LEONARDO GUARNOTTA, una vita nel bunker

LEONARDO GUARNOTTA, magistrato antimafia con Borsellino e Falcone

 

IL BUNKER

Lì dentro c’era l’“altra” Palermo, quella che non faceva puzza di morte e di mafia, quella lontana dai labirinti dove i poteri s’incastravano uno con l’altro fino a confondersi. Dove le Eccellenze e i Commendatori a volte avevano lo stesso sguardo famelico dei malacarne che s’incrociavano a Santa Maria del Gesù o ai Danisinni, alla Vergine Maria, alla Cala. La città che si mischiava nella sua sporcizia.

Il bunker, così buio e tetro, sembrava un luogo sicuro. Nonostante quei fucili mitragliatori che imbracciavano i ragazzi delle scorte. E poi c’erano loro, in carne e ossa, veri, C’era Angelo Crispino, maresciallo della Guardia di Finanza, un sorriso enigmatico e insieme affettuoso, una parete di legno e dietro la parete i segreti finanziari della Sicilia, conti, numeri, prestanome, denaro che passava dalle mani di un mafioso a quelle di un galantuomo.

E poi c’era anche Paparcuri, Giovanni, che era l’autista saltato in aria il 29 luglio del 1983 con il consigliere Rocco Chinnici ma che ‒ inabile alla guida per i burocrati del Ministero ‒ era diventato abilissimo nel maneggiare i primi computer. Il cervello informatico del pool. E poi, ancora poi, il confine con i giudici. Giuseppe Di Lello. Paolo Borsellino. Giovanni Falcone. E lui, Leonardo Guarnotta.

 


Falcone e Borsellino, Di Lello e Guarnotta, ecco il pool che farà la storia

Mi hanno scelto perché c’era bisogno di uno che sapesse fare squadra e io garantivo in qualche modo quell’unità di intenti e di comportamenti di cui il pool aveva assolutamente necessità.

Ritengo sia andata proprio così, che Giovanni, Paolo e Peppino abbiano fatto il mio nome al consigliere istruttore Caponnetto perché credevano che io li avrei potuti davvero aiutare e sostenere con il mio lavoro da mediano. Un lavoro quotidiano, meticoloso, infaticabile.

Il pool aveva bisogno anche di uno come me.

D’altronde il campione, il fuoriclasse, c’era già: Giovanni Falcone. Era il punto di riferimento di un gruppo solido e affiatato.

A pensarci adesso, eravamo diversi uno dall’altro. Anche per il nostro “credo” politico. Borsellino, che Falcone prendeva in giro chiamandolo “camerata”, in realtà si professava ‒ chissà, era vero o Paolo ci scherzava sopra? ‒ “monarchico”. Poi c’erano gli altri sparsi per le varie anime della sinistra. Falcone e io più moderati, Giuseppe Di Lello un po’ più a sinistra di tutti noi. Ma in quella stagione di Palermo le nostre opinioni politiche contavano davvero ben poco, anzi niente. Contava applicare la legge senza guardare in faccia nessuno. Lo posso dire con assoluta certezza: nessun provvedimento adottato in quegli anni è passato al vaglio delle lenti deformanti delle nostre idee politiche.

Ricordo un episodio, tra i tanti, a tal proposito. Un giorno Falcone incriminò un falso pentito, Giuseppe Pellegriti, che stava raccontando frottole su Salvo Lima e lo accusava, pur sapendolo innocente, di essere stato il mandante degli omicidi di Carlo Alberto dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo, Pio La Torre e Rosario Di Salvo.

Lo sapevano tutti chi era Salvo Lima, uno dei potenti della Sicilia, ritenuto il proconsole di Giulio Andreotti nell’isola e contiguo ad ambienti mafiosi, come si sussurrava in giro, ma Falcone non si pose nemmeno per un istante il problema: Pellegriti andava incriminato per calunnia.

Per essersi comportato in tal modo, Giovanni subì duri attacchi da chi all’improvviso ‒ paradossalmente proprio per la sua onestà intellettuale ‒ aveva perso fiducia in lui.

Per raccontare quegli anni e quella esperienza giudiziaria devo insistere su questo punto: l’unica nostra guida era la legge, il rispetto delle regole.

Voglio però ritornare alla telefonata del consigliere Caponnetto e a cosa accadde dopo, quando accettai di entrare nel pool. Da quel momento tutto cambiò, come dicevo, e anche in fretta. Il giorno seguente, mentre stavo riposando, ricevetti la telefonata di un maresciallo dei carabinieri che mi preannunciò che da lì in poi sarei stato sotto tutela.

“Mi raccomando, domani non esca se non arriva la scorta”, mi preannunciò. Da allora per 31 anni in servizio e per tre anni e sei mesi da pensionato non sono più rimasto solo. Ho sempre avuto come angeli custodi a Palermo e fuori Palermo i poliziotti che hanno accompagnato ogni mio movimento. All’inizio in maniera discreta, poi in misura rinforzata. Anno dopo anno. Ricordo che ci fornirono un impermeabile anti-proiettile di cui si volle provare la “tenuta”, ma si accertò che non era di alcuna utilità, essendo dotato di una blindatura “morbida” che non aveva opposto “resistenza” ai colpi di pistola esplosi contro in prova al poligono della Guardia di Finanza.

