🟧 ARCHIVIO – Condannato ingiustamente per la strage di via D’Amelio, maxirisarcimento per il carrozziere Orofino

 

“Una vita distrutta, quella di Orofino e, quindi, dei suoi familiari. Diceva Giovanni Falcone: indipendenza della magistratura sacrosanta, purché non si interpreti come sostanziale irresponsabilità.FABIO TRIZZINO Legale di Fiammetta, Lucia e Manfredi Borsellino


Borsellino: condanna ingiusta, un milione e mezzo di risarcimento


Arrestato nel 1993, poi condannato in via definitiva e quindi assolto nel processo di revisione nel 2017.

Ora lo Stato deve pagare agli eredi di Giuseppe Orofino, portato in carcere a 49 anni, un milione e 404.925,25 euro di risarcimento per ingiusta detenzione con l’accusa di strage.
La decisione del maxi risarcimento è della corte d’Appello di Catania. Orofino dopo la lettura della sentenza scoppiò a piangere, urlando di disperazione, sbattendo la testa nel vetro della “gabbia” di imputato, proclamandosi innocente. Ad accusare il carrozziere e altre 6 persone era stato il falso pentito Vincenzo Scarantino che si era autoaccusato di avere partecipato alla strage insieme a Salvatore Candura, anche lui calunniatore. Secondo l’accusa inziale, supportata dalle indagini del gruppo di investigatori Falcone-Borsellino capitanato da Arnaldo La Barbera, Orofino avrebbe fornito una targa pulita per la 126 rubata – che avrebbe anche tenuto nella sua officina – utilizzata come autobomba in via Mariano D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992 per uccidere il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e gli agenti della Polizia di Stato Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Nel luglio scorso il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di avere depistato le indagini sulla strage e hanno assolto il terzo imputato, il poliziotto Michele Ribaudo. Erano imputati di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia.  
Secondo l’accusa erano stati loro a imbeccare i malavitosi di borgata rendendoli complici degli stragisti e accusatori di persone – alcune già condannate per mafia – poi dichiarate innocenti. ANSA 7 settembre 2022




 

 


La sentenza per gli eredi di Giuseppe Orofino, nel frattempo deceduto, risale a luglio ma è diventata definitiva in questi giorni. Lo Stato dovrà versare quasi un milione e mezzo. L’imputato fu accusato dal falso pentito Vincenzo Scarantino e in primo grado gli venne inflitto l’ergastolo. L’avvocato: “Dovrebbero pagare i magistrati”

 

La sentenza della Corte d’Appello di Catania è stata emessa a luglio, ma da qualche giorno è passata in giudicato ed è dunque definitiva: lo Stato – precisamente il ministero dell’Economia – dovrà risarcire Giuseppe Orofino, che nel frattempo è morto, e quindi i suoi eredi con quasi un milione e emezzo di euro. Si tratta del carrozziere accusato ingiustamente dal falso pentito Vincenzo Scarantino di aver partecipato alla strage di via D’Amelio e che era stato condannato all’ergastolo nel 1996.

E’ il risarcimento più elevato riconosciuto dai giudici finora, anche perché Orofino a differenza degli altri condannati ingiustamente, era incensurato quando si ritrovò sotto inchiesta e poi sotto processo per uno dei fatti di sangue più gravi della storia recente. I suoi eredi riceveranno per l’esattezza un milione 404.925,25 euro.

Non è tenero con i magistrati l’avvocato di Orofino, Giuseppe Scozzola che – come riporta l’Adnkronos – commenta: “E’ assurdo che lo Stato non si rivalga nei confronti dei magistrati che hanno, seppure involontariamente, causato questo grande danno al mio assistito. Orofino è stato accusato ingiustamente da Scarantino di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, quando il collaboratore Salvatore Cancemi aveva detto più volte che non lo conosceva e che Scarantino non era un uomo d’onore”. E aggiunge: “Si sapeva benissimo che la riunione a Villa Calascibetta (di cui aveva parlato Scarantino, ndr) è stata smentita dai collaboratori Cancemi, ma anche da Santino Di Matteo e da Gioacchino La Barbera. Ricordo che il processo Borsellino ter cestinò completamente le dichiarazioni di Scarantino ma si continuava comunque a sostenere le tesi di Scarantino per poi arrivare alla sentenza di appello del Borsellino bis che è una sentenza illeggibile. Non si capisce perché debba essere lo Stato a pagare e non i magistrati”.

Scozzola ricorda proprio le dichiarazioni di Cancemi che durante un confronto con il falso pentito gli disse: “Non parli come un mafioso”, aggiungendo “chi ti ha suggerito di dire queste cose?”. “Il compito del magistrato – sottolinea Scozzola – sarebbe stato quello di dire: ‘Vediamo quello che sta succedendo’ e non nascondersi dietro il fatto che il collaboratore non aveva dichiarato alcune cose in tempo, è una assurdità”. Per l’avvocato poi i magistrati di “Palermo non sono meno responsabili di quelli di Caltanissetta”.

La sentenza con cui Orofino venne condannato all’ergastolo fu emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Renato Di Natale, il 26 gennaio 1996. La stessa pena fu inflitta anche a Salvatore Profeta e Pietro Scotto, mentre Scarantino fu condannato a 18 anni: ottenne una riduzione della pena proprio in virtù della sua collaborazione con la giustizia e venne quindi ritenuto per la prima volta attendibile.
Il 13 febbraio 1999 arrivò la sentenza del “Borsellino bis”: la Corte d’Assise presieduta da Pietro Falcone condannò all’ergastolo Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto, riducendo a 9 anni la condanna per Orofino, che rispondeva di favoreggiamento. Pietro Scotto venne assolto. Nel frattempo, però, Scarantino ritrattò tutto.

