« Cosa Nostra è da un lato contro lo Stato e dall’altro è dentro e con lo Stato, attraverso i rapporti esterni con suoi rappresentanti nella società e nelle istituzioni.» |
Con l’espressione Cosa nostra si è soliti indicare un’organizzazione criminale di stampo terroristico-mafioso presente in Sicilia dagli inizi del XIX secolo e trasformatasi nella prima metà del XX secolo in una organizzazione internazionale.
È costituita da gruppi, chiamati famiglie, organizzati al loro interno sulla base di un rigido sistema gerarchico, composto da gregari di diverso livello. L’intero territorio controllato è suddiviso in “mandamenti”. Questi possono inglobare due o più quartieri in città oppure due o più paesi in provincia. Ogni mandamento è composto da famiglie che, insieme, eleggono un “capo mandamento” che rappresenta le stesse nella “commissione provinciale”. Ogni capo mandamento elegge un sottocapo e da 1 a 3 consiglieri. Il grado immediatamente sotto è il “capo decina” che comanda direttamente parte dell’esercito delle famiglie: i “picciotti”. Un ulteriore livello di importanza è il rappresentante della provincia che fa gli interessi di quest’ultima nella “commissione interprovinciale”.
Con il termine “Cosa nostra” oggi ci si riferisce esclusivamente alla mafia siciliana (anche per indicare le sue ramificazioni internazionali, specie negli Stati Uniti d’America), per distinguerla dalle altre, internazionali, genericamente indicate col termine di “mafie”.
Gli interventi dello Stato, che in passato aveva trascurato anche volutamente il problema, si sono fatti più decisi a partire dagli anni ottanta. In ciò grande merito ha avuto il Pool antimafia, creato dal giudice Antonino Caponnetto di cui facevano parte i magistrati Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Costoro, anche a costo della loro vita, hanno distrutto il cuore di Cosa nostra, dimostrandone la reale esistenza e garantendo la possibilità di punirne gli adepti. Fino ad allora l’impunità dei suoi membri era pressoché garantita attraverso infiltrazioni politiche e nei palazzi di giustizia.
Negli anni novanta la Sicilia venne militarizzata allo scopo di liberare gli organi di Polizia dalle attività di piantonamento, lasciandoli liberi di dedicarsi in pieno alle indagini e alla ricerca dei latitanti.
Nel 2006, l’arresto dopo una latitanza record di 43 anni del superlatitante Bernardo Provenzano ad opera della Procura Antimafia di Palermo ha inflitto un ulteriore duro colpo all’organizzazione, che ora sta probabilmente subendo l’evoluzione in Stidda (sempre di stampo mafioso ma meno potente e pericolosa).
Anche economicamente Cosa nostra ha subito un ridimensionamento, ciò anche a causa dell’applicazione della legge sul sequestro dei beni e il contestuale aumento di potere della’Ndrangheta, che ha assunto il controllo e il predominio del traffico internazionale di droga.
Storia
Le origini
“Cosa nostra” nacque nei primi anni del XIX secolo dal ceto sociale dei massari, dei fattori e dei gabellotti, che gestivano i terreni della nobiltà siciliana, avvalendosi dei braccianti che vi lavoravano. Cosa nostra, come tutte le altre mafie, nacque per la scarsa presenza dello Stato sul territorio, ed iniziò ad assumerne le funzioni. Era gente violenta, che faceva da intermediario fra gli ultimi proprietari feudali e gli ultimi servi della gleba d’Europa e, per meglio esercitare il loro mestiere, si circondavano di scagnozzi prezzolati. Questi gruppi divennero rapidamente permanenti assumendo il nome di “sette, confraternite, cosche“. Il primo documento storico in cui viene nominata una cosca mafiosa è del 1837: il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, riferisce ai suoi superiori a Napoli dell’attività di strane sette dedite ad imprese criminose che corrompevano anche impiegati pubblici. Nel 1863 Giuseppe Rizzotto scrive, con la collaborazione del maestro elementare Gaspare Mosca, I mafiusi de la Vicaria, un’opera teatrale in siciliano ambientata nelle Grandi Prigioni del capoluogo siciliano. È a partire da questo dramma, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, che il termine mafia si diffonde su tutto il territorio nazionale. Fino ad allora la mafia si caratterizzava come una struttura al di fuori dello Stato, ma strettamente legata ad esso.
Lo sviluppo della criminalità organizzata in Sicilia è sostanzialmente attribuibile agli eventi contemporanei e successivi all’Unità d’Italia, in particolare a quella che fu l’acuta crisi economica da questa indotta in Sicilia e nel Meridione d’Italia. Infatti lo Stato italiano, non riuscendo a garantire un controllo diretto e stabile del governo dell’isola (la cui organizzazione sociale era molto diversa da quella settentrionale), cominciò a fare affidamento sulle cosche mafiose che, ben conoscendo i meccanismi locali, facilmente presero le veci del governo centrale.
La prima analisi esaustiva in cui venne espressamente usato il termine mafia fu compiuta nel 1876 da Leopoldo Franchetti, dopo la celebre inchiesta compiuta insieme a Sidney Sonnino, che venne pubblicata con il titolo Condizioni politiche e amministrative della Sicilia.
Ma la prima vera associazione mafiosa in Sicilia fu la “Fratellanza di Favara“, una specie di setta che nacque nella provincia di Agrigento nel 1878 e si pensa che operò fino al 1883. Essa presentava una struttura piramidale: uno o più capi-testa comandavano più capi-decina, ognuno dei quali aveva sotto di sé non più di dieci affiliati. Inizialmente facevano parte di essa solo pastori, contadini, artigiani e zolfatai ma in seguito entrarono a farne parte pure i proprietari terrieri, rendendola molto potente.
Nel 1893, in seguito al delitto Notarbartolo, l’esistenza di Cosa nostra (e dei suoi rapporti con la politica) divenne nota in tutta Italia.
L’epoca delle rivendicazioni agricole
Anche se non più con un regime feudale, nelle campagne siciliane gli agricoltori erano ancora sfruttati. I grandi proprietari terrieri risiedevano a Palermo o in altre grandi città e affittavano i loro terreni a gabellotti con contratti a breve termine, che, per essere redditizi, costringevano il gabellotto a sfruttare i contadini. Per evitare rivolte e lavorare meglio, al gabellotto conveniva allearsi con i mafiosi, che da un lato offrivano il loro potere coercitivo contro i contadini, dall’altro le loro conoscenze a Palermo, dove si siglavano la maggioranza dei contratti agricoli.