Sì, la mia vita è proprio cambiata. Dalle tranquille passeggiate per il centro e le gite a fine settimana nella nostra casetta di Trabia all’isolamento più totale. E a volte mi è capitato di vivere episodi che mai avrei pensato di vivere. Un giorno, al rientro a casa, i poliziotti della scorta, preoccupati dalla presenza di un uomo sul tetto dell’edificio di fronte alla mia abitazione e temendo che si fosse appostato con cattive intenzioni nei miei confronti, per proteggermi fecero scudo con i loro corpi portandomi di peso dalla strada all’androne dello stabile. Poi venne accertato che si trattava di un tecnico che stava montando una parabola per la tv.

Con il passare del tempo il livello di protezione si fece sempre più alto.


Una difficile scelta di vita in una Palermo pronta ad esplodere

Falcone, Borsellino e Di Lello avevano la scorta già da qualche anno, erano protetti giorno e notte, mentre io all’epoca arrivavo in ufficio, accompagnavo i miei figli Debora e Michele a scuola o mia moglie Lidia in giro per negozi utilizzando la nostra autovettura.

Sapevo bene che quando ti assegnano la scorta la tua vita cambia immediatamente e per molto tempo. Anche per tutta la vita lavorativa, anche quando sei ormai in pensione, come è capitato a me e a tanti colleghi.

Così mi presi qualche giorno per riflettere e ne parlai a lungo in famiglia. Non avevo la vocazione dell’eroe e sapevo perfettamente a cosa andava incontro un giudice che si fosse occupato di mafia in quel periodo a Palermo.

La città era una santabarbara pronta a esplodere. E infatti esplose. Era spaventosa Palermo in quegli anni, spaventosa.

Ma proprio per questa ragione – la situazione estremamente critica in cui versava la nostra Palermo – ero anche consapevole che fosse giunto il momento di fornire il mio pur modesto contributo a quella causa comune.

In famiglia il lungo “dibattito” lo chiuse mia moglie con una frase. Una sera, dopo cena, ritornando sull’argomento, mi guardò e con un soffio di voce mi disse: “Dall’emozione che ho colto nelle tue parole e dalla luce nel tuo sguardo, sono sicura che hai intenzione di accettare il nuovo incarico; cosa aspetti ancora, accettalo, se ritieni che sia tuo dovere, non solo come giudice ma come uomo”.

Oggi come allora sono convinto che non ci fosse altra risposta possibile. Il mio sogno, all’inizio della carriera, era di fare il giudice istruttore. E quel sogno mi stava portando dentro il pool antimafia, anche se in quel momento non mi rendevo conto di star entrando nella storia di Palermo, della Sicilia e di questo Paese. Veramente non me ne sono reso conto neanche negli anni a seguire: io volevo fare il giudice, solo il giudice. Con la toga addosso mi sono sempre sentito una persona normale. Certo, rileggendo gli avvenimenti di quella stagione, in effetti tanto normale tutta questa storia non lo è stata.

Ma si tratta di una consapevolezza che è arrivata dopo, molto dopo, con il trascorrere del tempo, ritornando con il pensiero al nostro lavoro, alle malevole critiche subite, ai tentativi di destabilizzare il pool, ma soprattutto alla sorte toccata ai colleghi che se ne sono andati, che non ci sono più.

Presa la decisione di accettare la proposta del consigliere Caponnetto, lo contattai per comunicargli la mia disponibilità. “Sono con voi”, gli dissi, ed ero contento, anche perché contagiato dall’entusiasmo con il quale Falcone, Borsellino e Di Lello si dedicavano da mesi a quel lavoro che, ora, sarebbe diventato anche il mio.

Dopo quella telefonata la mia vita è significativamente cambiata perché, con i colleghi giudici istruttori e con i pubblici ministeri della Procura (Giuseppe Ayala, Giusto Sciacchitano, tra gli altri), che mi piace ricordare, e grazie a loro, ho vissuto un’esperienza giudiziaria unica e irripetibile. Ho trascorso un periodo che mi ha arricchito dal punto di vista professionale, ma anche segnato profondamente sul piano umano, rinsaldando in me, con passione e dedizione, i valori della legalità e della giustizia.

A distanza di tanti anni, mi sono chiesto come mai Caponnetto e gli altri avessero pensato a me. Credo ‒ credo, certezze non ne ho ma un po’ di esperienza sì, vista l’età e visto tutto quello che ho vissuto con quei miei colleghi, con quegli uomini ‒ di avere trovato delle risposte.


Il “bunker”, lì dove passo dopo passo è nato il maxi processo a Cosa Nostra

Il “bunkerino” è uno stretto corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, dato che non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata e mai riverniciata. All’esterno era installata una telecamera che consentiva di vedere chi vi accedesse. All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo quella di Giovanni, e poi ancora quella di Paolo.