Nel 2002, il collegio di appello, presieduto da Francesco Caruso, decise – come ripercorre ancora l’Adnkronos – che a meritare l’ergastolo non dovessero essere solo 7 imputati ma 13. Si aggiunsero così i nomi di Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Nelle motivazioni del “Borsellino quater”, i giudici scrivono, tra l’altro, che “tra le altre “anomalie” c’era anche “la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla polizia scientifica di Palermo (‘su richiesta della locale squadra mobile’), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino alle 11 del lunedì 20 luglio 1992” poiché “quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente, all’interno della sua autofficina”.

Nel momento però in cui “la polizia scientifica eseguiva detti rilievi nell’officina di via Messina Marine – scrivevano i giudici – non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino” né “il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti”. Inoltre “era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992” che “detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze – affermavano i giudici – non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, ‘una 600, una Panda, una 126′”.
E proseguivano: “Detta ipotesi investigativa, rivelatasi fondata e coerente con i successivi rinvenimenti sullo scenario della strage, dei reperti dell’autobomba, non è spiegabile soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato. Diversamente – era la conclusione – non si spiegherebbe, sul piano logico, il motivo per cui la squadra mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera (già collaboratore del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, sin dal 1986), sollecitasse un intervento della polizia scientifica, per un immediato sopralluogo nell’officina di un carrozziere qualunque di Palermo, che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di una sua cliente”.

Nel 2017 arrivò la sentenza del processo di revisione: dopo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza e le ammissioni del falso collaboratore di giustizia Scarantino che avevano già portato alla scarcerazione di 7 imputati che stavano scontando l’ergastolo, la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta aveva assolto quei 7 imputati dall’accusa di strage. Altre tre persone furono assolte da reati minori e assolto lo stesso Scarantino. Il giudizio di revisione riguardava Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della macchina che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage, mentre Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Tomassello aveva avuto una condanna per associazione mafiosa e non per strage.PALERMO TODAY 7.9.2022


Via D’Amelio, maxi risarcimento per il carrozziere accusato ingiustamente dal falso pentito Scarantino: un milione e mezzo di euro agli eredi

 
La Corte d’appello di Catania accoglie l’istanza dei familiari di Giuseppe Orofino. L’avvocato Scozzola: “Lo Stato dovrebbe rivalersi sui magistrati che sbagliarono”.
Il “più grande depistaggio della storia della giustizia italiana”, com’è stato chiamato, costa caro al ministero dell’Economia e delle Finanze: un milione 404.925,25 euro dovrà essere pagato a sette eredi di Giuseppe Orofino, il carrozziere palermitano che nel 1996 era stato condannato all’ergastolo per la strage Borsellino. Si tratta del risarcimento più alto fin qui stabilito, Orofino era incensurato a differenza degli altri indagati che furono ingiustamente accusati.
Ad accusare Orofino, il falso pentito Vincenzo Scarantino, il balordo del quartiere Guadagna trasformato in provetto Buscetta: restò in carcere quasi sette anni. Nel 2008, il boss Gaspare Spatuzza ha poi smascherato l’impostore, ma restano tanti misteri: chi orientò per davvero Scarantino? Sotto accusa è finito l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, ma è morto nel 2002. Sotto processo sono finiti tre componenti del gruppo d’indagine sulle stragi Falcone e Borsellino: a luglio, due poliziotti sono stati salvati dalla prescrizione, uno è stato assolto.
Dice l’avvocato Giuseppe Scozzola, legale della famiglia Orofino: “Lo Stato, chiamato a pagare il risarcimento, dovrebbe rifarsi sui magistrati di Caltanissetta che gestirono il falso pentito e poi emisero le condanne. Il collaboratore Cancemi aveva detto chiaramente in un drammatico confronto che Scarantino non era affatto un uomo d’onore, non parlava neanche come un mafioso”.
 

Condannato ingiustamente per la strage di via D’Amelio, maxirisarcimento per un carrozziere

 

La sentenza per gli eredi di Giuseppe Orofino, nel frattempo deceduto, risale a luglio ma è diventata definitiva in questi giorni. Lo Stato dovrà versare quasi un milione e mezzo. L’imputato fu accusato dal falso pentito Vincenzo Scarantino e in primo grado gli venne inflitto l’ergastolo. L’avvocato: “Dovrebbero pagare i magistrati”

