COMMISSIONE ANTIMAFIA – Audizione Salvatore Borsellino e Fabio Repici

COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE 


VIDEO


Testo Audizione di Salvatore Borsellino alla Commissione parlamentare antimafia (Resoconto stenografico)

 


29.2.2024 Repici: ”Borsellino non trattò rapporto mafia-appalti nelle ultime settimane di vita”

 

29 Febbraio 2024  – “Paolo Borsellino nelle ultime settimane di vita il rapporto mafia-appalti non lo trattò. Punto”. E’ una conclusione perentoria quella dell’avvocato Fabio Repici, sentito ieri in Commissione antimafia (presieduta da Chiara Colosimo) assieme a Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, Paolo Borsellino. Il legale ha evidenziato il dato dopo aver letto gli atti desecretati dalla stessa Commissione parlamentare. “Quando leggevo gli atti delle acquisizioni fatte presso la casa e presso l’ufficio del dottor Paolo Borsellino davo per scontato, visto che si sostiene secondo me in modo del tutto infondato che Paolo Borsellino avesse particolarmente accesa attenzione su quel rapporto negli ultimi tempi della sua vita, che o a casa o nel suo ufficio una copia del rapporto mafia-appalti si sarebbe trovata. Però non c’era. Poiché sicuramente non c’era neanche nella borsa, quindi non fu sottratto insieme all’agenda rossa che invece fu sottratta, do per assodato che Paolo Borsellino nelle ultime settimane di vita il rapporto mafia-appalti non lo trattò”.
In questa nuova deposizione Fabio Repici era chiamato a rispondere alle domande dei commissari. La trattativa con Ciancimino e l’omertà del Ros Nella narrazione degli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donnoun momento chiave che dimostrerebbe proprio l’interesse di Borsellino per quel rapporto sarebbe l’incontro che il giudice ebbe con entrambi il 25 giugno 1992 alla caserma Carini di Palermo. Ma Repici ha smontato anche quella ricostruzione. Per prima cosa è necessario ricordare che, in quella data, era già avvenuto il contatto tra il Ros ed il sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Un contatto di cui erano già stati informati ambienti politici, ma non l’autorità giudiziaria (cosa contraria ai doveri di un ufficiale di Polizia giudiziaria, ndr). Loro “ebbero un silenzio omertoso sull’incontro avuto il 25 giugno, in via riservata, con il giudice Borsellino. Quell’incontro era stato da lui voluto per cercare di capire se fosse stato il capitano De Donno il redattore del documento anonimo passato alla storia come il documento del ‘Corvo bis’, come raccontato dall’allora maresciallo Canale che è l’unico testimone disinteressato della vicenda. Una cosa è certa, Mori e De Donno per anni mantennero il silenzio su quell’incontro“. I due ufficiali del Ros, ha proseguito Repici, “tacquero davanti all’autorità giudiziaria, ma soprattutto a Paolo Borsellino tacquero della trattativa avviata con Vito Ciancimino, emissario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Perché la questione è molto rilevante? Per due motivi. Il primo è che noi sappiamo per certo che, analogo riserbo, Mori e De Donno non mantennero con esponenti politici, anzi direi con esponenti del governo perché noi sappiamo, perché lo ha testimoniato davanti ai giudici, l’allora direttrice generale degli affari penali, la dottoressa Liliana Ferraro, cioè il magistrato che succedette a Giovanni Falcone in quel ruolo dopo la strage di Capaci e sappiamo dalla dottoressa Ferraro che il 28 giugno informò il dottor Borsellino, incontrandolo all’aeroporto di Fiumicino, che aveva appreso dal capitano de Donno, mandatole dal colonnello Mori, che i due avevano avviato la trattativa con Vito Ciancimino”. Dell’interlocuzione avuta con Ciancimino furono informati anche l’allora presidente della commissione parlamentare antimafia Luciano Violante e la segretaria generale della presidenza del consiglio di allora, l’avvocata Fernanda Contri. In varie interviste Mori ha recentemente giustificato il silenzio con la Procura di Palermo perché non si potevano fidare del Procuratore capo Giammanco. Ma perché non riferire questa circostanza anche a Borsellino? Non si fidavano neanche di lui? Logica vuole che la risposta sia da ricercare nella possibile reazione del giudice. “Quale sarebbe stata la reazione di un magistrato, ancor di più Paolo Borsellino, davanti a degli ufficiali dei Carabinieri che gli dicono: ‘sai, per risolvere il problema del muro contro muro (sono le parole utilizzate da Mario Mori in una deposizione a Firenze, ndr). Vediamo di trovare un accordo’? Io invito voi a rispondere. Quale sarebbe stata la risposta di Paolo Borsellino a una evocazione di un accordo con Totò Rina e Bernardo Provenzano?”. A queste semplici domande secondo il legale di Salvatore Borsellino vi sarebbe un’unica risposta: “Mori e De Donno tacquero davanti all’autorità giudiziaria, perché era difficilmente giustificabile il loro comportamento” così come “il silenzio tenuto nei confronti di Paolo Borsellino“. Va anche ricordato che “il tema mafia-appalti verrà spinto come ipotetica causale della strage di via D’Amelio solo a partire dall’ottobre del 1997. Le parole di Salvatore Borsellino Intervenendo in video collegamento Salvatore Borsellino, il fratello del giudice ha testimoniato come “dopo la strage di Capaci, Paolo sapeva che sarebbe toccato a lui, ne era assolutamente certo. Tanto che tentava di allontanare affettivamente i figli per farli abituare alla sua assenza. Io lo sentii per telefono il venerdì prima della strage per chiedergli di andare via da Palermo – ha ricordato – e lui si alterò rispondendomi ‘Io non accetterò mai di fuggire, presterò fede fino all’ultimo al giuramento fatto allo Stato’. Mio fratello era molto riservato sul suo lavoro“. Il fratello di Borsellino ha anche parlato dell’agenda rossa, sparita il 19 luglio 1992. “Io ho visto più volte l’agenda anche nell’ultima occasione in cui ci siamo visti, nel Capodanno ’92. La custodiva gelosamente, la nascondeva anche ai suoi familiari: in Puglia una volta uscendo dall’albergo si accorse di non averla con sè, si agitò moltissimo e rientrò precipitosamente per recuperarla. Non l’ho mai visto – ha aggiunto – direttamente farlo, ma so che sull’agenda rossa scriveva sempre, annotava tutto quello che non poteva essere verbalizzato ed atteneva alle sue indagini“. Borsellino cercava elementi sulla strage di Capaci Ma quali erano i pensieri fissi di Borsellino negli ultimi giorni della sua vita. E’ noto che in quel periodo raccoglieva le testimonianze dei collaboratori di giustizia Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, ma il chiodo fisso era la ricerca della verità sulla morte di Giovanni Falcone. Sul punto Repici ha ricordato anche un’altra testimonianza, ovvero quella del magistrato Davide Monti. È stato accertato che si incontrò con Borsellino il giorno prima della strage di via d’Amelio. Monti fu sentito come testimone nel processo Borsellino – Bis e riferì di un incontro avvenuto intorno alle 20 a Palermo in cui si sarebbe parlato di tre circostanze rilevanti: “La prima – ha detto Repici – era che effettivamente alla procura di Palermo in quel momento” c’era “una spaccatura della quale riteneva responsabile il procuratore Giammanco” al quale addebitava non solo una “generale malagestione dell’ufficio“, ma anche il “trattamento persecutorio che Giammanco aveva riservato all’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone” negli ultimi due anni della sua permanenza alla procura di Palermo. Nell’incontro con Monti Borsellino raccontò anche che Giammanco aveva “sostanzialmente costretto” Falcone “a andare via dalla procura di Palermo e che aveva continuato a condurre l’ufficio requirente palermitano in modalità” che lui non apprezzava. Ma anziché arrivare ad uno “scontro” Borsellino cercò di arrivare comunque a “risultati utili e spiegò che la cosa che gli premeva di più in quel momento era cercare elementi di ricostruzione sulla strage di Capaci“. Un dato, questo, che esclude in via definitiva la mirabolante ipotesi secondo la quale Borsellino si sarebbe occupato con ‘interesse bruciante’ del dossier mafia e appalti.NLe testimonianze di Agnese Borsellino Repici ha anche ricordato altri elementi, come la testimonianza di Agnese Borsellino, la vedova del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. Lei ritenne solo nel 2009 doveroso riferire ai magistrati, dei quali si fidava, tutto ciò che le aveva confidato, prima di morire il marito Paolo Borsellino. Perché, ha spiegato Repici, dopo la strage la “sua principale premura era quella di tutelare la sicurezza dei propri figli“. Cosa raccontò? Che il marito le disse di una “trattativa in corso fra parti infedeli dello Stato e Cosa Nostra”, ma non solo. Ha parlato di Castel Utveggio, così come di Antonio Subranni ‘punciutu’ e dell’aria di morte respirata al Palazzo del Viminale. “Abbiamo appreso tutto da lei – ha detto Repici – I figli di Borsellino, nel processo dissero che la madre era la persona più lucida dei familiari di Paolo Borsellino nel raccontare quelle cose. Poi anche il dottor Diego Cavaliero riferì di aver appreso da Agnese Borsellino della confidenza sul generale Subranni che l’era stata fatta da Paolo Borsellino e aveva precisato quale fu il senso delle parole di Agnese Borsellino” ovvero “che Paolo Borsellino aveva ritenuto aveva certezza della veridicità di quelle parole”. Elementi esterni a Cosa nostra Altro tema affrontato nella deposizione, che nella parte finale è stata anche secretata, l’avvocato ha anche parlato dell’esistenza di soggetti che hanno concorso con Cosa Nostra” nell’esecuzione della strage di via d’Amelio. Come spiegato da Repici, ci sono “risultanze processuali, direi abbastanza corpose” che attestano l’esistenza di un dialogo tra i membri dell’organizzazione mafiosa ed elementi esterni. Le conclusioni dei giudici sono state corroborate dalle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia come Antonino Giuffrè, braccio destro principale di Bernardo Provenzano e componente della Commissione di Cosa Nostra in quanto capo mandamento di Caccamo. “Giuffrè – ha riportato Repici – riferì che Cosa Nostra e Totò Riina in particolare, e anche Bernardo Provenzano, prima di procedere all’attività stragista del 1992, operò quelli che egli definì dei ‘sondaggi’, cioè delle interlocuzioni, nei confronti di ambienti che egli definì in varie tipologie: ambienti imprenditoriali, ambienti politici e ambienti massonici; con i quali Cosa Nostra si confrontò sulla utilità e sulle conseguenze che dalla realizzazione delle stragi ci sarebbero derivate“. “Nell’esprimersi in questo modo – ha aggiunto il legale – Giuffrè spiegò che quella fase, diciamo, quella strategia di Cosa Nostra, adesione a progetti stragisti, rientrava in una necessità di ricomporre equilibri con gli ambienti del potere che con il crollo della Prima Repubblica erano sostanzialmente da riformulare“. Oltre a Giuffré anche Salvatore Cancemi, reggente del mandamento di Porta Nuova, “fece riferimento a contatti con esponenti esterni a Cosa nostra. Arrivò anche a fare dei nomi, come è noto, alla indicazione di un sostanzialmente progetto politico” che comprendeva l’individuazione di“altri interlocutori con i quali poter convivere felicemente“. E poi ancora, Giovanni Brusca, che apprese dallo stesso Salvatore Riinadell’esistenza di “interlocutori esterni” ai quali aveva “rivolto le richieste per patteggiare un nuovo contratto di convivenza fra Cosa Nostra e le sfere del potere: il cosiddetto papello“. Di incisiva importanza è stata anche la testimonianza di Gaspare Spatuzza, killer di fiducia dei Graviano, il quale riferì della “presenza di un soggetto esterno” nel garage dove venne imbottita di tritolo la Fiat 126 usata per la strage di via d’Amelio. Spatuzza che, come ha raccontato Repici, “fece in forma solo dubitativa” un riconoscimento disposto dall’autorità giudiziaria indicando un soggetto che era l’allora vice capo del SISDE di Palermo. Una vicenda chiusa, che resta comunque agli atti. Elementi che allargano l’orizzonte su cui la Commissione antimafia dovrebbe effettuare degli approfondimenti. Perché la ricerca della verità non passa dalla frammentazione dei fatti, ma da una visione completa a 360°. E questa è una sfida tutta da giocare. Aaron Pettinari e Luca Grossi (AntimafiaDuemila)

 



16.11.2023 “Paolo Borsellino era interessato al pentito della pista nera dietro alla strage di Capaci. Andò a una riunione coi pm di Caltanissetta”