In fondo c’era un angusto locale, occupato da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, quando venne ucciso il giudice Rocco Chinnici. Paparcuri aveva ripreso a lavorare presso il nostro ufficio e, con grande spirito di servizio, dedizione e impegno non comune, si era riconvertito in un ottimo, esperto informatico.

Sul lato sinistro si apriva la porta che immetteva nell’archivio. In quei locali erano custodite centinaia di faldoni contenenti gran parte delle copie degli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni Ottanta. E, nonostante la mole di carte fosse lievitata sino a farsi smisurata, tutti noi eravamo diventati in grado di individuare il faldone in cui era conservato il documento che, tra migliaia, ci interessava consultare.

Quei documenti erano ancora lì il 5 gennaio 1995, quando, come giudice istruttore in proroga, misi fine all’esperienza del pool antimafia con il deposito del cosiddetto maxi-quater, ovvero l’ordinanza-sentenza a carico di Alfano Michelangelo + 183, ai quali si contestavano una quarantina di reati.

All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio del primo piano rialzato, si trovavano le stanze occupate da me (prima di posizionarmi in quella lasciata da Paolo) e da Giuseppe Di Lello, nonché una spaziosa stanza adibita a ufficio di quel manipolo di finanzieri, al comando del capitano Ignazio Gibilaro, che ci ha fattivamente e provvidenzialmente supportati nell’esame della copiosissima documentazione bancaria (assegni, libretti di risparmio, distinte, transazioni) nella quale, altrimenti, ci saremmo persi.

Fuori dalla porta del “bunkerino” stazionavano i ragazzi delle scorte e, molto spesso, si vedevano giornalisti in cerca di notizie.

A proposito di rappresentanti della carta stampata, l’inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta, il primo importante “uomo d’onore” a transitare dalla parte dello Stato, calamitò ulteriormente l’attenzione della stampa, che diede grande risalto, oggi si direbbe “mediatico”, alle iniziative poste in essere dal pool, avamposto di contrasto al dilagare del fenomeno mafioso. Tra i cronisti che si occuparono delle nostre vicende desidero ricordare Attilio Bolzoni, Giuseppe D’Avanzo (prematuramente scomparso il 30 luglio 2011), Francesco La Licata, Saverio Lodato, citati in rigoroso ordine alfabetico, decani del giornalismo antimafia e di inchiesta, i quali hanno scritto articoli e libri su Cosa nostra e sulle connessioni con il potere politico, assolvendo con rigore e onestà intellettuale a un compito fondamentale: informare l’opinione pubblica, disvelare ciò che qualcuno vuole nascondere, cercare e fornire prove, scoprire la verità.

Attilio Bolzoni e Saverio Lodato vennero addirittura sottoposti, nel 1988, a misura cautelare in carcere con l’accusa di avere pubblicato alcune dichiarazioni, ancora coperte dal segreto istruttorio, del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, “uomo d’onore” catanese. Scarcerati dopo qualche giorno, vennero assolti, sia pure a distanza di tre anni, con formula piena dall’imputazione.

E non mancano esempi di giornalisti che hanno sacrificato la propria vita per la ricerca della verità e di giornali ed editori che hanno saputo dare conto, senza perseguire interessi di parte, delle principali complessità e spinosità sociali, culturali, ambientali e storiche. Il dovere di cronaca, che consiste proprio in questo, fallisce e tradisce il suo obiettivo se quelle criticità vengono “manipolate” al fine di travisare i fatti o nascondere inconfessabili interessi di bottega.

Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo al “bunkerino”.


Rocco Chinnici, il giudice che aveva capito tutto e non si piegava

Di mattina eravamo sempre in giacca e cravatta, ma specie nei pomeriggi e nelle sere d’inverno, terminati gli impegni ufficiali, Giovanni e io ci mettevamo un po’ in libertà, indossando un maglione: ricordo che il mio era verde, quello di Giovanni rosso, i nostri colori preferiti.

Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte, e più volte è accaduto che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”. Una delle non poco frequenti battute scherzose di Giovanni? Forse, ma pensando alla storia di Giovanni Falcone, a tutto quello che gli è accaduto e che ha dovuto subire e a come è stato demolito il pool antimafia dopo l’avvento del consigliere Antonino Meli in quel nefasto 1988, quella sua battuta mi è apparsa negli anni sempre più profetica. «Togliamo il disturbo allo stato…».

Uno snodo fondamentale, del quale avrò modo di parlare nel prosieguo. Noi del pool avevamo quindi abbandonato le stanze utilizzate in precedenza, mentre il consigliere Caponnetto aveva occupato la stanza che era stata del suo predecessore. Il consigliere Rocco Chinnici.

All’Ufficio di Istruzione avvertivamo ancora la sua presenza, a tutti noi mancava molto. L’uomo che aveva gettato il seme per la nascita del pool era anche fisicamente imponente.

Pieno di vitalità, possedeva una grande esperienza in materia di mafia, parola che pronunciava all’antica con due effe: non diceva mafia, diceva “maffia”.

Era poco incline al compromesso, era duro e di tanto in tanto irascibile; un uomo tutto d’un pezzo, come si suol dire.

Per questo Cosa nostra lo riteneva molto pericoloso.