La sentenza della Corte d’Appello di Catania è stata emessa a luglio, ma da qualche giorno è passata in giudicato ed è dunque definitiva: lo Stato – precisamente il ministero dell’Economia – dovrà risarcire Giuseppe Orofino, che nel frattempo è morto, e quindi i suoi eredi con quasi un milione e mezzo di euro. Si tratta del carrozziere accusato ingiustamente dal falso pentito Vincenzo Scarantino di aver partecipato alla strage di via D’Amelio e che era stato condannato all’ergastolo nel 1996. E’ il risarcimento più elevato riconosciuto dai giudici finora, anche perché Orofino a differenza degli altri condannati ingiustamente, era incensurato quando si ritrovò sotto inchiesta e poi sotto processo per uno dei fatti di sangue più gravi della storia recente. I suoi eredi – a trent’anni dalla strage – riceveranno per l’esattezza un milione 404.925,25 euro.
Non è tenero con i magistrati l’avvocato di Orofino, Giuseppe Scozzola che – come riporta l’Adnkronos – commenta: “E’ assurdo che lo Stato non si rivalga nei confronti dei magistrati che hanno, seppure involontariamente, causato questo grande danno al mio assistito. Orofino è stato accusato ingiustamente da Scarantino di avere partecipato alla strage di via D’Amelio, quando il collaboratore Salvatore Cancemi aveva detto più volte che non lo conosceva e che Scarantino non era un uomo d’onore”. E aggiunge: “Si sapeva benissimo che la riunione a Villa Calascibetta (di cui aveva parlato Scarantino, ndr) è stata smentita dai collaboratori Cancemi, ma anche da Santino Di Matteo e da Gioacchino La Barbera. Ricordo che il processo Borsellino ter cestinò completamente le dichiarazioni di Scarantino ma si continuava comunque a sostenere le tesi di Scarantino per poi arrivare alla sentenza di appello del Borsellino bis che è una sentenza illeggibile. Non si capisce perché debba essere lo Stato a pagare e non i magistrati”.

Scozzola ricorda proprio le dichiarazioni di Cancemi che durante un confronto con il falso pentito gli disse: “Non parli come un mafioso”, aggiungendo “chi ti ha suggerito di dire queste cose?”. “Il compito del magistrato – sottolinea Scozzola – sarebbe stato quello di dire: ‘Vediamo quello che sta succedendo’ e non nascondersi dietro il fatto che il collaboratore non aveva dichiarato alcune cose in tempo, è una assurdità”. Per l’avvocato poi i magistrati di “Palermo non sono meno responsabili di quelli di Caltanissetta”.

La sentenza con cui Orofino venne condannato all’ergastolo fu emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Renato Di Natale, il 26 gennaio 1996. La stessa pena fu inflitta anche a Salvatore Profeta e Pietro Scotto, mentre Scarantino fu condannato a 18 anni: ottenne una riduzione della pena proprio in virtù della sua collaborazione con la giustizia e venne quindi ritenuto per la prima volta attendibile. Il 13 febbraio 1999 arrivò la sentenza del “Borsellino bis”: la Corte d’Assise presieduta da Pietro Falcone condannò all’ergastolo Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto, riducendo a 9 anni la condanna per Orofino, che rispondeva di favoreggiamento. Pietro Scotto venne assolto. Nel frattempo, però, Scarantino ritrattò tutto.

Nel 2002, il collegio di appello, presieduto da Francesco Caruso, decise – come ripercorre ancora l’Adnkronos – che a meritare l’ergastolo non dovessero essere solo 7 imputati ma 13. Si aggiunsero così i nomi di Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Nelle motivazioni del “Borsellino quater”, i giudici scrivono, tra l’altro, che “tra le altre “anomalie” c’era anche “la singolare cronologia del sopralluogo eseguito dalla polizia scientifica di Palermo (‘su richiesta della locale squadra mobile’), nella carrozzeria di Giuseppe Orofino alle 11 del lunedì 20 luglio 1992” poiché “quest’ultimo aveva denunciato, appena un paio d’ore prima, il furto delle targhe (ed altro) da una Fiat 126 di una sua cliente, all’interno della sua autofficina”.

Nel momento però in cui “la polizia scientifica eseguiva detti rilievi nell’officina di via Messina Marine – scrivevano i giudici – non erano stati ancora rinvenuti, in via D’Amelio, né la targa oggetto della denuncia di Orofino” né “il blocco motore della Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti”. Inoltre “era soltanto nel successivo pomeriggio del 20 luglio 1992” che “detto blocco motore veniva attribuito ad una Fiat 126. Dette circostanze – affermavano i giudici – non sono affatto di poco momento, ove si rifletta sulla circostanza che, invece, già nel pomeriggio del 19 luglio 1992, fonti della polizia di Stato ipotizzavano l’utilizzo, come autobomba, proprio di una Fiat di piccole dimensioni e, in particolare, ‘una 600, una Panda, una 126′”.

E proseguivano: “Detta ipotesi investigativa, rivelatasi fondata e coerente con i successivi rinvenimenti sullo scenario della strage, dei reperti dell’autobomba, non è spiegabile soltanto con l’efficienza e la solerzia profusa dagli inquirenti nel cercare di far immediatamente luce, con il massimo sforzo investigativo praticabile, su di un fatto gravissimo, che cagionava anche la scomparsa prematura dei cinque appartenenti alla polizia di Stato, bensì necessariamente ipotizzando un apporto di tipo confidenziale da parte di taluno che (evidentemente) era ben informato sulle concrete modalità esecutive dell’attentato. Diversamente – era la conclusione – non si spiegherebbe, sul piano logico, il motivo per cui la squadra mobile di Palermo, diretta da Arnaldo La Barbera (già collaboratore del Sisde, con il nome in codice “Rutilius”, sin dal 1986), sollecitasse un intervento della polizia scientifica, per un immediato sopralluogo nell’officina di un carrozziere qualunque di Palermo, che aveva soltanto denunciato (appena un paio d’ore prima) il furto di alcune targhe da un’automobile di una sua cliente”.

Nel 2017 arrivò la sentenza del processo di revisione: dopo le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza e le ammissioni del falso collaboratore di giustizia Scarantino che avevano già portato alla scarcerazione di 7 imputati che stavano scontando l’ergastolo, la Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta aveva assolto quei 7 imputati dall’accusa di strage. Altre tre persone furono assolte da reati minori e assolto lo stesso Scarantino.

