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- FIAMMETTA BORSELLINO racconta sua padre
- Mio PADRE in FAMIGLIA
- MIO PADRE E LO SPECCHIO
- MIO PADRE PAOLO BORSELLINO
- NON SMETTEVA MAI DI SORRIDERE, DI SDRAMMATIZZARE
- FIAMMETTA ricorda il padre
- MIO PADRE AVEVA IL PIENO SOSTEGNO DELLA SUA FAMIGLIA
- MIO PADRE IN QUEI 57 GIORNI
- MIO PADRE IN QUEI 57 GIORNI CI TENNE…
- IL LAVORO DI MIO PDRE ER UN ATTO D’AMORE
- MIO PADRE E GIOVANNI FALCONE
- HA LOTTATO FINO ALLA MORTE PER DARE UN’IMMAGINE SANA DELLA MAGISTRATURA
Quel tragico 25 novembre
In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse sparato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.
Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo.
Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita.
L’estate del ‘92 volevo andare in Africa, ma un po’ per le apprensioni di mio padre e un po’ per la tragedia di Giovanni Falcone trovammo un compromesso: mi lasciò partire per l’Indonesia insieme alla famiglia del suo migliore amico, Alfio Lo Presti. Un altro spicchio di normalità, ritagliato nel momento più buio. Telefonavamo a casa ogni volta che potevamo, ma spesso non lo trovavamo, per lui erano giorni di lavoro incessante. Ho ancora davanti a me l’immagine di Alfio chiuso in una cabina che sbatte la cornetta contro il telefono e scoppia in lacrime, quando venimmo a sapere della strage. Poi l’incubo del ritorno verso casa. Il giorno in cui morì eravamo riusciti a parlare con papà quando in Italia era ancora molto presto, ma nella mia mente i ricordi si sovrappongono. Di sicuro ho cominciato a pensare, e lo penso ancora oggi, che quel viaggio potrebbe avermi salvato la vita. Perché se fossi stata a Palermo, dopo la domenica trascorsa al mare, probabilmente l’avrei accompagnato dalla nonna, e sarei morta con lui. Invece sono sopravvissuta, e per essere la donna che sono diventata ho dovuto affrontare un lungo percorso, seguendo il principale insegnamento di papà: fare il proprio dovere. Ho continuato a studiare, ho costruito il mio futuro gettando le basi per mettere su una famiglia. A 19 o 20 anni non puoi avere gli strumenti per comprendere appieno quello che ti sta accadendo intorno, il che non significa delegare ad altri la domanda di verità: noi quella l’abbiamo sempre chiesta, a partire dal 20 luglio 1992. Ma ci sono consapevolezze che si acquisiscono nel tempo.
Dopo la strage ho terminato gli studi all’università, ho cominciato a lavorare con una dedizione che non mi concedeva molto spazio per l’impegno civile. Insieme ai miei fratelli abbiamo seguito mia madre nella sua lunga malattia, e siamo rimasti in rispettosa attesa nei confronti delle istituzioni giudiziarie che dovevano darci delle risposte. In fondo anche questo è stato un insegnamento di nostro padre: avere fiducia nell’amministrazione della giustizia. C’erano i processi, abbiamo aspettato che si concludessero. Nel frattempo ho messo al mondo due (splendide – ns. commento) bambine, Felicita e Futura, rappresentano il mio paradiso: sono loro a darmi la forza di guardare l’inferno che s’è spalancato davanti ai miei occhi quando ho scoperto i depistaggi fabbricati da alcuni investigatori, di fronte ai quale i magistrati non hanno sorvegliato o si sono voltati dall’altra parte. Ora che le mie figlie sono cresciute mi posso permettere di dedicarmi anche ad altro, la mia famiglia mi concede il tempo e il sostegno necessario a studiare le carte processuali e girare l’Italia per denunciare uno scandalo di cui ancora non si vede la fine. Forse in passato qualcuno ha scambiato la nostra educazione e il nostro rispetto verso le istituzioni per superficialità e buonismo, ma ha sbagliato i suoi calcoli. Prima la nostra casa era sempre piena di amici, falsi amici, mitomani, controllori che volevano verificare le nostre reazioni e tenerci buoni; adesso non ci cerca più nessuno, siamo soli. Ma non importa, abbiamo ugualmente la forza per andare avanti.
Quando uscivo di casa la mattina con papà, lo precedevo sempre, così se qualcuno l’avesse voluto colpire, io gli avrei fatto da scudo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati.