 
Arriva in Antimafia l’interesse di Paolo Borsellino per Alberto Lo Cicero, il collaboratore di giustizia che per primo aveva parlato ai carabinieri di boss importanti come Mariano Tullio Troia e Salvatore Biondino, l’autista di Totò Riina. E che – come ha raccontato Il Fatto Quotidiano già nel maggio del 2022– è stato al centro delle indagini sulla cosiddetta “pista nera” dietro alla strage di Capaci. A parlarne è stato Fabio Repici, avvocato di Salvatore Borsellino, che ha completato la sua audizione davanti ai parlamentari di Palazzo San Macuto.
Le parole di Repici –L’ultima parte dell’intervento del legale è stata secretata. Subito prima che la presidente Chiara Colosimo ordinasse lo stop della trasmissione video, però, Repici ha citato l’interesse di Borsellino per Lo Cicero. “Leggendo un’ordinanza di custodia cautelare io ho scoperto un dato che a me era sconosciuto e cioè che il 15 giugno del 1992, quindi fra Capaci e via D’Amelio, ci fu una riunione di coordinamento di indagini fra le procure di Palermo e di Caltanissetta in relazione al collaboratore di giustizia, Alberto Lo Cicero.
A quella riunione di coordinamento investigativo, scopro da questa ordinanza, ha partecipato Paolo Borsellino. Qual è il punto? Il punto è che questa ordinanza mi ha dato la plastica dimostrazione di quanto ancora oggi noi siamo portati fuori strada da false piste, dai depistaggi compiuti un secondo elementi di prova. Non c’è un processo nel quale si sia accertato cosa ha fatto Borsellino tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992″.
La riunione con Borsellino –Repici si riferisce all’ordinanza emessa nel luglio scorso dal gip di Caltanissetta per Stefano Menicacci, ex parlamentare del Msie storico avvocato di Stefano Delle Chiaie, e per il suo braccio destro Domenico Romeo, finiti ai domiciliari con l’accusa di aver mentito ai pm che indagano sulle stragi.
In pratica i due hanno tentato di nascondere la presenza di Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, in Sicilia nel periodo precedente a Capaci.
A pagina 54 dell’ordinanza il gip Santi Bologna scrive: “Deve darsi atto come il 15.06.1992 vi fu una riunione di coordinamento tra la Procura della Repubblica di Palermo e quella di Caltanissetta, in relazione alle risultanze del proc. n. 3471/1992, a cui prese parte il Dott. Borsellino (oltre ai Dott.ri Giammanco, Alìquò, Teresi e Vaccara).
Nonostante il Dott. Teresi non abbia alcun ricordo della questione (“Nulla so dire circa il coinvolgimento di Paolo Borsellino nella vicenda Lo Cicero
In particolare io non ricordo di avere parlato con Paolo Borsellino di tale argomento, ma non posso escluderlo”), è innegabile che il Dott. Borsellino ebbe contezza di quella vicenda, avendo partecipato alla predetta riunione di coordinamento“.
Il numero del procedimento, come specifica sempre il gip nelle note, corrisponde a quello nato dalle dichiarazioni di Lo Cicero, un falegname che non era affiliato formalmente alla mafia anche se era l’autista di Mariano Tullio Troia, boss di Cruillas a Palermo e trait d’union tra Cosa nostra e gli ambienti politici dell’estrema destra.
La compagna di Lo Cicero, invece, è Maria Romeo, la sorella di Domenico Romeo, braccio destro di Menicacci, avvocato di Delle Chiaie.
Le dichiarazioni di Lo Cicero –Il pentito – personaggio principale di alcune puntate di Report – è morto alcuni anni fa, ma prima ha sostenuto di aver incontrato in via informale e riservata Paolo Borsellino.
Dichiarazione confermata dalla sua ex compagna, Maria Romeo, che è anche la prima persona che parla della presenza di Delle Chiaie in Sicilia nel periodo delle stragi: secondo la donna l’estremista nero era alla ricerca di esplosivo prima di Capaci.
Lo Cicero ha anche sostenuto di aver rivelato al carabiniere Walter Giustini (che l’ha ripetuto davanti ai pm e oggi è indagato per depistaggio) l’importanza di Salvatore Biondino, l’autista di Riina che all’epoca era completamente sconosciuto agli investigatori. Lo stesso pentito sostiene di aver notato strani movimenti nella zona di Capaci poco prima della strage in cui venne ucciso Giovanni Falcone.
Probabilmente è per questo motivo se la procura di Caltanissetta, titolare delle indagini sulla bomba del 23 maggio ’92, era interessata alle dichiarazioni di Lo Cicero, tanto da organizzare una riunione di coordinamento con i magistrati di Palermo.
“Borsellino si occupò di Lo Cicero” –Trent’anni dopo, però, i racconti del pentito sono considerati inattendibili.
Così li definisce nella sua ordinanza il gip Bologna, lo stesso giudice che ha recentamente rigettato l’archiviazione sulle controverse dichiarazioni di Maurizio Avola.
In quelle carte, però, viene riportato come il ruolo del confidente avesse catalizzato l’attenzione di Borsellino, che era andato fino a Caltanissetta per discutere coi colleghi nisseni di Lo Cicero.
“Rimane da capire perché il Dott. Borsellino prese parte a tale riunione di coordinamento non essendo lui, bensi il Dott. Aliquò il procuratore aggiunto di riferimento per l’area geografica di Palermo”, scrive il gip, riferendosi al fatto che il 15 giugno del 1992 Borsellino non aveva ancora la delega a indagare sul territorio di Palermo, che gli sarà riconosciuta dal suo capo Giammanco solo la mattina del 19 luglio.
Del resto a ricordare l’interesse del magistrato per le confidenze fatte da Lo Cicero ai carabinieri è anche Marco Minicucci, all’epoca comandante del nucleo operativo di Palermo. “Ricordo che il dott. Borsellino si occupò delle indagini sul Lo Cicero. Preciso che in realtà lui non era il magistrato di riferimento ma ciò nonostante fu messo al corrente delle risultanze originate dalle indagini a carico del Lo Cicero”.
Il pentito e il divieto di parlare con altre procure –Non si sa cosa Lo Cicero aver riferito Borsellino e neanche perché il magistrato fosse talmente interessato alle dichiarazioni del pentito da partecipare a una riunione alla quale formalmente non avrebbe potuto avere accesso.
Quello che si sa è che Borsellino aveva dato precise disposizioni su Lo Cicero: il collaboratore non doveva parlare con altre procure. Lo scrive sempre Minicucci in una nota del 14 settembre ’92, dunque dopo la strage di via d’Amelio, indirizzata agli uffici inquirenti di Palermo e Caltanissetta: “Sia il dott. Borsellino che la S. V. (il riferimento è per l’allora procuratore aggiunto Vittorio Aliquò) avevano raggiunto accordi, per averli da Voi appresi, circa la inopportunità al momento di richiedere la disponibilità del collaboratore a fornire informazioni ad altre autorità giudiziarie“.
Un falegname con una particolarità –Quelli sono i giorni in cui Borsellino interroga Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, i collaboratori di giustizia che gli parlano dei legami tra Cosa nostra e alcuni importanti esponenti delle istituzioni come Bruno Contrada.
Sono confidenze che non vengono messe subito a verbale, ma che probabilmente Borsellino appunta nella sua agenda rossa. Parallelamente il magistrato è pure interessato a Lo Cicero, il confidente che avrebbe pure incontrato in via riservata.
Prima di farlo collaborare con altri pm, evidentemente, Borsellino voleva verbalizzare lui stesso le dichiarazioni dell’autista di Troia, il boss che gli altri mafiosi chiamavano “U Mussolini” per le sue estreme tendenze politiche. E invece Lo Cicero firmerà il primo verbale da collaboratore solo il 24 luglio del ’92, dopo la strage di via d’Amelio e quindi con un magistrato diverso da Borsellino.
Oggi, come detto, le sue dichiarazioni sono considerate inattendibili per i magistrati di Caltanissetta, che ricordano come già nel 1995 il tribunale di Palermo avesse accertato le bugie di Lo Cicero in merito alla sua affiliazione. E dire che per due volte Cosa nostra ha cercato di ucciderlo: tra il 1993 e il 1994 per ammazzare l’inattendibile falegname Lo Cicero, uno che non era mai stato neanche combinato, si muovono due killer di primo piano come Gioacchino La Barbera e Gaspare Spatuzza.
Uomini fidatissimi di Giuseppe Graviano, il boss che ha organizzato tutta la stagione delle bombe, da quelle del ’92 alle stragi di Milano, Roma e Firenze.
Lo Cicero dunque ha una peculiarità: suscitava gli interessi sia di Borsellino che del boss di Brancaccio.
Due che si trovano a pochi metri di distanza il 19 luglio del ’92: il magistrato è sotto casa di sua madre, in via d’Amelio, mentre Graviano è nascosto in un giardino poco distante. Ha in mano un telecomando che trasformerà quella strada in un inferno, cambiando per sempre la storia di questo Paese. FATTO QUOTIDIANO 

15.11.2023 – Comm. Antimafia, Repici: ”È guerra alla realtà separare stragi del ’92 da quelle del ’93”


È assolutamente un’ulteriore guerra mossa alla realtà, quella di separare le stragi commesse in Sicilia nel ’92 e quelle commesse in continente non solo nel ’93 e nel ‘94”.
Sono state queste le parole dell’avvocato Fabio Repici sentito oggi in commissione antimafia assieme a Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, Paolo Borsellino.
Il legale ha sollevato la questione ricordando come le stragi non sono state fatte per stabilizzare ma per destabilizzare il nuovo assetto di potere che si stava creando in Italia: “Per voce unanime di tutti i collaboratori di giustizia, non solo siciliani, che hanno riferito sulle stragi in generale del biennio ’92-’94, ma in particolare le stragi del 1992, non ce n’è stato uno solo che abbia segnalato all’autorità giudiziaria che quelle stragi avrebbero avuto una funzione stabilizzatrice del sistema di potere” – ha detto – “le stragi del 1992 e del 1993 sono state stragi per abbattere la Prima Repubblica e il primo atto stragista del 1992 ha avuto come immediato effetto, riconosciuto da sentenze irrevocabili, quello di impedire” a “Giulio Andreotti di ascendere al Quirinale, cosa che invece era, nei fatti, operazione non dico solo possibile, ma probabilmente già in atto. Su questo io rimando alle dichiarazioni di chi, secondo le sentenze irrevocabili, è stato il principale esecutore della strage di Capaci, e cioè Giovanni Brusca”.

Mafia e Appalti? Nessuno dei soggetti coinvolti ha avuto rapporti con Giuseppe Graviano
Un dato, ha detto Repici, è indiscutibile: la parte esecutiva della strage di via d’Amelio “è stata supervisionata e controllata e eseguita da Giuseppe Graviano capo mandamento al tempo di Brancaccio e dai suoi uomini. Ora se voi prendete tutti i nomi possibili dei soggetti i cui nomi vengono tirati fuori a proposito della teoria secondo cui l’indagine mafia e appalti sarebbe la causale della strage di via d’Amelio, io vi segnalo che rapporti fra Giuseppe Graviano e i Buscemi, Bini, Gardini e gli stessi politici che con colpevole ritardo il Ros segnalò alla procura di Palermo nel 1992, come coinvolti in quei giri di affari, non sono mai stati documentati”.
E poi ancora: “Tutti i soggetti in qualche modo coinvolti, o coinvolgibili, nelle vicende in negativo di mafia e appalti, sono soggetti che in realtà all’avvio della Prima Repubblica erano defunti o dei fantasmi rispetto al sistema di potere che nel frattempo aveva raggiunto dei nuovi equilibri. Aggiungo che il più grande depistaggio della storia giudiziaria d’Italia, come riconosciuto dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del 20 aprile 2017 sulla strage di via d’Amelio, ha avuto quale momento di più plastica evidenza, le false dichiarazioni messe in bocca al falso pentito Vincenzo Scarantino da esponenti della Polizia di Stato. Il primo verbale falso di Vincenzo Scarantino reca la data del 24 giugno 1994.
Io segnalo alle signorie vostre di valutare quale fosse il ruolo di Raul Gardini il 24 giugno del 94, si era suicidato l’anno prima. Quale fosse il ruolo dell’onorevole Salvo Lima. Era stato ucciso il 12 marzo 1992. Quale fosse il ruolo dell’onorevole Nicolosi, che era presidente della Regione Sicilia al momento delle indagini e che nel frattempo era forse perfino finito in carcere.
Il ruolo dell’onorevole Mannino. Quale fosse il ruolo dei tanti politici i cui nomi emersero non nella prima informativa del 13 febbraio 91 ma nella seconda informativa del Ros del 3 settembre ‘92
, ha detto Repici.
Bene, se voi ne trovate uno che al 24 giugno del 1994 fosse ancora in sella nelle stanze del potere, io dovrò rimediare a questa mia affermazione. Vi assicuro che non ne troverete uno”, ha ribadito.
Il depistaggio di via d’Amelio non è stato fatto per coprire mafia e appalti
Poiché si tratta del più grande depistaggio della storia giudiziaria d’Italia, io vorrei capire come il più grande depistaggio, costruito con le false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, che scopo abbia avuto. Quello di tutelare dalle investigazioni soggetti che non esistevano più fisicamente o che non esistevano più diciamo, quanto ai ranghi del potere? È ovvio che questa è, anche per via logica, l’ulteriore dimostrazione di come oggi, a 31 anni di distanza dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, sostenere quella ipotesi” vuol dire veramente “portare ulteriori ostacoli alla già faticosa, mai abbastanza faticosa ricerca della verità”, ha detto Fabio Repici.
Cosa fece Borsellino tra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio?
Il legale ha riferito di aver recuperato l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice di Caltanissetta Santi Bologna con la quale erano stati disposti gli arresti domiciliari per l’avvocato Stefano Menicacci (storico difensore del neofascista Stefano Delle Chiaie) e Domenico Romeo.
Dell’ordinanza ne avevamo già scritto a luglio di quest’anno.
Dalle investigazioni, come riferito da Repici,  era emerso un tentativo di “sminuire se non addirittura annichilire il fondamento delle investigazioni che era partito dalle dichiarazioni” di un confidente dell’arma dei carabinieri e poi collaboratore di giustizia: Alberto Lo Cicero, importante uomo di Mariano Tullio Troia, importante esponente di Cosa nostra del mandamento di San Lorenzo.
Lo Cicero, sentito dai carabinieri l’8 aprile ’92 aveva riferito “del ruolo importante di Salvatore Biondino, l’uomo “arrestato il 15 gennaio del 1993 insieme a Totò Riina” e “uomo decisivo nella strage di Capaci”. Inoltre, sempre Lo Cicero, aveva raccontato di Antonino Troia – parente di Mariano Tullio Troia – cioè il “basista, come accertato con sentenza irrevocabile, della strage di Capaci del 23 maggio ’92”.
Ma un dato ancor più sconvolgete riguarda l’omicidio dell’informatore del Sisde Emanuele Piazza: “Risulta dall’ordinanza di custodia cautelare” che “nel 1992, quando l’autorità giudiziaria non aveva idea di che fine avesse fatto Emanuele Piazza”, “Alberto Lo Cicero riferì ai carabinieri che non era scomparso, era stato ucciso ed era stato strangolato, cosa che era sconosciuta non solo all’autorità giudiziaria ma a qualunque inquirente d’Italia”.
Questo – ha continuato Repici – perché ve lo dico in aggiunta in relazione alle vicende delle stragi e in particolar modo della strage di via d’Amelio? Perché leggendo quell’ordinanza di custodia cautelare io ho scoperto” che “il 15 giugno del 1992 ci fu una riunione di coordinamento di indagine fra le procure di Palermo e di Caltanissetta in relazione al confidente collaboratore di giustiziaAlberto Lo Cicero e che a quella “riunione di coordinamento investigativo ha partecipato Paolo Borsellino.
Qual è il punto? Il punto è che questa ordinanza mi ha dato la plastica dimostrazione di quanto ancora oggi noi, portati fuori strada da false piste, portati fuori strada dai depistaggi compiuti, dal nascondimento di elementi di prova, di quanto ancora noi dobbiamo perfino scoprire su tutto ciò che ha fatto, non su ciò che non ha fatto, su tutto ciò che ha fatto negli ultimi 57 giorni di vita Paolo Borsellino”
.
E qua – ha concluso il legale – io vi faccio una testimonianza diretta, non c’è un processo nel quale si sia fatta una cosa, che penso che a ognuno di noi sembrerebbe banale, e cioè di accertare dal 23 maggio 1992” al “19 luglio 1992, cosa abbia fatto Paolo Borsellino”. 
La seduta della commissione è stata successivamente secretata su richiesta del legale. ANTIMAFIA DUEMILA