Il giudizio di revisione riguardava Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della macchina che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage, mentre Orofino era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Tomassello aveva avuto una condanna per associazione mafiosa e non per strage

PALERMO TODAY  7.9.2022


Che cosa disse Spatuzza nel 1998 sulla strage di via D’Amelio

 

I passaggi del colloquio investigativo che smentiva con dieci anni di anticipo il depistaggio sui falsi colpevoli e la confessione di Scarantino

La cosa più importante e fino ad allora sconosciuta – ma lo sarebbe rimasta per dieci anni – che Gaspare Spatuzza disse ai magistrati Vigna e Grasso nel 1998 (in un “colloquio investigativo” di due ore che riempì 80 pagine di molti argomenti e risposte) riguardava la strage di via D’Amelio in cui venne ucciso Paolo Borsellino. Era importante perché Spatuzza smentiva e demoliva – allora senza fornire ancora riscontri alla sua versione, come invece avrebbe fatto nel 2008 iniziando a “collaborare con la giustizia” – la versione che le inchieste e i processi stavano avallando in quel periodo, che avrebbe portato alla condanna di una decina di persone sulla base di confessioni false ed estorte a Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato falsamente della strage in conseguenza di “pressioni e abusi” da parte di chi lo interrogò. In particolare Spatuzza negò che fossero coinvolti nell’attentato lo stesso Scarantino e Giuseppe Orofino, accusato di avere collaborato alla preparazione dell’autobomba – una 126 rubata, secondo le sentenze – nel suo garage. Questi sono i passaggi in cui ne parla (qui c’è il testo completo).

SPATUZZA G.: OROFINO, non esiste questo.
Proc. GRASSO: OROFINO è quello che ne abbiamo parlato?
SPATUZZA G.: no, non esiste questo.
Proc. GRASSO: in che senso non esiste?
SPATUZZA G.: non esiste. Perché chi l’ha rubata, l’ha messa dentro e l’hanno preparata. Per logica stessa SCIORTINO custodiva la macchina dentro il garage; prendeva targhe da lì una macchina che ci ha in custodia lui e la mette nella macchina per andare a fare l’attentato. Poi vanno a rubare un’altra macchina.

Proc. GRASSO: uhm, e la macchina che avevano quella di OROFINO, come si spiega? Le targhe sono di OROFINO, OROFINO non sa nulla di questa storia, gli prendono le targhe, mettono in questa macchina, e poi si può andare a prepararla come autobomba, no?
SPATUZZA G.: si
Proc. GRASSO: che era di sabato o venerdì? Non si sa? E quello dell’autorimessa, non si doveva vedere, l’officina era lì? era presente? lo sapeva?
SPATUZZA G.: lui è estraneo a tutto. Aveva subito un furto.
Proc. GRASSO: lei allora dice che OROFINO non sa?
SPATUZZA G.: non esiste. Loro hanno questa situazione all’officina, e prendono per dire una macchina mia?
Dottore: e allora come è andata?
SPATUZZA G.: praticamente stu disgraziato di OROFINO fu coinvolto pirchi c’iru a rubari i targhi a notti stissu.
Proc. GRASSO: anche le targhe hanno rubato? Ma allora non si è fatta nell’officina di OROFINO la preparazione.
SPATUZZA G.: nru nru. (verosimilmente lo SPATUZZA annuisce come per dire di no).
Proc. GRASSO: e queste targhe di macchine a loro volta rubate? Oppure?
SPATUZZA G.: no, erano di macchine che OROFINO aveva nell’officina.
Proc. GRASSO: allora. OROFINO aveva le macchine, vanno a rubare nell’officina di OROFINO la targa che lui aveva dentro in riparazione. Dopo la usano per metterla nella macchina dell’autobomba, cosi è?
SPATUZZA G.: si.

Proc. GRASSO: che viene preparata in un altro luogo, e non nell’officina di OROFINO. E CIARAMITARO in questa cosa che cosa che c’entra? CIARAMITARO, mi scusi, SCARANTINO.
SPATUZZA G.: non esiste completamente.
Proc. GRASSO: non partecipa completamente?
SPATUZZA G.: non esiste.
Proc. GRASSO: e scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?
SPATUZZA G.: lui era a Pianosa, ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri. Toto LA BARBERA.
Proc. GRASSO: e quell’altro che era con lui, ANDREOTTI?
SPATUZZA G.: ma, di . . . . . vieninu chisti? Si sono rifatti di nuovo pentiti?
Proc. GRASSO: no, dice che poi eh, non.
SPATUZZA G.: tutti questi cinque nella stessa cordata, evidentemente.

Durante un’udienza nel processo “Borsellino quater” l’11 giugno 2013, Gaspare Spatuzza – divenuto dal 2008 “collaboratore di giustizia” – ricorderà di avere parlato di questo con i magistrati (lui dirà nel 1997): «Purtroppo si sono chiusi dei processi di cui io all’inizio potevo dare un contributo fondamentale (…) Mi volevano portare dalla parte dello Stato ma allora non ero ancora preparato: però ho inteso dare un indizio seppur lieve che per quanto riguardava la strage di via D’Amelio stavano facendo un grossissimo, grossissimo errore. Ho cercato già nel ’97 di mettere in guardia l’istituzione, a dire “siate cauti per la questione di via D’Amelio perché la storia non è così. Però non ho sentito più nessuno (….) Purtroppo hanno seguito un altro… e oggi ci troviamo qui a rifare tutto daccapo”». POST 13.7.2017

 


27 gennaio 1996,
Dal  minuto 6 e 15 secondi della lettura della sentenza  viene inquadrato un uomo che si dispera e che sbatte la testa contro le pareti della gabbia. Si tratta di Giuseppe Orofino, é  incensurato. ed è accusato di aver custodito nella sua autofficina la Fiat 126 utilizzata per l’attentato  in autobomba.
 