Ricordo il suo passo pesante che risuonava nel corridoio il pomeriggio, quando a volte veniva a vedere se ci fosse ancora qualcuno.

Apriva la porta di una delle nostre stanze e, constatato che il collega era intento sulle carte, quasi si scusava, chiarendo che non era sua intenzione controllare la nostra presenza in ufficio ma solo accertarsi se, per caso, non avessimo dimenticato le luci accese…

Il giorno della sua uccisione ero a Trabia, nella casa al mare. Mi stavo facendo la barba e, informato da un amico dell’accaduto, corsi subito a Palermo. Ricordo che Falcone era in Thailandia per una rogatoria.

Come ho raccontato, alla strage sopravvisse Giovanni Paparcuri, autista di Falcone ma quella mattina addetto alla guida dell’auto blindata assegnata a Chinnici. Paparcuri riportò ferite gravissime delle quali, a tanti anni di distanza, patisce ancora le conseguenze.

Il giorno del funerale, terminata la funzione religiosa, mentre colleghi portavano sulle spalle la bara, io li precedevo reggendo, con le mani tremanti per la commozione, il “tocco” di Chinnici posato su un cuscino di velluto.


Cosa nostra è una e verticistica, l’intuizione che ha cambiato tutto

Ripensando adesso al periodo iniziale, mi sovviene l’impatto che ha avuto su di me. Fin dal primo giorno ho capito che avrei dovuto cambiare completamente il modo di lavorare, e così i primi tempi non furono affatto facili, era necessario che mi adattassi, al più presto, al metodo di lavoro dei compagni della mia nuova esperienza.

Nei primi venti anni della mia carriera avevo quasi sempre svolto le funzioni di giudice monocratico, assumendo gli incarichi di giudice istruttore a Milano, Pretore del Mandamento di Niscemi prima e del Mandamento di Termini Imerese dopo, nonché di giudice istruttore penale presso quel Tribunale.

Queste funzioni mi consentivano di svolgere indagini e accertamenti e di adottare i provvedimenti conseguenti in piena e assoluta autonomia.

Nel pool invece ho scoperto un diverso approccio, quel metodo che poi è stato il segreto di una strategia vincente.

La nostra forza stava nel saper lavorare insieme, nella capacità del leader di tenere unito il gruppo, motivarlo e spronarlo. Elementi determinanti e affinati nel tempo.

La costruzione del pool avvenne per fasi successive. Rocco Chinnici ebbe due geniali intuizioni. Innanzitutto quando disse che “un magistrato non è un uomo separato dalla società”. Affermazione che si traduceva concretamente nella sua costante partecipazione a dibattiti, convegni e incontri con gli studenti.

Chinnici voleva parlare di mafia in tutti i luoghi e le maniere possibili, convinto che l’azione repressiva non potesse essere l’unica risposta dello Stato. Occorreva coinvolgere scuole, società civile, associazioni, perché alla fine prevalesse la cultura della legalità, fondamentale per prosciugare le sorgenti che alimentavano Cosa nostra.

Rocco Chinnici è stato il primo magistrato a uscire dal Palazzo di Giustizia e dall’ambito del suo lavoro per cercare di spiegare alla gente che la lotta alla mafia doveva essere un impegno di tutti, non solo di pochi poliziotti, carabinieri e magistrati.

La seconda intuizione è stata considerare la mafia un’organizzazione verticistica e unitaria. Non una congrega di bande in perenne competizione fra loro, ma un’organizzazione che potremmo definire “federale” e dotata di una certa unità.

Per questo motivo le indagini non potevano riguardare il singolo omicidio o la singola famiglia, ma dovevano essere improntate a una visione generale del “problema”, perché, come era successo, un fatto che per un magistrato non aveva un particolare significato poteva assumerlo per un altro. Importante era che le informazioni circolassero all’interno di un gruppo ristretto che si occupava solo di mafia.

Fare parte di quella squadra voleva dire anche di più.

Io, l’ultimo arrivato, venivo soppesato dai colleghi e soprattutto dovevo offrire piena disponibilità. La dedizione doveva essere totale, non c’erano feste o week-end. E se improvvisamente bisognava partire, ad esempio per il Canada, come è successo a me, si faceva la valigia e si andava, dopo avere ottenuto in fretta e furia da mia moglie il “benestare” per l’espatrio, essendo i nostri figli ancora

minorenni.

E poi, quanti giorni prefestivi e, spesso, festivi trascorsi in ufficio per decidere sulle numerose istanze di libertà provvisoria inoltrate dagli imputati, o per adottare con urgenza altri provvedimenti. Al riguardo, essendomi stato affidato anche il compito di curare la gestione dei beni sequestrati ad alcuni imputati, nei momenti e nei giorni più impensati, di domenica o nei giorni di festa, mi è toccato occuparmi, insieme all’amministratore giudiziario, dei problemi più eterogenei, come ad esempio reperire un idraulico per una infiltrazione d’acqua da un appartamento a quello sottostante di uno stabile, al fine di evitarne l’allagamento.