A partire dal 1891 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci, sorta di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali, chiedendo contratti più equi e una distribuzione più adeguata della ricchezza. Non si trattava di movimenti rivoluzionari in senso stretto ma essi furono comunque condannati dal governo di Roma che, nella persona di Crispi, nel 1893 inviò l’esercito per scioglierli con l’uso della forza. Giuseppe de Felice Giuffrida, considerato il fondatore dei fasci siciliani, venne processato e imprigionato.
Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi. Continuò però anche ad aiutare i gabellotti cosicché, chiunque fosse uscito vincitore, essa ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti.
Quando fu chiaro che lo Stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, la “Fratellanza“, detta anche “Onorata Società” (due dei termini usati all’epoca per identificare Cosa nostra), si distaccò dai fasci (che avevano tentato in tutti i modi di evitare la penetrazione di mafiosi nelle loro file, spesso riuscendoci) e anzi aiutò il governo nella sua repressione. Come “vendetta” per l’azione dei Fasci, che voleva mettere in discussione il potere dei latifondisti, nel 1915 a Corleone i mafiosi uccisero Bernardino Verro, che era stato tra i più accesi animatori del movimento dei Fasci siciliani negli anni novanta del XIX secolo.
Con Giolitti si permise alle cooperative di chiedere prestiti alle banche e di intraprendere da sole, senza gabellotti, contratti diretti coi proprietari terrieri. Questo, insieme alla nuova legge elettorale del suffragio universale maschile, portò non solo alla vittoria di diversi sindaci socialisti in varie città siciliane, ma anche all’eliminazione del ruolo mafioso nella mediazione per i contratti.
Per stroncare il pericolo “rosso”, la mafia dovette allearsi con la Chiesa cattolica siciliana, anch’essa preoccupata per gli sviluppi dell’ideologia marxista materialista nelle campagne. Le cooperative cattoliche quindi non si chiusero ad infiltrazioni mafiose, a patto che questi ultimi scoraggiassero in tutti i modi i socialisti. Nel primo quindicennio del Novecento si iniziano a contare le prime vittime socialiste ad opera della mafia, che colpiva sindaci, sindacalisti, attivisti e agricoltori indisturbatamente.
Il tema delle terre negate ai contadini resterà uno dei principali motivi di scontro sociale in Sicilia fino al secondo dopoguerra.
Il rapporto Sangiorgi
Nell’ottobre 1899, Francesco Siino, capo-mafia sfuggito miracolosamente ad un agguato mortale tesogli dagli uomini di Antonino Giammona nel contesto della guerra di mafia, venne messo alle strette da Sangiorgi e confessò che il nuovo capo supremo della mafia siciliana era proprio il suo nemico Giammona. Inoltre dichiarò che la Conca d’Oro era divisa in otto cosche mafiose:Ermanno Sangiorgi, di origini romagnole, venne inviato a Palermo in veste di questore nel 1898 mentre era in corso una guerra di mafia, iniziata due anni prima, nel 1896. Indagando sui delitti commessi dalle cosche della Conca d’Oro, Sangiorgi capì che gli omicidi non erano il prodotto di iniziative individuali, ma implicavano leggi, decisioni collegiali, e un sistema di controllo territoriale. Sangiorgi scoprì inoltre che le due famiglie più ricche di Palermo, i Florio e i Whitaker, vivevano fianco a fianco con la mafia, da cui ricevevano protezione ma da cui erano al contempo minacciate.
- Piana dei Colli,
- Acquasanta,
- Falde,
- Malaspina,
- Uditore,
- Passo di Rigano,
- Perpignano,
- Olivuzza.
Sangiorgi, in base a queste dichiarazioni, firmò molti mandati di cattura. La notte tra il 27 e il 28 aprile 1900 la Questura fece arrestare diversi mafiosi, tra cui Antonino Giammona. Alla procura di Palermo, Sangiorgi inviò un rapporto di 485 pagine che conteneva una mappa dell’organizzazione della mafia siciliana con un totale di 280 “uomini d’onore”. Il processo cominciò nel maggio 1901 ma Siino ritrattò completamente le sue dichiarazioni. Dopo solo un mese, giunsero le condanne di primo grado: soltanto 32 imputati furono giudicati colpevoli di aver dato vita a un’associazione criminale e, tenuto conto del tempo già trascorso in carcere, molti furono rilasciati il giorno dopo.
La prima guerra mondiale e le sue conseguenze
Nel 1915, l’Italia entra nella prima guerra mondiale e vengono chiamati alle armi centinaia di migliaia di giovani da tutto il paese. In Sicilia, a causa della chiamata alla leva, i disertori furono numerosi. Essi abbandonarono le città e si dettero alla macchia all’interno dell’isola, vivendo per lo più di rapina. A causa della mancanza di braccia per l’agricoltura e delle sempre maggiori richieste di carne dal fronte, moltissimi terreni vengono adibiti al pascolo.
Queste due condizioni fanno aumentare enormemente l’influenza di Cosa nostra in tutta l’isola. Aumentati i furti di bestiame e l’abigeato, i proprietari terrieri si rivolsero sempre più spesso ai mafiosi, piuttosto che alle impotenti autorità statali, per farsi restituire almeno in parte le mandrie. I boss, nei loro abituali panni, si prestano a mediare tra i banditi e le vittime, prendendo una parcella per il loro lavoro.
Alla fine della prima guerra mondiale, l’Italia affronta un momento di crisi, che rischia di sfociare in una vera e propria rivolta popolare, ad imitazione della recente rivoluzione russa. Al nord gli operai scioperano e chiedono migliori condizioni di lavoro, al sud sono i giovani ritornati a casa a lamentarsi per le promesse non mantenute dal governo (in particolar modo quelle relative alla terra).
Moltissimi quindi vanno ad ingrossare le file dei banditi, altri entrano direttamente nella mafia e altri ancora cercano di riformare i fasci o comunque partecipano ai consigli socialisti siciliani.
Fu in questo clima di tensione che il fascismo fece la sua comparsa.