15.11.2023 avvocato Repici: “Stragi ’92-’93 per abbattere Prima Repubblica”
Il legale è stato audito in commissione parlamentare Antimafia

 

“Le stragi del 1992 e del 1993 sono state stragi per abbattere la Prima Repubblica” secondo l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino. “Le stragi di Capaci e di Via d’Amelio e anche le altre hanno avuto – dato storico accertato dalla sentenze – come vittime non solo magistrati, poliziotti e comuni cittadini ma anche la Prima Repubblica”, ha detto Repici nel seguito dell’audizione in commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo. “L’uomo che ha incarnato la Prima Repubblica si chiamava Giulio Andreotti, e non c’è dubbio, come sentenze passate in giudicato hanno attestato, che la strage di Capaci ha avuto come primo e immediato effetto la impossibilità di Giulio Andreotti di ascendere al Quirinale, operazione che nei fatti non solo era possibile, ma probabilmente già in atto”, ha sottolineato il legale, rimandando su questo “alle dichiarazioni di chi secondo sentenze irrevocabili è stato il principale esecutore della strage di Capaci, e cioè Giovanni Brusca“. LA PRESSE



8.11.2023 Fabio Repici smonta la tesi mistificatoria su mafia e appalti di Trizzino e Mori

 

Il legale di Salvatore Borsellino udito in commissione antimafia

No, il dossier ‘mafia e appalti’ non è stato la causale della strage di via d’Amelio e le parole di Agnese Borsellino, moglie del magistrato Paolo Borsellino, non devono essere oggetto di ‘revisionismi’ e interpretazioni.
Lo ha spiegato l’avvocato Fabio Repici udito ieri in commissione antimafia assieme a Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso il 19 luglio 1992 smontando con dovizia le ricostruzioni depistanti riferite nelle scorse udienze dell’avvocato Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.
Per diradare le numerose zone d’ombra presenti ancora su quelle tragiche pagine della storia italiana si dovrà necessariamente ripartire dalla sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, la parte “degli accertamenti sulla strage più vittima di trascuratezza e omissione da parte degli uffici giudiziari”, ha detto Repici sottolineando come – a differenza di quanto affermato da Trizzino nelle scorse udienze – “è assolutamente un dato fuori dalla realtà, anzi contrario ai dati di realtà, il fatto che nella borsa di Paolo Borsellino ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo.
Questo è un dato assolutamente contrario alla realtà e in realtà erroneamente, non so per quale motivo, riferito oralmente dal dottore Vittorio Aliquò in una qualche occasione”.
Fatta questa precisazione il legale ha ricostruito le attività di ricerca di quella agenda rossa, definita più volte da Salvatore come “la scatola nera della strage di via d’Amelio”: tutto “quello che sappiamo sulla sparizione dell’agenda rossa, per puro paradosso, lo sappiamo a iniziativa di privati cittadini.
Il primo fu un giornalista, Lorenzo Baldo della testata ANTIMAFIADuemila, che nel 2005 ricevette una comunicazione anonima con la quale gli veniva segnalata l’esistenza di una o più immagini di un ufficiale dei carabinieri che si allontanava dal teatro della strage avendo in pugno la borsa del dottor Borsellino.
Riferì all’autorità giudiziaria che furono rinvenute le fotografie e alcuni video raffiguranti il capitano Giovanni Arcangioli che senza avere mai lasciato alcuna traccia, alcuna relazione di servizio, alcuna notazione, cioè furtivamente, perché è l’unico modo in cui si può descrivere quella azione, mentre c’erano ancora le fiamme in via d’Amelio, mentre ancora c’erano i feriti da soccorrere, ebbe quale sua prima e forse esclusiva pulsione quella di impossessarsi della borsa di Paolo Borsellino e allontanarsi dal teatro della strage, in direzione per l’esattezza di via dell’Autonomia Siciliana.
Ora, su quella condotta del capitano Arcangioli è stato impossibile avere un accertamento processuale, nel senso di una verifica dibattimentale, perché egli fu prosciolto in udienza preliminare sull’imputazione di furto dell’agenda rossa e quella sentenza fu confermata dalla Corte di Cassazione a cui aveva fatto ricorso la procura di Caltanissetta.
C’è però da dire che nel processo Borsellino quater ci si è nuovamente occupati di quella vicenda e in particolar modo è stato proprio il mio impegno in ossequio al fedele patrocinio della posizione di Salvatore Borsellino di fare luce il più possibile sulla sottrazione dell’agenda rossa. Bene, anche grazie al nostro impegno, la Corte d’Assise di Caltanissetta segnalò alla Procura, trasmettendo interiormente gli atti del processo Borsellino quater, che andavano ulteriormente sviluppati gli accertamenti sulla sottrazione dell’agenda rossa”.
L’allora Capitano Arcangioli “che era stato sottoposto a processo solo a partire dal 2005, poiché il delitto di furto era nel frattempo coperto dalla prescrizione, nella sua sede processuale aveva rinunciato alla prescrizione, cosa che a mio modo di vedere consentiva ulteriori attività che potevano essere fatte anche dopo la sentenza del Borsellino quater”.
Tuttavia “non abbiamo avuto notizia in nessun modo di alcuna attività utile sulla sottrazione dell’agenda rossa”.
Invero gli unici a indagare erano stati, come già anticipato, i privati cittadini: “Il miglior accertamento fatto sulla sparizione dell’agenda rossa o meglio sull’impossessamento da parte del Capitano Arcangioli della borsa del dottor Borsellino, la migliore attività è stata svolta dall’associazione fondata da Salvatore Borsellino, chiamata proprio per questo ‘agende rosse’ e in particolar modo da un bravissimo operatore informatico che si chiama Angelo Garavaglia.
Io ho prodotto alla Corte d’Assise un video realizzato da Angelo Garavaglia nel quale è riuscito a fare tutti gli accertamenti possibili anche con la individuazione del momento esatto e del minuto esatto della presa della borsa grazie alla parziale raccolta di documentazione video da parte degli operatori televisivi che ne avevano il possesso e dai quali riuscì a ottenere alcuni video”.

“Mafia e appalti è come la ‘pista palestinese’ per strage di Bologna”

“La causale ‘mafia e appalti’ ipotizzata per la strage di via d’Amelio la possiamo definire come una sorta di ‘pista palestinese’ su via d’Amelio se vogliamo richiamare il tentativo di depistaggio avvenuto per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto del 1980” ha detto Fabio Repici affrontando il tema principale sul quale si era concertato l’avvocato Fabio Trizzino.
“Le indagini iniziarono nel 1989 e sappiamo che ebbero un primo esito con il deposito di un rapporto giudiziario al dottor Giovanni Falcone il 13 febbraio del 1991” ha detto il legale sottolineando che “c’è stata una doppia refertazione sulle risultanze di quelle indagini e alcuni arrivano a sostenere che ciò non sia avvenuto, muovendo guerra ai dati documentali.
Noi sappiamo che quel rapporto giudiziario del 13 febbraio del 1991fu oggetto di procedimento penale trattato dalla procura di Palermo.
Sappiamo che, per una parte, quel procedimento arrivò a misura cautelare già nell’estate del 1991, con imputazioni, in quel momento provvisorie, ma che poi portarono a un dibattimento e quindi diventarono formalmente imputazioni, che prevedevano anche la contestazione di associazione mafiosa nei confronti di alcuni imputati, tra gli altri Angelo Siino.
Noi sappiamo un altro dato e cioè che il 3 settembre del 1992 fu redatto un ulteriore rapporto da parte del Rosavente lo stesso oggetto identico e due rapporti con lo stesso oggetto aventi uno data il 13 febbraio 1991 e uno data 3 settembre 1992, se non è doppia refertazione questa io non so cosa sia la doppia refertazione”.
“Nel documento depositato alla procura di Palermo il 5 settembre del 1992 erano inserite intercettazioni e riferimenti ad attività investigativa riguardanti esponenti politici primari della Sicilia e del Paese, che erano stati raccolti dal Ros nel 1990 e ’91, in epoca precedente al rapporto 13 febbraio 1991.
Quindi, per precisa scelta di coloro che si occuparono della redazione di quel documento, le risultanze del 1990 furono tenute fuori da quel rapporto e inserite solo nel settembre del 1992”, ha detto.
Ma oltre a questo, come abbiamo più volte scritto, vi è una sentenza definitiva che accerta la doppia refertazione: ossia la sentenza d’Appello del processo Trattativa Stato-Mafia nel quale la Corte “arriva a una conclusione assolutamente tranciante che posso elencarvi andando con l’accetta: 
Ci fu una doppia refertazione. Furono tenute nascoste risultanze di indagine del 1990 e furono tirate fuori solo nel 1992. Falsi furono gli addebiti a taluni magistrati della Procura di Palermo di avere insabbiato quelle indagini.
Anzi, l’intreccio o il parallelismo che si creò per iniziativa dello stesso Ros fra un’attività di indagine della Procura di Palermo e un’attività di indagine della Procura di Catania non era stata motivata dal fatto che alla procura di Palermo non ci fosse volontà di procedere su quella vicenda, a differenza che alla procura di Catania. E questo lo dico perché la Corte d’Assise d’Appello di Palermo tiene in considerazione anche la vicenda della collaborazione con la giustizia di quel geometra, Giuseppe Li Pera, che era un dipendente di una grossa società” coinvolta in quelle indagini.
Per fare ulteriore chiarezza la vicenda ‘mafia e appalti’, ha detto Repici, ebbe “un ordinario seguito presso l’autorità giudiziaria di Palermo, nel senso che già prima della strage di via d’Amelio fu avviata dalla procura di Palermo attività finalizzata alla confisca dei beni di Antonino Buscemi, furono avviate altre attività nel prosieguo, furono emesse altre ordinanze di custodia cautelare, furono celebrati altri processi, in una prosecuzione che cronologicamente è assolutamente priva di ogni rallentamento o possibilità di sospetto”.
L’avvocato Repici è andato anche oltre durante la sua audizione partendo da un dato: “Si è potuto apprendere dalle dichiarazioni non processuali, ma soprattutto pubbliche, da parte dei due ufficiali del Ros che principalmente si occuparono uno come coordinatore e l’altro come diretto investigatore di quelle indagini, e cioè Mario Mori e Giuseppe De Donno, del loro convincimento che quell’attività sia stata sostanzialmente la causa principale della strage di via d’Amelio”.
Infatti “Mori e De Donno nelle occasioni in cui si sono trovati imputati nel processo denominato Trattativa – e in altri due processi il generale Mori – e chiamati a rendere esame davanti ai giudici, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere”. “Se davvero quei due ufficiali – ha incalzato il legale – il 20 luglio del 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento del dottor Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-’98.
Perché ci sono due ufficiali di polizia giudiziaria che pur convinti” di questo fatto “avevano tenuto nascosta quella circostanza che solo a loro nella loro versione risultava, rifiutando di mettere a conoscenza l’autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d’Amelio, cioè la procura di Caltanissetta”. “E allora come si fa a spiegare questa continuata omissione?
La si spiega con un solo motivo. che è quello banale, è una menzogna che da quella vicenda fosse derivata la strage di via d’Amelio”.
Inoltre, sempre rimanendo sul punto, quando per la prima volta Mori e De Donno “tirarono fuori il discorso delle indagini mafia – appalti” lo fecero per “interessi difensivi propri” perché “il 13 ottobre del 1997, in un momento in cui ancora mai nessuno aveva riferito nulla all’autorità giudiziaria a proposito di questa questione, vennero convocati come testimoni dalla procura di Palermo il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno.
Il colonnello Giuseppe De Donno venne sentito a sommarie informazioni dal procuratore Caselli e dai sostituti procuratori Prestipino e de Lucia; gli vennero poste domande proprio sulla gestione di quei rapporti giudiziari e del contenuto di quelle indagini. Ma gli vennero poste domande non nel senso degli sviluppi che avevano avuto quelle indagini, ma delle possibilità che, anche per iniziativa di personaggi a loro vicini, quelle investigazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa nostra”.

L’incontro alla Caserma Carini e l’ombra del Corvo Bis

“L’incontro del 25 giugno del 1992 avuto dal dottor Paolo Borsellino con Mori e De Donno alla caserma Carini non avvenne per parlare del dossier mafia e appalti” ma di “un documento molto più inquietante”: “l’anonimo che circolò nel giugno del 1992 convenzionalmente ridenominato Corvo Bis, del quale più fonti sostenevano che possibile redattore fosse l’allora capitano De Donno”. “Io vi segnalo, peraltro, che Paolo Borsellino, insieme agli altri procedimenti dei quali era assegnatario, fu assegnatario pure del fascicolo relativo al documento anonimo del Corvo Bis”.
Era il periodo in cui il Ros aveva nascosto i suoi contatti con Vito Ciancimino “e considerate che già il 28 giugno ’92 cioè tre giorni dopo Paolo Borsellino seppe dalla dottoressa Liliana Ferraro all’aeroporto di Fiumicino che ella era stata informata dal capitano De Donno che aveva avviato in accordo con il colonnello Mori contatti con Vito Ciancimino per attività che nelle loro parole poi fu indicata come quella di tentare in qualche modo una mediazione con i vertici di Cosa nostra: ‘Che cos’è questo muro contro muro’,  sono le parole riferite da due ufficiali del Ros”.
“Dopodiché c’è da fare, e considerate un’altra cosa, l’anonimo del Corvo Bis cita testualmente l’indagine ‘mafia e appalti’, e anche quello fu uno dei motivi per i quali fu sospettato il Capitano De Donno di essere il manuale estensore, ma quell’anonimo faceva riferimento a contatti fra il capo di Cosa nostra e un personaggio politico che in quel momento era ministro, e cioè il ministro Calogero Mannino, e faceva riferimento a vicende di assoluta gravità. Per questo motivo è una riduzione minimalista parlare di ‘mafia e appalti’ in relazione a quell’incontro.
Quell’incontro riguardava qualche cosa di molto più grave attraverso l’anonimo del Corvo Bis, che erano gli equilibri che stavano trovando o si stava cercando di trovare fra Cosa nostra e nuove entità che avrebbero preso il posto con delle posizioni predominanti nella Prima Repubblica”.