Le riunioni del lunedì, i riti e le regole del pool di Palermo

Come si svolgeva l’attività quotidiana? Il pool aveva un calendario preciso. Ogni lunedì ci riunivamo nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, riferendo sull’esito delle indagini, e per programmare quella che iniziava, decidendo quali attività ognuno di noi avrebbe dovuto svolgere. All’occorrenza, ci ritrovavamo anche nel corso della settimana.

Ciascuno di noi quattro (ma in seguito pure Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci e Giacomo Conte, entrati a fare parte del pool dopo il trasferimento di Paolo Borsellino a Marsala), quando rientrava dalle frequenti rogatorie in Italia o all’estero, disponeva che copia degli atti istruttori fosse recapitata agli altri colleghi, con sopra un post-it sul quale era annotato, per esempio, “A Leonardo, per parlarne”.

Va detto che il pool antimafia non era un organo giudiziario previsto dall’allora vigente codice di procedura penale; la sua costituzione era stata resa possibile dalla facoltà riservata al consigliere istruttore, ai sensi dell’articolo 17 delle Disposizioni Regolamentari del codice di rito, di delegare a ognuno di noi le stesse indagini.

La strategia che si voleva attuare era, dunque, di affidare a un gruppo di magistrati, all’inizio davvero esiguo (come dicevo, noi quattro più il consigliere), tutte le indagini sulla criminalità organizzata comune e di tipo mafioso, in modo che ognuno di noi espletasse quelle assegnategli, ma i risultati venissero portati a conoscenza degli altri colleghi, affinché un prezioso patrimonio di informazioni non andasse disperso ‒ come spesso era accaduto in passato – e servisse anzi per prendere decisioni congiunte, a partire da una visione globale delle strutture e dei dinamismi di Cosa nostra, e anche per minimizzare i rischi personali.

Dunque, la filosofia del pool si basava sulla constatazione che, essendo quella consorteria un’organizzazione unitaria e verticistica fatta di mandanti ed esecutori materiali, era necessario accumulare, elaborare notizie e dati che consentissero ai componenti del pool di avere una visione complessiva del fenomeno mafioso, e nel contempo di affinare la propria professionalità.

Questa strategia non avrebbe avuto successo se non avessimo avuto, con tutte le nostre forze e capacità, l’obiettivo comune di restituire la Sicilia ai siciliani onesti, senza gelosie, invidie, smanie di protagonismo, tutti per uno e uno per tutti, tetragoni a ogni tentativo esterno di fomentare zizzanie e malcontento tra noi.

Sui criteri seguiti per la selezione dei componenti del pool e sull’unico, comune, superiore interesse perseguito fin dalla sua costituzione, e ribadito con fermezza, si soffermò poi Giovanni Falcone nel corso della sua audizione del 31 luglio 1988 davanti la Prima Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoppiò il cosiddetto “caso Palermo”, su cui ritornerò, e le tensioni tra Csm e pool antimafia erano ormai molto forti.

“Quando si è costituito il pool, poiché già sapevamo quali sarebbero stati gli attacchi esterni per cercare di sgretolarlo, per cercare di inserire problemi di attrito, abbiamo curato di fare in modo che tutte le componenti ideologiche e culturali della magistratura fossero presenti, e abbiamo lavorato insieme e continuiamo a lavorare, almeno fino a questo momento, in pieno accordo mettendo da parte totalmente problemi che non siano esclusivamente istituzionali”.

Due sono gli elementi che hanno caratterizzato l’azione del pool.

Accanto all’intenso scambio di informazioni, c’era lo sviluppo di quello che poi sarebbe stato mediaticamente inteso come “il metodo Falcone”.

Si tratta di un modo di procedere che, in seguito, è stato adottato dalla magistratura inquirente, facendo tesoro delle intuizioni di Giovanni.


La collaborazione con l’Fbi e l’inchiesta sulla “Pizza Connection”

Era l’ottobre del 1982 quando una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione Criminalità organizzata del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, nella sede della sua accademia a Quantico, in Virginia.

Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone che approfittò dell’occasione per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con le autorità giudiziarie che all’epoca erano impegnate nella complessa inchiesta condotta dall’FBI che aveva per oggetto un grosso traffico di droga tra Palermo e Stati Uniti gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.

Era la nota operazione “Pizza Connection”, così denominata perché pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina dalla Sicilia e per tenervi i summit tra affiliati.

In quegli anni di febbrile attività di indagine, ben presto si intensificarono le rogatorie negli Usa di Giovanni Falcone, di tutti noi giudici istruttori e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo, con l’obiettivo di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti.

Ma anche per trarre insegnamenti, e farne tesoro, dall’esperienza maturata da investigatori e funzionari dell’Fbi, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia anti-droga statunitense.

E fu possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan, che sarebbe diventato sindaco di New York nel 1994, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’FBI, e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan.

Nel corso delle numerose rogatorie a New York, si aprì davanti ai nostri occhi un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia, grazie anche alle conoscenze in tema di collaboratori di giustizia (figure ufficialmente introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) e alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di moderni strumenti di lavoro. Imparammo molto.

Quando entrammo nella sede dell’Fbi la nostra attenzione venne colpita prima dagli enormi boccioni d’acqua presenti in ogni ufficio, poi dalle agende elettroniche e dai computer utilizzati dagli investigatori con i quali avremmo collaborato.