L’epoca fascista
Il fascismo iniziò una campagna contro i mafiosi siciliani, subito dopo la prima visita di Mussolini in Sicilia nel maggio del 1924. Il 2 giugno dello stesso anno venne inviato in Sicilia Cesare Mori, prima come prefetto di Trapani, poi a Palermo dal 22 ottobre 1925, soprannominato il Prefetto di ferro, con l’incarico di sradicare la mafia con qualsiasi mezzo.
L’azione del Mori fu dura ed efficace. Centinaia e centinaia furono gli uomini arrestati e finalmente condannati. Celebre è l’assedio di Gangi in cui Mori assediò per quattro mesi il centro cittadino, in quanto esso era considerato una delle roccaforti mafiose. In questo periodo venne arrestato il boss Vito Cascio Ferro.
Dopo alcuni arresti eclatanti di capimafia, anche i vertici di Cosa nostra non si sentivano più al sicuro e scelsero due vie per salvarsi: una parte emigrò negli USA, andando ad ingrossare le file di Cosa nostra americana, mentre un’altra restò in disparte.
Il “prefetto di ferro” scoprì anche collegamenti con personalità di spicco del fascismo come Alfredo Cucco, che fu espulso dal PNF. Nel 1929 Mori fu nominato senatore e collocato a riposo. I limiti della sua azione fu lui stesso a riconoscerli in tempi successivi: l’accusa di mafia veniva spesso avanzata per compiere vendette o colpire individui che nulla c’entravano con la mafia stessa, come fu con Cucco e con il generale Antonino Di Giorgio. Alcuni mafiosi erano membri del PNF, a conoscenza e con il favore di Benito Mussolini.
Tra i mafiosi protetti dal regime fascista c’erano: il principe Lanza di Scalea, Epifanio Gristina, il barone Vincenzo Ferrara, i baroni Li Destri e Sgadari e molti altri. Questi ultimi furono processati, ma vennero assolti essendo amici del duce Benito Mussolini. Il principe Lanza di Scalea fu uno dei candidati nelle liste del PNF per le amministrative di Palermo mentre a Gangi il barone Li Destri, pure candidato del PNF, era protettore e capo di banditi e delinquenti. Il carabiniere Francesco Cardenti così riferisce: “Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba)se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione, adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità […] Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino.”[3]
I mezzi usati dalla Polizia nelle numerose azioni condotte per sgominare il fenomeno mafioso portarono ad un aumento della sfiducia della popolazione nei confronti dello Stato. Mori fu comunque il primo investigatore italiano a dimostrare che la mafia può essere sconfitta con una lotta senza quartiere, come sosterrà successivamente anche Giovanni Falcone.
La seconda guerra mondiale
Durante la seconda guerra mondiale, numerosi boss italoamericani, in carcere negli USA (Lucky Luciano e Vito Genovese, per citare i più noti), furono contattati dai servizi segreti americani, chiamati all’epoca OSS (Office of Strategic Service), per essere impiegati con la promessa della libertà al fine di assicurare agli alleati il controllo sull’isola. Non furono contattati solo boss americani ma anche siciliani, come Vincenzo Di Carlo, Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo.
Questi contatti avevano lo scopo di facilitare lo sbarco alleato sulle coste siciliane e successivamente, quando il controllo dell’isola era affidato agli alleati, a mantenere l’isola stabile dal punto di vista politico. In particolar modo, quando l’isola tornò sotto il controllo italiano, la mafia fu utilizzata, e quindi involontariamente le si permise di riprendersi dopo l’era di Mori, in funzione anti-socialista ed anti-comunista.
Salvatore Giuliano
Fu alla fine della seconda guerra mondiale che l’E.V.I.S. (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) nominò colonnello il bandito Salvatore Giuliano, capo di una banda di fuorilegge che terrorizzavano la Sicilia con le loro azioni.
Sempre più compromesso dai legami coi grandi mafiosi latifondisti e con i politici della Democrazia Cristiana, il bandito Giuliano e la sua banda compiranno vari attentati nelle provincie di Palermo e di Trapani contro sedi del PCI e del PSI: queste violenze culmineranno nella strage di Portella della Ginestra (1º maggio 1947), contro i manifestanti socialisti e comunisti a Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), in cui moriranno 11 persone e altre 27 rimarranno ferite.
Infine la banda di Giuliano sarà smantellata dagli arresti operati dalle forze dell’ordine e lo stesso Salvatore Giuliano verrà ucciso nel 1950 dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, su ordine dei capi mafiosi a cui il bandito non serviva più ed era diventato scomodo perché a conoscenza di molti retroscena della strage di Portella della Ginestra e di collusioni tra mafia e politica. In seguito Pisciotta verrà arrestato e morirà avvelenato nel carcere dell’Ucciardone nel 1954 perché voleva rivelare i nomi dei mandanti della strage di Portella della Ginestra.
Il dopoguerra
Dopo la seconda guerra mondiale, la società siciliana subì una profonda trasformazione, con una riduzione del peso economico dell’agricoltura a favore di altri settori come il commercio o ilterziario del settore pubblico. In questo periodo l’amministrazione pubblica in Sicilia divenne l’ente più importante in fatto di economia.
Cosa nostra naturalmente seppe sfruttare adeguatamente questo cambio di tendenze, catapultando sé stessa verso i nuovi campi socialmente ed economicamente predominanti.
Per riuscirci dovette stringere maggiormente, più di quanto aveva fatto in passato, i rapporti con la politica e i politici del partito maggiore in Italia e in Sicilia, la Democrazia Cristiana. Non meno importante fu l’atteggiamento indulgente di Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967.
Da questo patto la mafia traeva guadagni nella gestione, ottenuta grazie ad appalti truccati, dello sviluppo edilizio di infrastrutture e di nuovi quartieri delle maggiori città, della riscossione delle tasse per conto dello stato, dell’assunzione di personale per gli enti statali e in più poteva godere della più totale immunità. La Democrazia Cristiana ci guadagnava perché Cosa nostra, per via del controllo sul territorio, era in grado di indirizzare grandi quantità di voti dove voleva.