Una persona di altra epoca e con un stile difficilmente conciliabile con il “Sistema” descritto da Luca Palamara e fatto di magistrati chattatori.
Quando, dopo la morte di Falcone gli fu proposto di candidarsi per l’incarico di procuratore nazionale antimafia, rifiutò di farlo.
Mio padre e Giovanni Falcone, assieme ad altri validissimi colleghi, non soltanto portarono il “loro” maxi processo a dibattimento dinanzi alla Corte di Assise di Palermo ma videro il loro impegno definitivamente consacrato nella sentenza della Cassazione del 1992.
Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo.
Il contrasto alla criminalità organizzata per mio padre non era solo un impegno straordinario ed eccezionale di un momento della vita o della carriera ma era una scelta di vita.
Si è sempre battuto, senza doppi fini, per il riscatto dei palermitani e di tutti i siciliani.
Era un lettore onnivoro. Leggeva di tutto. Soprattutto era appassionato di letteratura tedesca. Kafka lo catturava. Poi i grandi polizieschi. Ho ereditato la sua grande collezione di Simenon. E i siciliani, non ultimo Sciascia, che era per lui un punto di riferimento.
Aveva la consapevolezza di dovere applicare sempre legge anche contrastando feroci organizzazioni criminali, tenendo bene a mente che il giudice “non lotta” contro nessuno.
E’ stato lasciato solo e tradito sia da vivo che da morto.
Era ironico. Mai banale. E dotato di grande umanità. Mio padre va ricordato soprattutto per l’eredità morale e professionale che ha lasciato, per l’impegno profuso nell’istruzione del cosiddetto maxi processo di Palermo, per ciò che lo univa a Giovanni Falcone e per ciò che da lui lo distingueva.
La scelta della legalità per mio padre era anche la consapevolezza di stare dalla parte della legge, delle Istituzioni, del cittadino.
Il suo lavoro è stato un atto di amore non solo nei confronti della sua città, l’amatissima Palermo, ma nei confronti di tutto l’intero paese, perché per molti anni si è preferito pensare che il problema fosse circoscritto soltanto a determinate regioni d’Italia e che dovesse riguardare soltanto giudici e magistrati. Non è così: per anni si è preferito pensare che non fosse un problema collettivo ed è questo che ha esposto questi uomini ad un maggiore pericolo. Mio padre diceva sempre “È la mafia che mi ucciderà, ma lo farà quando avrà avuto la completa certezza che io sia rimasto solo”.
Non avere dato a mio padre la possibilità di riferire alla procura di Caltanissetta quello che aveva scoperto sulla morte dell’amico significò relegarlo nella condizione di solitudine e pericolo che lo ha portato al 19 luglio. Lui pregò le istituzioni di essere ascoltato perché aveva cose importanti da riferire, ma nessuno lo volle fare e questo lo portò ad uno stato di disperazione tale da dichiarare, in uno degli ultimi suoi interventi pubblici, di sapere chi aveva ucciso Giovanni Falcone. Dopo la morte di mio padre non fu mai chiesto di questo diniego alle persone che non lo vollero sentire, cosa che forse denota come c’era un preciso interesse non solo della mafia ma anche di apparati dello Stato collusi.
Ha fatto il suo lavoro di magistrato con dedizione e come un atto di amore non solo verso la Sicilia ma verso tutta la nazione. Lavoro portato avanti costi quel che costi. Lui e Falcone infatti si definivano “cadaveri viventi” ma sono andati avanti col sorriso incontro alla morte non pensando mai di cambiare strada e le loro idee continuano a camminare nelle gambe di altre persone. C’è quindi una vittoria della vita sulla morte.
Aveva il tema della cura. Figlio di un farmacista, voleva curare la sua regione e tutta la nazione, perché la mafia era un problema del Paese e non solo della Sicilia, come a molti ha fatto comodo pensare.
Un altro elemento poi che ha spinto mio padre a scegliere la legalità e non la mafia è stata l’idea della cura, che ha appreso fin da piccolo da suo padre Pietro, farmacista a cui tutti andavano a chiedere consigli.
Mio padre e Giovanni Falcone si definivano dei morti che camminano, ma lo facevano con il sorriso perché è bello morire per ciò in cui si crede.
A chi fa del bene non può succedere niente? Non è sempre così, si possono eliminare fisicamente le persone ma non le loro idee e gli insegnamenti che camminano sulle gambe di altre persone. Questa è la vera vittoria sulla vita e sulla morte.