Già Rocco Chinnici aveva più volte chiesto in dotazione questo tipo di strumenti, ma dal nostro Ministero non era mai arrivato nulla, per cui noi quattro e i pubblici ministeri ancora annotavamo i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su quaderni e agende cartacee.

Ci volle del tempo perché qualcuno si interessasse alle nostre condizioni di lavoro e finalmente rivolgesse da Roma lo sguardo verso la Sicilia.

Fu Liliana Ferraro, magistrato in forza al nostro Ministero, a essere inviata a Palermo dal guardasigilli Mino Martinazzoli per verificare le condizioni in cui operavamo.

Fu una visita molto utile perché Ferraro rimase sorpresa nel constatare le condizioni disastrose in cui versavano gli uffici: scrivanie e sedie malandate, macchine per scrivere obsolete o mal funzionanti, molti faldoni custoditi alla bell’e meglio, anche per terra, perché mancavano armadi sufficienti per contenerli.

Le indagini bancarie, infatti, avevano comportato l’acquisizione di una enorme quantità di documentazione. Grazie all’interessamento della dottoressa Ferraro, i nostri uffici vennero dotati di nuove ed efficienti attrezzature, anche informatiche.


Quei momenti di vita “leggera” vissuti con Falcone fuori dal bunker

La Guardia di Finanza produsse un grande contributo che servì di base per le indagini, oltre a fornire utili consigli pratici che diedero i loro effetti. E se oggi la Gdf è partner abituale di molte procure, allora questo affiancamento si presentava come una strada tutta da percorrere e dava il via a un gioco di squadra che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a Cosa nostra.

In questa prospettiva, assicurarono il loro impegno e la loro professionalità funzionari come Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli (venuto a mancare il 20 marzo 2013 e al quale mi legava un forte rapporto di amicizia), Alessandro Pansa, tutti funzionari di pubblica sicurezza che nel tempo, uno dopo l’altro, sono stati nominati capi della Polizia. E ancora, l’allora capitano dell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini (oggi generale di corpo d’armata in pensione, ma per me sempre “il capitano”, stretto collaboratore di Giovanni Falcone), che ho avuto il piacere di incontrare di nuovo dopo molti anni, nel 2018, in occasione del conferimento a entrambi del Premio internazionale Joe Petrosino.

Ora, a distanza di tantissimo tempo, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato in Italia e all’estero, avendo segnato una svolta epocale, delineato uno spartiacque definitivo rispetto ai precedenti sistemi di indagine in uso nel contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Visti dall’esterno, noi giudici del pool potevamo sembrare quattro matti, dalla mattina alla sera chiusi in un ufficio blindato… e forse un po’ matti lo eravamo davvero. Ma lì nel “bunkerino”, se non altro, ti sentivi un po’ più al sicuro rispetto a quando andavi in giro.

Ci occupavamo di mafia, delitti, droga, ci toccava interrogare criminali incalliti certamente non bene disposti nei nostri confronti. Per la verità, non lo erano neppure alcuni colleghi e qualche rappresentante della cosiddetta società civile, ma di questo vi dirò più avanti.

Insomma non un bel vivere e soprattutto con poco spazio per qualche intermezzo spensierato. Eppure, certamente anche per il clima di tensione nel quale eravamo immersi, i nostri rapporti personali divennero sempre più stretti e i colleghi diventarono amici.

A volte andavamo anche fuori a cena con le mogli in un ristorante che oggi non credo ci sia più, dalle parti di viale Michelangelo a Palermo.

Erano poche le serate dove ci lasciavamo andare, dove ci sentivamo davvero rilassati. Ne ricordo una in particolare: tutti seduti al tavolo, a me e ad altri sembrò che qualcosa si fosse posato sui capelli. Pensavamo si trattasse di una mosca o di un pezzettino di intonaco che si fosse staccato dal soffitto, ma guardandoci attorno cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, farne delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi.

Come degli adolescenti alla cena di fine anno scolastico, reagimmo con prontezza a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di… molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di averne lasciato sul campo un tappeto. Non so cosa abbia pensato il proprietario del ristorante, che magari all’inizio era pure contento di avere quel gruppo di magistrati nel suo locale.

Con Giovanni condividevo poi una grande passione per le penne stilografiche, quelle che si caricavano con l’inchiostro che, come mi è accaduto più volte, finiva con il tracimare dal contenitore con immaginabili, disastrose conseguenze. Un effetto devastante che si era verificato in misura particolarmente amplificata nel corso di una delle trasferte di lavoro. Portavamo nella tasca le nostre penne stilografiche (allora si usavano) e una volta in aereo, per un problema di depressurizzazione, la sua e la mia scoppiarono, inondando di inchiostro giacche, camicie e cravatte. Non era possibile cambiare gli indumenti inchiostrati perché non potevamo accedere alle valigie custodite in stiva ma, per fortuna, eravamo in inverno e, scesi a terra, ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.

