altri. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione, mentre le indagini proseguivano sul versante degli appalti SIRAP.
Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fa esplodere enormi polemiche riguardo atti investigativi che in realtà erano solo in possesso del ROS e che a quella data non erano ancora stati trasmessi alla Procura di Palermo.
Accadrà infatti che il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni si decise a depositare una seconda informativa mafia-appalti che conteneva, diversamente dalla prima, espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi.
Nel documento vi erano acquisizioni addirittura di un anno antecedenti alla data del febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti.
Nell’udienza del processo per il depistaggio di Via d’Amelio, Scarpinato ha anche evidenziato che il Ros aveva tra l’altro celato alla Procura della Repubblica di Palermo una importantissima intercettazione del maggio 1990, nella quale l’on.le Lima raccomandava Cataldo Farinella, soggetto arrestato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. unitamente ad Angelo Siino nel giugno del 1991 nell’ambito della prima tranche dell’inchiesta mafia-appalti. Non solo di tale intercettazione non vi era alcuna menzione nella informativa del ROS del 20 febbraio 1991, nella quale si parlava solo del Farinella, ma per di più non fu comunicata alla Procura neppure dopo l’omicidio di Lima il 12 marzo 1992.
Quando Trizzino parla davanti agli studenti delle brillanti carriere dei magistrati commette sempre il solito errore di non adoperare i dovuti distinguo.
Perché per quanto riguarda Scarpinato, facendo intendere che in qualche maniera abbia delle responsabilità sulle mancate verità della strage di via d’Amelio, si omette di dire che proprio lui nel luglio 1992, da sostituto procuratore, fu il promotore della rivolta di otto sostituti che firmarono un documento che chiedeva l’allontanamento del Procuratore Giammanco, provocando una inchiesta del Csm a seguito della quale Giammanco lasciò la Procura. Fu Scarpinato nell’ audizione al Csm del 29 luglio 1992 a denunciare l’isolamento subito da Falcone e da Borsellino e fu ancora lui anni dopo, da Procuratore Generale di Caltanissetta, ad occuparsi della revisione del processo per coloro che erano stati condannati ingiustamente per la strage di via d’Amelio.
E sempre guardando le indagini sulle stragi fu proprio lui a proseguire le indagini sul complesso progetto di destabilizzazione politica sotteso alle stragi del 1992/1993 e sui mandanti occulti, che la Procura di Palermo aprì nel 1996 con l’inchiesta “Sistemi Criminali”.
Un’indagine che nel tempo è confluita in importanti processi come quello calabrese sulla ‘Ndrangheta stragista, a Palermo sul Processo trattativa Stato-mafia, e ancora viene ripresa proprio dalle indicazioni del Gip Luparello alla Procura nissena.
Non solo.
Nel 2012 Scarpinato, in occasione delle commemorazioni, scrisse una lettera aPaolo Borsellino in cui si diceva: “Caro Paolo stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà”.

Parole ineccepibili, prive di alcun cenno offensivo o infamante, nella piena libertà di espressione che rientra in una democrazia compiuta, che pure costarono l’apertura di un procedimento disciplinare da parte del Csm che fu pendente per diverso tempo.
Proprio in quel periodo espresse l’intenzione di presentare domanda per il posto di Procuratore Nazionale Antimafia e ci fu chi disse al giudice che non aveva alcuna speranza perché era un magistrato “troppo caratterizzato”. Inoltre un componente del Csm gli aveva detto testualmente che non era possibile nominare “una sorta di Che Guevara in un posto simile!”.
Alla fine quel Csm scelse Federico Cafiero de Raho e Scarpinato ritirò la candidatura dopo che la Commissione aveva già fatto intendere che avrebbe preferito l’allora procuratore di Reggio Calabria.
Trizzino è tornato poi a parlare del magistrato Nino Di Matteo omettendo, come già fatto durante la sua arringa, alcuni dettagli chiave sulla questione che riguarda il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza.
“C’è bisogno di disinteresse di chi cerca questa verità – ha detto l’avvocato – La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti. Quando ho letto che Nino  Di  Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio, ndr), posso ipotizzare che Di  Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto”.
Non è stato ricordato che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi per difendere e promuovere il programma di protezione e l’attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Negli ultimi anni è sempre più evidente lo scatenarsi di una guerra sotterranea e sibillina. Spiace vedere che tra chi prende parte a questo stillicidio vi sono anche familiari del giudice come Fiammetta Borsellino ed il suo rappresentante legale, il cognato Fabio Trizzino, che si prestano a questo gioco al massacro attaccando anche con temi personali e familiari.
Ci riferiamo alle considerazioni inserite nelle dichiarazioni messe a verbale dalla signora Fiammetta Borsellino davanti alla Procura di Messina, nell’ambito delle indagini contro i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia(entrambi archiviati dal Gip dall’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra).