Sono gli anni del sacco di Palermo, gli anni in cui Salvo Lima era sindaco e Vito Ciancimino assessore ai lavori pubblici. In 4 anni vennero concesse 4205 licenze edilizie, di cui 3011 intestate alle stesse 5 persone, dei muratori che risultavano nullatenenti e che si è poi scoperto essere dei prestanome. In questi anni vennero rase al suolo le splendide ville Liberty del centro della città per essere sostituite con palazzi giganteschi. La stessa sorte toccò alle periferie e a molte zone verdi. Tutto questo avvenne anche grazie alla compiacenza di alcuni grandi istituti di credito siciliani che finanziavano imprenditori mafiosi a scapito di quelli onesti.
Tra il 10 e il 16 ottobre 1957 avvennero una serie di riunioni all’Hotel des Palmes di Palermo fra i capi di Cosa nostra e quelli di Cosa nostra americana. A rappresentare Cosa nostra americana vi erano Joseph Bonanno, Lucky Luciano,Carmine Galante, Santo Sorge, John Bonventre ed altri, mentre la mafia siciliana era rappresentata da Giuseppe Genco Russo, Salvatore “Ciaschiteddu” Greco, suo cugino Salvatore Greco (noto come “l’ingegnere” o “Totò il lungo“),Angelo La Barbera, Gaetano Badalamenti, Rosario Mancino, Cesare Manzella, Calcedonio Di Pisa e Tommaso Buscetta. Gli scopi dei vari incontri furono l’organizzazione del traffico di droga verso gli Stati Uniti e la creazione di una “Commissione” su modello di quella di Cosa nostra americana, necessaria ad aggregare la volontà delle famiglie mafiose sparse in Sicilia e a placare dissensi e scontri all’interno di Cosa nostra.
Nel 1958 il quotidiano L’Ora fu il primo giornale che intraprese la pubblicazione di una serie di documentati e dettagliati articoli di inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia e delle sue collusioni con il potere politico locale, pubblicando foto e nomi di personaggi di spicco delle cosche mafiose. A causa di ciò, il 19 ottobre 1958 l’esplosione di 5 kg di tritolo devastò la storica sede del quotidiano a Palermo. In seguito all’attentato, l’allora presidente della RepubblicaGiuseppe Saragat dichiarerà in Parlamento: “Ci voleva l’attentato all’Ora per scoprire che in Sicilia c’è la mafia“.
Prima guerra di mafia
La prima guerra di mafia fu scatenata da una truffa a proposito di una partita di eroina nel 1962: il boss Calcedonio Di Pisa, inviato a Brooklyn dalla Sicilia per consegnare una partita di droga, fu accusato di averne sottratto una parte e fu ucciso. Dopo questo episodio, all’interno di Cosa nostra si formarono due fazioni: da una parte i Greco di Ciaculli e dall’altra i fratelli La Barbera, appoggiati dal boss dell’Uditore Pietro Torretta.
Dopo l’assassinio di Di Pisa, Salvatore La Barbera venne fatto sparire. Il 13 febbraio 1963 Angelo La Barbera rispose distruggendo con un’autobomba la casa di Salvatore Greco, boss della famiglia rivale, che però si salvò.
La sua risposta non si fece attendere e il 19 aprile un gruppo di quattro uomini aprì il fuoco su una pescheria in via Empedocle Restivo a Palermo che apparteneva ad alcuni soldati di La Barbera. Nello scontro persero la vita due uomini di La Barbera e due restarono feriti. Pochi giorni dopo Cesare Manzella, il boss di Cinisi fedele alleato dei Greco, venne dilaniato dall’esplosione di una Giulietta.
L’episodio che mise fine alla guerra ebbe luogo in viale Regina Giovanna a Milano, il 25 maggio 1963, quando l’automobile di Angelo La Barbera venne crivellata di proiettili dai sicari dei Greco, ferendolo gravemente. Poco tempo dopo l’attentato, La Barbera venne arrestato in un ospedale milanese e finì definitivamente in carcere, mettendolo così a tacere per sempre.
Il 30 giugno 1963 in località Ciaculli, nei dintorni di Palermo, un contadino chiamò i Carabinieri per segnalare la strana presenza di una Giulietta abbandonata con una gomma bucata. All’arrivo i Carabinieri si accorsero subito che era un’autobomba e furono chiamati così gli uomini del genio militare. Ma mentre essi toglievano la bomba, il tenente dei Carabinieri Mario Malausa aprì il bagagliaio innescando un’altra bomba, che uccise due uomini del genio militare e cinque Carabinieri. Questo attentato provocò l’indignazione nazionale e centinaia di arresti operati dalle forze dell’ordine nei confronti dei mafiosi. Per questo motivo numerosi capi mafiosi, come Giuseppe Genco Russo e Michele Cavataio, finirono in carcere e la Commissione mafiosa venne sciolta.
Processi contro Cosa nostra
Tra il 1967 e il 1968 si svolse a Catanzaro il cosiddetto “processo dei 114“, istruito dal pubblico ministero Cesare Terranova, nel quale erano imputati tutti i principali boss mafiosi siciliani, accusati dei delitti avvenuti durante la prima guerra di mafia. Infine il processo si concluse con qualche condanna e assoluzioni di molti capimafia come Tano Badalamenti e Luciano Liggio.
Un altro esempio dell’immunità raggiunta dalla mafia è il processo di Bari, istruito sempre da Cesare Terranova, concluso in prima sessione l’11 giugno del 1969, nel quale erano sotto accusa di associazione a delinquere 64 persone del clan mafioso di Corleone, tra le quali Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella e Luciano Liggio, con la totale assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove (in realtà i giudici vennero minacciati pesantemente), nonostante un soldato dei corleonesi, Luciano Raia, testimoniò al processo gli omicidi commessi dai “peri ‘ncritati” durante la loro scalata al potere mafioso all’interno del clan di Corleone. Le confessioni di Raia non portarono a nulla perché egli fu giudicato “insano di mente”: spuntarono fuori dagli ospedali e dai manicomi giudiziari decine di certificati che attestavano delle presunte “crisi epilettiche”.
È ovvio quindi che di mafia fino alla fine degli anni settanta, quando questa situazione iniziò a cambiare, lo Stato non voleva che si parlasse.
La mafia trapanese
I trapanesi erano tenuti in alta considerazione dentro Cosa Nostra, per via dei loro legami, anche familiari con le famiglie americane, in particolare quelle di origine castellammarese come la famiglia Bonanno.