Quando avevamo un po’ di tempo libero, andavamo da Bellotti De Magistris, all’epoca la bottega più fornita di Palermo, per visionare i nuovi arrivi di stilografiche, sui quali ci teneva puntualmente informati il titolare del negozio. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche, e quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata ne faceva sfoggio con me. Ricordo che

un giorno mi chiamò nel suo ufficio. Lo trovai che stava facendo finta di scrivere con una penna stilografica che – notai subito – doveva essere stato il suo più recente, costoso acquisto. Immaginai dove intendesse andare a parare e gli sedetti di fronte senza parlare, non volevo dargli soddisfazione, finché fu Giovanni a chiedere: “Ma tu non vedi niente di nuovo, non mi devi dire niente?” Io risposi: “Veramente sei tu che mi hai fatto venire nel tuo ufficio, cosa devi dirmi?” E lui: “Non vedi che sto scrivendo con una nuova penna? Ti piace?” E io di rimando: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che comprammo assieme”. Gli avevo rovinato la sceneggiata, me ne disse di tutti i colori e alla fine ci mettemmo a ridere come due ragazzini.


Penne stilografiche e papere, coppe e centinaia di sigarette fumate

Scrivo e man mano i momenti leggeri riaffiorano.

Qualche volta succedeva che Giovanni si divertisse a “scoprire” cognomi siciliani da tradurre… in lingua italiana. Una mattina venne da me e mi chiese: “Leonardo, che fine ha fatto quell’imputato che si chiama Assaggialuva?”

Gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel cognome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?” Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non ammise che l’imputato di cui parlava era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva.

E poi devo assolutamente raccontare di una trasferta fatta insieme negli Stati Uniti e in Canada. Quella volta fu necessario che io mi fermassi a New York ancora un giorno per un ultimo atto istruttorio, mentre Giovanni mi avrebbe preceduto a Montreal, dove l’avrei raggiunto, per un altro atto istruttorio. Poiché avrei dovuto pagare il soggiorno nell’albergo con la carta di credito, che avevo però dimenticato a casa, pregai Giovanni di occuparsi, insieme al suo, anche del mio conto. Mal me ne incolse, perché al ritorno a Palermo Giovanni iniziò a stressarmi per avere il saldo del debito. Un po’ stupito gli dissi che la somma anticipata gli sarebbe stata addebitata dopo qualche tempo e, quindi, non c’era alcuna premura. Ma non ci fu nulla da fare. Serissimo, insisteva. Ricorse an- che al latino: “Bis dat qui cito dat”, “dà due volte chi dà presto”, finché non scoppiò in una grossa risata. Mi stava prendendo in giro.

Ci si scambiava spesso anche piccole gentilezze. Come quando, al ritorno da una trasferta all’estero, Giovanni mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, suo grande “tifoso” e oggi anche lui magistrato. O dopo il passaggio alla Procura, quando Giovanni mi regalò due quadri tra quelli che adornavano la sua stanza nel “bunkerino”, e che conservo gelosamente. Ma ripensandoci, mi è sorto il sospetto, chissà perché, che si sia disfatto di quelli che gli piacevano meno!

Falcone era anche un collezionista di papere. Andava alla ricerca di nuovi esemplari a ogni viaggio e li cercava di un materiale sempre diverso. Aveva cominciato la collezione perché all’inizio della carriera aveva commesso un errore, “una papera” appunto, e da quel momento, per ricordarsi di non commetterne più, incominciò a volersene circondare.

Quando la professoressa Maria Falcone, Presidente della Fondazione intitolata al fratello, di cui sono consigliere, mi propose di assumere l’incarico di Segretario generale, le risposi, celiando, che avrei accettato a condizione che mi avesse regalato una delle tante papere di Giovanni. Ne ho scelta una in legno e ora la tengo nel mio studio come una cosa estremamente cara.

E mentre Giovanni accumulava papere, io collezionavo coppe.

Una volta Paolo Borsellino venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, in ufficio, dove avevo esposto in una bacheca i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo e il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo tornò a trovarmi, bussò forte alla porta, dove “bussare” è un eufemismo perché stava quasi per buttarla a terra, e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca mi apostrofò in dialetto: “A vo’ sapere ’na cosa? Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose, e Paolo chiarì: “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza? Ha detto: ‘Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinta una’”. Naturalmente ci facemmo una bella risata.

Le sigarette… Giovanni e Paolo fumavano tantissimo, soprattutto il secondo. Io invece non ho mai fumato in vita mia, eppure da una radiografia, effettuata per accertare eventuali segni di una bronchite, emerse addirittura che i miei bronchi erano “neri, come quelli dei fumatori”.

Insomma, ero rimasto vittima del fumo “passivo” accumulato nelle lunghe riunioni del lunedì e in altre occasioni. Ad esempio, anche quando gli davo un passaggio in macchina Paolo non rinunciava alla sua ennesima sigaretta e, a seconda che sedesse alla mia destra o alla mia sinistra, quando rientravo a casa mia moglie sentiva che la mia guancia destra o quella sinistra “odorava” di fumo.


Quell’incombente paura della morte che accompagnava i giudici

Certo, tra noi colleghi gli scherzi non mancavano. Anche perché, è inutile negare, la paura di un attentato ‒ e quindi della morte ‒ è stata una nostra assidua compagna per tutti quegli anni, mentre intorno a noi cadevano altri fedeli servitori dello Stato.