Il revisionismo delle parole di Agnese Borsellino

“Poiché in quel momento – ha continuato il legale – nel 1992, il comandante del Ros era il generale Antonio Subranni, la vulgata Mori – De Donno ha dovuto pure affrontare un problema serio e cioè le parole di Agnese Borsellino sulle quali a nessuno è consentito di fare mistificazioni”. “Agnese Borsellino, nel riferire la confidenza fatale dal marito, circa il fatto che egli aveva appreso da fonte non indicata alla moglie, che il generale Subranni era sostanzialmente un mafioso, disse che Paolo Borsellino su questa circostanza era certo.
L’aveva assunta come un dato certo e di tale gravità proprio da indurlo, come riferì la vedova, a conati di vomito.
Il punto qual è? Il primo è che le parole di Agnese Borsellino sono quelle e non è possibile interpretarle diversamente” ha ribadito.
“Il punto è che non ci si vuole fidare delle parole di Agnese Borsellino, io vi dico fidatevi della interpretazione autentica dal suo punto di vista del generale Antonio Subranni.
Perché il 10 marzo del 2012, divenute ufficiali le dichiarazioni di Agnese Borsellino su di lui, il generale Subranni rese un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera e ebbe l’ardire, non trovo altra parola, di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché si sa che è malata di Alzheimer, così disse.
La reazione fu un lancio dell’Ansa, che vi ho prodotto, reperito in una testata, dello stesso 10 marzo del 2012.
Agnese Borsellino disse pubblicamente, con quello spirito di parresia che ebbe, che le parole del generale Subranni non meritavano commento”. E quando Lucia Borsellino venne sentita al Borsellino quater “riferì due cose significative.
La prima era lo scoramento, il dissenso morale, se non il disprezzo per quelle dichiarazioni del generale Subranni, e la seconda e ancora più significativa” è che la persona più lucida della famiglia Borsellino “figli compresi in tutti questi anni è ‘sempre stata nostra madre’”.
In seguito l’avvocato Repici ha ripercorso il depistaggio posto in essere dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, tuttavia a causa della delicatezza delle informazioni si è deciso di proseguire – nel corso della prossima udienza – in seduta secretata. Giorgio Bongiovanni e Luca Grossi0 8 Novembre 2023 ANTIMAFIA DUEMILA



7.11.2023 Depistaggi, neofascismo e servizi: le verità del legale di Borsellino su via D’Amelio

 

Ieri pomeriggio, la Commissione Parlamentare Antimafia ha ospitato la dirompente audizione di Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello di Paolo Borsellino e fondatore del Movimento delle Agende Rosse), coda di un primo appuntamento andato in scena lo scorso 18 ottobre. Il legale dell’attivista, riallineando le scottanti vicende collegate alla morte del magistrato Paolo Borsellino, ucciso il 19 luglio 1992 in via D’Amelio, ha apertamente contestato le ricostruzioni effettuate nella medesima sede dal legale dei figli del giudice, Fabio Trizzino. Quest’ultimo, nelle scorse settimane, aveva voluto sgombrare il campo dalle riflessioni sulle presunte compartecipazioni esterne a Cosa Nostra di apparati deviati delle istituzioni negli attentati e sull’incidenza che la “Trattativa Stato-mafia”, inaugurata dal Ros dei Carabinieri tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, potrebbe aver avuto dietro l’omicidio Borsellino. Secondo Trizzino, infatti, il movente del delitto perpetrato il 19 luglio 1992 sarebbe l’interessamento mostrato da Borsellino verso il rapporto “mafia-appalti”, partorito dallo stesso Ros, poco prima della sua morte.
Nel corso dell’audizione, Repici ha provveduto a dimostrare le numerose contraddizioni interne a tale ricostruzione, fornendo preziosi spunti sulle modalità con cui vennero effettuati gli attentati nella cornice del “biennio nero”, sui colpevoli ritardi di cui si sarebbe resa partecipe negli anni la procura di Caltanissetta, deputata a indagare sull’eccidio, e sulle contraddizioni che avrebbero caratterizzato le tesi attraverso cui i Ros hanno pubblicamente difeso la loro azione.

Le “ombre” nere e istituzionali

Già nel corso della precedente sessione, Repici aveva voluto mettere i puntini sulle i, sostenendo che, per cercare davvero la verità, la strage di via D’Amelio debba essere considerata «in un quadro ampio», sottraendosi a quel «fenomeno di negazionismo-revisionismo» che vorrebbe parcellizzare la lettura dei delitti eccellenti e delle stragi che hanno insanguinato lo Stivale dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta negando la presenza di apporti esterni ai mafiosi di Cosa Nostra. L’avvocato Repici ha dunque ripercorso tappe di storia fondamentali per giostrarsi negli angusti meandri dei retroscena delle stragi, facendo ad esempio riferimento al fallito attentato all’Addaura il 21 giugno 1989 ai danni di Giovanni Falcone, il quale per la prima volta parlò di “menti raffinatissime” che sarebbero state capaci di orientare la mafia dall’esterno. E, come testimoniato da alcuni collaboratori o diretti conoscenti del giudice, tra cui il giornalista Saverio Lodato, Falcone avrebbe parlato espressamente della figura di Bruno Contrada, allora numero 2 del Sisde, poi arrestato e condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (ma successivamente “salvato” dalla Cedu, che annullò gli effetti penali della condanna – non entrando nel merito delle condotte di Contrada, accertate dai giudici – perché, a suo parere, all’epoca il reato di concorso esterno non sarebbe stato adeguatamente codificato).
Repici ha poi fatto riferimento a un altro condannato per concorso esterno, Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e poi senatore di Forza Italia. Nello specifico, il legale ha ricostruito un tassello ormai accertato della storia recente italiana che riguarda le strategie politiche di Cosa Nostra dopo lo scoppio di Tangentopoli, quando la mafia decise di promuovere la nascita di un nuovo soggetto politico, “Sicilia Libera”, una forza di stampo meridionalista che Cosa Nostra, scevra dei suoi referenti politici tradizionali caduti sotto i colpi degli arresti e delle indagini del pool di Antonio Di Pietro, voleva utilizzare come “trampolino” per «passare tra gli equilibri della prima repubblica a quelli della seconda repubblica» attraverso la costituzione di una fedele rappresentanza in parlamento. Tale progetto politico sarebbe stato poi messo da parte dai vertici della mafia, che grazie ai pregressi rapporti con Dell’Utri avrebbero infine deciso di dare pieno appoggio a Forza Italia, che poi vinse le elezioni del ’94.
Repici ha evidenziato come gli «artefici» del progetto politico “Sicilia Libera”, poi naufragato, furono «Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella». Proprio questi tre elementi formarono il commando omicida che nel settembre 1992 avrebbero dovuto mettere al tappeto l’allora questore Calogero Germanà, che si salvò miracolosamente dall’attentato. Lo stesso Germanà che, insieme a Borsellino, si era occupato di uno dei maggiori esponenti della massoneria in Italia: quel Luigi Savona che un importante infiltrato, Luigi Ilardo, aveva indicato come il personaggio che «aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra» e il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico». Tutti elementi «confermati dai successivi accertamenti giudiziari». Un’altra figura rilevante nella narrazione di Repici è poi quella di Pietro Rampulla, l’esperto artificiere di Cosa Nostra, esponente della mafia messinese direttamente collegato ai Santapaola di Catania, «che si occupò di imbottire di esplosivo il canale sotto la autostrada a Capaci» in vista dell’attentato in cui, il 23 maggio 1992, venne ucciso Giovanni Falcone. E Pietro Rampulla non fu solo un mafioso, ma anche un militante di Ordine Nuovo, organizzazione dell’estrema destra extraparlamentare protagonista della “Strategia della tensione” negli anni Settanta.

Le parole di Agnese Borsellino

Altro importante passaggio ha riguardato le rivelazioni fatte da Agnese Borsellino, moglie di Paolo, alcuni anni dopo la morte del marito ai magistrati in riferimento a una circostanza collocata temporalmente al 15 luglio ’92 (quattro giorni prima della strage), in cui il giudice le avrebbe confidato di aver «visto la mafia in diretta» e che una fonte terza gli aveva riferito che il capo del Ros Antonio Subranni fosse «punciuto», ovvero affiliato alla mafia. L’avvocato dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino, aveva cercato di sviare il significato di quelle parole in Commissione Antimafia, sostenendo che la frase di Borsellino debba essere in realtà letta come «Ho visto la mafia in diretta PERCHÈ mi hanno detto che Subranni è punciutu». Insomma, secondo Trizzino la fonte delle preoccupazioni del giudice sarebbe da ricondurre non alla presunta contiguità a Cosa Nostra di Subranni, ma alle trame anti-Ros a cui la fonte del giudice (rimasta ignota) avrebbe in quel frangente preso parte. Repici, però, ha riallineato sapientemente i fatti, ricordando come Subranni, in un’intervista resa al Corriere della Sera successivamente all’uscita delle rivelazioni di Agnese Borsellino, «ebbe l’ardire di riferire che bisognava prestare poca credibilità alle dichiarazioni di Agnese Borsellino perché “si sa che è malata di alzheimer”». Consapevole, dunque, che fosse proprio lui il “bersaglio” di quelle parole. Pochi giorni dopo la pubblicazione di quell’intervista, come ricordato da Repici, Agnese Borsellino «disse pubblicamente che le parole di Subranni non meritavano commento». A demolire la ricostruzione di Trizzino, insomma, sarebbero state secondo Repici le stesse parole di Agnese.

L’agenda rossa

Tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, come ci hanno raccontato i suoi congiunti e i suoi più stretti collaboratori, Paolo Borsellino utilizzò incessantemente un’agenda rossa, da cui non si separava mai, per mettere nero su bianco i suoi spunti investigativi più importanti. Un’agenda che fu trafugata dal perimetro della strage di Via D’Amelio lo stesso pomeriggio della morte del giudice e dei suoi agenti di scorta. Soffermandosi sul furto dell’agenda rossa, Repici l’ha definito la «frazione degli accertamenti della strage più vittima di trascuratezza e omissioni da parte degli uffici giudiziari». Mentre da un lato si proscioglieva in udienza preliminare sull’imputazione per furto dell’agenda rossa Giovanni Arcangioli – il carabiniere che una fotografia risalente al pomeriggio del 19 luglio ’92 ritrae con la borsa di cuoio del giudice in mano, intento ad allontanarsi dal luogo della strage – senza quindi avere un accertamento processuale dei fatti tramite una verifica dibattimentale, «non ha avuto analogo sviluppo in sede istituzionale» il grande lavoro fatto negli ultimi anni da un esponente delle Agende Rosse, Angelo Garavaglia, il quale era riuscito a ricostruire parte dei movimenti dell’agenda dopo aver raccolto documenti video che gli vennero rilasciati da una serie di operatori dell’informazione presenti sul posto. Infatti, ha detto Repici, l’autorità giudiziaria non ha successivamente provveduto a effettuare «un’acquisizione di tutta la documentazione in archivio» relativa ai video «raffiguranti i minuti e le ore successivi alla strage».
Il furto dell’agenda rossa rappresenta solo il primo tassello del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio, completato dal finto pentimento di Vincenzo Scarantino, il “balordo di quartiere” che, costretto con la forza dalla polizia ad andare davanti ai magistrati ad ammettere di aver effettuato una strage in cui in realtà non ebbe alcun ruolo, contribuì allo sviamento delle indagini. Tale azione depistante fu disinnescata solo dal 2008 in avanti, quando il vero esecutore materiale di quell’attentato, Gaspare Spatuzza (uomo dei fratelli Graviano, capi del mandamento di Brancaccio), decise di pentirsi e di smentire ufficialmente la ricostruzione di Scarantino. La sentenza “Borsellino-Quater”, nel 2017, ha sancito che ad avere un ruolo importante in entrambi i punti del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, allora questore di Palermo. «Il 5 novembre del 1992 – ha spiegato Repici – l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera». Rivolgendosi alla Commissione, Repici ha detto: «Potreste essere voi la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video di quanto accadde in via D’Amelio».