Così riferisce  La Repubblica del 28 gennaio
Il giorno dopo:
 
“VIA D’ AMELIO, 3 ERGASTOLI
L’urlo disperato di un uomo appena condannato all’ergastolo ha segnato la fine di un processo, il primo dei processi per le infami stragi siciliane del 1992. E’ stato un grido che ha gelato il sangue, soprattutto il sangue dei suoi due complici che l’hanno visto crollare, sbattere la testa contro il vetro blindato, svenire tra le braccia dei carabinieri. “Disgraziati, mi avete rubato la vita”, ha urlato ai giudici il carrozziere Vincenzo (sic!) Orofino, il “basista” della strage di via D’Amelio, quello che custodì nella sua officina l’autobomba che in una domenica di luglio uccise il procuratore Paolo Borsellino e cinque poliziotti della sua scorta. Ergastolo per il “basista”. Ergastolo per Pietro Scotto, il mafioso che intercettò le telefonate del procuratore. Ergastolo per Salvatore Profeta, il boss della Guadagna che commissionò il furto di un’utilitaria poi imbottita con quasi un quintale di tritolo. Tre ergastoli e, un attimo dopo la sentenza, nell’aula di Corte di Assise c’ è l’inferno. Il carrozziere viene trascinato per i piedi in una stanza dove accorre un medico, i familiari degli imputati cominciano a inveire contro “il pentito fasullo” e i magistrati, la sorella del “basista” morde la mano di un maresciallo dei carabinieri, i parenti delle vittime piangono in silenzio.
Dentro la gabbia, il boss della Guadagna Salvatore Profeta sembra in trance, poi sussurra con un soffio di voce mentre i carabinieri lo portano via: “Oggi, i giudici hanno fatto la strage degli innocenti”. Il primo processo agli esecutori materiali del massacro di via D’Amelio si è concluso nella tarda mattinata di ieri a Caltanissetta, dopo 27 mesi, 116 udienze e una camera di consiglio lunga 65 ore. E si è concluso con una sentenza annunciata per quei tre ergastoli e con un piccolo colpo di scena per la condanna inflitta a Vincenzo Scarantino, il pentito di questo processo, il mafioso che per conto dei boss ordinò a due balordi di rubare una Fiat 126. I pubblici ministeri Anna Palma e Carmelo Petralia avevano chiesto per Scarantino 17 anni di reclusione, la Corte di Assise presieduta da Renato Di Natale l’ha condannato a 18 anni, uno in più. Il pentito, che da tempo vive naturalmente in un luogo segreto, è stato “scarcerato” con un’ ordinanza della Corte….”
 

Scarantino ritratta: ‘Su Borsellino ho mentito’

 

15.9.1998. COMO – Crolla e ritratta Vincenzo Scarantino, il pentito chiave del processo per la strage di via D’Amelio. E con lui rischia di crollare l’intero impianto accusatorio messo in piedi dalla procura di Caltanissetta. Davanti ai giudici del processo bis, che si sta svolgendo a Como, Scarantino oggi si é rimangiato tutto. “Io dell’omicidio di Borsellino sono innocente”, ha detto l’uomo che si era accusato di aver procurato la Fiat 126 poi imbottita di tritolo che é  costata la vita al giudice antimafia e ai cinque uomini della scorta. Grazie alle dichiarazioni di Scarantino, nella prima tranche del processo erano stati condannati all’ergastolo Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. A lui stesso erano stati inflitti diciotto anni di carcere.

Immediata la replica del pubblico ministero. Che ha chiesto – insieme ai difensori degli imputati – che Scarantino fosse sentito non piū come imputato ma come testimone: con l’obbligo quindi di dire la verità  pena l’incriminazione per falsa testimonianza. Ma l’accusa è¨ andata oltre, paventando l’ipotesi di atti intimidatori ai danni del collaboratore di giustizia. “Chiediamo – ha detto il pubblico ministero Antonio Di Matteo – l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare. Mi riferisco in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”.

Scarantino ha poi spiegato l’ennesima versione del suo pentimento. Lo ha fatto platealmente, chiedendo agli agenti che lo circondavano di farsi da parte, perché  le telecamere potessero riprenderlo. Forti pressioni degli inquirenti mentre era in carcere, ha detto: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Prigionia dura, denuncia Scarantino, “cibo scarso e con i vermi”, con un’unica via d’uscita: parlare. E allora Scarantino decide di collaborare, raccontando ciò che sapeva sul traffico di droga a Palermo. “Ma il dottor La Barbera (al tempo dei fatti capo del gruppo antistragi, ndr) disse che gli interessavano solo gli omicidi”, ha detto oggi Scarantino. Aggiungendo: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni. Ma a me non interessavano i piccioli”.