Il 19 luglio, giorno della strage, mio papà si alza alle 5 del mattino e la sua ultima lettera l’ha scritta in risposta a dei ragazzi di una scuola di Padova che erano rimasti male perché lui non aveva potuto partecipare a un loro invito. Quelli erano giorni particolari e mio padre era molto impegnato in attività continua dal punto di vista investigativo e di testimonianza. In quei giorni non aveva neanche tempo da dedicare a noi figli, anche se lui era un padre molto presente, proprio perché in quei giorni lui era consapevole di fare una corsa contro il tempo.
Era un magistrato apolitico, indipendente, rispettoso delle garanzie del cittadino, e soprattutto serio. Ha sempre agito tenendosi lontano da pregiudizi ideologici o visioni politiche della società.
Non ha mai parlato delle sue indagini o scritto libri sulle sue indagini.
Parlava spesso con i colleghi più giovani raccontandogli le difficoltà che si incontravano nell’interrogare il pentito di mafia, della complessità delle vicende narrate dal mafioso, delle loro strategie processuali, e soprattutto degli scenari squarciati dai pentiti con le loro dichiarazioni.
Ha lavorato con onestà, coscienza e profonda umanità. Invece mio padre pensava che tutti potessero dare un contributo nella lotta alla mafia: senza il contributo della società civile non ti ottengono risultati. Ed è il motivo per cui sono morti. Sono stati lasciati soli a combattere quella battaglia.
A mio padre stavano a cuore i legami tra mafia, appalti e potere economico. Questa delega gli fu negata dal suo capo, Piero Giammanco, che decise di assegnargliela con una strana telefonata alle 7 del mattino di quel 19 luglio. Ma pm e investigatori non hanno mai assunto come testimone Giammanco, colui che ha omesso di informare mio padre sull’arrivo del tritolo a Palermo…».
Papà sapeva coinvolgerci tutti, portando a casa delle storie di umanità che ci raccontava. Era un padre che faceva cose enormi, pericolosissime per la sua vita, e ce le sapeva spiegare cosicché noi non gli abbiamo mai messo bastoni tra le ruote. Per lui era importante il nostro sostegno.
La più grande eredità che le ha lasciato mio padre é la faccia pulita dell’Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell’ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti.
Il rapporto con lui è sempre stato un rapporto normale, anche se so che può apparire strano da pensare e soprattutto da capire. Mio padre ha sempre cercato di impostare con noi figli un rapporto basato sull’ascolto, sul dialogo e sui valori dell’umiltà e del rispetto.
Bellezza e amore sono le parole dominanti nella nostra vita. Mio padre anche nei momenti più difficili non smetteva mai di sorridere anche utilizzando come antidoto alla paura l’ironia, che permetteva di sdrammatizzare. Il 19 luglio 1992 noi eravamo ragazzi adolescenti, tra i 19 e i 22 anni. A quell’età è facile lasciarsi un po’ andare e se non si trovano delle risorse interiori. Abbiamo scelto la strada della vita, se non avessimo fatto così avremmo totalmente sconfessato quelli che sono stati gli insegnamenti di mio padre.
Avevamo capito da subito il valore delle cose che faceva, mio padre, senza dovercelo dire e anche per noi non c’erano altre strade possibili a quelle di vivere la nostra vita, pur con sacrifici, una vita scortata ma che camminava insieme alle nostre situazioni di bambini e adolescenti; ci muovevamo coi motorini in una città pericolosa ma papà sapeva che se ci avesse rinchiuso sotto una campana di vetro ci saremmo morti dentro. Questo non vuol dire che non abbiamo pagato dei prezzi molto alti: ricordo l’estate trascorsa tutti insieme all’Asinara, che allora era un carcere, non perché mio padre si stesse preparando al maxi processo con Falcone, come erroneamente viene spesso riportato, ma perché lo Stato non era in grado di garantire la sicurezza a Palermo per i suoi uomini migliori.
Un’infanzia certo non semplice, tanti sono stati i prezzi pagati ma per fortuna i nostri genitori sono riusciti a darci quelle risorse necessarie per superarli e andare avanti. Mio padre è stato un papà molto presente, il tempo che trascorreva con noi era di altissima qualità e, nonostante fosse un uomo così impegnato, trovava il modo di partecipare agli incontri con i nostri professori. C’erano dei momenti per lui sacri in famiglia, come il ritorno da scuola, ci mettevamo a tavola e ci raccontavamo in attesa del pranzo. Nulla avrebbe potuto distrarlo dal trascorrere con noi quegli attimi. La nostra casa era come un porto di mare, sempre aperta a tutti. Era il suo modo di essere, anche con i ragazzi della scorta che erano come dei figli.