Il rapporto “mafia-appalti”

L’audizione di Repici, anche e soprattutto in relazione a quanto avvenuto nelle scorse settimane in Commissione Antimafia, si è fatta esplosiva quando si è toccata l’annosa questione del rapporto “mafia-appalti”, l’informativa depositata dal Ros nel febbraio 1991 che si proponeva di fare luce sulle connessioni tra Cosa nostra e le forze politico-imprenditoriali dello Stivale. E che, ai tempi, fu oggetto di aspri veleni e incredibili fughe di notizie, nonché epicentro dello scontro tra gli uomini del Ros e la Procura di Palermo. Questa pista è considerata dall’avvocato dei figli di Borsellino come la causa scatenante della strage di Via D’Amelio. E non è un mistero che anche la Presidente della Commissione Antimafia Chiara Colosimo (Fdi), che come Trizzino ha affermato di non aver «mai creduto» alla possibile pista sulla trattativa Stato-mafia – inaugurata proprio dal Ros dei Carabinieri tra il maggio e il giugno del 1992 sfruttando come intermediario per arrivare ai vertici mafiosi Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo –, la ritenga tale. Di tutt’altro avviso è invece Fabio Repici, che la giudica una vera e propria «menzogna»: «La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio», ha detto il legale, ricordando che «si è potuto apprendere dalle dichiarazioni pubbliche» di Mario Mori e Giuseppe De Donno (allora ai vertici del Ros) «il loro convincimento che quell’attività sia stata causa principale della strage di via D’Amelio», ma niente di tutto ciò è avvenuto «in sede processuale». Questo perché, ha detto Repici, «nelle varie occasioni in cui si sono ritrovati imputati, chiamati a rendere esame davanti ai giudici, come era loro legittima facoltà, si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere». Dunque, «se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento di Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-1998», in quanto i due avrebbero «tenuta nascosta quella circostanza che solo a loro, nella loro versione, risultava, rifiutando di mettere al corrente l’autorità giudiziaria che procedeva sulla strage di via d’Amelio, cioè la procura di Caltanissetta, con la quale pure i due ufficiali, ai tempi in cui a guidarla era il Dott. Tinebra, ebbero eccellenti rapporti». Secondo Repici, insomma, «pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 è una cosa inenarrabile».
Ma c’è di più. Repici ne è certo: quando Mori e De Donno «tirarono fuori il discorso delle indagini mafia-appalti» non lo fecero «spontaneamente», ma per «legittimi interessi difensivi propri».
Infatti, il 13 ottobre 1997, quando ancora mai nessuno aveva parlato all’autorità giudiziaria della questione “mafia-appalti”, Mori e De Donno vennero convocati come testimoni dalla Procura di Palermo. «De Donno – ricostruisce l’avvocato – venne sentito a sommarie informazioni» dai magistrati Caselli, Prestipino e De Lucia, che gli posero domande sulle «possibilità che anche per iniziativa di personaggi a loro vicini quelle indicazioni fossero state conosciute da esponenti di Cosa Nostra». In quell’occasione, «a 5 anni e due mesi circa dopo la strage di via d’Amelio», i magistrati «a brutto muso contestano al colonnello De Donno le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino», esponente di Cosa Nostra che gestiva il sistema illegale degli appalti in Sicilia, che dopo aver deciso di pentirsi aveva «cominciato a parlare dei suoi rapporti con esponenti del Ros», da un lato delle connessioni con «alcuni sottufficiali grazie all’operato dei quali Cosa Nostra aveva conosciuto il contenuto di quelle investigazioni» e dei legami che Siino aveva avuto come confidente proprio con gli ufficiali del Ros che quelle indagini avevano curato». «Non mi si dica che è un caso: solo una settimana dopo, il 20 ottobre 1997, il colonnello De Donno scrive una nota al Procuratore Tinebra – dice ancora il legale di Salvatore Borsellino -, al quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza della Procura per competenza motivata in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della Procura di Palermo». Repici dà quindi la stoccata: «Se fosse vero ciò che egli riferì, poiché quelle circostanze erano note al colonnello de donno nel 1992 e negli anni successivi e poiché c’è un articolo del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che avendone avuto notizia omette o ritarda di denunciare un fatto di reato, quella condotta del colonnello De Donno è la confessione del reato di cui all’art. 361 del codice penale». Insomma, per l’avvocato «mente chi ha il coraggio di dire che non c’è una diretta correlazione tra la convocazione di De Donno alla Procura di Palermo e la sua segnalazione alla Procura di Caltanissetta». In questo modo, rispetto a quanto raccontato dai Ros e da Trizzino, il quadro si ribalta.

L’appello di Salvatore Borsellino

Oltre all’avvocato Repici, che ha parlato davanti ai commissari per circa 2 ore e mezza, all’audizione ha preso parte anche Salvatore Borsellino, che già il 18 ottobre aveva tenuto un lungo intervento. Ieri Borsellino ha voluto lanciare un appello alle istituzioni, affermando che «una vera verità e giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottratto l’agenda rossa di Paolo Borsellino, hanno cancellato il contenuto dei dischi del database di Falcone e hanno sottratto i documenti contenuti nella cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa». Secondo il fratello del giudice Paolo, infatti, da questo spaccato occorre partire «se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all’opinione pubblica altre terribili verità che mancano alla storia del nostro Paese o per l’esigenza di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica». Ciò che è certo è che, stando a quanto sta accadendo in queste settimane, la Commissione Antimafia resterà l’agone in cui si giocherà una delle partite più importanti – anche a livello politico – per la ricerca della verità sulla morte di uno dei più illustri simboli della battaglia contro Cosa Nostra. Su cui, a 31 anni di distanza, mancano ancora gli elementi fondamentali.  [di Stefano Baudino] L’INDIPENDENTE 


6.11.2023 Antimafia, l’avvocato di Salvatore Borsellino: “Mafia e appalti? Tentativo di depistaggio, è la pista palestinese della strage di via d’Amelio”

 

L’indagine Mafia e appalti è la pista palestinese della strage di via d’Amelio. È con questo paragone che Fabio Repici, avvocato di Salvatore Borsellino, ha spiegato alla commissione Antimafia il suo parere sul dossier del Ros dei carabinieri. “L’analisi di una mole di documenti significativa, che ho portato alla vostra attenzione, mi consente di dire, serenamente, che la causale mafia-appalti la possiamo definire una sorta di pista palestinese su via D’Amelio se vogliamo richiamare il tentativo di depistaggio avvenuto per la strage alla stazione di Bologna“, ha detto il legale, proseguendo la sua audizione a Palazzo San Macuto.
“Propaganda mistificatoria su Mafia e appalti” – A indicare l’interesse di Borsellino per il dossier su Mafia e appalti come unico movente dietro alla strage di via d’Amelio è stato, durante la sua lunga audizione, Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino. L’avvocato, che rappresenta i figli del magistrato ucciso il 19 luglio 1992, condivide dunque la stessa convinzione di Mario Mori, l’ex generale del Ros processato e assolto per la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, però, i buchi neri sul dossier dei carabinieri sono stati ampiamente chiariti in passato. E in ogni caso Mafia e appalti non basta per giustificare l’accelerazione del piano di morte per Borsellino. Come non basta per rispondere a molte delle domande rimaste inevase sul periodo delle stragi. Anche Repici ne è convinto.
“Dissento anche dal mio assistito Salvatore Borsellino, secondo cui il dossier mafia-appalti potrebbe essere stata una concausa“, ha spiegato l’avvocato.
“Io dico – ha aggiunto – che non è stata neanche una concausa: pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segretofino al 1997 è una cosa inenarrabile.
Quando per la prima volta Mori e De Donno tirarono fuori le indagini mafia-appalti, fu per legittimi interessi difensivi”.
Il riferimento è al fatto che i due carabinieri aspettarono più di cinque anni dopo la strage per riferire dell’incontro avuto con Borsellino il 25 giugno all’interno della caserma Carini di Palermo: dissero che fu organizzato per discutere di quell’indagine sugli accordi tra Cosa nostra, l’imprenditoria e la politica. “La propaganda mistificatoria della realtà su Mafia appalti – ha sostenuto Repici – è la stessa che nel 1992-93 nascondeva la completa informazione sui curricula di quegli uomini: mi ha lasciato enormemente impressionato quando appresi che un noto geometra della provinca di Caltanissetta, Giuseppe Li Pera (uno dei principali indagati in Mafia e appalti ndr), era tornato a fare l’imprenditore, destinatario di sequestri di beni arrivato a confisca nel 2022 o 2023. La cosa che mi ha impressionato è che in quegli anni, nel 2018 al momento del sequestro, Li Pera aveva avviato collaborazione con una società fondata dall’ex colonnello De Donno e con principale colaboratore Mori. Percorsi che in origine avevano avuto un indirizzo, trovavano nuova connessione a decenni di distanza”.
“Nessun fascicolo su Mutolo nella borsa di Borsellino” –Non è l’unico passaggio in cui il legale ha smentito alcune affermazioni fatte da Trizzino in Antimafia.
Il marito di Lucia Borsellino, per esempio, aveva sostenuto che il giudice tenesse il fascicolo con le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo nella sua valigetta il giorno della strage.
“Il 5 novembre del 1992 – ha spiegato Repici – l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera. Naturalmente nella borsa non venne rinvenuta l’agenda rossa ma il dato che mi permetto di segnalare è che è un dato fuori dalla realtà, anzi contrario alla realtà, il fatto che nella borsa ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo”.
Come è noto, infatti, nella borsa era presente l’agenda marrone che Borsellino usava come rubrica telefonica, un mazzo di chiavi, le sigarette e un costume ancora bagnato. “Il contenuto della borsa è quello repertato e l’unico elemento mancante era l’agenda rossa”, ha continuato Repici che “questo dato è pacifico”.
“Sull’agenda rossa trascuratezza e omissioni” – L’agenda rossa era un diario che Borsellino aveva cominciato a usare dopo la strage di Capaci: vi appuntava le sue opinioni relative alle indagini e chissà cos’altro.
Non faceva mai vedere a nessuno il contenuto di quell’agenda, dalla quale non si separava mai. Repici ha insistito particolarmente sulla scomparsa dell’agenda rossa dalla valigetta di Borsellino, subito dopo la strage.
“La sottrazione dell’agenda rossa é stata la principale spinta dell’impegno di Salvatore Borsellino e di chi ha collaborato con lui nel tentativo di sottrarre, al buio delle investigazioni, elementi importanti”, ha spiegato l’avvocato del fratello del magistrato, aggiungendo che quella “sull’agenda rossa” è stata “la frazione di accertamenti sulla strage più vittima di trascuratezza e omissione da parte degli uffici giudiziari”.
Per Repici “tutto ciò che sappiamo sulla sparizione dell’agenda rossa, per paradosso, lo sappiamo grazie all’iniziativa di privati cittadini”. Il riferimento è al lavoro di Angelo Garavaglia Fragetta, tra i fondatori del movimento Agende rosse, che ha messo insieme tutti i frame dei video girati in via d’Amelio dopo la strage, realizzando un filmato che mostra in diretta i movimenti della valigetta di Borsellino.
Il legale ha quindi invitato la commissione a indagare sulla scomparsa dell’agenda: “A distanza di 31 anni dalla strage di via D’Amelio non è stata fatta da alcuna autorità una integrale acquisizione di tutta la documentazione relativa ai minuti e alle ore successive alla strage di via D’Amelio”, ha detto Repici. Che poi si è rivolto ai membri della commissione: “Potreste essere voi la prima istituzione del Paese a riuscire a raccogliere in modo integrale tutta la documentazione video di quanto accadde in via D’Amelio”.
Secretato il seguito dell’audizione –La questione della scomparsa dell’agenda rossa dal luogo della strage ha da sempre animato l’attività di Salvatore Borsellino.
“Una vera verità e giustizia sulle stragi che hanno insanguinato la storia del nostro Paese non può prescindere dal fatto che vengano messi in luce quali apparati hanno sottrattato l’agenda rossa di Paolo Borsellino, hanno cancellato il contenuto dei dischi del database di Falcone e hanno sottratto i documenti contenuti nella cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa“, ha detto il fratello del giudice ucciso in via d’Amelio.“Da questi fatti bisogna partire se davvero si vuole una vera verità e una vera giustizia e non una verità di comodo, confezionata per nascondere all’opinione pubblica altre terribili verità che mancano alla storia del nostro Paese o per l’esigenza di ripulire la storia del nostro Paese a vantaggio dell’una o dell’altra parte politica”. L’audizione di Repici e Borsellino proseguirà nei prossimi giorni. L’avvocato ha anche chiesto di secretare la parte finale della sua relazione, la cui data sarà ufficializzata nel prossimo ufficio di presidenza della commissione.6.11.2023. di Giuseppe Pipitone| 6 Novembre 2023 FQ


6.11.2023 Processo Borsellino. Repici: “Nella borsa mancava solo l’agenda rossa” 

 

“Il 5 novembre del 1992 l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera.
Naturalmente nella borsa non venne rinvenuta l’agenda rossa ma il dato che mi permetto di segnalare è che è un dato fuori dalla realtà, anzi contrario alla realtà, il fatto che nella borsa ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo”.
Lo ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo il magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con gli agenti della scorta, nel corso dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia.
“Il contenuto della borsa è quello repertato e l’unico elemento mancante era l’agenda rossa”, ha continuato spiegando che “questo dato è pacifico”.
“La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio, come e’ definito il depistaggio sulla strage di Bologna”.
Lo ha detto Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, nel corso dell’audizione in Commissione parlamentare sulle mafie. “Dissento – ha aggiunto – anche dal mio assistito Salvatore Borsellino”, secondo cui il dossier mafia-appalti “potrebbe esere stata una concausa”. “Io dico – ha sottolineato – che non e’ stata neanche una concausa: pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 e’ una cosa inenarrabile.
Quando per la prima volta Mori e De Donno tirarono fuori le indagini mafia-appalti, fu per legittimi interessi difensivi legittimi”.
“La propaganda mistificatoria della realta’ su mafia-appalti e’ la stessa che nel 1992-93 nascondeva la completa informazione sui curricula di quegli uomini: mi ha lasciato enormemente impressionato quando appresi che un noto geometra della provinca di Caltanissetta, Giuseppe Li Pera (al centro del dossier mafia-appalti, ndr.), era tornato a fare l’imprenditore, destinatario di sequestri di beni arrivato a confisca nel 2022 o 2023.
La cosa che mi ha impressionato e’ che in quegli anni, nel 2018 al momento del sequestro, Li Pera aveva avviato collaborazione con una societa’ fondata dall’ex colonnello De Donno e con principale colaboratore Mori. Percorsi che in origine avevano avuto un indirizzo, trovavano nuova connessione a decenni di distanza”. IL FATTO NISSENO


6.11.2023 Processo Borsellino. Repici: “Nella borsa mancava solo l’agenda rossa”

 

“Il 5 novembre del 1992 l’autorità giudiziaria di Caltanissetta fece un’attività formale con la quale fu repertato il contenuto della borsa di Borsellino, scomparsa dall’auto il 19 luglio ’92 e rinvenuta, non si capisce bene come, nei giorni precedenti nell’ufficio di Arnaldo La Barbera. Naturalmente nella borsa non venne rinvenuta l’agenda rossa ma il dato che mi permetto di segnalare è che è un dato fuori dalla realtà, anzi contrario alla realtà, il fatto che nella borsa ci fosse un fascicolo relativo a Gaspare Mutolo”. Lo ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo il magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con gli agenti della scorta, nel corso dell’audizione davanti alla Commissione parlamentare Antimafia. “Il contenuto della borsa è quello repertato e l’unico elemento mancante era l’agenda rossa”, ha continuato spiegando che “questo dato è pacifico”. “La causale mafia-appalti possiamo chiamarla una ‘pista palestinese’ su via D’Amelio, come e’ definito il depistaggio sulla strage di Bologna”. Lo ha detto Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, nel corso dell’audizione in Commissione parlamentare sulle mafie. “Dissento – ha aggiunto – anche dal mio assistito Salvatore Borsellino”, secondo cui il dossier mafia-appalti “potrebbe esere stata una concausa”. “Io dico – ha sottolineato – che non e’ stata neanche una concausa: pensare che un generale e un tenente colonnello dei carabinieri si siano tenuti questo segreto fino al 1998 e’ una cosa inenarrabile. Quando per la prima volta Mori e De Donno tirarono fuori le indagini mafia-appalti, fu per legittimi interessi difensivi”. “La propaganda mistificatoria della realta’ su mafia-appalti – ha sottolineato Repici – e’ la stessa che nel 1992-93 nascondeva la completa informazione sui curricula di quegli uomini: mi ha lasciato enormemente impressionato quando appresi che un noto geometra della provincia di Caltanissetta, Giuseppe Li Pera (al centro del dossier mafia-appalti, ndr.), era tornato a fare l’imprenditore, destinatario di sequestri di beni arrivato a confisca nel 2022 o 2023. La cosa che mi ha impressionato e’ che in quegli anni, nel 2018 al momento del sequestro, Li Pera aveva avviato collaborazione con una societa’ fondata dall’ex colonnello De Donno e con principale colaboratore Mori. Percorsi che in origine avevano avuto un indirizzo, trovavano nuova connessione a decenni di distanza”. STAMPA LIBERA