Un altro clamoroso dietro front, quindi. L’ultimo della lunga serie di colpi di scena che hanno accompagnato la storia di questo strano pentito. Anomalo perché prima dell’arresto di lui, anche in ambienti investigativi, si sapeva poco quanto niente. Un delinquente di quartiere, secondo alcuni nemmeno un mafioso. Viveva alla Guadagna, la zona controllata da Pietro Aglieri, con la moglie Rosaria Basile e tre figli. Ma rispondeva gli ordini del cognato, Salvatore Profeta, della cosca di Santa Maria di Gesù.

Poi l’arresto e subito dopo – Ȩ il 24 giugno del ’94 – le prime dichiarazioni. Che consentono di ricostruire la dinamica della strage di via D’Amelio e di risalire ai responsabili. Scarantino accusa, e si autoaccusa.

Passa piÙ di un anno, ma il 10 ottobre 1995 Rosalia Basile, la moglie, esce allo scoperto. Dice che il marito mente, che le sue dichiarazioni sono state estorte “a forza di botte e minacce” dai magistrati di Caltanissetta. Abbandona il marito, che viveva con lei sotto protezione, e con i figli torna alla Guadagna. Ma su Scarantino in quei giorni sparano tutti. Gli avvocati degli imputati cercano di dimostrare che lui non può essere pentito di mafia perché uomo d’onore non è stato mai. Chiamano in ballo due transessuali, che affermano di avere avuto rapporti con lui. Cosa che, secondo il codice d’onore di Cosa nostra, impedirebbe di entrare nell’organizzazione. Ma anche i boss pentiti dicono di non conoscerlo, lo fanno Cancemi, La Barbera e Di Matteo.

Le sue dichiarazioni però reggono. I riscontri ci sono. Lui ribadisce di essere un “leale collaboratore di giustizia”. E le condanne al primo “processo Borsellino” arrivano. Scarantino continua a parlare e fa altri nomi. Quelli di Giovanni Brusca e Raffaele Ganci, cha danno il via alla nuova inchiesta. “Non ho fatto prima i loro nomi per paura”, dice. Anche la moglie torna sui suoi passi e l’8 marzo 1997 si riconcilia col marito, rinunciando al divorzio. Il pentito Scarantino guadagna credibilità, diventa sempre più il pilastro su cui si regge l’intero processo. Un pilastro che si credeva stabile. Fino a oggi.

(15 settembre 1998 LA REPUBBLICA)


Storia di un incontro segreto per 15 anni

Cosa sappiamo oggi del contenuto del colloquio del 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza, divenuto noto per un “disguido”

Il 26 giugno 1998 il Procuratore nazionale antimafia e il suo vice – Pier Luigi Vigna e Pietro Grasso – vedono nel carcere dell’Aquila Gaspare Spatuzza nella forma di un “colloquio investigativo” prevista dalla legge per consentire delle conversazioni informali tra investigatori e detenuti che possano essere utili alle indagini senza avere valore processuale (e senza un avvocato presente, per esempio). L’incontro dura due ore e mezzo (con una pausa) e la trascrizione della conversazione occuperà 80 pagine: dal suo contenuto si evince che ce ne fosse stato almeno un altro in precedenza.

Proprio per la sua natura legale, dell’incontro non è informato nessuno, né ce ne sarà traccia resa pubblica. Quindi ancora oggi nel 2017 non sappiamo niente di che cosa sia successo in conseguenza delle cose dette in quel colloquio, alcune delle quali apparentemente molto rilevanti per delle indagini e dei processi in corso. La prassi prevede che del contenuto del colloquio connesso a indagini o notizie di reato sia data informazione alle procure competenti: quello di cui Spatuzza parla – con dichiarazioni molto laconiche, ma numerose e in alcuni punti molto chiare – riguarda potenzialmente inchieste in corso a Palermo, Caltanissetta, Firenze. Il processo più importante che potrebbe esserne influenzato (ne sarà infatti travolto nel 2008, quando Spatuzza parlerà ufficialmente collaborando con la giustizia) è in corso a Caltanissetta e riguarda la strage di via D’Amelio in cui nel 1992 è stato ucciso il magistrato Paolo Borsellino: si sarebbe concluso di lì a poco con la condanna di imputati in realtà estranei all’attentato, e dei quali Spatuzza aveva sostenuto l’estraneità già in quel colloquio segreto.

L’ipotesi logica e realistica è che i due magistrati della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) abbiano inoltrato la documentazione a Caltanissetta (ma in quale forma? La registrazione del colloquio, una sua trascrizione o una sintesi? La prassi era di inoltrare una breve nota informativa sulle relative questioni). Pietro Grasso ha spiegato al Post:

Di solito il Procuratore Vigna – io all’epoca ero Sostituto procuratore – trasmetteva alle Procure interessate il verbale riassuntivo in cui si evidenziavano gli spunti investigativi su cui avviare le indagini. Dopo la collaborazione di Spatuzza, nel 2008, a richiesta della Procura di Caltanissetta, furono mandate le copie di tutte le registrazioni dei colloqui investigativi per far tornare alla memoria del collaboratore eventuali circostanze e particolari che col passare del tempo poteva aver dimenticato.

Quello che sappiamo è che la procura di Caltanissetta non risulta aver dato seguito in nessun modo alle rivelazioni ineludibili di quel colloquio investigativo, in cui Spatuzza sostenne l’estraneità alla strage dei principali accusati, aggiungendo dettagli da verificare e riscontrare: non venne interrogato formalmente Spatuzza (sarà lui a dire di non essere mai stato interrogato in questo periodo), non venne registrato o ufficializzato nessun atto che, come la ragione dei colloqui investigativi prevede, cerchi riscontri e conferme a quanto detto dallo stesso Spatuzza. Non solo rimase ignoto e segreto il colloquio investigativo e quanto vi era stato detto, ma fu come se non fosse mai avvenuto, non ne seguì nessuna traccia o conseguenza.