Fino agli anni ’70 il territorio era diviso tra Vincenzo Rimi ad Alcamo, legato a Badalamenti, i fratelli Calogero e Salvatore Minore vicini a Bontate, come il castelvetranese Francesco Messina Denaro, che in seguito passò con i corleonesi, insieme al mazarese Mariano Agate. La famiglia Rimi fu implicata in vario modo nel Golpe Borghese. Il sociologo Pino Arlacchi scrive che Vincenzo Rimi era “considerato come il leader morale di tutta Cosa Nostra siciliana degli anni Cinquanta e Sessanta”. Salvatore Minore nel 1982 sarà vittima della seconda guerra di mafia e il suo posto verrà preso da Vincenzo Virga.
L’ascesa del clan dei Corleonesi
Nel 1969 un gruppo di fuoco, composto da uomini dei Corleonesi e delle famiglie mafiose dei boss Stefano Bontate e Giuseppe Di Cristina, fecero irruzione nel palazzo dove lavorava Michele Cavataio, uno dei boss responsabili della prima guerra di mafia; egli venne ucciso assieme ad altri suoi collaboratori e nello scontro a fuoco morì anche Calogero Bagarella, uno dei Corleonesi e amico d’infanzia di Totò Riina. Questo fatto è meglio ricordato come la strage di viale Lazio dove morirono 6 persone.
Dopo l’uccisione di Cavataio, venne ricreata la Commissione mafiosa, gestita da un “triunvirato” provvisorio composto da Stefano Bontate, Tano Badalamenti e Luciano Liggio, boss del clan dei Corleonesi.
Le tensioni all’interno della neonata Commissione cominciarono nel 1971, quando i Corleonesi decisero di rapire Antonino Caruso, figlio di un famoso imprenditore palermitano, e ordinarono altri sequestri a scopo di estorsione, inimicandosi però le altre famiglie mafiose, che non approvavano questa attività.
Il 5 maggio 1971 i Corleonesi assassinarono a Palermo il procuratore Pietro Scaglione perché impegnato in inchieste su Cosa nostra: per la prima volta nel dopoguerra la mafia colpiva un magistrato in Sicilia.
Nel 1973 Leonardo Vitale, “uomo d’onore” della famiglia mafiosa di Altarello di Baida in preda ad una crisi mistica, si presentò alla questura di Palermo e denunciò i boss corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, il capomafia palermitano Michele Greco e il politico Vito Ciancimino, si autoaccusò di vari delitti e descrisse la struttura di Cosa nostra: era il primo “pentito” della storia della mafia. Però Vitale non venne creduto e venne rinchiuso per dieci anni in un manicomio criminale perché dichiarato “insano di mente”. Dimesso dal manicomio, venne ucciso nel 1984.
Pizza connection
Negli anni sessanta la malavita corsa gestiva il traffico di morfina-base che dal Medio Oriente arrivava alle raffinerie di Marsiglia, dove veniva trasformata in eroina. Negli anni settanta il governo francese diede un giro di vite al traffico di droga e di conseguenza le raffinerie di eroina di Marsiglia vennero sostituite da quelle già operanti in Sicilia e in Campania.Con Pizza connection si intende il traffico di droga fra le famiglie mafiose di Cosa nostra e gli Stati Uniti. Si calcola che attraverso essa, negli anni settanta, Cosa nostra guadagnò parecchi miliardi. Queste operazioni fruirono in particolare a Salvatore Greco, boss di Ciaculli, e a Tano Badalamenti, boss di Cinisi.
Nel 1977 Palermo era diventata il più grande centro di raffinazione di eroina del mondo e Cosa nostra aveva preso il controllo del traffico internazionale di droga. Si stima infatti che, tra gli anni settanta e gli anni ottanta, Cosa nostra controllasse il 90% del traffico di eroina verso gli Stati Uniti: questo fu reso possibile anche da Cosa nostra americana.
Il “Pizza connection” prende il nome dalle innumerevoli pizzerie che sorsero negli anni settanta e ottanta in America in quanto utili per la copertura dei traffici illeciti di eroina e per riciclare il denaro ricavato dallo spaccio. L’eroina veniva infatti nascosta tra le derrate alimentari provenienti dall’Italia che andavano a rifornire i ristoranti e le pizzerie italiane in America.
Le prime intuizioni sul ruolo di Cosa nostra nel traffico internazionale di stupefacenti si devono al commissario Boris Giuliano, che per questo motivo verrà ucciso nel 1979.
Seconda guerra di mafia
La seconda guerra di mafia, detta anche “Mattanza”, si svolse tra il 1978 e il 1983.
Nel 1974 Salvatore Riina divenne il nuovo capo del clan dei Corleonesi dopo l’arresto del boss Luciano Liggio e divenne rivale delle principali famiglie mafiose palermitane. Così all’interno di Cosa nostra si formarono due fazioni, come nella prima guerra di mafia: da una parte c’erano i Corleonesi appoggiati da Michele Greco, il boss che allora era considerato il Capo dei Capi della “Commissione”; dall’altra c’era la fazione di don Tano Badalamenti, appoggiato da Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Giuseppe Di Cristina, Tommaso Buscetta e dalle famiglie catanesicomandate da Pippo Calderone.
Nel 1978 Giuseppe Di Cristina, il boss di Riesi che era il principale nemico della fazione dei Corleonesi, cominciò a parlare con il capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato per cercare di fare arrestare Totò Riina. Nello stesso periodo Riina fece espellere Tano Badalamenti dalla Commissione e fece uccidere Di Cristina e Pippo Calderone. Alla morte di Calderone prese il controllo delle famiglie catanesi il mafioso Benedetto Santapaola, detto anche Nitto, fedele alleato di Totò Riina e dei suoi compari.
Nel 1981 Tommaso Buscetta scappò in Brasile per sfuggire alla Mattanza, che iniziò il 23 aprile 1981 quando il boss Stefano Bontate fu assassinato dai Corleonesi a colpi di mitragliatrice AK-47 benché avesse appena comperato un’Alfa Romeo Alfetta antiproiettile.
Dopo l’assassinio di Bontate, Badalamenti, ormai espulso da Cosa nostra, fuggì in Brasile e poi in Spagna, dove venne arrestato dall’FBI con l’accusa di traffico di droga.