Un verbale in cui il dito viene puntato, con supposizioni ed illazioni, contro il magistrato Nino Di Matteo che non era oggetto di quell’indagine e che non è mai stato indagato per il depistaggio.
In quel verbale, che alcune testate hanno riportato in passato, si parla di rapporti personali ed amicizia fraterna tra lo stesso Di Matteo e la famiglia Borsellino, nonché dei motivi per cui si sarebbe poi giunti alla rottura.
Come abbiamo già detto in altra occasione, si tratta di una versione a senso unico che in maniera ingenerosa è stata data in pasto al pubblico senza alcuna possibilità di replica, sul punto, da parte dello stesso Di Matteo. 
E ci desta molta perplessità la scelta del Procuratore capo Maurizio De Lucianel permettere così tanto spazio su illazioni che non riguardano gli indagati.
Viste le ripetute considerazioni dell’avvocato Trizzino sul magistrato Nino Di Matteo è evidente che lo stesso non voglia in alcun modo tenere in considerazione le valutazioni dal Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo (che fu Presidente della Corte d’assise al Borsellino quater) nella recente pubblicazione “Mafia. Fare memoria per combatterla” edito da “Piccola biblioteca per un paese normale – Vita e pensiero”. Parole che non fanno sollevare alcun dubbio sulla levatura morale e professionale del consigliere togato del Csm: “Nino Di Matteo è uno dei magistrati che hanno indossato la toga per la prima volta in una notte, quella del 24 maggio 1992, quando lui e gli altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo (tra cui l’autore di questo libro) sono stati chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci. In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nell’animo di quel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra, e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato. Sono i sentimenti che hanno accompagnato in ogni giorno del suo percorso professionale Nino Di Matteo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, prima alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo, quindi alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Un impegno coraggioso che è continuato anche quando è stato eletto al CSM nel periodo più difficile della storia dell’autogoverno della magistratura”.
Tornando alla guerra sotterranea che si sta muovendo, a trent’anni dalle stragi dello Stato-mafia, si scorgono le solite “menti raffinatissime” che volutamente non vogliono la verità sui mandanti esterni delle stragi.
Tra i registi di questa metodologia di stillicidio continuo si alternano politici, giornalisti, avvocati difensori di stragisti sanguinari ed avvocati difensori di uomini oscuri, appartenenti ad apparati deviati dello Stato (forze dell’ordine, servizi segreti, Gladio) che hanno l’obiettivo fisso di allontanare dalla verità quell’opinione pubblica stanca di misteri e segreti.
Un’opinione pubblica che, possiamo capirlo, crede ed ha stima nel buon nome dei Borsellino, ma che ingenuamente non si accorge del trucco generato per distrarli usando proprio i Trizzino di turno.
La verità sulle stragi di Stato dei primi anni Novanta sono come i fili dell’alta tensione ed i clienti di certi avvocati (gli stragisti e gli apparati) non vogliono che venga fatta luce sui misteri. Non vogliono perché altrimenti si troverebbero messi con le spalle al muro di fronte ad una scelta: collaborare con la giustizia o essere uccisi in carcere per evitare qualsiasi propalazione sul tema.
La storia insegna e sul punto basta osservare i casi dei decessi di Nino Gioè(morto in carcere) e di Luigi Ilardo (ucciso prima di diventare collaboratore di giustizia). Come disse Scarpinato al convegno di luglio dello scorso anno“sono state un atto di intimidazione, una lectio magistralis per cucire le bocche” a chi, potrebbe pensare di parlare di certi temi delicati agli inquirenti. Personaggi come “Biondino, Bagarella, Graviano e Madonia, che stanno in carcere, sanno che c’è un potere capace di entrare nelle carceri e ucciderli. Sanno che se hanno dei figli un pirata della strada potrebbe investirli”.
Ecco cosa si cela dietro il “depistaggio più grave della storia d’Italia”, come è stato definito dai giudici del processo Borsellino quater il depistaggio sulla strage di via d’Amelio.
Un depistaggio che vide l’impegno di apparati deviati, poliziotti, 007, e non certamente quello di due magistrati come Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo che con le loro indagini hanno sempre cercato di svelare il volto coperto dei mandanti di quella stagione di delitti e terrore.
A trent’anni dalle stragi le evidenze su mandanti e concorrenti esterni nelle stragi sono emerse con sempre più forza e delegittimare magistrati come Di Matteo e Scarpinato (che assieme a pochi altri pm “ostinati” come Giuseppe Lombardo, Nicola Gratteri, Luca Tescaroli ecc… credono sia ancora possibile infrangere questo velo di Maya) diventa l’obiettivo primario per impedire che certe verità celate possano essere riportate alla luce.