18.10.2023  C’é
 un articolo de Il Fatto che in sostanza accusa l’avvocato Trizzino di aver stravolto le tesi di Falcone.
E qui ci sarebbe da ridere a crepapelle se non fosse tragico e irrispettoso nei confronti soprattutto di Falcone stesso che era una persona seria.
Sì, Falcone in tutti i suoi libri, convegni, audizioni e anche ordinanze, ha da sempre stigmatizzato l’ idea non solo del terzo livello, ma per i delitti eccellenti ha lui stesso vagliato la pista Gladio accedendo ai documenti riservati del Sisde.
Ha anche vagliato il neofascista Alberto Volo e persino Gelli.
Ha scartato con vigore l’idea di una commistione con la mafia e i relativi delitti.
Non solo. Ha smascherato il depistaggio posto in essere tramite il famigerato Angelo Izzo.
Ha anche criticato il magistrato di Bologna di allora che indagava sulla strage di Bologna per averlo sentito e preso in considerazione.
Falcone era una persona seria.
Per favore non confondiamolo con alcuni suoi colleghi che non posseggono nemmeno un briciolo della sua sapienza e professionalità. D’altronde la stessa Boccassini, nel suo ultimo libro, ha messo la questione in chiaro.
E bisogna dirlo. Gli unici che ancora difendono la dignità e professionalità di Falcone sono Marcella Padovani, Boccassini e per ovvi motivi visto che Borsellino aveva una ammirazione sconfinata per il suo collega e amico Falcone , lo stesso legale dei figli del giudice barbaramente stritolato in Via D’Amelio.
Tenete fuori Falcone dal complottismo da quattro soldi che purtroppo in alcune aule di giustizia ha trovato voce. Vergogna

Damiano Aliprandi Giornalista de IL DUBBIO


18.10.2023 La famiglia Borsellino spaccata sulla ricostruzione della morte del giudice

 

Il fratello del magistrato antimafia Paolo Borsellino replica in Commissione parlamentare Antimafia alle dichiarazioni del legale dei figli, Fabio TrizzinoCi son lutti che uniscono le famiglie, altri che le dividono, e che magari riportano alla luce vecchie ferite mai ricucite. Ed è quello che è accaduto per i parenti di Paolo Borsellino, il giudice antimafia assassinato nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992.

Sulla sua morte si sono scritti libri di storia, celebrati processi, ma non si è mai arrivati a una verità definitiva. Motivo per cui nelle scorse settimane e oggi sono stati ascoltati per ore e ore in Commissione parlamentare antimafia,presieduta dalla meloniana Chiara Colosimo, alcuni membri della famiglia di Paolo Borsellino sulla quale è ufficialmente calata la scure della divisione: da un lato i figli, Fiammetta, Lucia e Manfredi, assistiti dall’avvocato Fabio Trizzino (quest’ultimo ascoltato in Commissione). Dall’altro lato il fratello di Paolo, Salvatore, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici.
A dividerli? Un’eredità ben più preziosa di denaro o beni materiali, ossia la memoria di quel “qualcosa” che ha determinato la morte del magistrato. Per mano, certamente materiale, della criminalità organizzata.
Ma è sull’altra mano, quella coperta che ha in qualche modo collaborato (?) alle stragi del 1992 che si sono formati due schieramenti.
È stato proprio Salvatore Borsellino, ascoltato per la prima volta oggi in Commissione, a rivelare l’esistenza di “dissapori” all’interno del nucleo familiare: “Se ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per la morte annunciata e l’inopprimibile esigenza di verità, ma da essi mi divide una posizione processuale, delineata nel corso di tanti processi, arrivando purtroppo e con dolore a influire anche sui rapporti personali”.
Ma quali sono queste posizioni divergenti? È noto che per il fratello del magistrato, che oggi ha avuto modo di replicare alle affermazioni di Fabio Trizzino, la traccia da seguire per risalire ai moventi dell’assassinio di Borsellino sta negli elementi che il magistrato aveva raccolto sulla “pista nera” dietro alla strage di Capaci, e su quella che è passata alla storia come “Trattativa Stato-Mafia”.
E per Trizzino e i figli di Paolo Borsellino? La pista per risalire ai moventi delle stragi del 1992 avrebbe l’epicentro nel dossier “Mafia-Appelti”, cioè il dossier del Ros sui legami tra Cosa nostra e forze politico-imprenditoriali. Pista – peraltro – storicamente sostenuta dalla coalizione di Colosimo: per la destra, infatti, l’eliminazione del giudice è da collegare al suo interesse per “mafia e appalti”. In questo contesto il legale spinge sulla necessità di indagare anche sul “nido di vipere” della Procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco, e su alcuni colleghi di Borsellino delle prime indagini.
Borsellino, per Trizzino, non avrebbe mai permesso e non conosceva la richiesta di archiviazione di “Mafia-Appalti” del 13 luglio 1992, firmata anche da Roberto Scarpinato, oggi parlamentare M5s.
Ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati o meglio, un magistrato ed ex magistrato, Di Matteo e Scarpinato, a cui mi sento di dover manifestare pubblicamente la mia stima e la mia gratitudine per avere in questi anni ricercato la verità e la giustizia”.
“Sono ben altri i magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito” ha tuonato oggi invece Salvatore Borsellino in Commissione. E ancora: “E’ dal furto dell’agenda rossa “che si dovrebbe ripartire, non dal dossier mafia e appalti che se può essere considerato una concausa non è causa dell’accelerazione di una strage che a quel punto non poteva essere rimandata”.
Un’accusa, insomma, rispedita al mittente che – forse – ha un terreno ben più florido del solo avvocato Fabio Trizzino. Mercoledì, 18 ottobre 2023 AFFARI ITALIANI


18.10.2023 Il fratello di Paolo Borsellino in commissione antimafia: “infiniti depistaggi su stragi di Stato”

 

Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in commissione parlamentare antimafia

“Sono stati questi lunghi anni di depistaggi, di mancate indagini, di sentenze spesso contraddittorie in cui se sono stati assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo, la stessa cosa non è accaduto per quelli che hanno agito nell’ombra, che hanno voluto la sua morte”.
Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in commissione parlamentare antimafia.
“Non sono stati detti i veri motivi della strage. Se fosse stata voluta solo dalla mafia – ha aggiunto – non sarebbe stata commessa solo 57 giorni dopo quella di Capaci a cui la strage di via D’Amelio è indissolubilmente legata. Paolo ha cominciato a morire quel 23 maggio 1992″.
“Stragi di Stato”, ha incalzato.
A Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, ha affermato Salvatore Borsellino, “manifesto pubblicamente la mia stima e gratitudine per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze verità e giustizia.
Sono ben altri i magistrati contro cui si dovrebbe puntare il dito: Giovanni Tinebra che ha permesso i depistaggi e Pietro Giammanco che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone ha ostacolato in ogni modo: questi magistrati avrebbero dovuto essere chiamati a rispondere del loro operato  finché erano in vita”.


18.10.2023 Salvatore Borsellino e la Strage di via d’Amelio: «Tinebra e Giammanco andavano indagati da vivi»

Questi magistrati, e mi pesa chiamarli così, avrebbero dovuto rispondere del loro operato finché erano in vita».
Così Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in audizione alla commissione parlamentare Antimafia.«Forse è dall’agenda rossa di Paolo Borsellino, la scatola nera della strage di via d’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità.
Ripartire dal furto di quell’agenda compiuto, ne sono certo, da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello: non sto parlando della mafia ma di pezzi deviati dello Stato», ha aggiunto Borsellino, secondo il quale «pochi, troppo pochi, vogliono verità e giustizia in questo Paese» su questa vicenda.

 


18.10.2023 Borsellino e Repici all’Antimafia: “Su via d’Amelio non rimettere in gioco elementi depistanti. Ci fu saldatura tra mafia ed eversione nera”