A noi, quel 19 luglio non ci è piombato addosso, eravamo stati preparati a quell’evento, non a parole vivevamo una quotidianità in cui non potevi renderti conto che Palermo, in quegli anni era in uno stato di guerra, con centinaia di morti non solo tra le forze dell’ordine ma anche tra i civili. Anche se non si è mai preparati alla morte di un padre.
Era un uomo comune, che ha fatto il proprio dovere con la ‘pratica antimafia quotidiana’. Mai ha pensato di lasciare la Sicilia.
Con i miei fratelli ci siamo nutriti di mio padre e di mia madre. Ci hanno dato un esempio formidabile. 19 anni con mio padre equivalgono a 10 vite con lui. Ci hanno educato entrambi alla vita e alla morte. Mio padre è sempre stato molto presente, nonostante il lavoro. Non so come abbia fatto. Erano i padri degli anni ottanta.
Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi.
Il rapporto con la morte: Sin da quando ero bambina è sempre stata una di famiglia. Vedere mio padre con la scorta, vedere morire i suoi amici, colleghi, giornalisti… ha fatto sì che per me fosse un pensiero sempre presente. Allo stesso tempo ho interiorizzato quello che diceva mio padre, ossia che bisogna comunque vivere. La paura è un fatto umano, ma bisogna farsi forza e andare avanti, perché la paura non diventi un ostacolo.
Persone come mio padre sono morte semplicemente per aver compiuto con onestà il loro dovere e questo in un Paese normale non può accadere. In Italia accade perché la piaga della criminalità organizzata dal Sud al Nord è stata sempre esistente dal dopoguerra e chi la combatte incorre in chiari pericoli. Questo anche perché non si è abbastanza incoraggiati e protetti dallo Stato, dove, anzi, la criminalità ha spesso trovato terreno fertile, soprattutto in alcuni apparati. La lotta alla mafia in Italia è difficile e chi l’ha combattuta è morto perché è restato solo. Le stragi del ’92, però, hanno sicuramente segnato un giro di boa.
Amo ricordare di mio padre quella sua incredibile capacità di non prendersi mai sul serio ma al tempo stesso di prendersi gioco di taluni suoi interlocutori . Queste qualità caratteriali l’hanno aiutato in vita ad affrontare di petto qualsiasi cosa minasse il suo ideale di società pulita e trasparente e ne sono sicura lo avrebbero accompagnato ancora in questo particolare periodo storico, in cui l’illegalità e la corruzione continuano ad essere fenomeni dilaganti nel nostro paese.
Non finirò mai di ringraziare mio padre per avermi fatto capire il reale significato della parola ‘vivere’ e del ‘combattere per i propri ideali’ per il raggiungimento dei quali, come disse più di una volta ‘è bello morire’.
Il rapporto con mio padre era come quello che hanno tutte le figlie con il loro genitore: negli anni dell’adolescenza l’ho stressato per avere il motorino – e sono riuscita ad averlo anche prima dei 14 anni – e per avere orari di uscita più “flessibili” rispetto a quelli che mi aveva dato. Prima che gli fosse assegnata la scorta (una realtà blindata per Paolo Borsellino già nel 1984, ndr) quando mi accompagnava a scuola scendevo sempre prima e non proprio vicino all’ingresso, perché mi vergognavo e la stessa cosa facevo quando magari rientravo la sera in compagnia di alcuni miei amici.
Rispetto alla paura mio padre diceva l’non è stabilire se uno l’ha o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza.
Sapevamo di essere esposti anche noi come nucleo familiare ai rischi che il suo lavoro comportava, ma non abbiamo mai vissuto all’interno di una campana di vetro antiproiettile né mio padre ha mai voluto mettercene una sulla testa. Negli anni, crescendo, sono maturate nuove consapevolezze, purtroppo per niente piacevoli. Sembra brutto da dire, ma è stato un po’ come se fossimo preparati alla strage del 19 luglio in Via D’Amelio. Non sapevamo quando sarebbe successo, ma sapevamo che sarebbe successo. Ma prevedere una mazzata che ti sta per arrivare tra capo e collo non allevia il dolore che ti provoca. E per noi quel giorno è iniziata una devastazione, era come se avessero annientato anche noi”.