Per alcuni, come per Giovanni Falcone, la minaccia era più pressante, tanto che lui era molto attento alla sua sicurezza. Ricordo che, una volta, un giovane carabiniere appena assegnato alla sua scorta gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé. Un normale gesto di gentilezza. Giovanni gli porse la borsa e gli disse: «E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Gli chiedi di darti il tempo di impugnare la pistola? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere entrambe le mani libere».

D’altronde Giovanni era da tempo nel mirino di Cosa nostra. A lui che si era precipitato sul luogo dell’agguato al giudice Gaetano Costa, un collega disse: «Pensa un po’, ero proprio sicuro sarebbe toccata a te». Era il 6 agosto 1980.

Dopo l’omicidio di Costa, procuratore capo a Palermo, gli atti delle sue indagini vennero trasmessi all’Ufficio di Istruzione e l’inchiesta fu assegnata a Falcone, subito sottoposto a un servizio di scorta con tre volanti della Polizia.

Tutti eravamo consapevoli del grave pericolo che incombeva, si percepiva nell’aria.

Nei mesi successivi Giovanni Falcone diventò il magistrato più scortato d’Italia.

Due agenti con giubbotto antiproiettile lo precedevano quando entrava nella sua stanza, con altri tre dietro; un elicottero si alzava in volo quando doveva spostarsi e ancora altri due uomini erano di guardia dietro la porta di casa sua. Giovanni sosteneva che tutti dovevamo essere prudenti. Redarguiva il collega che non aveva compreso i pericoli a cui andava incontro con le sue indagini solitarie, o che ancora non aveva capito che il ruolo che avrebbe dovuto assumere rappresentava una minaccia per gli uomini di Cosa nostra, o che avesse deciso di andare in vacanza proprio in mezzo ai mafiosi. Quest’ultimo era il mio caso.

Nell’estate del 1986 o 1987, adesso non rammento con precisione, mi accordai per prendere in affitto una bella villa in territorio di San Nicola l’Arena, borgata marinara di Trabia, a pochi passi dal mare, e mi scappò di parlarne con Giovanni. Non l’avessi mai fatto! O forse è stato meglio così: mi aggredì dandomi dell’incosciente, ricordandomi, se me ne fossi dimenticato, che quella era una zona ad alta densità mafiosa, che la posizione della casa, che gli avevo descritto, avrebbe consentito un attentato sia dalla terraferma sia dal mare, e ingiungendomi, alla fine, di lasciare perdere.

In effetti, Giovanni aveva ragione di preoccuparsi per la mia incolumità, perché la zona in cui avrei dovuto trascorrere la vacanza è la stessa in cui, nel 1989, avvenne una mattanza di “uomini d’onore” cui facevano riferimento gli anonimi del cosiddetto “corvo”, dei quali mi occuperò più avanti.

Ma purtroppo Giovanni non pensò abbastanza alla sua incolumità quando, sempre in quel 1989, prese in affitto la nota villa sul mare all’Addaura, posizionata come quella in cui avevo deciso di trascorrere l’estate un paio di anni prima, in una zona ad alta densità mafiosa.

Una villa dove sarebbe stato possibile progettare un attentato dinamitardo ai suoi danni, come in effetti accadde, fortunatamente senza esito. Almeno in quella occasione.

Come accennavo, sulla morte si scherzava anche per allontanarne il pensiero. Quando noi giudici istruttori ancora occupavamo i locali al piano rialzato del Tribunale, un giorno il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi a esorcizzare il pericolo che già incombeva sul pool, così ci rassicurò, tra il serio e il faceto: «Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto montare vetri antiproiettile sulle finestre delle vostre stanze e così non correrete più alcun pericolo».

Falcone e Borsellino si divertivano invece a scriversi a vicenda i necrologi. Paolo diceva: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più te- sta di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».

E poi c’è una scena nel film di Giuseppe Ferrara “Giovanni Falcone”… Un film che fotografa con molto realismo il nostro lavoro, perché l’autrice della sceneggiatura, Armenia Balducci, ebbe più volte a contattarmi, a nome del regista, per apprendere come e dove operavamo (anche se poi, in alcune scene, mi inquadrano mentre fumo, e io, ripeto, non ho mai toccato una sigaretta). Dicevo, c’è una scena in cui Paolo e Giovanni scherzano sulla loro morte, finché uno dei due sbotta: «Ma se ammazzano prima Guarnotta!»

Anche alla Questura di Palermo, allora chiamata «l’avamposto delle ombre perdute», Ninni Cassarà e Francesco Accordino, capo della sezione investigativa il primo e dirigente della sezione omicidi della Squadra mobile il secondo, passando davanti alla lapide che all’ingresso ricordava i poliziotti caduti in servizio, spesso scherzavano sulla propria fine, osservando che i loro nomi ci sarebbero stati bene lì, sulla lapide dei caduti.


Dal libro “C’era una volta il pool antimafia”, di Leonardo Guarnotta a cura di Domani

 

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