Una saldatura tra Cosa nostra ed esponenti dell’eversione nera dietro alla strategia stragista. Una convergenza di interessi emersa dopo anni di depistaggi, indagini mancate e sentenze spesso contradditorie. Ed è per questo che per continuare a cercare la verità bisogna “evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”. È seguendo questa linea che Salvatore Borsellino e l’avvocato Fabio Repicihanno cominciato la loro audizione davanti alla commissione Antimafia. Dopo aver audito Lucia Borsellino e suo marito Fabio Trizzino, Palazzo San Macuto ha cominciato ad ascoltare anche l’altra parte della famiglia del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. Un’audizione necessaria visto che, come è ormai noto, da tempo i familiari del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 hanno posizioni molto diverse sulle causali coperte di via D’Amelio. Nella sua lunga relazione Trizzino, che come avvocato rappresenta i tre figli di Borsellino, ha indicato il rapporto del Ros su Mafia e appalti come l’unico vero movente della strage. Come ha raccontato Il Fatto Quotidiano, però, i buchi neri sul dossier dei carabinieri sono stati ampiamente chiariti in passato. E in ogni caso Mafia e appalti non basta per giustificare l’accelerazione del piano di morte per Borsellino. Come non basta per rispondere a molte delle domande rimaste inevase sul periodo delle stragi.
Le parole di Salvatore Borsellino –È anche per questo motivo se Salvatore Borsellino ha spiegato alla commissione di avere idee diverse rispetto ai suoi nipoti. “Se da un lato ai figli di Paolo mi lega il terribile dolore per questa morte annunciata e l’insopprimibile esigenza di verità su una strage nella quale è stata stroncata la vita di loro padre e di mio fratello, da essi mi divide una posizione processuale che si è venuta a differenziare nel corso degli anni, arrivando purtroppo, con mio grande dolore, a influire anche sui rapporti personali“,ha detto il fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio.
“Devo dire, da parte mia, che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati. O meglio un magistrato e un ex magistrato, oggi senatore. Mi riferisco a Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, ai quali mi sento di manifestare in questa sede la mia stima e la mia gratitudine per avere ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell’agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta”, ha specificato Borsellino, che ha parlato per circa un’ora, collegato da remoto con Palazzo San Macuto.
“Tinebra e Giammanco dovevano rispondere da vivi” –Borsellino ha poi spiegato di essere rimasto “perplesso per il diverso peso dato ad alcune parole di Paolo e ad altre parole e circostanze riferite da sua moglie Agnese”.
Il riferimento è al passaggio in cui l’avvocato Trizzino interpreta molto liberamente le frasi messe a verbale da Agnese Piraino Leto, moglie di Paolo Borsellino, al quale il giudice aveva confidato di avere “visto la mafia in diretta” perché gli avevano detto che il generale dei carabinieri Antonio Subranni era “punciuto, cioè affiliato a Cosa nostra.
Secondo Trizzino “per Borsellino il mafioso era chi glielo aveva detto”, quindi non Subranni. Interpretazione abbastanza contorta, che non convince Salvatore Borsellino.
Che poi ha aggiunto: “I magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito sono Giovanni Tinebra, che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avvallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e Pietro Giammanco, che ha ostacolato in ogni modo sia Falcone che Paolo, fino a concedere a quest’ultimo la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di via D’Amelio. Questi magistrati avrebbero dovuto rispondere del loro operato finché erano in vita”. Il riferimento è per l’ex procuratore di Caltanissetta, morto nel 2017, e per l’ex procuratore capo di Palermo, deceduto l’anno dopo: entrambi non sono mai finiti sotto inchiesta.
“Anni di depistaggi, mai indagato davvero sull’agenda rossa” –Fratello minore di Paolo Borsellino, Salvatore ha lasciato Palermo per andare a vivere a Milano alla fine degli anni ’60. Nel 2008 ha fondato le Agende rosse, un movimento creato per cercare la verità sulla strage di via d’Amelio. “Questi sono stati anni di depistaggi, mancate indagini, sentenze contraddittorie. Sono stati assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo Borsellino ma ciò non è avvenuto per coloro che hanno agito nell’ombra volendo la sua morte, non sono stati messi in luce i motivi dell’accelerazione di questa strage che non sarebbe avvenuta solo 57 giorni dopo Capaci se fosse stata attuata solo dall’organizzazione mafiosa”, ha detto in apertura della sua audizione. “Sulla sparizione dell’agenda rossa non si è mai davvero indagato, non c’è mai stato un vero processo. Tranne quello in cui, in fase di udienza preliminare, quindi senza alcun dibattimento, è stato assolto il capitano Arcangioli, ripreso e fotografato mentre si allontana dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo in cui era contenuta l’agenda. Ma a chi è stata consegnata quella borsa?”, ha detto Borsellino. 
Ricordando poi il lavoro di Angelo Garavaglia Fragetta, tra i fondatori delle Agende rosse, che ha messo insieme tutti i frame di via d’Amelio successivi alla strage, realizzando un filmato che mostra in diretta i movimenti della valigetta di Borsellino.
Secondo il fratello del magistrato “è dall’agenda rossa, la scatola nera della strage di via d’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità.
Ripartire dal furto di quell’agenda compiuto, ne sono certo, da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello: non sto parlando della mafia ma di pezzi deviati dello Stato.
È da questo che si dovrebbe ripartire, non dal dossier mafia e appalti, che può essere considerato una concausa, ma non è sicuramente la prima causa dell’accelerazione di una strage che a quel punto non poteva più essere rimandata”. Secondo Borsellino in “pochi, troppo pochi, vogliono verità e giustizia in questo Paese“.
Il discorso di Casa Professa – Una chiave da seguire per cercare la verità è ragionare sulla parole pronunciate da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo il 25 giugno del 1992. A proposito della strage di Capaci, quella sera il giudice disse: “Questi elementi che io porto dentro di me debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. L’autorità giudiziaria competente a indagare su Capaci era la procura di Caltanissetta guidata da Tinebra, che convocò Borsellino soltanto nella settimana successiva al 19 luglio, dunque un mese dopo quell’intervento pubblico, quando ormai la strage di via d’Amelio era stata eseguita. A partecipare all’incontro di Casa Professa, quella sera del 25 giugno ’92, c’era anche un giovane studente di Giurisprudenza: Fabio Repici, oggi legale di Salvatore Borsellino.
La saldatura tra neri e mafia –“In questo scenario nel quale ci muoviamo io ritengo che sia importante evitare di introdurre elementi che creino confusione. Bisogna evitare di rimettere in gioco elementi depistanti per chi vuole muovere alla ricerca della verità”, ha detto l’avvocato, che ha rappresentato i familiari delle vittime di alcuni dei più rilevanti delitti politico-mafiosi degli ultimi decenni.
Sulla base dell’esperienza che si è fatto lavorando sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, del poliziotto Nino Agostino e del magistrato Bruno Caccia, Repici ha tracciato un filo nero che si dipana lungo una direttrice fatta di stragi e omicidi eccellenti: dal fallito attentato dell’Addaura del 1989 a quello dello Stadio Olimpico.
Ha fatto il nome di Paolo Bellini, ex estremista nero condannato in primo grado per la strage di Bologna e indagato per quelle di Capaci, di Firenze, Roma e Milano, ma pure quelli di Luigi Savona e Giovanni Bastone, massoni legati alla famiglia mafiosa di Mazara del Vallo, che sulle strategia stragista ha avuto un ruolo per troppo tempo sottovalutato.
“È pacificamente accertato che le strade dello stragismo esecutivamente commesso da Cosa nostra e iniziato con l’omicidio di Salvo Lima, passando per la stragi di Capaci e via D’Amelio si saldarono con l’intervento di soggetti di tutta altra provenienza come quella della eversione neofascista“, ha fatto notare Repici.
E a questo proposito ha ricordato che il “nero” Bellini “è stato protagonista attivo delle mosse di Cosa Nostra nel 1992 grazie alla relazione con personaggi importantissimi mafiosi come Giovanni Brusca, Nino Gioè e Gioacchino La Barbera“. 
L’ex di Avanguardia nazionale, ha proseguito il legale, “ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia, dal 1991 e sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa nostra di colpire il patrimonio architettonico nelle stragi del 1993 è provenuto proprio da Bellini”.
Tra negazionismo e revisionismo –Secondo l’avvocato, dunque, bisogna unire i puntini: occorre indagare su quel filo nero che collega stragi e omicidi eccellenti. “Sarebbe un errore considerare la strage di via D’Amelio un delitto fuori dalla storia: quel delitto è parte di un percorso che risale almeno al 1989, nella sua fase minima che si può individuare e che si completa nel ’94 quanto alla esecuzione di delitti di progetti esecutivi di stragi propriamente intese, ma che vede ulteriori effetti anche nei decenni successivi, almeno fino alla cattura di Provenzano e perfino in epoca recente con tentativi di ricatti da una cella al 41bis per conto di Giuseppe Graviano“. E anche se via D’Amelio “va vista nei suoi dettagli di unicità”, non si può ignorare che “il quadro è più ampio altrimenti la verità non la si trova”.
A questo proposito Repici ha aggiunto: “Da un pò di tempo si avverte la pratica di un fenomeno, a mezza via tra negazionismo e revisionismo. Riscrivere la storia in un’ottica panmafiosa per cui certi delitti sono esclusivamente frutto di azioni poste da uomini cosa nostra”.
Ma quasi tutte le stragi della recente storia italiana – da Portella delle Ginestra a piazza Fontana – ci hanno insegnato che spesso gli esecutori fanno da service dell’orrore: sparano su ordinazione di qualcun altro.
Il depistaggio, Contrada e le rivelazioni di Mutolo – Su via d’Amelio Repici ci ha tenuto a sottolineare che “l’epifania del depistaggio la nostra nazione la deve non a un uomo o una donna dello Stato ma un uomo di Cosa nostra che si chiama Gaspare Spatuzza, il disvelamento di ciò che era successo sulle losche manovre che avevano condotto all’accettazione del ruolo di falso collaboratore da parte di Vincenzo Scarantino è avvenuta grazie a Spatuzza che iniziò a collaborare nel giugno del 2008″.
Un depistaggio che matura subito dopo la strage quando Tinebra chiede la collaborazione di Bruno Contrada,uomo dei servizi che non avrebbe potuto partecipare all’indagine.
Per due motivi: intanto perché era vietato dalla legge che l’intelligence svolgesse compiti di Polizia giudiziaria. E poi, soprattutto, perché il pentito Gaspare Mutolo aveva raccontato a Borsellino che era a conoscenza di soggetti istituzionali con un ruolo di contiguità con Cosa nostra. Mutolo fece due nomi: Bruno Contrada e Domenico Signorino, cioè quello che all’epoca era il numero tre del Sisde e un magistrato che era stato pm del Maxiprocesso. “Le indagini sulla morte di Paolo Borsellino sono state, almeno in parte, affidate a uno che sarebbe stato indagato da Paolo Borsellino”, ha sintetizzato Repici. Ricordando come Tinebra fosse a conoscenza delle rivelazioni fatte da Mutolo a Borsellino.
“Quella circostanza fu riferita il 20 luglio del 1992 a Tinebra ma questo non riuscì a impedire che il procuratore affidasse le indagini a Contrada, fuori dalla legge”. Dopo la strage, tra l’altro, quell’incarico a Contrada avrà avuto probabilmente un effetto intimidatorio: dovranno passare, infatti, più di tre mesi prima che Mutolo si convinca a ripetere quelle accuse nei confronti del superpoliziotto.
Che verrà arrestato nel dicembre dello stesso anno, quando ormai aveva indirizzato le indagini di Arnaldo La Barbera e della Polizia sul Vincenzo Scarantino, il balordo della Guadagna al centro del depistaggio su via d’Amelio. Repici ripartirà da qui, quando proseguirà la sua audizione. La data della nuova convocazione verrà decisa dalla commissione di Chiara Colosimo nei prossimi giorni.
di Giuseppe Pipitone| 18 Ottobre 2023 FQ


13.10.2023 Borsellino, Repici: “C’è una saldatura tra le stragi di mafia e quella di Bologna”

 

“C’e’ una allarmante saldatura in questo pericoloso fenomeno di revisionismo e negazionismo nella lettura della strage di Bologna e delle stragi di mafia degli anni Novanta.
Un fenomeno che vuole escludere la responsabilita’ di esponenti esterni, con un protagonismo condiviso su entrambi i versanti.
La vicenda che riguarda Paolo Bellini (condannato all’ergastolo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, ndr), e’ emblematica”.
Lo ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, sentito in Commissione parlamentare antimafia.

Nel caso delle stragi di mafia quel revisionismo e negazionismo, ha spiegato, “vorrebbe portare alla conclusione che certi delitti, siano frutto esclusivamente di uomini di Cosa nostra, con l’esclusione categorica di ogni apporto esterno a quella strage”. Un approccio che pero’ emergerebbe anche in altri gravi fatti come la Strage di Bologna. Scenari, ha aggiunto, “gia’ all’attenzione della procura distrettuale di Firenze che procede per le stragi del ’93, oltre che Caltanissetta che procede per quelle del ’92. In questo scenario e’ importante evitare di introdurre nella ricerca della verita’ elementi che creino confusione, buio piuttosto che luce.
Bisogna evitare in tutti i modi che tornino in gioco elementi depistanti”.
 “I magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito sono Giovanni Tinebra (ex procuratore di Caltanissetta, morto nel 2017 – ndr), che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avvallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e Pietro Giammanco (ex procuratore di Palermo, morto nel 2018 – ndr), che ha ostacolato in ogni modo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino a concedere a quest’ultimo la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo che avrebbe dovuto ucciderlo era già pronta davanti al portone di via D’Amelio.
Questi magistrati, e mi pesa chiamarli così, avrebbero dovuto rispondere del loro operato finché erano in vita”.
Così Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in audizione alla commissione parlamentare Antimafia. “Forse è dall’agenda rossa di Paolo Borsellino, la scatola nera della strage di via d’Amelio, che si dovrebbe ripartire per arrivare alla verità. Ripartire dal furto di quell’agenda compiuto, ne sono certo, da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello: non sto parlando della mafia ma di pezzi deviati dello Stato”, ha aggiunto Borsellino, secondo il quale “pochi, troppo pochi, vogliono verità e giustizia in questo Paese” su questa vicenda.
IL FATTO NISSENO


18.10.2023 Il fratello di Paolo Borsellino in commissione antimafia: “infiniti depistaggi su stragi di Stato”

Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in commissione parlamentare antimafia

“Sono stati questi lunghi anni di depistaggi, di mancate indagini, di sentenze spesso contraddittorie in cui se sono stati assicurati alla giustizia forse alcuni di quelli che materialmente hanno ucciso Paolo, la stessa cosa non è accaduto per quelli che hanno agito nell’ombra, che hanno voluto la sua morte”.
Lo ha detto Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, in commissione parlamentare antimafia.
“Non sono stati detti i veri motivi della strage. Se fosse stata voluta solo dalla mafia – ha aggiunto – non sarebbe stata commessa solo 57 giorni dopo quella di Capaci a cui la strage di via D’Amelio è indissolubilmente legata. Paolo ha cominciato a morire quel 23 maggio 1992″.
“Stragi di Stato”, ha incalzato. A Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato, ha affermato Salvatore Borsellino, “manifesto pubblicamente la mia stima e gratitudine per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze verità e giustizia.
Sono ben altri i magistrati contro cui si dovrebbe puntare il dito: Giovanni Tinebra che ha permesso i depistaggi e Pietro Giammanco che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone ha ostacolato in ogni modo: questi magistrati avrebbero dovuto essere chianmati a rispondere del loro operato  finché erano in vita”. SICILIA NEWS

 

 


 

 

Via D’Amelio, dopo l’audizione di Borsellino temo che la Commissione finirà su un binario morto

Forse è colpa dello streaming parlamentare ma mentre ieri andava in onda l’audizione di Salvatore Borsellino e dell’avv. Repici il viso della presidente Colosimo si faceva sempre più terreo.
Come ha sapientemente sintetizzato su ilfattoquotidiano.it Giuseppe Pipitone
, l’audizione si rendeva necessaria perché negli anni si sono evidenziate distanze interpretative sempre più marcate tra i componenti della famiglia Borsellino rispetto alla lettura della strage di Via D’Amelio.
La presidente Colosimo, che dopo aver dichiarato il proprio impegno morale a fare luce in particolare sui cinquantasette giorni trascorsi tra le due stragi del 1992 ovvero sui motivi della così detta “accelerazione” della strage di via D’Amelio, aveva dato un segnale non irrilevante sulla strada che avrebbe voluto percorrere, incontrando appena insediata a Palazzo San Macuto l’ex prefetto Mori, non ha potuto evitare di allargare le audizioni anche a Salvatore Borsellino ed al suo avvocato Fabio Repici.
Ma la chiave interpretativa assunta dai due auditi è notoriamente molto diversa se non in tutto, almeno in gran parte rispetto a quella offerta dall’avvocato Trizzino, che rappresenta i figli di Paolo Borsellino.
Una differenza che non sta tanto nella lettura del contesto storico complessivo, né in quella della condotta dei “giuda” ovvero di alcuni colleghi magistrati, né tanto meno in quella del peso attribuito ai mafiosi.
D’altra parte oltre trent’anni di vicende processuali hanno cristallizzato in maniera indiscutibile più di un elemento di verità. Ma quale importanza attribuire, per dirla in sintesi con un nome ed un cognome, a Paolo Bellini?
Cioè quale peso attribuire a quella ricostruzione che inserisce le stragi del ’92 e del ’93 (fino a quella fallita del ’94 all’Olimpico) in una strategia criminale complessa nella quale peso rilevante ebbero volontà di natura eversiva ed anti democratica, che saldarono insieme ambienti neo-fascisti, pezzi di apparati di sicurezza anche “coperti”, ambienti politico, imprenditoriali, massonici (decaduti alcuni, in espansione altri), con le principali organizzazioni mafiose (la Cosa Unica come emerge dai processi celebrati a Reggio Calabria)? Quale peso attribuire all’ipotesi secondo cui queste volontà (“raffinatissime”) cercarono di costringere lo Stato, che pure avrebbe attuato una reazione durissima contro Cosa Nostra, a più miti consigli? Arrivando forse pure a suggerire di cooptare in certe compagini politiche uscite dal “Terzo Dopoguerra italiano” ed in una miriade di ruoli istituzionali o para istituzionali una buona parte di quegli attori? Per quel poco che può valere, in questo senso ho maturato, la mia personalissima interpretazione della “pacificazione” tante volte evocata in Parlamento nel decennio passato ed in particolare argomentata in un magistrale ed indimenticabile intervento dell’allora on. Brunetta, oggi a capo di un Cnel mai così produttivo.
E più l’avvocato Repici tirava il filo che lega le stragi del ’92 con la bomba alla stazione di Bologna e più il volto della Presidente diventava terreo. 
Ecco perché temo che presto il lavoro della Commissione sulla strage di Via D’Amelio verràmesso su un binario morto. Magari decidendo di allargare l’oggetto della indagine a dismisura, così che non basterebbero tre Legislature per arrivare ad un punto, invece di concentrarlo su un singolo ma ancora praticabile obiettivo.
Ho come l’impressione che qualcuno presto o tardi farà notare alla Presidente che è molto meglio continuare a fare come ha fatto ieri mattina, cioè poche ore prima dell’audizione di Salvatore Borsellino e Fabio Repici. 
Infatti ieri mattina la Presidente diceva la sua intervistata dall’ineffabile Marcello Foa all’interno di quella pretenziosa trasmissione radiofonica intitolata “Giù la maschera!”, introdotta da stacchetti musicali pateticamente ribellisti. Il Foa ha intrattenuto il pubblico facendo domande così “pettinate” alla presidente da consentirle di sfoggiare tutto il repertorio ormai mandato a memoria su Caivano, sulla droga, sulla internazionalizzazione della mafia italiana, su quanto siano ricche e pericolose per l’economia nazionale… etc.etc. Il Foa avrebbe meglio declinato il titolo della sua trasmissione chiedendole come stiano insieme quelle sue parole sulla mafia così risolute, con i provvedimenti che la maggioranza sta prendendo in materia di sub appalti, uso del contate, condoni fiscali, gioco d’azzardo, separazione delle carriere, libertà di informazione, misure di prevenzione patrimoniali, il traffico di influenze, l’abuso d’ufficio… Così, giusto per richiamare quel vecchio arnese ideologico che si chiamava “pratica degli obiettivi”. Davide Mattiello il FQ 19.10.2023


Borsellino: contro Di Matteo e Scarpinato sconcertanti attacchi in Comm. Antimafia

Il fratello del giudice ascoltato assieme all’avvocato Repici. “Mafia e appalti non è punto di partenza su via d’Amelio”

Devo dire da parte mia che ho ascoltato con sconcerto le dichiarazioni fatte in questa sede nei confronti di due magistrati, o meglio di un magistrato e di un ex magistrato, oggi senatore della Repubblica.
Mi riferisco a Nino Di Matteo e Roberto Scarpinato ai quali mi sento invece di dover la mia stima e la mia gratitudine per avere in questi lunghi anni ricercato con tutte le loro forze quella verità e quella giustizia per le quali continuo a combattere in nome di quell’agenda rossa che ho scelto a simbolo della mia lotta. Sono ben altri i magistrati verso i quali bisognerebbe puntare il dito: per esempio Giovanni Tinebra, che avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere di aver avallato un evidente depistaggio nel corso di ben due processi, e quel Pietro Giammancoche ha ostacolato in ogni modo Paolo Borsellino, così come prima Giovanni Falcone, fino a concedergli la delega per indagare sui fatti di mafia a Palermo soltanto quando la macchina carica di esplosivo, che avrebbero dovuto ucciderlo, era già pronta davanti al portone di Via d’Amelio”
. Sono state queste le parole di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato Paolo Borsellinoucciso in via d’Amelio il 19 luglio 1992, sentito ieri in commissione parlamentare antimafia assieme al suo legale Fabio Repici.
Per Borsellino le indagini sulla morte del fratello dovrebbero ricominciare dalla sparizione dell’agenda rossa, “la scatola nera della strage di via d’Amelio.
Dal furto di quell’agenda, compiuto, ne sono certo, proprio da quelle stesse mani che hanno voluto la morte di mio fratello
Non sto parlando della mafia, ma di pezzi deviati dello Stato.
Perché è certo che non siano stati mani di mafiosi a portare a compimento quel furto.
E proprio da questo che si dovrebbe ripartire e non da un dossier ‘mafia e appalti’ che se può essere considerato una concausa non è sicuramente la vera causa dell’improvvisa accelerazione di una strage che a quel punto non poteva essere più rimandata. Occorreva eliminare e in fretta chi rappresentava un ostacolo insormontabile per un disegno criminoso, teso con l’ausilio anche dell’organizzazione mafiosa e dell’eversione nera a cambiare gli equilibri di questo nostro disgraziato paese, che da queste stragi che io ho chiamato e continuerò sempre a chiamare stragi di Stato, è stato sempre segnato”.
Ma – ha detto Salvatore – sulla sparizione di quell’agenda rossa non si è mai veramente indagato.
Non c’è stato mai un vero processo, tranne quello in cui, in fase addirittura di udienza preliminare, e quindi senza alcun dibattimento è stato assolto dall’accusa di aver sottratto l’agenda quel capitano Arcangioli che è stato ripreso, fotografato, mentre si è allontanato dalla macchina di Paolo ancora in fiamme, portando in mano la borsa di Paolo, in cui sicuramente l’agenda era contenuta”.
Fabio Repici: in atto tentativi di revisionismo storico
La strage di via d’Amelio, ha detto il legale, “non va vista nei suoi dettagli di unicità ma va vista in un quadro più largo perché altrimenti la verità non si trova”.
In questo senso Repici ha sottolineato che la fase dello stragismo iniziata con l’omicidio Lima “e poi proseguita a Capaci e Via d’Amelio si saldarono con l’intervento di soggetti che avevano tutt’altra provenienza”.
È il caso, per esempio, di Paolo Bellini, condannato in primo grado della Corte di Assise di Bologna per la strage del 2 agosto 1980.
L’ex primula nera è stato “protagonista attivo di relazioni con personaggi importantissimi di Cosa nostra in quel momento addirittura impegnati nella preparazione della strage di Capaci, faccio riferimento a Giovanni Brusca a Gioacchino La Barbera e soprattutto a Nino Gioè“.
Inoltre, è stato dimostrato che “che Paolo Bellini ha avuto una presenza quasi fissa in Sicilia a partire almeno dal dicembre del 1991 e fino a epoca successiva alla strage di Via d’Amelio“.
E sappiamo con certezza che il suggerimento a Cosa Nostra di colpire il patrimonio architettonico con delle stragi è provenuto proprio da Paolo Bellini”.
Tutti questi elementi però rischiano di essere adombrati.
È da qualche tempo – ha spiegato – che intorno alla strage di via d’Amelio in particolare ma anche intorno ad altri delitti ai quali ha partecipato in modo possente Cosa Nostra o altre organizzazioni criminali che si avverte la prativa di un pericolosissimo fenomeno a mezzali tra il negazionismo e revisionismo”. “È un tentativo di riscrivere la storia in un’ottica panmafiosa che vorrebbe portare alla conclusione per cui certi delitti e in particolare la strage di via d’Amelio siano frutto esclusivamente delle azioni poste da uomini d’onore di Cosa nostra.
Con la esclusione categorica di ogni apporto esterno a quella strage”.
“In questo scenario nel quale ci muoviamo io ritengo che sia importante allora evitare di introdurre nella ricerca parlamentare in questo caso elementi che creino confusione, piuttosto che utilità per l’accertamento della verità” ha detto Repici ricordando l’ultimo tentativo di depistaggio messo in atto dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola: le sue dichiarazioni, oggetto di attenzione da parte dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, escludevano, per l’appunto, le “responsabilità di esponenti esterni a Cosa nostra”.Il caso Contrada
Il legale di Salvatore Borsellino ha ricostruito l’incontro di Paolo Borsellino al Viminale con lo 007 Bruno Contrada.
Il 1° luglio 1992 il magistrato ucciso in via d’Amelio stava interrogando il neo-collaboratore di giustizia Gaspare Mutoloquando con una telefonata venne convocato al Viminale dove si stava insediando il Ministro dell’Interno Nicola Mancino. Fu proprio in quell’occasione che Borsellino incontrò Contrada, che sapendo della collaborazione con Mutolo (anche se all’epoca era segreta) disse di essere a ‘disposizione’ in caso di bisogno. L’uomo del Sisde era, a detta di Gaspare Mutolo, “uomo in relazioni con Cosa nostra”.
Ma questa cosa non impedì all’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra di affidargli “l’incarico di supportare le indagini sulla strage di via d’Amelio”. Un “cortocircuito” che “non ha precedenti nella storia”, ha continuato Repici.
La gravità della vicenda, ha sottolineato l’avvocato, è dimostrata da altri elementi: Su mia sollecitazione la procura generale di Palermo nel processo sul duplice omicidio Agostino – Castelluccio ha acquisito le agende del dottor Bruno Contrada dal 1976 al 1992.
Sono le agende che gli furono sequestrate al momento del suo arresto avvenuto il 24 dicembre 1992
“. “Alla pagina del 27 luglio 1992 il dottor Bruno Contrada scrive di una cena a cui partecipò con il dottor A. De Luca (il dottor Antonio De Luca) come molti sanno in quel momento era un funzionario di polizia in servizio al SISDE e il dottor Angelo Sinesio (ufficio alto commissariato) e c’è una parentesi: ‘Discusso questione Mutolo’.
Quindi otto giorni dopo la strage di via d’Amelio già il dottor Contrada preparava la propria difesa dalle accuse di Gaspare Mutolo che ancora non avevano trovato verbalizzazione”. Infatti, le dichiarazioni di Gaspare Mutolo vennero messe a verbale solo il 23 ottobre del 1992, quindi oltre tre mesi dopo la strage”.
Ma c’è una cosa che è ancora più impressionante. Se si va avanti (nella lettura dell’agenda Contrada ndr) si arriva al 31 luglio, quattro giorni dopo, e si legge ‘visita al dottor Di Signorino’.
Ricorderete che il dottor Domenico Signorino”,
il magistrato in forza alla procura generale di Palermo indicato da Gaspare Mutolo “come soggetto colluso con Cosa nostra”. “E nella pagina del 31 luglio si legge ‘visita al dottor Di Signorino a casa’, c’è l’indirizzo di casa, e fra parentesi ‘questione Mutolo’”.
Sempre parlando dell’ex 007 Repici ha citato un episodio apparentemente senza importanza: Diego Cavaliero, magistrato della procura di Marsala e molto amico di Paolo Borsellino, una sera si era trovato a pranzo da quest’ultimo, “la televisione era accesa” ed era “presente il figlio di Paolo, che all’epoca era minorenne e che aveva la curiosità di qualunque ragazzo tanto più in relazione al lavoro del padre, e poiché in quel momento il telegiornale stava parlando della strage dell’Addaura, dell’attentato fallito ai danni del dottor Falcone del giugno 1989 e parlando della strage all’Addaura il dottor Manfredi Borsellino chiese chi fosse questo Contrada; e il dottor Cavaliero ha riferito ai magistrati come la reazione del dottor Borsellino fu impressionante ai suoi occhi perché reagì con una brutalità che non gli aveva mai visto nel dire a suo figlio di evitare perfino di pronunciare quel nome. Si trattava di cose così pericolose delle quali non si doveva minimamente parlare”.
E fu sempre in relazione alla fallita strage dell’Addaura che Giovanni Falcone, il 10 giungo 1992, in un’intervista al giornalista e scrittore Saverio Lodato suL’Unità parlò di ‘menti raffinatissime’ “che sono in grado di indirizzare le azioni di Cosa nostra“. “In anni recenti – ha continuato Repici – il giornalista che intervistò Giovanni Falcone ha testimoniato pubblicamente, ma in realtà lo ha fatto sotto giuramento anche al processo per il duplice omicidio Agostino – Castelluccio, su mia espressa domanda, che il dottor Falcone nell’occasione gli fece il nome del dottor Bruno Contrada e gli chiese di evitare la pubblicazione di quel nome per la delicatezza della circostanza“.
L’informativa di Rino Germanà
Il legale di Salvatore Borsellino ha ricordato che “Diego Cavaliero in più occasioni, quando gli è stato chiesto chi fossero gli ufficiali di polizia giudiziaria in assoluto più vicini a Paolo Borsellino ha fatto sempre ed esclusivamente due nomi. Per intenderci nessun ufficiale del Ros.
Ma un carabiniere che era in quel momento il comandante della sezione di polizia giudiziaria della procura di Marsala, il maresciallo Carmelo Canale che accompagnò il dottor Borsellino fino agli ultimi giorni di vita, il secondo era un funzionario di polizia, il dottor Rino Germanà
“. Nel giugno 1992 (un mese dopo l’attentato che uccise Falcone) venne incaricato di indagare su alcune pressioni denunciate da due magistrati di Palermo in merito al processo per l’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile.
I due magistrati denunciarono il tentativo di pilotare il verdetto del processo, un tentativo – scoprì lo stesso Germanà – condotto dal notaio Pietro Ferraro a nome di Vincenzo Inzerillo (nato a Palermo il 24 luglio 1947 e senatore Dc eletto nel collegio di Brancaccio a Palermo e poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa).
Anni dopo abbiamo scoperto che Vincenzo Inzerillo, come da condanna irrevocabile per concorso esterno in associazione mafiosa” era persona “a disposizione di Giuseppe Graviano. Cioè proprio l’uomo che ha gestito la fase esecutiva della strage di via d’Amelio“. Germanà, titolare delle indagini per l’individuazione del mandante del notaio Ferraro scisse un’informativa in cui vi scrisse anche il nome di Luigi Savona“.
Quest’ultimo, come risulta dai processi denominati “Grande Oriente”, era stato indicato dall’infiltrato Luigi Ilardo “come il soggetto originario della Sicilia ma trapiantato a Torino che aveva curato l’ingresso della massoneria in Cosa Nostra”. Inoltre, sempre in base alle confidenze di Luigi Ilardo, sarebbe stato “il soggetto che aveva avviato l’indirizzo di Cosa Nostra verso una strategia stragista in contatto con esponenti di apparati istituzionali e esponenti del mondo massonico”.
Come risultato Germanà venne trasferito nuovamente a Mazara del Vallo per dirigere il commissariato come già otto anni prima. In pratica una retrocessione.
Audizione di Borsellino conferma necessità comitato stragi
L’audizione di “Salvatore Borsellino e dell’avvocato Fabio Repici in commissione parlamentare Antimafia ha esposto con chiarezza qual è il lavoro che la commissione dovrà svolgere: indagare a tutto tondo e in maniera unitaria sulla stagione delle stragi del 1992 e 1993.
I fatti drammatici di quel biennio hanno un’unica matrice terroristica ed eversiva, Cosa Nostra non ha agito da sola
“.
Lo affermano in una nota i componenti del Movimento 5 Stelle in commissione Antimafia Stefania Ascari, Federico Cafiero de Raho, Francesco Castiello, Michele Gubitosa, Luigi Nave e Roberto Scarpinato.
Bisogna capire una volta per tutte – aggiungono – chi ha manomesso i files nel computer di Falcone al Ministero della Giustizia, chi ha preso l’agenda rossa di Borsellino, perché si impedì alla magistratura di venire in possesso dei documenti custoditi nella casa di Riina. Bisogna fare luce sulla presenza di terroristi neofascisti in Sicilia nel periodo delle stragi e su quei settori dello Stato e dell’establishment che prima delegittimarono Falcone e Borsellino e poi, in collaborazione con i corleonesi, ebbero un ruolo di primo piano nella realizzazione degli attentati del 92-94 e nel depistaggio delle indagini.
La stessa Dia scrisse che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa
“.
Per fare questo enorme lavoro c’è una sola strada da seguire: istituire nella commissione un apposito comitato sulla stagione delle Stragi. Lo ribadiamo perché, come ha evidenziato oggi l’avvocato Repici, è in corso un processo di negazionismo e revisionismo, nel tentativo di scrivere una ricostruzione riduttiva e di comodo di quella stagione, ha concluso. Luca Grossi 19


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COMMISSIONE ANTIMAFIA – Audizione di Salvatore Borsellino e del suo legale, Fabio Repici.