Quando la tesi dell’accusa – trasformata in sentenze di condanna – sulla strage di via D’Amelio verrà disintegrata nel 2009 sarà perché Spatuzza avrà deciso di diventare formalmente “collaboratore di giustizia” e dunque di raccontare ufficialmente e con valore giudiziario quello che aveva già accennato nel 1998 e molto altro, compresi particolari che varranno come riscontri indiscutibili alla sua versione e al suo accusarsi di aver partecipato all’organizzazione dell’attentato (in particolare relativi alla preparazione dell’autobomba usata). Ma anche nelle molte occasioni – interrogatori e processi – in cui Spatuzza parlerà da lì in poi, si limiterà a citare un colloquio investigativo avvenuto nel 1997 con Vigna, oltre a quelli successivi del 2005 e 2008 con Vigna prima e Grasso poi che sono culminati nel suo “pentimento”.

La prima volta che viene rivelato che Spatuzza aveva già smentito nel 1998 l’accusa contro almeno due dei condannati per la strage via D’Amelio, sostenendo che le confessioni su cui si reggeva tutta l’inchiesta erano false ed erano state ottenute con la forza, è il 12 giugno 2013, e avviene per caso. Fino ad allora, ricordiamolo, sono passati quindici anni in cui quel colloquio non è esistito.
Durante un’udienza di un nuovo processo per la strage di via D’Amelio – chiamato “Borsellino quater”, basato in gran parte sulle dichiarazioni di Spatuzza – l’avvocato di uno degli imputati usa una trascrizione di quel colloquio per interrogare Spatuzza. Dove l’ha presa, l’avvocato Sinatra?

La trascrizione – 80 pagine – è stranamente tratta dalle carte del pubblico ministero, ovvero i documenti che l’accusa porta a processo, accessibili agli avvocati delle parti. Come ci sia finita, essendo un documento escluso dal valore processuale per legge, non si capisce: il Procuratore generale di Caltanissetta, alla richiesta di spiegazioni, dirà che è stato «un disguido» (può darsi che ci sia stato un equivoco sull’espressione «agli atti» usata in fondo al verbale, o che il trascrittore l’abbia definito “interrogatorio”). Sta di fatto però che l’avvocato Sinatra ha deciso di usarlo e questo genera una discussione concitata in aula sul suo uso (ascoltabile qui dal minuto 1.48.20, FILE 3/5) dopo le vivaci obiezioni del pm: e il presidente della Corte – che si è ritirata per decidere – conclude che non si può interrogare Spatuzza sui fatti citati in quel verbale.

Però prima della decisione e in mezzo alle continue opposizioni del pubblico ministero l’avvocato ha potuto chiedere poche cose a Spatuzza su quel colloquio investigativo e sui suoi contenuti: e Spatuzza prima ha negato con certezza che ci sia stato alcun colloquio investigativo nel 1998 («no, no, impossibile»), confermando solo quello del 1997; poi di fronte alla documentazione datata con esattezza ha ammesso di essersene ricordato all’improvviso: «ma è durato pochissimo» (durò due ore e mezza, in realtà). E in generale – dopo che per il resto del processo aveva ripetuto le sue dichiarazioni e i suoi ricordi con grande precisione e insistenza – Spatuzza adesso risponde (qui, FILE 5/5 dall’inizio) «non ricordo» praticamente su tutto quello che aveva detto nel 1998, e in alcuni casi nega di averlo detto. Avvisando con una certa premura il Presidente della Corte che lui quel verbale non lo aveva firmato, comunque (era normale che chi non aveva deciso di “collaborare” formalmente non firmasse nessun documento del genere). Il giorno precedente, Spatuzza aveva ricordato in aula di avere accennato già ai tempi del suo arresto alcune informazioni sulla falsa pista via D’Amelio, ma lo aveva collocato in un colloquio investigativo del 1997 che nel tempo ricorderà a volte solo con Vigna e a volte anche con Grasso. Quello del 1998 con Vigna e Grasso era stato taciuto fino a quel momento dallo stesso Spatuzza.

Non è solo strano come quel documento sia entrato tra gli atti del pm, ma non è ancora oggi certo che cosa sia, in concreto, quel documento: apparentemente, e secondo le informazioni raccolte dal Post, la trascrizione del colloquio – molto parziale e inaccurata – non risalirebbe al 1998, ma al 2009 (2 febbraio 2009 è la data della breve nota dell’appuntato dei carabinieri che lo inoltra al procuratore di Caltanissetta, firmando la trascrizione). L’ipotesi più plausibile è che la procura di Caltanissetta avesse ricevuto da Vigna una nota relativa (Vigna parla di un «verbale riassuntivo» a fine colloquio) a ciò che Spatuzza aveva detto rispetto alla strage di via D’Amelio e l’avesse trascurata (la procura di Caltanissetta si oppose per anni a considerare decine di smentite e prove contro la prima versione di cui si era fatta promotrice): fino a quando, dopo il “pentimento” di Spatuzza, il nuovo Procuratore generale Lari non aveva chiesto il file audio del colloquio del 1998 e l’aveva fatto trascrivere. Ma è un’ipotesi.