L’11 maggio 1981 Salvatore Inzerillo, boss di Passo di Rigano, venne freddato fuori casa della sua amante. Nel periodo successivo furono uccisi più di quattrocento uomini della fazione Bontate-Badalamenti-Inzerillo.
Così la direzione dalle famiglie palermitane fu affidata completamente a uomini fedeli ai Corleonesi e Totò Riina diventò il temuto Capo dei Capi della Commissione.
Per chi poi era riuscito a scampare alla carneficina dei boss palermitani e dei loro alleati si attuavano vendette trasversali contro i parenti. Un esempio eclatante fu quello di Salvatore Contorno, soldato di Bontate, a cui furono uccisi trentaquattro parenti per convincerlo a consegnarsi nelle mani dei Corleonesi. Lo stesso successe a Buscetta, a cui furono ammazzati tutti i figli, fratelli e molti altri parenti residenti a Palermo. Da ricordare durante questa guerra di mafia sono l’assassinio di Pio La Torre, attivista e rappresentante del PCI in Sicilia, ma soprattutto l’assassinio del generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre 1982 in via Carini a Palermo da un gruppo di fuoco composto da dodici sicari di Riina e di Nitto Santapaola. Dalla Chiesa era stato mandato in Sicilia da prefetto di Palermo dopo l’omicidio di Pio La Torre per contrastare il problema mafioso dopo il suo successo nella guerra contro il terrorismo delle Brigate Rosse: si deve però notare che il governo dell’epoca diede scarsissimo appoggio a Dalla Chiesa e questa fu anche una delle cause del suo assassinio.
La stagione dei maxiprocessi
Dopo la strage di via Carini (3 settembre 1982) in cui Carlo Alberto Dalla Chiesa (prefetto del capoluogo siciliano), Emanuela Setti Carraro (moglie di Carlo Alberto Dalla Chiesa), Domenico Russo (agente di polizia) furono uccisi dalla mafia, lo stato italiano prese le misure adeguate, facendo votare leggi per accedere ai conti bancari di Cosa nostra.
Le efferatezze commesse durante la guerra di mafia di quegli anni, però, spinsero anche alcuni mafiosi a consegnarsi allo stato (legge sui pentiti). Fra questi c’era il boss Tommaso Buscetta, che nel 1984 incontrò per la prima volta Giovanni Falcone. Buscetta scelse di fidarsi di quel magistrato e cominciò a parlare: sulle sue rivelazioni Falcone, Paolo Borsellino e il suo team – il famoso Pool antimafia ideato da Rocco Chinnici – istruirono contro Cosa nostra i maxiprocessi di Palermo, con oltre 1.400 imputati, sferrando il primo vero, duro colpo a Cosa nostra. Il maxiprocesso era iniziato il 10 febbraio 1986 e si era concluso in primo grado il 16 dicembre 1987 con 342 condanne, 2665 anni di carcere e 19 ergastoli (tra cui Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina). Il 30 luglio 1991 la sentenza d’appello ridimensionò le condanne, ma la Cassazione il 30 gennaio 1992 riconfermò tutte le condanne del primo grado che divennero realtà giudiziarie.
L’attacco allo Stato
I più famosi e terribili attentati restano però le stragi di Capaci, 23 maggio 1992, e di via d’Amelio, 19 luglio 1992, nelle quali hanno perso la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme alle loro scorte. Il primo, di ritorno da Roma, dove era stato nominato responsabile dell’Ufficio Affari Penali per espressa volontà dell’allora Guardasigilli Claudio Martelli, fu ucciso da una terribile esplosione avvenuta sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi (oggi aeroporto Falcone-Borsellino) con Palermo città, all’altezza di Capaci. L’esplosione fu provocata da un enorme quantitativo di tritolo (circa 600 kg) che gli esecutori piazzarono in un tunnel sottostante il tratto autostradale. Con Giovanni Falcone morirono la moglie, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Circa quattro anni dopo fu arrestato colui che quel giorno premette il pulsante del detonatore, Giovanni Brusca detto “Scannacristiani”.Dopo questo primo processo ne seguirono altri, vi fu una stagione di veleni interni alla magistratura e alla politica italiana mentre la mafia cercava di riprendersi: nei primi anni novanta il clan dei Corleonesi, che si era imposto nella guerra di mafia dei primi anni ottanta, riorganizzò ciò che restava di Cosa nostra e, dopo l’introduzione dell’articolo 41 bis che induriva il carcere per i reati di mafia, nel 1993 iniziò una stagione di ritorsioni terroristiche con la strage di via dei Georgofili (5 vittime) a Firenze, la strage al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano (5 vittime) e i due attentati al patrimonio artistico di Roma (a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro). Infine il 16 ottobre 1993 ci fu l’ultimo tentativo (fallito) di fare un attentato allo Stato da parte di Cosa nostra: venne parcheggiata un’autobomba in via dei gladiatori a Roma, fuori dallo Stadio Olimpico durante la partita Lazio-Udinese per colpire i Carabinieri impegnati nel servizio di Ordine Pubblico per la partita. Fortunatamente la bomba non esplose.
Paolo Borsellino morì in circostanze analoghe, a seguito dell’esplosione di un’autobomba parcheggiata sotto casa della madre in via D’Amelio, fatta esplodere con un radiocomando, probabilmente azionato dal Castello Utveggio, sito sul Monte Pellegrino che sovrasta la città di Palermo. L’autobomba esplose facendo morire pure cinque uomini della scorta.
Il lavoro svolto da Paolo Borsellino nei 57 giorni che hanno separato la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio, ha rappresentato l’alto senso del dovere che ha accompagnato i due magistrati nel loro percorso professionale. Nonostante la consapevolezza di essere il prossimo obiettivo della mafia stragista, Paolo Borsellino proseguì freneticamente l’opera sino a quel momento svolta dal collega Falcone, in disprezzo di ogni ulteriore cautela che pure in quel frangente si sarebbe resa necessaria.
Sul luogo dell’attentato fu rinvenuta una borsa che Borsellino portava sempre con sé e probabilmente contenente appunti e atti d’indagine che furono trafugati (la famosa “agenda rossa”). Una indagine è tuttora in corso, e coinvolge presunti servizi segreti deviati.