Io, i miei fratelli e mia madre abbiamo accompagnato mio padre nel suo percorso percorso professionale. Non gli abbiamo mai chiesto di fermarsi, né tantomeno messo i bastoni tra le ruote perché noi eravamo convinti di percorrere la strada del bene. Questa consapevolezza ci ha fatto superare la paura. Ci ha fatto talvolta quasi non vedere quei pericoli che potevamo toccare con mano. Noi siamo sempre stati convinti che questa potesse essere l’unica strada percorribile. Questo non vuol dire che abbiamo vissuto una vita di sacrifici o che vivevano chiusi in casa. Mio padre ci ha lasciati liberi di fare le nostre esperienze, di uscire, di muoverci a Palermo da soli. Contemporaneamente però vivevamo una realtà quasi anormale: era chiara per noi la situazione di pericolo, la precarietà data dal vedere un padre che ha dovuto accettare di spostarsi solo in presenza della scorta“.
Dopo la morte di mio padre abbiamo cercato di aggrapparci con le unghie e con i denti alla vita, nonostante fossimo devastati dal dolore. Io mi trovavo all’estero e il mio primo pensiero è stato quello di rientrare e condividere quel dolore con mia madre, con mia sorella Lucia e con mio fratello Manfredi. Non è stato affatto facile, eravamo ogni giorno esposti mediaticamente in maniera estrema, quando volevamo soltanto starcene in silenzio a elaborare il nostro lutto. È stato un processo lungo e faticoso che continua tutt’oggi, tra l’altro. Finiti gli studi, decisi di accettare di lavorare per il Dipartimento Servizi Sociali del Comune di Palermo, ricoprendo quel ruolo come figlia di vittima della mafia. In quel periodo desideravo una normale quotidianità, volevo che si spegnessero i riflettori sulla mia vita come “figlia di Paolo Borsellino” e volevo cercare di essere soltanto Fiammetta. Senza mai dimenticare gli insegnamenti e l’esempio di mio padre, ma cercando di tirarmi fuori da quell’onda d’urto che si è generata dopo la strage di via d’Amelio. Ho lavorato per il Comune di Palermo per 17 anni, ma poi mi sono resa conto che non era più quello che mi rendeva felice. Ho quindi deciso di lasciare il “posto fisso” e dedicarmi ad altro, soprattutto a testimoniare il valore della legalità agli studenti. La presenza, il faccia a faccia, è questo il modo migliore per trasmettere quegli ideali di giustizia e legalità che mi ha insegnato mio padre e che è fondamentale trasmettere ai più giovani per svolgere una vera azione contro tutte le mafie.
Anche nei momenti più bui, quelli in cui il pericolo lo toccavamo con mano, non abbiamo mai perduto passione per le cose belle della vita. Questo non significa che non ci pesasse l’incombere costante del pericolo. E tuttavia mio padre non ha mai posto dei limiti alla libertà di noi figli di muoverci liberamente, di uscire e di vivere le nostre esperienze. Eppure lo vedevo che era molto in pensiero per noi. La notte quando ci ritiravamo ci aspettava sveglio consumando centinaia di sigarette! Basti pensare che il 19 luglio ero addirittura in Thailandia con amici di famiglia e quel viaggio fu proprio un compromesso raggiunto con papà. Io in realtà volevo andare in Africa, in una missione, insieme a un gruppo di volontariato con cui ero in contatto. Mio padre quella volta mi chiese di cambiare meta e quasi scherzando disse: «Fiammetta, se mi ammazzano come ti raggiungono laggiù?».
Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo.
Non gradiva mai, in quei giorni, che noi famigliari ci muovessimo con lui. Diceva che eravamo a un punto di non ritorno e che dopo Capaci non aveva più Falcone a farli da scudo. Ci disse anche che non sarebbe più riuscito a mamma e a noi una vita normale.
Non impiccherò la mia vita a questa storia, non voglio rimanere inchiodata all’ingiustizia subita. La verità sulla strage di via D’Amelio e quello che è successo dopo non riguarda solo la nostra famiglia, ma l’intero Paese. E anche se non arriveremo a ricostruirla per intero, e dopo 27 anni so bene che è molto difficile, avrò comunque la consapevolezza di non dovermi rimproverare nulla. A differenza di altri.
Selezione tratta da racconti, scritti, interviste, dichiarazioni e colloqui a cura Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco