Il lato oscuro dell’antimafia

 

Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all’ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo

Quando crollano passione e onestà
di FEDERICA ANGELI
ROMA –
E’ la faccia oscura dell’antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull’onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un’antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l’obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative.

Sciascia li chiamava i “professionisti dell’antimafia”. Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti “Eroi della sesta” che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. “La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia”, sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura.

Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all’ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà.

Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l’ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un “club” antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un’associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni.

Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d’associazione presso l’ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all’albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all’anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c’è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale.

Infine, le fondazioni: una volta redatto l’atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull’ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: “La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere traspa.

Il business dei falsi paladini.
Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell’Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale “416bis” o “41bis”. Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all’ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all’associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci.

Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti “contro tutte le mafie”. Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché “le denunce non siamo noi a doverle fare”, o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l’ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l’Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell’ordine che sotto lo stendardo dell’associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall’incarico e condannati per abuso di ufficio

Gli inganni dell’antimafia. Nel composito  –  e talvolta oscuro  –  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in “icone” e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l’immagine pubblica della coordinatrice del “Movimento delle donne di San Luca”, considerata un’eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l’inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche ‘ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un’indagine che alla fondatrice dell’associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell’operazione che ha portato all’arresto dell’ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose.

Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico “capace”, che sfilava in cortei contro la ‘ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l’appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell’operazione simbolicamente nominata “Inganno”, i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l’autrice di libri sulla ‘ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione “Enel Cuore” aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell’antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell’Arma hanno definito “motivi esclusivamente personali”. Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall’altra l’eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto “Le botteghe artigianali” sono stati spesi non per promuovere l’attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell’associazione.

L’antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di “Ammazzateci tutti”, finito nell’occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le ‘ndrine, fondato nel 2005 dopo l’uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un “fabbricato in corso di costruzione” a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni ’80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell’avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di “agguato mediatico” e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria.

Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell’ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, “fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l’antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa”.

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori
di LORENZO D’ALBERGO
ROMA – Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?
“Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: ‘O mi dai l’assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino'”.

Lei come ha risposto?

“Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato”.

Questa persona ora fa parte di un’associazione antimafia, giusto?

“Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L’antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?”.

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

“Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un’assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell’associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l’ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l’antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato”.

Da chi è composta questa associazione antimafia?

“Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c’è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango”.

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.

“Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell’amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia”.

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?
“Non so cosa fa, ma l’amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l’aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così”.

Lei ha paura di queste persone?
“Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto”.

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?
“Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: “Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti”. Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l’operazione Alba Nuova, che ha portato all’arresto di 51 persone”

La garanzia del modello Libera
di FEDERICA ANGELI e LORENZO D’ALBERGO
ROMA – Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall’altra sponda del fiume antimafia c’è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di “antimafia”. A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: “Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell’associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c’era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c’è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell’Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)“.

“E’ difficile fare differenza tra buoni e cattivi – continua Gabriella Stramaccioni – perché ci sono movimenti che nascono sull’onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull’azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata”. Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell’Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi.

“Autofinanziandoci – spiega ancora la coordinatrice di Libera – abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell’Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. “Quanto ai beni confiscati – prosegue Stramaccioni – Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati”. Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava

di FEDERICA ANGELI
ROMA – Sciascia parlava dei professionisti dell’antimafia, intendendo coloro che fanno l’antimafia “come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa”. Insomma i quaquaraquà dell’antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

“Sciascia – risponde – sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l’effettivo impegno nell’antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati”.

Il vessillo dell’antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?
“Non c’è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell’antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L’antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare”.

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l’Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?
“No attualmente non esiste, è un po’ affidato all’autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti”.

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?
“Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio”.

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l’antimafia di facciata. Cosa?
“Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c’è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l’azione di contrasto all’accumulazione di ricchezza criminale”.

Che tipo di controlli si possono fare?
“Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa”.

Secondo lei un’associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?
“Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati”.

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?
“Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così”.

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?
“Assolutamente sì”.

Un’associazione per i testimoni

di ALAN DAVID SCIFO
Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n’è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell’estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell’agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco “no” alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l’imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all’associazione “Libere Terre” ad Agrigento, ha fondato un’associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d’Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?
“Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l’associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?
Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all’inizio, l’unica persona che mi è stata vicina sin dall’inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?
Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull’aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?
Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell’associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas. 

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.
Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore. L’ESPRESSO  8.9.2014