La risposta dello Stato
All’indomani delle stragi in Sicilia come in tutta Italia c’è stato un risveglio della società civile che ha portato ad una durissima presa di posizione nei confronti della mafia. La paura, l’omertà e la tradizionale veste di Cosa nostra sembravano essere scomparse per la maggior parte della gente, stanca di tutto questo sangue. Migliaia di persone scesero in piazza e nelle strade a manifestare, moltissime finestre e terrazze furono coperte da lenzuoli e cartelli contro la mafia, la cosiddetta “rivolta dei lenzuoli”. Quasi ogni giorno, e quasi in ogni luogo, c’erano lezioni sulla legalità e di educazione civica, nelle quali il posto da insegnante era preso da magistrati e giudici antimafia o da parenti delle vittime. A questo va aggiunta la risposta militare dello stato che con l’operazione “Vespri Siciliani” inviò nell’isola ben 20.000 soldati (dal 25 luglio 1992 all’8 luglio 1998) per presidiare gli obiettivi sensibili come tribunali, case di magistrati, aeroporti e porti. Il ruolo svolto dall’esercito, nonostante le numerose critiche di aver “militarizzato” l’isola, fu ampiamente positivo nel campo della sicurezza urbana. Ci fu una riduzione dei crimini e anche alcuni arresti eccellenti come quelli di Toto Riina e Leoluca Bagarella. Inoltre la presenza dell’esercito liberava la polizia da compiti di sorveglianza in modo che tutte le unità fossero usate per le indagini. A tutto questo va aggiunto l’arrivo a Palermo di Gian Carlo Caselli come procuratore della Repubblica lo stesso giorno dell’arresto di Riina, il 15 gennaio 1993. L’azione della procura venne rilanciata, oltre che per i motivi già citati (sostegno popolare e presenza dell’esercito) anche grazie all’azione di questo magistrato esperto. In questo modo fu spezzato il sistema grazie al quale la mafia poteva svolgere le sue attività indisturbata.
Provenzano e post Provenzano
A partire dagli anni novanta, Bernardo Provenzano, con l’arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella, diviene il capo di Cosa nostra (era l’alter-ego di Riina fin dagli anni cinquanta), circondandosi solo di uomini di fiducia, come Benedetto Spera, cambia radicalmente la politica e il modus operandi negli affari della mafia siciliana; i mandamenti (divisioni mafiose delle zone di influenza in Sicilia) più ricchi cedono i loro guadagni a quelli meno redditizi in modo di accontentare tutti (una sorta di stato sociale), evitando inutili guerre.
Tutto è controllato da un boss con il carisma di Provenzano che gestisce in modo impeccabile l’organizzazione. La mafia ora non è più ricca come ai tempi dei grandi traffici internazionali ed è per questo che in Sicilia è diventata più oppressiva e capillare. L’11 aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza (dal 1963), Provenzano viene catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, frazione a 2 km da Corleone. Il 5 novembre del 2007, dopo 25 anni di latitanza, viene arrestato, in una villetta di Giardinello, anche il presunto successore di Provenzano, il bossSalvatore Lo Piccolo.
Le strade che si ipotizza potrebbe intraprendere Cosa nostra sono due: la prima prevede un passaggio di poteri, che potrebbe far arrivare al vertice di Cosa nostra il trapanese Matteo Messina Denaro, 43 anni (latitante dal 1993), con l’elezione di un nuovo capo del livello e capacità di Provenzano.
La seconda ipotesi è una sorta di riorganizzazione della mafia sul modello calabro: nessun supercapo ma ognuno con capacità gestionale autonoma dei proventi ricavati dal proprio territorio. È stato osservato che questo potrebbe portare a nuove guerre di mafia (di recente la ‘Ndrangheta ha costituito una sorta di commissione, composta dai capi più influenti di ogni’ndrina per decidere i grandi affari e sedare le faide).
Operazione Old Bridge
Dopo l’arresto dei Corleonesi e di Salvatore Lo Piccolo, si ipotizzò un ritorno della famiglia Inzerillo dall’America, i cosiddetti scappati dalla seconda guerra di mafia scatenata da Totò Riina. Si voleva ristrutturare l’organizzazione e ritornare al passato e rientrare nel traffico di droga, attualmente in mano alla ‘Ndrangheta. Il 7 febbraio 2008 però vengono arrestate 90 persone tra New York e la Sicilia, presunti appartenenti alle famiglie Inzerillo e il suo boss Giovanni Inzerillo, Mannino, Di Maggio e Gambino, tra cui anche il boss Jackie D’Amico: fu la più grande retata dopo “Pizza connection“.
Operazione Perseo
Il 16 dicembre 2008, con l’operazione Perseo, i Carabinieri di Palermo catturarono 99 mafiosi appartenenti ai vertici di Cosa nostra palermitana che, unitamente a decine di gregari, tentavano di ricostituire la Commissione provinciale palermitana, così sventando il progetto (sostenuto dal boss latitante Matteo Messina Denaro) di riportare in vita la Cupola mafiosa di Cosa nostra.
Struttura
Le conoscenze sull’organizzazione interna della mafia siciliana si debbono prevalentemente all’opera di Giovanni Falcone, primo magistrato che riuscì a rompere il muro di omertà su questo tema avvalendosi dell’ausilio di “pentiti” (il più importante dei quali fu sicuramente Tommaso Buscetta, personalità di spicco nella Cupola Siciliana e sorta di “ufficiale di collegamento” con le famiglie di Cosa nostra americana), grazie alle nuove leggi in materia di pentitismopromulgate all’inizio degli anni ottanta. Assieme al collega Paolo Borsellino ha donato ai suoi successori una solida base di conoscenze che hanno aiutato a combattere la mafia efficacemente.
Cosa nostra è formata da mafiosi che si definiscono uomini d’onore. Tradizionalmente l’ingresso nell’organizzazione, e quindi l’ottenimento del titolo di uomo d’onore, avveniva attraverso un vero e proprio rito d’iniziazione definito punciuta, che oggi sembrerebbe superato a fronte di metodi più moderni e sbrigativi.