Una nuova richiesta degli avvocati della difesa alla fine del processo “Borsellino quater” – siamo allo scorso aprile 2017 – ha fatto cambiare idea al presidente, e quella trascrizione è stata acquisita agli atti del processo, ed è dunque oggi “ostensibile”, ovvero pubblica. Ma malgrado l’evidente illogicità di questo, non lo è il file audio originale che potrebbe mostrare più chiaramente tutto quello che venne detto in quel colloquio, spesso sbocconcellato o con salti logici nella forma della trascrizione oggi pubblica. Se la trascrizione pubblica è completamente aderente, non c’è ragione di tenere segreto il file audio; se non lo fosse, c’è ragione di mostrare il file audio, a questo punto “ostensibile” come la sua trascrizione. Il file audio è in possesso sia della procura di Caltanissetta che della Direzione Nazionale Antimafia. Il suo contenuto e la sua storia di quindici anni piena di passaggi ignoti potrebbero essere preziosi per capire qualcosa di più del grande depistaggio acclarato sulla strage di via D’Amelio o su altre cose che possano essere state ignorate.

 POST 13 luglio 2017

 
27 gennaio 1996, lettura di una sentenza. A partire dal minuto 6 e 15 secondi di questo bel servizio di Nemo (rai2) si vede un uomo che batte la testa contro le pareti trasparenti della gabbia in cui è imprigionato. Si chiama Giuseppe Orofino, ed è incensurato. È stato accusato di aver custodito nella sua autofficina la Fiat 126 che fu trasformata in autobomba. Ha figli e una moglie inferma di cui si prende cura. https://m.youtube.com/watch?v=WFhzRnxZ1DY
Così ne parla, compiaciuto, il quotidiano Repubblica
Il giorno dopo:
“VIA D’ AMELIO, 3 ERGASTOLI
CALTANISSETTA – L’urlo disperato di un uomo appena condannato all’ergastolo ha segnato la fine di un processo, il primo dei processi per le infami stragi siciliane del 1992. E’ stato un grido che ha gelato il sangue, soprattutto il sangue dei suoi due complici che l’hanno visto crollare, sbattere la testa contro il vetro blindato, svenire tra le braccia dei carabinieri. “Disgraziati, mi avete rubato la vita”, ha urlato ai giudici il carrozziere Vincenzo (sic!) Orofino, il “basista” della strage di via D’Amelio, quello che custodì nella sua officina l’autobomba che in una domenica di luglio uccise il procuratore Paolo Borsellino e cinque poliziotti della sua scorta. Ergastolo per il “basista”. Ergastolo per Pietro Scotto, il mafioso che intercettò le telefonate del procuratore. Ergastolo per Salvatore Profeta, il boss della Guadagna che commissionò il furto di un’utilitaria poi imbottita con quasi un quintale di tritolo. Tre ergastoli e, un attimo dopo la sentenza, nell’aula di Corte di Assise c’ è l’inferno. Il carrozziere viene trascinato per i piedi in una stanza dove accorre un medico, i familiari degli imputati cominciano a inveire contro “il pentito fasullo” e i magistrati, la sorella del “basista” morde la mano di un maresciallo dei carabinieri, i parenti delle vittime piangono in silenzio. Dentro la gabbia, il boss della Guadagna Salvatore Profeta sembra in trance, poi sussurra con un soffio di voce mentre i carabinieri lo portano via: “Oggi, i giudici hanno fatto la strage degli innocenti”. Il primo processo agli esecutori materiali del massacro di via D’Amelio si è concluso nella tarda mattinata di ieri a Caltanissetta, dopo 27 mesi, 116 udienze e una camera di consiglio lunga 65 ore. E si è concluso con una sentenza annunciata per quei tre ergastoli e con un piccolo colpo di scena per la condanna inflitta a Vincenzo Scarantino, il pentito di questo processo, il mafioso che per conto dei boss ordinò a due balordi di rubare una Fiat 126. I pubblici ministeri Anna Palma e Carmelo Petralia avevano chiesto per Scarantino 17 anni di reclusione, la Corte di Assise presieduta da Renato Di Natale l’ha condannato a 18 anni, uno in più. Il pentito, che da tempo vive naturalmente in un luogo segreto, è stato “scarcerato” con un’ ordinanza della Corte….”
Sono passati 26 anni. Giuseppe Orofino urlava disperato e sbatteva la testa perché era stato condannato all’ergastolo essendo innocente ed estraneo ai fatti. Così come gli altri della gabbia. Ora è morto come sua moglie che lo ha preceduto. Il quotidiano la Repubblica ha appena dato la notizia che i suoi eredi riceveranno un maxi risarcimento per il tragico errore giudiziario.
Lo pagherà la collettività cioè tutti noi. L’allora giovane magistrato dell’accusa che assiste compiaciuto alla lettura della sentenza incurante del rumore che fa la testa di Orofino contro il vetro blindato della gabbia si chiama Antonino Di Matteo. Continuerà a battersi con successo per far condannare innocenti e tenterà, per fortuna invano, di impedire che la verità dei fatti venga infine alla luce. Per anni è andato in giro con una super scorta facendo credere di essere nel mirino dei mafiosi assassini di Falcone e Borsellino che dormivano sonni tranquilli visto lui si dedicava alla persecuzione di innocenti falsamente indicati come colpevoli. È diventato cittadino onorario di cento città e consigliere del Csm. Nemmeno un euro del maxi risarcimento destinato agli eredi di Giuseppe Orofino gli verrà decurtato dallo stipendio.