La struttura di Cosa Nostra è verticistica e piramidale e dipende dalla Cupola. Alla base dell’organizzazione ci sono le famiglie in cui tutti gli affiliati si conoscono fra loro, governate da un capo-famiglia di nomina elettiva; altre figure importanti sono il sottocapo e i consiglieri, in numero non superiore a 3. Le famiglie si dividono in gruppi di 10 uomini detti decine comandate da un capodecina. Tre famiglie dal territorio contiguo formano un mandamento e sono rappresentate da un capomandamento che, almeno fino a un certo periodo, non era membro di nessuna di quelle famiglie per evitare che favorisse la propria. I vari capimandamento si riuniscono in una cupola (o commissione) provinciale, di cui la più importante è quella di Palermo. Questa commissione provinciale è presieduta da un capomandamento che, per sottolineare il suo ruolo di primus inter pares, si chiamava in origine segretario, ma sembra che ora abbia preso il titolo di capo.
Per lungo tempo non c’è stato bisogno di un organismo superiore alla commissione provinciale poiché quasi tutte le famiglie risiedevano in quella di Palermo. Quando però l’organizzazione ha messo radici in tutta l’isola si è dovuta creare una cupola regionale detta interprovinciale, alla quale partecipavano tutti i rappresentati delle varie province e dove il titolo di capo era tenuto dal capo della cupola provinciale più potente e quindi di Palermo.
Negli ultimi anni, dopo la riorganizzazione seguita ai colpi inferti dalle forze dell’ordine, la struttura che era già molto semplice si è fatta ancora meno verticistica e meno localizzata: la città più soggetta alle operazioni antimafia è stata sicuramente Palermo, dove le famiglie hanno perso moltissimo potere per via dei numerosi arresti; si è così creata una situazione di maggiore divisione tra le province, a causa dell’indebolimento della Cupola, il che ha comportato la crescita del ruolo criminale di città come Trapani, Agrigento, Catania e Messina, non più totalmente sottoposte ad un controllo dei palermitani.
La strategia criminosa di Cosa nostra è duplice: da una parte cerca di garantirsi il controllo del territorio in cui risiede, attraverso una imposizione fiscale alle attività commerciali e industriali della zona (il pizzo o racket) e la feroce e immediata punizione di chiunque osi contravvenire alle disposizioni che essa dirama, mentre dall’altra cerca di corrompere il potere politico ed i funzionari dello Stato attraverso l’offerta di denaro e voti, per ottenere l’impunità e una sponda all’interno del sistema, da poter usare a proprio vantaggio. Questo connubio di impunità e controllo garantisce ai mafiosi la possibilità di affrontare qualunque nemico, sia esso malavitoso o istituzionale, da una posizione di forza, sicuri di avere in ogni caso un rifugio protetto e degli amici a cui ricorrere: a volte sfruttando perfino le forze dello Stato stesso.
I mandamenti mafiosi attuali
La città di Palermo è divisa in 8 mandamenti locali: Porta Nuova, Brancaccio, Boccadifalco Passo di Rigano, Santa Maria di Gesù, Noce, Pagliarelli, Resuttana e S. Lorenzo. L’intera provincia palermitana è ripartita in 8 grandi mandamenti: Palermo, Partinico, San Giuseppe Jato, Corleone, Villabate, Belmonte Mezzagno, Gangi – San Mauro Castelverde (o delle Madonie).
La provincia di Agrigento è costituita da 9 mandamenti: Agrigento, Porto Empedocle, Canicattì, Cianciana, Ribera, Sambuca di Sicilia, Casteltermini, Lampedusa / Linosa, Palma di Montechiaro e Campobello di Licata. I mandamenti diRacalmuto e Favara sembrano essere stati assorbiti da quello di Canicattì. La famiglia Sciacca, a Sambuca di Sicilia, potrebbe assumere un autonomo profilo mandamentale.
La gerarchia mafiosa della provincia di Trapani continua ad essere improntata alla tradizionale struttura delle famiglie e dei mandamenti, con una Commissione provinciale destinata ad individuare le linee strategiche criminali. I mandamenti sono 4: Castelvetrano, Trapani, Mazara del Vallo e Alcamo.
La stessa area della provincia di Messina è divisa in tre zone, relative all’aggregato urbano del capoluogo, che risente delle connessioni con la ‘Ndrangheta calabrese e alle due fasce di territorio che si distendono dai margini del capoluogo ai confini delle province di Palermo e Catania, poste sotto le influenze delle organizzazioni mafiose limitrofe. Oltre al capoluogo peloritano, vi sono altri due mandamenti rilevanti in questa provincia, il mandamento di Mistretta e il mandamento di Barcellona Pozzo di Gotto.
Nella provincia di Caltanissetta vi sono 4 mandamenti: Gela, Vallelunga, Riesi e Mussomeli.
La provincia di Enna continua a profilarsi come zona di retroguardia per Cosa nostra, di origine nissena, soprattutto, che ricorre ad alleanze con i gruppi operanti nelle zone limitrofe.
Nella provincia di Catania, le organizzazioni mafiose gestiscono preferenzialmente il conferimento illecito di appalti pubblici. Gli interessi sono divisi tra le diverse famiglie. Possono essere menzionati i clan Santapaola, Cappello, Arena, Mazzei, La Rocca, Scalisi, Laudani e i rapporti con esponenti delle famiglie palermitane.
La provincia di Siracusa registra l’incidenza della criminalità diffusa, accentuata da marginalità e devianza. Tra i clan egemoni sembrano esservi il clan Nardo di Lentini e il clan Urso-Bottaro-Attanasio di Siracusa.
Rapporti tra Mafia e Stato
Come si rivela dalle numerose presenze nel Parlamento e nel governo di elementi non estranei a frequentazioni mafiose. Si fa strada negli anni novanta la tesi secondo cui lo Stato italiano nei suoi componenti politici abbia un certo rapporto di “convivenza” con questo fenomeno mai definitivamente soppresso. Lo stesso comportamento del CSM durante il lavoro di Giovanni Falcone che inizialmente non ricandidò il giudice come presidente della commissione antimafia da lui creata fa intendere una certa tendenza a voler ostacolare un lavoro diventato troppo scomodo per certi poteri.
Rapporti con le altre organizzazioni criminali
Cosa nostra, per via del suo carisma e della sua potenza, ha intrattenuto, e intrattiene tuttora, rapporti con le più importanti organizzazioni criminali sia italiane che estere.
LA MAFIA SICILIANA